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In Terapia: lo Sguardo del Dolore

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 14 Nov. 2011

Il giovane terapeuta si accorge con il tempo di acquisire sempre maggiore sensibilità a ciò che non è detto verbalmente.

Lo sguardo del dolore - © Kelly Young - Fotolia.com Esperienza, fatica, sensibilità, tutte componenti che giocano un ruolo. Io, da giovane psicoterapeuta, mi meta-accorgo di come si evolve la mia sensibilità. Cioè mi accorgo di come avverto diversamente molti dei segnali che si succedono in una seduta di psicoterapia.

Una delle cose che maggiormente colpisce non solo la mia attenzione, ma le mie viscere è lo sguardo del dolore. Intendo per sguardo del dolore quell’esatto momento in cui gli occhi si stringono lasciando trapelare una sofferenza, prima ancora che la coscienza della persona la colga, o senza che la colga. Una sofferenza muta, costretta da qualche parte, come il rumore di una cascata impetuosa che avverti solo da lontano. Hai idea che dev’essere immensa, ma il suono è solo un rumore di fondo.

E allora lì il terapeuta che fa? Certo un minimo di esperienza ti permette di non essere sconvolto, incerto o allo stesso modo di evitare, fare finta che questo sguardo non esista. Ma accettato questo passo, che fare? Qual è la giusta mossa? Potrei dire che ti senti terapeuta quando la smetti di farti questa domanda.

La felicità è negli occhi di chi guarda © Konstantin Sutyagin - Fotolia.com
La felicità è negli occhi di chi guarda - Di Giuseppina di Carlo, Ursula Catenazzi, Sara Della Morte

Terapeuti più esperti di me conosceranno lo sguardo del dolore e meglio di me potranno descrivere come lo si può fronteggiare. Io penso che esistano diverse strade. Se non è il momento o capita fuori dalla tua strategia del momento, puoi decidere di non toccarlo, lasciarlo passare, prenderne nota e recuperare il tema in un secondo tempo. Oppure puoi gettare un colpo di consapevolezza senza approfondire (semplificando: questa cosa mi sembra che peschi un dolore intenso, lo dovremmo toccare, ci dovremmo passare attraverso assieme, ora non è il momento ma voglio che lo sappia). Oppure ancora fermarsi e assumere un atteggiamento di accertamento più vago ed esplorativo (ho notato qualcosa nel suo sguardo, cosa le è venuto in mente? Come si sente in questo momento?) così da iniziare ad entrarci dentro con lui, ma con passi leggeri. Il giovane terapeuta può avere già chiaro il significato di quello sguardo, perché conosce da tempo il paziente.

E allora può tentare di restituirglielo e di provare un’ipotesi di validazione (sarebbe naturale se lei sentisse una forte angoscia a questo pensiero, richiama quelle cose di cui abbiamo già parlato). Infine il giovane terapeuta può anche pensare che quello sia il momento dell’affondo, che il paziente e l’alleanza può reggere, che si può osare e prendere il toro per le corna. Allora il terapeuta entra (qual è la sua paura? Qual è la sofferenza che c’è dietro? Qual è il dolore che leggo) e poi, se l’investimento riesce, allora poi si pensa a capitalizzare, cioè validare, assestarsi, confortare e sollevare dal peso trascinato fuori dalla mente, un po’ come buttarlo nel vuoto e poi scendere di corsa, arrivare prima e tendere la rete.

Quali altre vie? Forse molte, nessuna perfetta. Forse non ha molto senso pensare di strutturare l’ars terapeutica in una serie di azioni specifiche “giuste”. E infatti non è quello lo scopo della scienza o del pensiero critico, come scioccamente credono i suoi detrattori. La scienza rappresenta la base per muoversi con coscienza, per fare scelte sagge, per sentire che non tardiamo per paura, che non affondiamo per imprudenza. La scienza -in questo caso- è il lumicino con cui entriamo a esplorare il malinconico sguardo del dolore.

 

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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