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Storie di Terapie – Introduzione

Questi casi reali li ho raccontati per descrivere la psicoterapia cognitiva in azione, evidenziandone i meccanismi tipici.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 06 Feb. 2012

Aggiornato il 07 Mag. 2012 15:28

Introduzione

Questi casi reali li ho raccontati per descrivere la psicoterapia cognitiva in azione, evidenziandone alcuni meccanismi tipici che il terapeuta porta con sé nella borsa degli attrezzi e utilizza al momento giusto, diverso in ogni percorso terapeutStorie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.comico. La teoria ci dice che la terapia cognitiva consiste in un cambiamento di credenze e scopi della persona sofferente e che i passi da percorrere sono sostanzialmente due:

1 – In primo luogo si tratta di comprendere noi e rendere consapevole il paziente del suo modo di funzionare: si chiede al paziente di essere psicologo di se stesso.

2 – Una volta evidenziate le credenze che guidano la sua vita dolorosa si tratta di modificarle attraverso alcuni passaggi chiave:

  • analizzare il contesto di apprendimento dove si sono strutturate, essendo ad esso adattive e accorgersi di quanto quel contesto sia cambiato rendendole attualmente patogene.
  • valutarne la falsità e la dannosità.
  • trovare delle credenze alternative con cui sostituirle
Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
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Sempre la teoria ci ricorda che lo scopo generale della terapia è riattivare un processo di cambiamento /crescita/adattamento del sistema nel cui blocco consiste la patologia e che per ottenere questo è necessario perseguire un duplice ampliamento dei gradi di libertà del sistema:

  • Sollecitando l’ampliamento degli scopi su cui investire in modo da ridurre il rischio di fallimenti catastrofici se un settore va male
  • Aumentando il numero di strategie di perseguimento utilizzate per ciascuno scopo terminale: un sistema con più scopi e con più strategie di perseguimento per ciascuno di essi è più al sicuro

A questo seguono i due grandi movimenti della terapia che possiamo chiamare quello della rassicurazione e quello dell’accettazione.

 La rassicurazione tende a mostrare al paziente che sovrastima erroneamente la probabilità dell’evento temuto. E’ quello che anche i laici vicini alla persona sofferente tentano di fare: “stai esagerando, vedrai che non succederà!” Il terapeuta tuttavia lo articola in maniera più sofisticata, evidenziando gli errori di ragionamento che tendono a confermare i modi di vedere disfunzionali: il messaggio comunque resta “non succederà!”

Il dolore in terapia: sofferenza da dimenticare o necessità evolutiva? - Immagine: © Dawn Hudson - Fotolia.com -
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L’accettazione invece tende, da un lato, a far considerare l’evento temuto meno terribile di quanto il soggetto lo valuti per la serie “il diavolo non è così brutto come lo si dipinge” e dall’altro a convincere il paziente che, rispetto ad un evento immodificabile, investirvi risorse è solo un ulteriore danno.

La psicoterapia cognitiva deve, persino troppo, la sua notorietà ed il suo successo al ricco strumentario di tecniche codificate di cui si avvale ma a cui assolutamente non si riduce. Infatti la riattivazione del cambiamento attraverso l’aumento dei gradi di libertà del sistema, la rivalutazione corretta della probabilità dell’evento temuto e la sua decatastrofizzazione si ottengono attraverso interventi molto concreti (tecniche specifiche) scelti nell’itinerario terapeutico definito al momento del contratto e modificati via via dall’evolversi della relazione terapeutica o cogliendo al volo le opportunità fortuite offerte dagli accadimenti della vita quotidiana, oltre a quelle predisposte con gli home work per falsificare le vecchie modalità.

Alcuni di questi interventi sono:

  • La psicoeducazione e la trasmissione di informazioni che il paziente ignora, nonché la sollecitazione a guardarsi intorno per escogitare soluzioni nuove ai vecchi problemi abbandonando quelle dimostratesi inefficaci.
  • L’evidenziazione di possibili conflitti tra scopi e l’assunzione della responsabilità di una scelta che restituisca agentività a quei pazienti che arrivano dichiarando la loro impotenza con frasi del tipo “è più forte di me” cui in genere rispondo “allora mi mandi lui che tratto direttamente con il capo”.
  • Lo svelamento degli schemi interpersonali disfunzionali all’interno della relazione terapeutica, l’esame dei circoli di rinforzo che creano e la sperimentazione di modalità nuove.
  • L’interruzione degli automatismi sintomatici anche attraverso manovre comportamentali, contemporaneamente al recupero del loro significato originale modificato o perso nel corso del tempo.

 

Lo sguardo del dolore - © Kelly Young - Fotolia.com
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Ho pensato utile raccontare un po’ di casi clinici sparsi lungo tutto l’arco delle diagnosi categoriali e soprattutto di situazioni miste, perchè i pazienti si ostinano a non studiare il DSM IV per collocarsi correttamente nelle sue categorie e insistono a presentarsi come persone reali, sofferenti e multisfaccettate: con mille acciacchi diversi e sovrapposti.

In queste situazioni ci sono di scarso aiuto i protocolli, si tratta per ciascun caso di identificare con quali meccanismi nel paziente si genera sofferenza e dopo averli smascherati provare a modificarli costruendo alternative. Ho cercato di raccontare il paziente, quello che è avvenuto tra noi in terapia e come sono andate le cose, insuccessi ed errori compresi, transfert e controtransfert o come si chiama nella nostra parrocchia quel miscuglio di sentimenti che avviluppa paziente e terapeuta.

Nei casi che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.

Roberto Lorenzini 06 febbraio 2012

 

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