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Storie di Terapie #26 – Paul

Storie di Terapie: I pazienti per i quali si prova più simpatia non sempre vengono curati meglio.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 27 Mag. 2013

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

-LEGGI L’INTRODUZIONE-

 

Storie di Terapie #26

 PAUL

 

I pazienti per i quali si prova maggiore simpatia non sempre sono quelli che vengono curati meglio. Credo che ciò dipenda da due fattori, da un lato si vuole evitare di procurargli possibili sofferenze e dunque non si affrontano passaggi che potrebbero essere dolorosi, dall’altro la simpatia si fonda spesso su un comune sentire, sul fatto di vedere le cose del mondo e la vita in modo simile.

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Ora, però, poiché è proprio quel modo di vedere le cose che causa al paziente sofferenza, siamo nei guai: se il  terapeuta adotta la stessa prospettiva per guardare la realtà, non gli sarà facile aiutare il paziente ad assumere una distanza critica. Lo slancio nell’impegno e il furore terapeutico che si prova in questi casi non basta a compensare questi due bias di fondo.

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La prova di questa mia curiosa simpatia nei confronti di Paul è dimostrata da vari fatti. Durante la prima parte della terapia, che fu interrotta improvvisamente per una mia malattia, si era arrivati ad un debito di Paul nei miei confronti di oltre sessanta sedute, da saldare quando avrebbe trovato un lavoro stabile.

Considerato che le sedute, proprio per motivi economici, erano state piuttosto rare si trattava, all’incirca, di un periodo di due anni in cui ho visto Paul senza pagamento. Nonostante questo non provavo emozioni negative nei suoi confronti e, quando mi ha ricercato, sono stato ben contento di continuare a vederlo. Mi ricordavo solo vagamente del debito e fui molto positivamente colpito dal fatto che fu lui a ricordarmelo, senza tuttavia saldarlo, permanendo la situazione di disoccupazione.

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Quarant’anni, decisamente ben piantato, occhi e capelli nero corvini, l’aspetto forte di un guerrigliero sudamericano del primo novecento, uguale lo slancio ideale, raffinato e quasi snob nell’eloquio, esibiva un’ eleganza naturale che lo assimilava alla grande casata degli industriali dell’auto, come lui torinesi.

Torino era la sua città d’origine dove, in un collegio di gesuiti, aveva messo le basi della propria formazione.

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La madre insegnante al liceo e pianista di conservatorio, il padre prestigioso professore universitario di filosofia teoretica in alcune università cattoliche. Sul fatto che Paul avrebbe avuto una formazione umanistica classica non vi era alcun dubbio e nemmeno sulla scelta della facoltà universitaria, che sarebbe stata filosofia. Il margine di scelta che restava a lui riguardava il settore filosofico in cui specializzarsi per raggiungere, possibilmente giovanissimo, la cattedra di professore ordinario.

Probabilmente, se non avesse avuto talento, avrebbe precocemente deluso le enormi aspettative dei genitori e si sarebbe organizzato un’ esistenza propria. Invece era bravo e dalle elementari conquistò il posto di primo della classe che non avrebbe più abbandonato. Le aspettative degli altri lo spingevano ad essere bravo e la sua bravura rafforzava le aspettative altrui. Guardandolo mi veniva in mente il verso di Faber dedicato al suonatore Jones che recita: “ e poi se la gente sa e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare”.

Quando lo incontrai per la prima volta a Paul piaceva molto lasciarsi ascoltare. Aveva preso in parte le distanze dal modello familiare e, in parte, vi aveva aderito perfettamente. Era un brillante ricercatore volontario all’università, si occupava di filosofia morale, ma da una prospettiva rigorosamente atea e aspramente anticlericale. Era dichiaratamente di sinistra con tutte le conseguenze estetico- comportamentali del caso. Fumava la pipa, vestiva malissimo, beveva troppo e girava con una vecchia moto. Il problema che lo portava in terapia era la sua totale incapacità a opporre anche il più piccolo rifiuto alle richieste degli altri.

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Nel suo incondizionato accondiscendere si era talmente specializzato che le persone che gli erano più vicine non dovevano neppure formulare delle richieste perché lui le preveniva sistematicamente.  Nel suo modo di porsi era implicito un sottotitolo del tipo “servitevi di me” che si trova sui cestini della spazzatura della capitale.

Anche la considerazione di se stesso non si discostava molto da quella dei suddetti cestini e mi accorsi che, questo modo di esistere, si riproponeva anche nella relazione terapeutica: nonostante lo invitassi a sperimentare qualche piccolo rifiuto alle richieste altrui, quando avevo bisogno di fare uno spostamento per miei problemi di agenda il primo che chiamavo era lui. Paul naturalmente acconsentiva ed io lo rinforzavo con mille ringraziamenti per la sua encomiabile disponibilità. A fatti smentivo quello che ci dicevamo a parole. Ci ridemmo sopra e mi ripromisi intimamente di disciplinarmi di più.

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Se il comportamento mite e arrendevole era sempre presente, raggiungeva dei vertici di purezza assoluta con Anna, la madre, e Olga, la fidanzata. Nei loro confronti appariva perfino grottesco.

Era autista e fattorino di Anna che aveva rinunciato alla patente dopo il trasferimento da Torino a Roma. Il padre, spesso all’estero per lavoro, aveva comprato una Smart a Paul con lo specifico mandato di accompagnare la madre a scuola, a fare la spesa e alle lezioni private di pianoforte. Paul trascorreva gran parte dei suoi pomeriggi nei supermercati sottobraccio alla madre o ad aspettarla in auto di fronte al portone dove lei saliva ad impartire lezioni di piano.

 Qualsiasi piccolo sussurrato accenno di malcontento di Paul veniva stroncato dalla madre con una frase capace di gettarlo nello sconforto assoluto e che, in varie varianti, suonava pressappoco così: “ non sei più il mio Paul di un tempo, non ti riconosco più”. Sentire questa frase e gettarsi alla scoperta del significato che per lui aveva, tale da giustificare panico e sconforto, fu per me un tutt’uno.

Deludere la persona amata poteva comportare l’interruzione del legame per sua colpa e l’idea che sarebbe stato responsabile della sofferenza inconsolabile della madre e, forse, della sua morte. Era la colpa l’esperienza che Paul riteneva intollerabile, non la solitudine. Tuttavia lo sgomento maggiore consisteva nel senso di perdita dell’identità. Se non era più il Paul che sua madre conosceva, allora chi era? Non aveva nessun altra identità e si sentiva perduto. Aveva l’impressione fisica di scomparire. La posta in palio era ben più importante del legame e riguardava la propria soggettività, l’esistenza stessa. Con Olga c’era, invece, in primo piano il legame. Lei rappresentava l’intero universo dei suoi legami significativi.

Il trasferimento a Roma quando aveva sedici anni lo aveva privato di tutte le amicizie dell’infanzia e lo aveva reso il  “torinese di buona famiglia con la puzza sotto al naso” in mezzo ai gruppi adolescenziali della capitale. Paul aveva reagito concentrandosi ancora di più nello studio, nel quale aveva successo. Ciò lo rendeva ancora più antipatico agli altri e incrementava l’isolamento, dapprima subìto e infine cercato. Appena sbarcato all’Università conobbe Olga e l’avvinghio reciproco fu immediato. Lei fuori sede, di nobile famiglia pugliese, aveva alle spalle una storia di violenze e abusi familiari che la spingeva verso la manifesta mitezza di Paul. Lui era attratto dalla capacità di lei di pretendere da tutti un risarcimento per le sue traversie.  I due vivevano in tale simbiosi che i pochi amici rimasti li chiamavano Polga.

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Per rappresentare le regole fondamentali della relazione basta un aneddoto. Olga sin dai primi contatti sessuali, aveva squalificato Paul confrontandolo con il suo partner precedente, descritto come una inesauribile macchina per il sesso. Considerando Paul inadeguato a penetrarla, pretendeva di essere masturbata e leccata fino ad ottenere almeno un paio di orgasmi. Poi Paul era libero di andare in bagno a masturbarsi, ma non doveva tornare a dormire nel letto comune perché il suo russare la disturbava. Non avendo avuto mai altre partner, Paul si era convinto della sua inadeguatezza ed era persino riconoscente con Olga che perlomeno gli concedeva quelle pratiche. La situazione si trascinava più o meno così da quando si era iscritto all’Università, ma tutto precipitò quando Paul realizzò il suo sogno di andare a vivere da solo.

La presenza dell’altro costituiva un faticosissimo costante lavoro di lettura dei bisogni altrui  ed un gran darsi da fare per assecondarli. Questo lavorio cessava soltanto quando si trovava da solo. Ciò non era del tutto vero ma quasi, infatti anche nei momenti di solitudine anticipava gli eventi futuri e immaginava cosa avrebbe fatto per soddisfare gli altri. Dalla vita da solo si aspettava comunque un grande sollievo.

I genitori decisero di acquistargli un piccolo ma confortevole appartamento, senza coinvolgerlo nella scelta e senza intestarglielo perché “non si sa mai le sciocchezze che può fare un giovane” e dunque è bene proteggerlo da se stesso. Aveva casa ma non era effettivamente sua. Mamma Anna lo arredò minuziosamente  utilizzando i mobili di Torino che non entravano nella casa di Roma, più piccola. Naturalmente Paul non fece altro che ringraziare i genitori per la sollecitudine dimostrata, aveva immaginato un’altra cosa ma non osò dirlo.

Non aveva neppure terminato di traslocare tutte le sue cose che Olga, sconvolta dall’ennesima litigata con il padre, si presentò con una grande valigia comunicandogli che d’ora in poi avrebbe vissuto con lui cosa che, ovviamente, non poteva che colmarlo di gioia, essendo la sua donna. Non erano passate due settimane dal possesso delle chiavi di casa che Paul dovette accomodarsi nel divano dell’ingresso, separato da due porte dalla camera da letto, a protezione del delicato sonno di Olga.

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Fu in questo periodo che ebbe inizio l’epico scontro tra Anna e Olga per il possesso di Paul. Tutti i più triti luoghi comuni della rivalità tra suocera e nuora vennero messi in scena negli allestimenti più roboanti, quasi quotidianamente. A differenza di Paul, le due contendenti non erano affatto anassertive e la vivacità degli scontri comportò nei soli primi tre mesi l’intervento delle forze dell’ordine allertate dai vicini per ben due volte. La situazione sarebbe stata pesante per chiunque ma per il povero Paul, messo nel ruolo di novello Paride, era assolutamente intollerabile. Aveva di fronte le due persone da cui era più dipendente per il mantenimento della propria identità e loro gli chiedevano continuamente di sconfessare una delle due.

Il sogno della vita da solo stava naufragando, le richieste degli altri non erano state fermate dalla porta blindata e dalla serratura europea e invadevano ogni metro quadrato della casa e ogni istante della sua giornata. A questo punto comparvero i sintomi: drastico peggioramento nell’impegno universitario, fino alla rinuncia ad un concorso per ricercatore strutturato in cui aveva qualche possibilità, violente crisi di rabbia con atteggiamenti pantoclastici verso i mobili della casa, risvegli notturni durante i quali  si chiudeva in cucina da solo, mangiava e beveva a dismisura fino a sentirsi male.

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Una notte  in cui aveva esagerato più del solito gli capitò di vomitare; da quel momento, vomitare dopo le abbuffate notturne  divenne un comportamento abituale del quale si vergognava moltissimo, sentendolo appartenere più ad un’adolescente segaligna e anoressica che al personaggio intellettuale, pacato e saggio che si era costruito.

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 Le due fiere avversarie nel frattempo avevano interrotto i rapporti diplomatici e comunicavano esclusivamente tramite Paul ambasciatore, non senza pene, delle reciproche dichiarazioni di guerra. A lui si limitavano a chiedere di interrompere definitivamente i rapporti con l’altra e di considerarla morta per sempre.

Da parte mia, non comprendendo evidentemente la profondità dell’angoscia di Paul ,veniva il suggerimento di accontentarle, sì, ma entrambe. Mi sentivo come Massimo Troisi nel film  “Ricomincio da tre” quando sussurra all’orecchio di Robertino, bravo figlio di famiglia al servizio della madre, la frase “scappa”. Ma sarebbe come suggerire ad un tetraplegico la cui casa sta bruciando di alzarsi e fuggire. Non poteva farcela, ero io a doverlo portare fuori e c’era fin troppa gente a dargli  buoni consigli, ciò non faceva che aumentare il suo senso di inadeguatezza e di conseguenza la dipendenza dall’altro. Non va dimenticato che in fatto di logica e razionalità Paul non era secondo a nessuno.

Quando rividi Paul, dopo la fase acuta della mia malattia, la situazione era sostanzialmente immutata, semmai più cronicizzata, al di là di ogni consapevolezza. Paul e Olga vivevano insieme. Durante tutto il giorno lui era l’autista di lei, che aveva smesso di guidare e il suo servitore per ogni capriccio. Olga e Anna non si parlavano da tre anni e lui, ogni martedì sera, andava a cena dai suoi dove recitava la parte del bravo figliolo e tra loro rispolveravano il dialetto torinese per sciacquarsi la bocca dalla melma romana. Il concorso universitario non c’era ancora stato e si barcamenava con saltuari lavoretti.

Tutto quello che faceva sapeva farlo con grande competenza e discreto successo e, in linea teorica, rappresentava anche ciò che davvero voleva fare, ma solo da un punto di vista strettamente teorico; suonava solo perché lo sapeva fare e gli piaceva farsi ascoltare e non è facile, a quarant’anni, buttare il flauto alle ortiche e ricominciare un’altra vita soprattutto perché, dopo un’esistenza intera di induzione esterna dei desideri, non si sa davvero più quali siano i propri e se ci siano.

Paul viveva “il dramma del camerino svaligiato”: chiamo così il vissuto dell’attore impegnato nei panni di un personaggio a lui poco gradito, ma che ormai conosce molto bene e sa recitare con grande successo, al quale comunicano che il suo camerino è stato svaligiato e tutte le sue cose rubate. Il dilemma sta nel rimanere in un ruolo non suo che tuttavia ben conosce o spogliarsi di tale ruolo per rimanere senza niente.

Ad un certo punto dell’esistenza occorre anche valutare realisticamente ciò che si può davvero cambiare ed  accontentarsi, eventualmente, di trovare il miglior adattamento possibile ad una situazione non completamente modificabile. Forse a Paul sarebbe piaciuta una vita da motociclista on the road, ma questo ormai doveva rimandarlo alla prossima occasione. E poi, come stabilire cosa avrebbe voluto un ipotetico Paul privo di condizionamenti: è una condizione che non è data a  nessuno ed è sciocco chiederselo.

I meccanismi che lo facevano soffrire nel presente e che potevano essere ragionevolmente limati erano due: l’impossibilità percepita da lui di opporre un rifiuto alle aspettative altrui, da cui poi si sentiva imprigionato e che gli procurava una rabbia incontenibile, e la colpa con conseguenti comportamenti riparatori.

Tale impossibilità era connessa ad un’ immagine di sé dipendente dall’altro e viceversa: in particolare con Olga, si trattava di modificare la percezione che aveva di lei come fragile e assolutamente bisognosa di aiuto nelle normali attività quotidiane. Era completamente assorbito dall’assistenza di Olga, con il risultato di renderla effettivamente un’invalida insoddisfatta di sé e di provare rabbia verso lei per le limitazioni alla sua autonomia. Alla rabbia seguiva la colpa e una maggiore dedizione compensativa.

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Fu grazie al pensiero che accondiscendere sempre alle richieste di Olga faceva direttamente del male a lei e danneggiava la vita di coppia, accumulando reciproci rancori, che Paul iniziò a dire i primi timidi no. Fortunatamente questi furono rinforzati da Olga che gli disse di sentirsi finalmente al fianco di un uomo forte. Da un punto di vista comportamentale concordarono delle aeree della vita familiare completamente a gestione di Olga e, inoltre, che Paul sarebbe stato per proprio conto un certo numero di ore ogni giorno fuori casa a lavorare o a divertirsi senza preoccuparsi di organizzare la vita di lei.

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Paul si comprò un cane che aveva desiderato fin da piccolo e riversò su di lui la smania di accudimento; con il cane stava bene perché non si sentiva continuamente sotto esame. Le abbuffate e le sbronze notturne furono sostituite da un pranzo settimanale in un ristorante accuratamente scelto in cui invitare un amico. La sua cura nello scegliere le pietanze e i vini, insieme alla abitudine che aveva di annotarsi su un notes le idee che gli venivano, crearono una voce per lui vantaggiosa: tra i ristoratori del centro si iniziò a credere che fosse un valutatore della guida Michelin o del Gambero Rosso.

A volte invece degli amici invitava il padre, scoprendo entrambi il piacere di stare insieme senza la mediazione di Anna. Ciò pose fine alle cene rituali a casa dei genitori e incredibilmente Olga non lo sventolò come una sua vittoria nella guerra contro la suocera. Deduco che anche nei miei confronti Paul avesse imparato a mantenere degli spazi riservati per sé, vivendo gli altri come meno soffocanti: infatti, tre mesi dopo il primo pranzo al ristorante, Paul mi annunciò che avevano sospeso le pratiche avviate per l’adozione perché Olga era incinta. Io invece ero rimasto alle seghe solitarie in bagno. Qualcosa non tornava, ma andava bene così! Le nuove spese che l’arrivo di un figlio comportavano suggerirono l’interruzione della terapia. Resto in attesa che lui, o l’erede, saldino il debito della prima terapia.

 

 

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