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Storie di terapie #12 – La Gelosia della Bella Caterina

La gelosia di Caterina: La madre tradiva il padre, il padre tradiva la madre con lei, la madre tradiva lei fingendo di non accorgersi.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 03 Set. 2012

STORIE DI TERAPIE

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –   


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Storie di terapia #12: La gelosia della bella Caterina. Immagine - © Antonio Gravante - Fotolia.com

Caterina è una di quelle pazienti che si mantengono in pericoloso equilibrio sul filo sospeso tra simpatia e seduzione e che pongono particolari problemi al terapeuta. Consapevole della sua bellezza di ventinovenne, Caterina mostra con fierezza i suoi capelli tendenti al rosso ma ancora nel range del castano scuro e la sua corporatura alta e atletica da prolungata pratica sportiva, da ragazzona sana, robusta e slanciata.

Perfino il fatto che sia quasi specializzata in psicoterapia, sebbene in una parrocchia rivale, rende interessante e culturalmente stimolante (ma a volte seduttivamente interessante) il lavoro con lei. Tutto questo fa scattare un campanello d’allarme. Caterina ha modi naturalmente seduttivi, purtroppo a motivo della sua sofferta vicenda esistenziale.

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La sua seduttività si esprime, in parte, attraverso la sua consapevole gestione del corpo, che viene con pudica malizia esibito e rapidamente nascosto e, in parte molto maggiore, attraverso il linguaggio: pur mantenendosi in un contesto formalmente irreprensibile e consono al lavoro psicoterapeutico, stuzzica il terapeuta.

Nel descrivere minuziosamente le sensazioni orgasmiche o gli indicatori che utilizza per decidere il momento giusto per lasciar entrare il partner nel suo corpo, si compiace evidentemente della reazione che pensa di suscitare nell’interlocutore. Allo stesso modo quando si dilunga nelle fantasiose tecniche autoerotiche che ha messo a punto con sorprendente creatività e nelle fantasie che le accompagnano.

Tutto questo ha un significato ben preciso, e prima di proseguire ci tengo a dire che in questi casi noi terapeuti ci troviamo davanti a un problema tecnico e relazionale. Dobbiamo raccogliere tutte le informazioni necessarie seguendo però solo fino a un certo punto l’invito scopertamente erotico dei pazienti. Laddove i dati raccolti siano sufficienti, è bene segnalare al paziente che il patto terapeutico impone che si lavori cercando il significato psicologico e cognitivo di ogni cosa, senza abbandonarsi a una conversazione ambiguamente piacevole. E questo non è moralismo (o forse lo è, ma di quello che sa di bucato) ma semplice professionalità.

Perché la paziente erotizza il discorso? Non è necessario essere psicoanalisti per intuire che ci sono delle ragioni. E da cognitivista aggiungo: ragioni non inconscie, anzi pienamente coscienti, che dopo un po’ occupano la scena. E infatti il problema di Caterina si rivela essere un problema affettivo ed erotico.

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La richiesta d’aiuto di Caterina è relativa ad un’ incontrollabile gelosia che, a tratti, assume aspetto delirante e che la fa soffrire, divenendo per di più causa di autosvalutazione: non ha motivo di credere che Paolo, il suo attuale ragazzo, la tradisca, ma ci pensa costantemente. 

Per rassicurarsi ha imposto a Paolo una serie di divieti assoluti, non può uscire neppure con amici maschi perché la possibilità di incontrare una donna è sempre presente e lo chiama per telefono ogni pochi minuti, interrogandolo su cosa stia facendo per cogliere contraddizioni e imbarazzi. Il controllo ha degli aspetti francamente vessatori  e  quasi sadici. Se, in sua presenza, Paolo guarda qualcun’altra o si allontana con un amico, ne segue una furibonda litigata in cui lei alza violentemente le mani su di lui, procurandogli vere e proprie lesioni. La ragazza dice che, in quei momenti, non ha il controllo di sé. 

"Gelosi tecno-patologici" - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -
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Di contro Caterina tradisce Paolo sistematicamente con due “trombamici” di vecchia data, Alfonso e Francesco. Non si lascia sfuggire nessuna occasione con chicchessia che, anche considerato il suo bell’aspetto, hanno una frequenza serrata. 

Un ulteriore problema che potrebbe mettere a rischio il lavoro con Caterina è l’attivazione del mio sistema di accudimento che, immancabilmente, si riaffaccia quando mi trovo di fronte a persone con una storia difficile di trascuratezze e maltrattamenti; mi immagino immediatamente nel ruolo di colui che risarcisce. In questi casi invece occorre mantenersi su una posizione di cooperazione rispettosa. La terapia non è accudimento.

Caterina è la secondogenita di una famiglia dell’entroterra pugliese, il padre Nicola, violento e alcolista, la madre Assunta, casalinga e sottomessa. Il clichè sarebbe quasi banale se non fosse che la madre, stanca dei continui maltrattamenti del marito, aveva iniziato a tradirlo, concedendosi a tutti gli uomini che, per un motivo o per un altro, entravano in casa. Caterina l’aveva sorpresa a letto con un cognato molto più giovane e un’altra volta con l’amministratore del condominio, un vecchio ragioniere con un gozzo che lo rendeva, agli occhi della piccola Caterina, mostruoso come gli orchi delle favole. Questo era il segreto che la figlia condivideva con la madre e che escludeva il padre.

La madre, a sua volta, era esclusa dalla vicenda che accadeva sotto i suoi occhi: Nicola, lamentandosi con la figlia delle disattenzioni della moglie, ne richiedeva costantemente l’affetto in forme via via sempre più inappropriate con l’aumentare dell’età di Caterina.

La verginità la perse a dieci anni durante un riposino pomeridiano in un  rovente meriggio estivo nel letto matrimoniale dove il padre l’aveva condotta mentre Assunta finiva di lavare i piatti: quando  il suo grosso dito da contadino si fece strada oltre l’imene, lei ebbe il suo primo memorabile orgasmo.

Caterina diceva di essere cresciuta nel tradimento e che questo era il motivo della sua assillante gelosia. La madre tradiva il padre, lei tradiva il padre tenendo il gioco della madre, il padre tradiva la madre con altre donne e con lei, la madre tradiva lei fingendo di non accorgersi dell’incesto e, in qualche modo, dandola in offerta al Minotauro per essere lasciata libera.

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I rapporti sessuali con il padre proseguirono per cinque anni ed, evitando sempre la penetrazioni, esplorarono tutte le innumerevoli possibilità orgasmiche alternative. Intorno alla questione vorticavano emozioni, diverse ma accomunate dalla forte intensità e, pur imbarazzata nell’ammetterlo, l’emozione più importante era il piacere. Caterina godeva intensamente nei rapporti ravvicinati con il padre e si presentava spontaneamente agli appuntamenti che implicitamente si scambiavano, non c’era mai stata una effettiva violenza fisica. Il piacere era difficilmente distinguibile da un sottile senso di disgusto che accompagnava alcune delle pratiche perverse che avevano messo a punto. Il senso di colpa ricordava con esattezza di averlo perduto dopo i primi rapporti, si era trasformato in un senso di vergogna ed in un rossore al volto che emergeva quando le compagne parlavano delle loro prime esperienze sessuali.  

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Con l’adolescenza i rapporti con il padre divennero burrascosi, Nicola giocava il ruolo del padre padrone violento e geloso e Caterina il ruolo della figlia ribelle, contestatrice e rivoluzionaria. Era l’unica a fronteggiarlo nelle violente litigate familiari perché sapeva di averlo in pugno con il possibile ricatto di rivelare la faccenda.  In realtà, in cuor suo, sapeva quanto  il suo potere  fosse fittizio; era certa, infatti, che nessuno, ad iniziare dalla madre, le avrebbe creduto e l’avrebbero fatta passare per una povera matta perversa. In realtà, ognuno credeva di avere in mano un’arma di ricatto nei confronti di un altro componente della famiglia.

Tutto ciò ebbe due conseguenze: da un lato si  mantenne, con questo segreto, un’intimità tra i due da cui tutti erano esclusi, dall’altro spostò il terreno di incontro e confronto del padre e della figlia dal sistema sessuale a quello agonistico e, nella  mente di Caterina,  i due sistemi si saldarono intimamente. 

Due le conseguenze disfunzionali.

Caterina non tollerava ruoli di subordinazione che le provocavano una vera e propria angoscia di abuso, ad esempio, non riusciva a mantenere nessun lavoro come dipendente e persino gli appuntamenti che prendeva con me doveva spostarli almeno una volta, perché altrimenti  sentiva di essere assoggettata alla mia volontà, sebbene fosse stata lei a stabilirli. 

Anche con Paolo il suo controllo, apparente motivato dalla gelosia, appariva piuttosto una continua battaglia per stabilire chi dettasse le regole e, dunque, chi comandasse. 

Contemporaneamente, l’interesse sessuale era strettamente associato alla sensazione di essere sottomessa ad un’ autorità più forte di lei. Era dunque dentro una situazione paradossale: per paura di essere sottomessa e violentata doveva sopraffare il partner, ma quando egli era a sua totale disposizione, come capitava molte volte con Paolo, che era di quattro anni più giovane di lei, perdeva ogni interesse sessuale.

Quando lui gli garantiva, a parole e fatti, un affetto sincero, esclusivo e duraturo nel tempo si spaventava, forse per il timore di affidarsi ed essere nuovamente tradita dopo aver abbassato la guardia. Così, smetteva i panni della giovane e raffinata professionista della psiche fidanzata felicemente con il giovane e riservato ingegnere e dava via libera alla seconda Caterina. Tanto mi era difficile dar credito ai suoi racconti che, per convincermi, e forse anche con inconsapevole intento seduttivo, mi mostrò delle foto sul display del telefonino. Tacco dodici, minigonna arancione giro pubica da cui occhieggiava tanga nero aggrappato alle due creste iliache, trucco violaceo da film sui vampiri, così conciata e con l’aiuto di un paio di vodka si lanciava nella movida romana. 

Diceva di non ricordarsi quasi nulla quando si risvegliava al mattino in letti sconosciuti, senza memoria per il partner di turno. Talvolta ricordava, a sprazzi, che la sera precedente aveva temuto di essere violentata e uccisa tanto grevi, aggressivi e coatti erano  coloro che le giravano intorno. La mattina al risveglio, passata la paura, provava il conosciuto disgusto che si trasformava lentamente  in eccitazione e che si placava soltanto masturbandosi ripetutamente con fantasie in cui il padre, con un cenno impercettibile, la invitava o le ordinava di andare, su questo non sapeva decidersi, nella stanza matrimoniale. 

Caterina aveva nel cuore un’altra pena: suo fratello Sante, mingherlino e quasi femminile nei modi, di due anni più grande, aveva iniziato a mostrare stranezze all’età di quindici anni. Passava le ore in bagno a lavarsi le mani, sentiva ossessivamente dovunque odore di escrementi e frequentava un solo amico di nome Ricky, robusto e spavaldo al contrario di lui, che aveva però una caratteristica singolare, era invisibile a tutti tranne che a Sante. Facevano tutto insieme, fino al giorno in cui Ricky, durante un’ esplorazione in una cava di tufo abbandonata alla periferia del paese, ebbe un incidente: in un passaggio pericoloso,  la mano di Sante non riuscì a sostenerlo, cadde di sotto e morì sul colpo. Ai solenni funerali, il giorno seguente, c’era soltanto Sante perché nessun altro lo aveva mai visto.

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Forse fu per il senso di colpa, sta di fatto che Sante precipitò in un grave esaurimento nervoso e, due mesi dopo, fu ricoverato in un clinica psichiatrica. Da allora sono passati sedici anni e Sante è migrato attraverso cliniche più o meno convenzionate, Centri di Salute Mentale e persino qualche specialista privato pagato da Caterina, per approdare definitivamente al circuito delle Comunità Terapeutiche. 

Caterina è sempre stata convinta che il fratello abbia subito ancor prima di lei gli abusi paterni e che la madre ne sia a conoscenza. Ricorda con rabbia l’aria omertosa con cui un giorno Assunta lavava frettolosamente al pozzo le mutande sporche di sangue del fratello. 

Anche questo non perdonava alla madre e al padre, che riteneva parimenti colpevoli, se non proprio complici.

Credo che gran parte del successo di questa psicoterapia sia dovuto al superamento dei test di seduttività cui Caterina mi sottopose inizialmente. Per motivi che esulano da questa storia e, dunque, tralascio per non appesantirla non sono affatto sensibile agli approcci delle pazienti, non trovo gratificante il loro innamorarsi di me e dunque non scatta in me il sentimento reciproco. 

Certamente rappresentavo ai suoi occhi una figura autorevole, per cui si aspettava da un lato che cedessi alle sue manipolazioni, dall’altro che la dominassi: non  accadde né l’una né l’altra cosa.  La partita del “chi comanda qui” era regolarmente proposta, io mi limitavo a mostrare il mio disinteresse per la gara, a svelare il suo schema ripetitivo e a riproporre un patto di collaborazione paritario. Lei proponeva un linguaggio di guerra o di sesso o di entrambi contemporaneamente, io rispondevo con solidarietà, parità e accudimento. Fedele all’ammonimento degli anni giovanili “compagni non rispondete alle provocazioni!” non mi ingaggiavo nei suoi vecchi giochi, ma non indietreggiavo di un passo; nonostante tutto rimanevo lì con lei. Mi modellavo sull’immagine interna di un nonno buono e saggio che abbraccia la nipotina picchiata dai genitori, che morde tutti per difendersi. 

Tradimento: terapia di copppia. - Immagine: © Maria Aloisi - Fotolia.com -
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Il lavoro terapeutico è consistito sostanzialmente nel renderla consapevole della ridondanza e pervasività con cui usava gli schemi agonistici e seduttivi per gestire i rapporti con gli altri e nel ricostruire gli stessi eventi con significati alternativi quali ad esempio quelli della cooperazione tra pari, dell’accudimento e dell’attaccamento.

Un indicatore del miglioramento raggiunto non fu tanto la scomparsa delle crisi di gelosia che costituivano l’oggetto della richiesta iniziale, quanto piuttosto l’avvio di una convivenza con Paolo e il desiderio espresso di una maternità, fino ad allora tanto temuta poichè percepita come un legame definitivo, dunque costrittivo e intollerabile e un compito per cui si riteneva incapace. Di pari passo concluse il suo itinerario formativo superando la paura di riconoscersi adulta. Fui io ad inviargli i primi pazienti.

 

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