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Vado in terapia: aspettative e timori

La letteratura clinica afferma da molti anni che i principali fattori di cambiamento in terapia sono l’accordo sugli scopi e sui compiti e la creazione di una buona alleanza col paziente (Bordin, 1979); diventa perciò fondamentale individuare quali sono le credenze, le teorie naives che il soggetto richiedente la cura esprime riguardo all’origine della propria sofferenza nonché le convinzioni che egli nutre circa le reali possibilità di generare un cambiamento (Lorenzini, Sassaroli, 2000).

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 12 Gen. 2012

Cosa si aspettano i (potenziali) pazienti?

Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
"Dottore, non sono sicuro di potermi fidare di lei"

Nella nostra esperienza clinica un aspetto fondamentale è rappresentato dalla domanda terapeutica, intesa non solo come contenuto del problema oggettivamente descritto dal paziente ma soprattutto come rappresentazione che egli si costruisce riguardo alla terapia, all’intervento del terapeuta e al proprio ruolo nel processo di cura.

 

Esaminando il primo elemento scopriamo che in molti casi, nell’incontro con chi si rivolge a noi, il concetto di trattamento terapeutico viene rivestito di un significato medico, all’interno del quale la funzione principale è svolta dalle competenze del “dottore”, dalla sua tecnica e dalla teoria che la sostiene; il paziente si aspetta una risposta ma non solo, la attende giusta, corretta. Non è raro che di fronte alla nostra spiegazione, auspichiamo sintetica, delle caratteristiche principali della terapia, egli cerchi di ottenere un rimando il più preciso possibile, che escluda i casi particolari, l’uso della parola “dipende” e fornisca indicazioni attendibili anche sulla durata del trattamento.

Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica - Immagine: © Ekler - Fotolia.com
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Nella rappresentazione del paziente, la possibilità da parte del terapeuta di accedere a un vasto insieme di tecniche e strumenti applicabili con rigore alla risoluzione del problema clinico, implica sia possibile stilare un programma di cura, prevedere i tempi e i modi. In questi casi la terapia è considerata un’esperienza asimmetrica, nella quale la figura medica ha il compito di insegnare ciò che il paziente non può apprendere in autonomia; la competenza del terapeuta è perciò l’elemento discriminante in base al quale il paziente struttura la propria domanda di cura, affidandosi al depositario della tecnica e aspettandosi in tempi relativamente brevi il frutto benefico di quella competenza alla quale ha deciso di attingere.

 

E’ chiaro come questo approccio, non infrequente peraltro, vada sottoposto a immediata revisione critica, pena l’insorgere di aspettative irrealistiche nel paziente e l’impossibilità di strutturare il lavoro clinico nella forma di un processo di sviluppo collaborativo, che non si fonda sulla presenza di un personaggio attivo e uno passivo ma sulla condivisione di un percorso capace di sostanziarsi nel tempo mediante gli atti comunicativi di entrambi gli attori della relazione.

La letteratura clinica afferma da molti anni che i principali fattori di cambiamento in terapia sono l’accordo sugli scopi e sui compiti e la creazione di una buona alleanza col paziente (Bordin, 1979); diventa perciò fondamentale individuare quali sono le credenze, le teorie naives che il soggetto richiedente la cura esprime riguardo all’origine della propria sofferenza nonché le convinzioni che egli nutre circa le reali possibilità di generare un cambiamento (Lorenzini, Sassaroli, 2000). Utilizzando la Naif Ideas Survey (Caroso et al., 2000) sono state individuate cinque teorie attraverso le quali i pazienti rintracciano la causa del proprio malessere (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero, 2006):

  • teoria dell’incapacità;
  • teoria del malfunzionamento biochimico e del sistema nervoso;
  • teoria delle cause esterne impersonali;
  • teoria relazionale;
  • teoria cognitivo-comportamentale.
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Ai fini della nostra trattazione è particolarmente interessante il primo punto. Il paziente che mostra di aderire alla teoria dell’incapacità ritiene di non riuscire a raggiungere gli scopi percepiti come desiderabili a causa di fattori interni, scarse abilità relazionali ad esempio, oppure una carente conoscenza dell’ambiente, difetti caratteriali, demotivazione. Ne scaturisce perciò l’aspettativa che il terapeuta intervenga attraverso l’insegnamento di capacità particolari che il soggetto non possiede o abilità più generali che fino ad allora sono state utilizzate con un grado di efficacia insoddisfacente. In questo caso il lavoro clinico non si orienta verso la pianificazione di strategie migliori bensì persegue la comprensione delle credenze sottese a tali strategie; non offre al paziente la prescrizione di azioni da considerarsi oggettivamente giuste, ma una consapevolezza più profonda circa il ruolo svolto dalle sue credenze nell’insorgenza degli stati d’animo problematici e nella messa in atto dei comportamenti disfunzionali.

 

La terapia deve invalidare la teoria dell’incapacità e le aspettative di chi chiede aiuto: un intervento esterno che riduca il dialogo con le risorse del paziente, giudicate carenti da quest’ultimo, per imporre una soluzione tecnica, si risolve nella conferma delle credenze già rivelatesi disfunzionali.

 

… e cosa temono?

Quando parliamo di timori del paziente riguardo alla terapia, è necessario procedere ad alcune precisazioni. In primo luogo ci riferiamo unicamente alle resistenze esplicitate dal soggetto, e in particolare a quelle che nella fase iniziale del trattamento possono comprometterne la prosecuzione. Come terapeuti cognitivisti riteniamo di doverci soffermare su ciò che l’individuo si rappresenta in termini di pensiero cosciente; siamo perciò convinti che le resistenze inconsce descritte dalla letteratura psicoanalitica, pur costituendo un tema di interesse per tutti coloro che operano nella clinica, non possano considerarsi l’oggetto centrale di un processo di cura, in virtù della loro essenza sfuggente e non dimostrabile.

Anger - © ioannis kounadeas - Fotolia.com
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Nella nostra esperienza clinica alcuni pazienti intraprendono la terapia mostrando un repertorio piuttosto scarno di teorie e credenze in merito ad essa, si tratta per lo più di coloro che come descritto in precedenza si affidano passivamente alle competenze del dottore, mentre altri esprimono un proprio sistema di significati personali connessi al processo di cura. La nostra trattazione intende esaminare alcuni di tali costrutti, muovendo da un’osservazione: se da un lato le successive fasi della terapia possono far emergere credenze nuove delle quali il soggetto non era inizialmente consapevole, dall’altro è fondamentale chiarire e discutere i timori coscienti che accompagnano l’avvio di ciò che potrà diventare un percorso di cambiamento.

 

In particolare abbiamo focalizzato l’attenzione su quei soggetti che intravedono nella terapia un possibile e temuto attacco critico alle figure più significative della loro vita, e parallelamente alle esperienze più importanti che li hanno condotti fino a noi. Nella rappresentazione di questi pazienti la terapia non è tanto un processo di sviluppo di risorse rimaste fino a quel momento imprigionate all’interno di credenze disfunzionali su di sé e sul mondo, quanto piuttosto un faticoso esercizio di messa in discussione senza sbocchi apparenti, nel quale un ruolo preponderante potrà essere assunto dal rimprovero ruminativo nei confronti della propria origine.

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Per questi soggetti, che l’osservazione clinica coglie reduci da esperienze di significativo criticismo genitoriale, la terapia è un sentiero minaccioso diretto al passato e l’emozione di paura che viene espressa durante i colloqui riguarda l’eventualità di dover ridipingere a tinte fosche l’operato dei propri genitori o di altre figure rilevanti. Siamo di fronte a pazienti estremamente polarizzati per i quali analizzare i life events significa attribuire delle colpe ineludibili, che essi hanno sempre rivolto e sentito rivolgere alle proprie azioni e che ora la terapia potrebbe riversare in modo altrettanto assoluto su altri attori.

 

Seguendo tale costrutto l’individuo si interroga sulle modalità di un possibile cambiamento e finisce sovente per immaginarselo come il risultato di un insegnamento o di una tecnica che il terapeuta saprà trasmettere; si percepisce incapace di attingere a risorse personali autonome e tende a concepire la terapia come un percorso che potrà progredire solo in due, alternative direzioni: creando un nuovo soggetto rimproverante, il paziente che processa coloro dai quali veniva in precedenza processato, o applicando tecniche nuove, nuovi strumenti di gestione delle emozioni ai contesti attuali. Solo il superamento di questa dicotomia, nell’ambito della quale il secondo scenario viene ritenuto un’evoluzione desiderabile mentre il primo minaccia il paziente col peso del proprio significato assoluto, può permettere alla terapia di approfondire realmente ciò che viene definito cambiamento.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, Research and Practice, 16, pp. 252-260.
  • Caroso, M., Ottavi, P., Scarinci, A., Vicino, S., Tresca E. (2000). Strumenti di indagine delle teorie psicologiche naives in terapia in Lorenzini, R., Sassaroli, S., La mente prigioniera. Strategie di terapia cognitiva. Raffaello Cortina, Milano.
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (2000). La mente prigioniera. Strategie di terapia cognitiva. Raffaello Cortina, Milano.
  • Sassaroli, S., Lorenzini, R., Ruggiero, G. M. (2006). Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina, Milano.

 

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