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La terapia e il benedetto egoismo

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 08 Nov. 2011

Anger - © ioannis kounadeas - Fotolia.comMi è accaduto negli ultimi tempi di radunare parecchie riflessioni attinenti sia dalla pratica clinica sia da quanto ascoltato nelle parole di amici e conoscenti che hanno intrapreso una terapia; altra fonte di ispirazione assai fertile, la mia esperienza personale di paziente. Ebbene vi è una tendenza ricorrente, sulla quale sarebbe interessante indagare, che riguarda l’emergere di qualcosa che chiamerei “benedetto egoismo”.

La terapia promuove risorse personali che nella storia di vita del paziente sono state fortemente limitate da vari fattori, quali una famiglia invischiante, un genitore criticista, l’incapacità di decentramento metacognitivo da parte delle figure di riferimento e molti altri. I bisogni del soggetto che si rivolge a noi sono stati spesso ignorati, negati esplicitamente o trasformati attraverso l’attribuzione di significati distorti. Spesso hanno rappresentato un elemento antagonista all’espressione e alla cura dei bisogni del caregiver, il quale non è riuscito a togliere sé stesso e le proprie emozioni negative dal centro della relazione. Il paziente in questi casi ci porta un vissuto di sofferenza legato alla difficoltà di entrare in contatto con le reali priorità della sua esistenza; queste possono essere riconosciute sul piano razionale ma complicate da raggiungere attraverso un percorso emotivo, oppure scarsamente individuate. Il soggetto può essere tuttora impegnato in un’opera di accudimento invertito nei confronti delle figure genitoriali, e provare colpa al solo pensiero di lasciarle andare, di staccarsi da esse per pensare ai propri scenari di sviluppo. Col procedere della terapia assistiamo spesso ad un cambiamento significativo, in virtù del quale egli comincia ad occuparsi di sé e a rendere progressivamente marginali quei comportamenti che in precedenza costituivano il nucleo delle sue relazioni problematiche.

Esiste naturalmente un continuum di gravità nella potenza dell’invischiamento iniziale, nonché una vasta gamma di modalità con cui si verifica la successiva separazione, ma non di rado le percezioni del paziente riguardano un consistente incremento di una tendenza definita con termini diversi: egoismo, spirito di conservazione, autoconsapevolezza, indipendenza. Persino menefreghismo, quando il senso di colpa induce a minimizzare il valore positivo del cambiamento che si sta compiendo. Poco alla volta il soggetto realizza di essere stato passivo nella relazione di coppia, incapace di proteggere i propri confini dall’ansia materna o dai rimproveri paterni, quasi mai assertivo nel sostenere uno scopo personale a fronte di richieste illegittime dell’ambiente. La psicoterapia favorisce un irrobustimento dell’individualità, un benedetto egoismo. Diventa quasi inevitabile ricorrere ad un ossimoro per descrivere questo fenomeno, poiché l’egoismo è un valore tanto perseguito dalle società occidentali quanto contrario ad una convivenza serena tra gli esseri umani. Come dimostrano le attuali condizioni sociali e civili dell’umanità in generale e del nostro Paese in particolare.

In terapia però non ci proponiamo di liberare il cinismo latente che alberga nel paziente, né di convincerlo della bontà di comportamenti che escludano il prossimo dalla condivisione di emozioni ed esperienze positive: sarebbe un egoismo maledetto. Col nostro lavoro poniamo invece un interrogativo sulla scelta: corrispondono davvero ad un reale bisogno del paziente le modalità con cui egli ha imparato a strutturare le relazioni interpersonali? La scelta di anteporre costantemente gli scopi altrui ai propri è stata consapevole, libera e finalizzata alla crescita personale? Oppure avrebbe desiderato qualcosa di diverso, se solo fosse riuscito a mentalizzare ciò che stava accadendo e a non sentirsi colpevole per la propria autonomia?

Accade sovente che rispondendo a queste domande il paziente si arrabbi, sia con coloro che hanno ignorato la sua individualità sia con sé stesso per non essersi opposto prima, e non di rado possiamo assistere ad un rapido aumento dei comportamenti oppositivi, ad una rivendicazione forte dell’autonomia che comincia finalmente a profilarsi. La terapia aiuta a mio avviso a conciliare le due fasi, a generare una sintesi hegeliana fra tesi e antitesi: il paziente diventerà liberamente capace di creare uno spazio di vita pacifico nel quale i desideri di autorealizzazione non vengano soppressi. O almeno è questo il fine ultimo del lavoro che conduciamo insieme a lui. Con un pizzico di benedetto egoismo.

 


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