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Storie di Terapia #13: L’Analitica Stefania

Storie di Terapia #13: L'analitica Stefania. Molto interessata a descrivere la sua vita alternando vittimismo e intrepido coraggio

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 01 Ott. 2012

Storie di Terapie 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –

 

Storie di Terapia #13. L'analitica Stefania. - Immagine: © Andrii Muzyka - Fotolia.com

Storie di Terapie #13: L’analitica Stefania. Molto interessata a descrivere la sua vita alternando vittimismo e intrepido coraggio 

 

Al telefono si presenta come una veterana della psicoterapia, avendo già fatto una lunga analisi in passato, ma subito precisa che allora si trattava di attacchi di panico mentre ora è depressa, lasciando intendere che si tratta di faccenda più grave.

Si presenta come una cinquantenne molto curata, con un passato di ex bella donna che stenta ad archiviare. Durante il primo incontro fatico a contenerla sulla descrizione del suo malessere che si limita genericamente a definire come mancanza di interesse per tutto, stanchezza e tristezza.

E’ molto più interessata a descrivere la sua vita, alternando due registri narrativi che si intrecciano: il vittimismo, che la porta a descrivere le disgrazie che l’hanno colpita sin dalla nascita e il suo intrepido coraggio, la superiorità morale che l’ha portata a superare le traversie.

Un tema ricorrente è l’ingiustizia: in famiglia gli altri fratelli sono stati privilegiati rispetto a lei che onesta, buona e disposta al sacrificio, non ha mai chiesto niente. E’ sommessamente furiosa che i suoi meriti non le siano stati riconosciuti.

Nasce in Calabria, da una famiglia molto ricca di grandi proprietari terrieri. Questa ricchezza, le cui dimensioni afferma che non si possano immaginare, proviene dalla famiglia materna.

La madre è il centro gelido della sua esistenza, per tutta la vita ha tentato disperatamente di ottenere da lei un riconoscimento, senza mai riuscirci. La sua vita potrebbe essere descritta come l’insieme di strategie messe a punto per ottenere l’affetto della madre inizialmente e degli altri, più avanti.

Il padre era di fatto l’amministratore dei beni materni, ricorda che giocava con lei e sapeva farla divertire. In paese, Stefania era considerata la figlia dei signori e dunque rispettata ma, in qualche modo, considerata diversa, non appartenente al gruppo dei coetanei. Oltre a lei ci sono altri quattro figli due maschi, Giovanni ed Enrico e due femmine, Livia e Daniela.

Storie di terapia #12: La gelosia della bella Caterina. Immagine - © Antonio Gravante - Fotolia.com
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Su questa famiglia potente e prospera si abbatte una disgrazia. E’ una mattina di settembre del 1970, Stefania sta per iniziare la seconda media, è andata a fare la spesa con l’elenco preparato dalla madre e la raccomandazione di stare attenta ai resti e di non fermarsi per la strada a chiacchierare. Ricorda ancora che indossava un vestitino a fiori azzurri, una camicetta bianca con i pizzi, calzettoni bianchi e dei mocassini neri di cui andava fiera nonostante l’assenza delle desiderate calze di nylon che erano concesse solo a Livia, la sorella più grande. Lei vuole fare la brava bambina e tornare presto a casa, ma non resiste a non entrare nell’edicola di Giampiero. Il figlio Silvio, di due anni più grande di lei, è bellissimo e la sua immagine l’accompagna mentre la notte si consola accarezzandosi. Per mantenere vive le fantasie ha bisogno di un confronto con l’originale. Si trattiene nell’edicola sfogliando una rivista, ma non stacca gli occhi da Silvio.

Poi grida, voci confuse e una sirena della polizia. Stefania avanza sulla soglia dell’edicola in piazza: dalla parte opposta, di fronte alla Cassa di Risparmio, c’è una ressa di gente. Lei si fa largo e, avvalendosi della bassa statura, raggiunge la prima fila. Alcuni tentano di proteggerle la vista dalla scena cruenta, ma solo per rispetto alla sua giovanissima età, non immaginano che il signore che costituisce la sorgente del rivolo di sangue che si fa strada tra l’acciottolato e inizia pigramente ad arrestarsi e coagulare è suo papà.

In seguito penserà: ”se non mi fossi fermata per le mie sozzerie da Silvio avrei incontrato papà prima che entrasse in banca e mi avrebbe accompagnato a casa sfuggendo al momento della rapina.

Stefania oggi si rende perfettamente conto che ogni morte è contornata di questi piccoli eventi che potevano far andare le cose in un altro modo e che la storia non si fa con i se, ma quel senso di colpa è diventato il refrain della sua vita. La ricerca delle colpe è una costante, mitigata soltanto dall’attribuirle talvolta agli altri: un colpevole, comunque, va sempre trovato. Questo è la conseguenza dell’educazione rigida e bigotta della madre.

Con questo lutto la famiglia non perde la guida materiale, che è sempre stata ed è tuttora, a ottantasette anni, la madre, ma il suo pulsante cuore affettivo.

 Il patrimonio viene spartito tra tutti gli eredi e a Stefania sono assegnati dei terreni che avranno valore enorme solo se diventeranno edificabili. I due fratelli si iscrivono a Giurisprudenza a Milano e con la loro cospicua parte di eredità costruiscono un’esistenza fondata sul misconoscere le loro origini calabresi. Livia inizia a far uso di droghe e, a diciotto anni, rimane incinta di un tossicodipendente conosciuto in comunità. La storia di Livia è un ruzzolone drammatico continuo: droga, furti, arresti, prostituzione, mette al mondo tre figli con tre uomini diversi, rimane vedova e, a trentotto anni, si ammala di sclerosi multipla. Ora vive con la madre ed una figlia, un’altra figlia è stata cresciuta da Daniela, che è sterile, ed un maschietto è stato dato in adozione.

Brillantemente diplomatasi al Liceo Scientifico e con il desiderio di frequentare la Facoltà di Medicina, Stefania deve accantonare i suoi sogni in famiglia c’è bisogno di soldi, l’università è privilegio solo per i maschi. Così, a vent’anni le trovano un posto in banca, a Roma.

La grande città la fa sentire perduta, a Roma non è nessuno anzi, viene presa in giro per il suo accento calabrese estremo. In questo periodo si consolida il nucleo della sua identità intorno all’idea di sé come forte, caparbia, che non molla mai. Si fa strada, lavora, negandosi ogni bisogno affettivo. Corteggiata da molti dei vertici della banca resiste stoicamente a tutte le avances, concedendosi invece ad un cliente verso cui prova tenerezza per le enormi difficoltà economiche in cui versa. Si sposano, ripiana i suoi debiti e immediatamente dopo inizia ad essere picchiata da lui. Non lo ha mai detto esplicitamente ma credo che sia stata costretta ad avere rapporti con altri a scopo di ottenere denaro o vantaggi.

Questo triste matrimonio durerà fino a quando lei avrà una certa disponibilità economica, poi sarà abbandonata.

Dopo il divorzio iniziano a manifestarsi gli attacchi di panico.

Il primo avviene nell’edicola interna della banca dove è scesa per comprare una rivista. Preoccupata per essersi assentata dalla propria stanza senza permesso del superiore si accorge che, nella fretta, non ha preso il portafogli. Non ha i soldi per pagare. Sente le guance diventarle roventi, un fischio sale nelle orecchie a coprire il silenzio, la gola è serrata e l’aria non passa. Si stringe le mani al torace perché il cuore non scappi fuori alla prossima mitragliata di colpi che susseguono a vuoto ma quelle mani, che pure riconosce per l’anello della nonna, non sono le sue. E’ una strana sensazione: riconosce i dettagli del suo corpo, i vestiti, le scarpe, ma si sente estranea a se stessa, si guarda dall’esterno ma non si riconosce da dentro. Anche l’edicola le sembra un luogo sconosciuto che vede per la prima volta. Pensa nitidamente che deve trattarsi del modo in cui gli esseri umani muoiono ed ha anche tempo di dirsi che, in fondo, non è così male. Poi il nulla, fino a riprendersi nella grande stanza del vicedirettore della filiale, Giorgio, che potrebbe esserle padre e da tale si comporta, li separano ventidue anni.

Lui ha un matrimonio alle spalle, finito con vivaci strascichi giudiziari e due figli di diciotto e vent’anni. Stefania ne risulta subito affascinata per la grande cultura e raffinatezza, in verità forse è attratta, senza poterselo dire, dal suo dispotismo. Iniziano una relazione ma lui la tratta male e, da subito, le dice chiaramente che non vuole altri figli. Ogni volta che la donna prova a contraddirlo, la accompagna alla porta di casa invitandola ad andarsene per sempre.

Il giorno del suo trentaquattresimo compleanno inizia con la telefonata del laboratorio di analisi che le comunica che è in gravidanza. Tre giorni dura la sua maternità: il lunedì successivo, da sola, si reca da un’ostetrica procuratale da Giorgio, che pratica aborti clandestini. La notte seguente deve essere accompagnata in ospedale per un’emorragia per cui rischia la vita. E’ furiosa con Giorgio e medita di lasciarlo definitivamente. Si limita ad andare prontamente a letto con il suo precedente psicoterapeuta che, da questo momento, resterà sempre nella sua vita, prima con il ruolo di amante e poi di amico. Riscopre la passione e le voglie che l’età di Giorgio avevano messo da parte.

Storie di Terapia #10 - Le bugie di Filippo. Immagine: © Stephen Coburn - Fotolia.com
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Quando decide di contattare un avvocato per la separazione, a Giorgio viene diagnosticato un mieloma multiplo. Prova un grande senso di colpa per averlo tradito e decide che si dedicherà esclusivamente a lui per il resto dei suoi giorni. Per assisterlo meglio si licenzia dal lavoro, finendo per dipendere economicamente dal marito per ogni cosa.

I medici avevano fatto una prognosi massima di quattro anni.

Per questo errore, Stefania vorrebbe querelare i medici e chiedere un risarcimento: quando arriva da me, infatti, sono già otto anni che è stata fatta la diagnosi e il marito non sembra avere nessuna intenzione di morire. Lei lo assiste e contemporaneamente lo odia. Dice di non poter immaginare la sua vita senza di lui, avendo investito tutto in questo rapporto ma, contemporaneamente, non sopporta più la vita con lui che ora vede come un vecchio malato, impotente e tirannico.

Nei miei confronti mette in atto un’evidente e dichiarata strategia di seduzione che mi irrigidisce immediatamente. Utilizza due modi che hanno su di me l’effetto di scatenare la fuga e, persino, un’ inconsueta durezza: richiedere vicinanza attraverso l’esibizione della sofferenza e rimproverare per la mancata vicinanza, invadendo il mio territorio per avere il controllo.

La trappola in cui la terapia stava arenandosi, già nelle fasi iniziali, era evidente: più Stefania pretendeva vicinanza, più io diventavo scostante e rifiutante, ma proprio l’essere scostante e rifiutante aumentava il suo interesse nei miei confronti riattivando pattern relazionali già percorsi più volte nella sua vita. Tanto più lei si “accollava” (come dicono gli adolescenti di oggi per indicare un attaccamento insicuro ambivalente), tanto più io mi sottraevo giustificando ulteriormente le sue angosce di perdita e i conseguenti tentativi di controllo.

 Quando ha dichiarato che l’unico motivo che la spingeva in terapia era di passare un’ora con me le ho comunicato che ciò non aveva alcun senso.

Le ho detto che vedevo un solo possibile modo per aiutarla, cercare di capire perché ritenesse terribile e insopportabile rimanere senza qualcuno che l’amasse incondizionatamente e imparare a prendersi cura amorevolmente di se stessa non aspettando che siano gli altri a farlo. Rivedere perciò le strategie, evidentemente fallimentari, finora adottate per non rimanere sola, che aveva messo in atto anche con me:

  • La più evidente e superficiale era quella di mostrarsi bisognosa, malata, in difficoltà e di chiedere aiuto. Appariva evidente anche a lei che questo comportamento, quando funziona, le attira intorno persone accudenti e l’accudimento è normalmente incompatibile con l’attivazione erotico sessuale;
  • La seconda convinzione è quella di farsi in quattro per l’altro, anche se non richiesto: a suo avviso essere indispensabile minimizza il rischio di essere lasciati. Per questo è importante la scelta di persone in difficoltà: il primo marito in bancarotta, il secondo anziano e poi ancor meglio malato. Persino nel caso dell’intenso transfert nei miei confronti temo che un ruolo lo abbia giocato la mia disabilità.

Dedicandosi all’altro, Stefania ritiene possibile accaparrarsi dei diritti che, ad un certo punto, inizia a pretendere con la rabbia di chi ha rinunciato a parti importanti di sé (con il secondo marito, la maternità ed il lavoro).

Storie di Terapie #4 - Marco nelle Canne. - Immagine: © natuskadpi - Fotolia.com
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A quel punto si ritiene defraudata rispetto ad un accordo che in realtà non c’è mai stato e si conferma nella sua idea di buona, giusta e disinteressata, sempre utilizzata dagli altri e mai ricambiata dell’amore che elargisce a piene mani.

Lo scompenso depressivo recente, che l’ha condotta in terapia da me, essendo il suo analista passato a diverso ruolo, è stato causato dal protrarsi imprevisto della vita di Giorgio, che rende sempre più svantaggioso il contratto di “assistenza versus apparenza matrimoniale”, dal precoce prepensionamento che l’ha lasciata senza attività quotidiana e un reddito autonomo e, non ultimo, dall’avanzare dell’età con l’appannarsi di quella bellezza di cui era fiera ed abile utilizzatrice.

Con il passare dei mesi ha riattivato alcune passioni come la musica classica, la danza, il volontariato e l’impegno politico.

Ha anche recuperato un rapporto con la sorella Livia, ma non ha mai smesso di dire che è depressa e la sua vita tutta un errore.

Quando le ho accennato che, considerati i suoi miglioramenti, potevamo pensare a ridurre la frequenza delle sedute, anche in vista di una chiusura, è stata più veloce di me: mi ha detto che certamente i farmaci l’avevano un po’ aiutata ma che si rendeva conto della superficialità di una terapia cognitiva, abituata come era lei, alle profondità analitiche.

Ho tenuto per me le mie associazioni circa le “profondità” che erano mancate.   

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