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Stile e Sovversione nella Psicoanalisi Postmoderna

Al MART di Rovereto, si può vedere la mostra Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970-1990 proveniente dalla Royal Albert Hall di Londra.

Di Giuseppe Civitarese

Pubblicato il 28 Mag. 2012

Aggiornato il 16 Lug. 2012 11:11

G. Civitarese & S. Boffito

 

MART Rovereto - Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970-1990. - Immagine: © Victoria & Albert Museum
Martine Bedin (per Memphis) - Prototipo per Super lamp, 1981. Metallo dipinto, sistema di illuminazione, Londra, Victoria & Albert Museum, M.1–2011. Photo © Victoria & Albert Museum

Al MART di Rovereto, fino al 3 giugno si può vedere la mostra Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970-1990 proveniente dalla Royal Albert Hall di Londra. Dalla visita abbiamo ricavato impressioni miste. La straordinaria importanza culturale del postmoderno come esibizione dell’artificialità, ibridazione, bricolage, anti-autoritarismo, citazionismo non trova sempre una conferma emotiva negli oggetti esposti. Tra tutti forse l’ambito più convincente, quanto a risultati, è quello dell’architettura.

Sorge spontanea l’idea che sia a causa dei limiti intrinseci, di ordine pratico, che le sono propri e che fungono da vincoli tecnici che la pongono al riparo dalle astruserie postmoderne che vediamo invece quando si tratta di altre forme d’arte.

Non altrettanto persuasivi sono infatti le ricadute nel cinema, nella letteratura, nella pittura ecc. Ma forse per dare un giudizio sul postmoderno bisognerebbe ampliare il panorama. Forse la nostra prospettiva è ancora troppo ristretta.

Vediamo allora il disegno del grattacielo dell’AT&T di New York, del 1978, e ci sembra genialmente postmoderno; così come lo sono, senza saperlo Borges, o Queneau o Sterne. Come lo è Kuhn. Kuhn non dice che c’è una progressione lineare nel sapere, di tipo cumulativo, bensì che cambiano le metafore che guidano la ricerca. Si pongono nuove domande, si guarda in nuove direzioni, fino al punto in cui anche il paradigma scientifico attuale inizia a mostrare la corda e si pongono le premesse per un nuovo cambiamento.

Per postmoderno possiamo intendere dunque due cose: se usiamo la parola come aggettivo, ne possiamo fare un uso estensivo, e dire per esempio che Freud era un pre-postmoderno o addirittura un proto-postmoderno e che il postmoderno è iniziato con Nietzsche o con le origini della psicoanalisi ecc.; se lo usiamo in senso più specifico come il nome di una precisa corrente di pensiero, allora esso nasce convenzionalmente con il libro di Lyotard La condizione postmoderna, del 1979, dura un ventennio circa, ed è qualcosa che sta finendo come sembra certificare la mostra che si è tenuta a Londra sulla morte del postmoderno o altri eventi relativi al cosiddetto nuovo realismo.

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Quindi se consideriamo il postmoderno una dimensione dello spirito è una cosa, se lo vediamo come una corrente culturale, peraltro dai confini piuttosto confusi, è un’altra. Non bisognerebbe fare questa confusione. Finiremmo altrimenti in ogni genere di difficoltà logica: tipo, far coincidere le fortune e il declino del postmoderno-corrente con lo spirito anti-metafisico che pervade l’epistemologia del ‘900, che a nostro avviso è ben vivo. Una cosa sono dunque i principi del postmoderno, ad esempio un’idea laica di verità, altra è la riuscita concreta in vari ambiti dell’applicazione di questi medesimi principi.

Per uno psicoterapeuta la visita alla mostra può essere l’occasione anche per chiedersi cosa ne è del postmoderno nelle discipline psicologiche, come queste sono state lambite da questo movimento e da quelli affini: dalla decostruzione, dalla metanarrativa, alla cosiddetta svolta linguistica.

Più in particolare: cosa è successo all’interno della psicoanalisi? che statuto hanno in psicoanalisi i concetti di verità e di realtà? si è affermata una corrente postmoderna? che caratteristiche ha avuto? esiste qualcosa in psicoanalisi che possiamo definire come uno sviluppo postmoderno?

Freud pensa entro la cornice epistemologica del moderno. L’idea è che si possa arrivare a conoscere la verità obiettivamente, lì fuori, per quella che è e che esista uno strato roccioso della realtà che può essere conosciuto.

Noi viviamo in un’altra cornice epistemologica, che si può definire come post-positivistica o post-moderna. Prevale un concetto relativistico di realtà e un sentimento di maggiore scetticismo rispetto alle nostre possibilità di conoscere la realtà per come è veramente. Freud parte da una posizione ancora piuttosto forte del soggetto. Noi siamo arrivati a vedere la verità non come sganciata dalla realtà e dai cosiddetti fatti, ma anche inevitabilmente frutto di un accordo intersoggettivo o consensuale. Siamo arrivati a capire che il linguaggio è un sistema chiuso di segni che hanno valore non perché siano in contatto diretto con la cosa ma perché assumono un senso nel gioco differenziale interno. Tant’è che abbiamo più nomi per le stesse cose.

Questo significa che la realtà scompare? Assolutamente no. Vuol dire bensì che il modo in cui accordiamo le nostre parole con i fatti passa per canali che non riusciamo a esplicitare interamente con i nostri concetti e con la nostra logica. È evidente a tutti che Freud ha posto le basi per l’affermarsi del pensiero post-positivistico quando ha spodestato l’Io dalla sua casa. Da questo punto di vista sarebbe un postmoderno radicale. Difatti non è per caso che la nozione stessa di inconscio è stata rifiutata a lungo (per esempio fino alla metà degli anni ottanta anche dalla psicologia cognitiva)(Westen, 1999).

Oggi però assistiamo a un secondo choc. Non solo l’Io non è padrone in casa propria ma neppure l’inconscio, per così dire, lo è, perché dipende dall’altro, dalla socialità in una maniera ben più profonda di quanto fossimo abituati a pensare.

Moderno e postmoderno si possono così far coincidere grossomodo con una epistemologia del soggetto e con una epistemologia dell’intermedietà o intersoggettiva (Civitarese, 2008, 2012). Possiamo rinunciare all’una o all’altra? A nostro avviso no, perché finiremmo per assolutizzare una prospettiva e per tornare a postulare un unico punto di vista, che sarebbe il punto di vista di Dio. L’essenziale è pensare che entrambi i punti di vista sono convenzionali, utili finzioni, decisioni che prendiamo per aprire una certa finestra sulla realtà. Quante descrizioni ci sono di una sedia? La sedia vera è quella che vedo a occhio nudo, al microscopio elettronico, al microscopio ottico, una frazione di secondo dopo è la stessa sedia o una sedia già diversa? E se due cose uguali in natura non esistono, che senso hanno le operazioni dell’algebra in cui si pretendo di dire che 1+1 = 2? E se tutte queste prospettive sono vere a modo loro, chi mi impedisce di pensare che ce ne possano essere infinite? Infatti possiamo facilmente pensare che le prospettive possano essere infinite, e continuare a non essere arbitrarie. Quel che conta è mantenere la dialettica e la simultaneità dei punti di vista. Altrimenti ricadiamo in una psicologia della mente isolata oppure dissolviamo del tutto l’idea stessa di mente.

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Alcuni rimproverano invece al postmoderno la perdita di valori, principi sia di tipo morale che dei principi di realtà e di verità. È legittimo chiedersi se questa critica punti a costruire un bersaglio ad hoc, fittizio, uno straw man, oppure descriva qualcosa che esiste da qualche parte. Perché se non esistesse, perché occuparsene? Perché perdere tempo con un fantasma? Tra l’altro, che dire delle correnti scettiche che hanno sempre attraversato il pensiero filosofico oppure dell’idealismo? Le definiremmo per questo postmoderne? Francamente facciamo fatica a trovare un filosofo oppure un analista autorevole del nostro tempo – intendiamo internazionalmente riconosciuto, che abbia scritto su riviste prestigiose e peer review – che sostenga tesi così estreme da negare i concetti di verità e di realtà. Non sapremmo semplicemente a chi rispondere. Diremmo, please, fatemi avere uno straccio di articolo e poi vediamo. Qualcuno potrebbe ammettere che in effetti non c’è nessuno che sostiene cose del genere, e che valga la pena di prendere in considerazione, ma che comunque nella società si è affermata un’idea del genere. Noi siamo tuttavia contrari a trasformare la psicoanalisi, con il rigore dei suoi concetti e la stretta aderenza al suo campo empirico, in sociologia spicciola. È vero, a volte si trovano espresse posizioni del genere, ma sono interpretazioni viziate del pensiero altrui. Dire che Derrida avrebbe affermato che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, oppure che non c’è nulla fuori del testo, sarebbe a nostro avviso una grossolano fraintendimento del pensiero rispettivamente di Nietzsche e di Derrida. Se fossimo al Liceo useremmo la matita blu, quella degli errori gravi.

Su che cosa sia la psicoanalisi postmoderna, o sull’influenza del pensiero postmoderno sulla psicoanalisi la letteratura psicoanalitica ha iniziato ad interrogarsi seriamente già alla metà degli anni ’90, soprattutto in ambito americano (Leary 1994; Shaver 1996, 1998; Chessick 1996). Molti autori però, in questi scritti, non parlano ancora di una psicoanalisi postmoderna. Shaver per esempio, in due saggi di grande interesse teorico e speculativo (e forse meno clinico), si cimenta nell’impresa di “postmodernizzare l’inconscio”, ritenendo che ciò che è più rivoluzionario del pensiero di Freud sia proprio l’elemento postmoderno delle sue teorie: la sua capacità di sfuggire al potere seduttivo del pensiero filosofico occidentale dominante e l’accento che la psicoanalisi – come il postmodernismo – mette sul fatto che il linguaggio non funzioni solo per comunicare ma anche per distorcere.

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Nel luglio del 2001, al 42esimo congresso IPA, a Nizza, è stato presentato un panel dal titolo Postmodern Psychoanalysis. A presentare era Arnold Goldberg e Irma Brenman Pick faceva da discussant. Quello di Goldberg è un lavoro eminentemente clinico, forse meno sofisticato di alcuni scritti successivi sul tema, ma che ha il merito di mettere in luce alcuni aspetti fondamentali del dibattito in chiave clinica e non ideologica. Il punto di partenza del suo lavoro è pratico, esperienziale, fa riferimento al problema della correttezza e alla preoccupazione degli analisti per le regole. Cita naturalmente Bion, che nei Seminari Brasiliani dice di non sapere quali siano le regole della psicoanalisi, e lo mette in relazione con Lyotard che ha descritto la condizione dell’uomo postmoderno in termini di “incredulità verso le metanarrazioni”, considerate come un insieme di regole a cui tutte le scienze fanno riferimento. Un approccio postmoderno dovrebbe lasciare spazio, secondo Goldberg, ad una molteplicità di approcci che non possono essere necessariamente racchiusi in un’unica teoria che li comprenda tutti. E’ evidente che questa posizione si espone ad una facile critica, quella dell’anything goes, l’idea cioè che tutto vada bene, che si vada verso una psicoanalisi selvaggia (vedi anche Chessick 1995 – “Poststructural Psychoanalysis or Wild Analysis?”). Goldberg mette in guardia da una lettura tanto ingenua della teoria postmoderna riprendendo ancora una volta Lyotard e la sua idea che ogni soggetto sia inserito in una tela di relazioni che si fa via via più complessa. Il problema non è dunque accettare tutto, ma sostituire ad una interpretazione pre-organizzata, a priori, l’apertura ad una molteplicità di soluzioni finali. Non siamo nel campo dell’anything goes, osserva ancora Goldberg, ma in quello dell’everything matters. Ogni cosa è importante, altamente significativa, sempre passibile di nuove letture e c’è bisogno di una continua attività di incorniciatura (framing), nulla può essere dato per scontato.

Il modello di campo, in particolare per come lo hanno interpretato Ferro, i Baranger e Ogden, è stato preso anche da Susann Heenen-Wolf (2007) come esempio di un radicale cambiamento di paradigma che, all’interno della rivoluzione del pensiero postmoderno, è in corso nella psicoanalisi contemporanea: quello “dalla legge simbolica alla capacità narrativa.

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Possiamo considerare le caratteristiche principali del postmoderno come: la fine delle metanarrative emancipatorie e degli orizzonti utopici del moderno, il rifiuto di ogni genere di concezione universale della verità per cui le grandi ideologie (religiose, mitologiche, politiche, filosofiche o morali) vengono sostituite, o integrate, dai concetti di comunicazione e negoziazione. L’accento dunque, nel pensiero postmoderno, si è spostato dalle prospettive orientate al contenuto ad un’attenzione alla comunicazione nel qui ed ora, al processo, al contenitore. Questo – osserva la Heenen-Wolf, come già aveva fatto Goldberg– è avvenuto anche nella psicoanalisi contemporanea con il pensiero di Bion e i suoi sviluppi. L’attenzione alla costruzione di un apparato per pensare i pensieri, all’importanza del contenitore, alla “fede” nel processo e ad una concezione di verità considerata strutturalmente inconoscibile sono solo alcuni esempi di come la teoria bioniana abbia favorito, nella storia della psicoanalisi, il passaggio da un modello epistemologico della ricostruzione ad uno della costruzione.

I teorici del modello di campo, poi, hanno messo l’accento sull’esperienza emotiva creata da entrambi i membri della coppia analitica all’interno della seduta sostenendo che la comunicazione del paziente sia da leggere sempre come un’espressione del campo analitico intersoggettivo – o del terzo analitico – che nel qui ed ora si crea. Questo punto di vista cambia anche la concezione del setting – sottolinea ancora la Heenen-Wolf – che non è più l’espressione del confronto con una legge simbolica e una colpa originaria, ma uno spazio in cui si sviluppano le capacità mentali della coppia analitica e nuove esperienze emotive possono nascere. La condizione di vita dell’uomo postmoderno e il conseguente cambiamento di paradigma, secondo la Heenen-Wolf, ci fanno vedere come, retrospettivamente, Freud (o una certa lettura del pensiero freudiano) possa essere considerato un moralista: nella sua opera descrive come il soggetto dovrebbe funzionare idealmente e come dovrebbe rinunciare ai propri desideri e pulsioni più potenti e assumersene la colpa. La Heenen-Wolf sottolinea come l’incontrovertibile cambio di paradigma a cui abbiamo accennato, che porta a dare sempre meno peso alla metapsicologia – che Freud stesso chiamava “la Strega” –, si accompagna con la possibilità di liberare la psicoanalisi dalla pretesa di avere uno statuto speciale di scienza umana restituendola al metodo scientifico. Ci sembra una precisazione estremamente importante perché ci permette di mostrare, ancora una volta, l’infondatezza delle accuse dell’anything goes e della negazione assoluta della verità e della realtà. Non soltanto, come si diceva, dire che Derrida ha sostenuto che non esistono fatti nella realtà al di fuori del testo è un grossolano errore, ma attribuire a questi autori posizioni dogmatiche e ideologiche è un completo stravolgimento dello spirito del pensiero postmoderno: non è in discussione l’assenza della verità, ma l’assenza di una verità assoluta, l’assenza dell’assolutezza.

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È quello che Shachaf Bitan, in un articolo recentemente apparso nell’International Journal of Psychoanalysis (2012) chiama la “logica del gioco”, riconoscendola come una caratteristica comune al pensiero di Winnicott e Derrida: una logica che considera fecondamente indeterminata la dialettica tra gli opposti ed invita a superare la “violenta gerarchia” che li organizza nel pensiero corrente in favore di una pacifica coesistenza, una logica che considera il paradosso e l’ambiguità come elementi centrali dell’esperienza.

Come dice Matar (2005, citato da Bitan 2012) Derrida ci ha rivelato che, anche se stiamo giocando ad un gioco completamente diverso, stiamo ancora giocando nello stesso parco! Naturalmente questo vale anche per le teorie, e per le teorie psicoanalitiche: la logica del gioco non esclude la logica tradizionale ma invita a ripensare le dicotomie che hanno caratterizzato il pensiero psicoanalitico – quella tra interno ed esterno, presenza e assenza, conscio e inconscio, soggettività e oggettività, soggetto e altro, analista e analizzato – considerandole come non mutualmente esclusive, ma coesistenti pacificamente (Bitan 2012, p. 48). E’ la stessa cosa che fa Bion nel famoso scritto del 1977, quando ci invita a smettere di occuparci delle diadi di opposti che costituiscono il nostro mondo, e di investigare invece “la cesura, il legame, la sinapsi, il (contro-trans-) fert, l’umore transitivo-intransitivo.

Bitan, infine, osserva come Winnicott trasformi l’uso del concetto di “concreto”, rendendo concreto il gioco e “il concreto” giocoso; è la stessa cosa che fa Bion con “i fatti”, che per lui corrispondono all’esperienza emotiva, cioè ad una realtà che è già stata sognata, cioè trasformata soggettivamente, potremmo dire esteticamente. Ecco, di questa giocosità la mostra al MART testimonia spendidamente. Lo raccontano i versi di Pessoa, quando il poeta si domanda:

Tra l’albero e vedere l’albero

Dov’è il sogno?

 

(Braccio senza corpo che brandisce una spada, 1916)

 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Bion W. R. (1977). Caesura. In Il cambiamento catastrofico. Loescher, Torino, 1981.
  • Bion W. R. (1987). Seminari clinici. Brasilia e San Paolo. Cortina, Milano, 1989.
  • Bitan S (2012). Winnicott and Derrida: Development of logic-of-play. Int J Psychoanal 93:29-51.
  • Chessick RD (1995). Poststructural Psychoanalysis or Wild Analysis?. J Am Acad Psychoanal Dyn Psychiatr., 23:47-62
  • Civitarese G (2008). Più affetti… più occhi. Temi del postmoderno e de/costruzioni in analisi. In L’intima stanza. Teoria e tecnica del campo analitico, Borla, Roma.
  • Civitarese G (2012). L’intermedietà come paradigma epistemologico in psicoanalisi. L’Educazione Sentimentale 17, 40-55.
  • Goldberg A. (2001) Postmodern Psychoanalysis. Int J Psychoanal 82:123-128
  • Heenen-Wolf S. (2007). From simboli law to narrative capacity. A paradigm shift in psychoanalysis?. Int J Psychoanal 88: 75-90
  • Kuhn TS (1962). La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Einaudi, Torino 2009.
  • Lyotard JF (1979). La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. Feltrinelli, Milano 2002.
  • Leary K (1994). Psychoanalytic “Problems” and Postmodern “Solutions”. Psychoanal Q, 63:433-465.
  • Matar A. (2005). Modernism and the language of philosophy. London: Routledge ⁄ Taylor & Francis.
  • Pessoa F. (2012). Nei giorni di luce perfetta. RCS Quotidiani, Milano
  • Shawver, L. (1996). What Postmodernism Can Do for Psychoanalysis: A Guide to the Postmodern Vision. The American Journal of Psychoanalysis. 56(4):371-394.
  • Shawver, L. (1998). Postmodernizing the Unconscious with the help of Derrida and Lyotard. The American Journal of Psychoanalysis.58(4): 329-336.
  • Westen D (1999). The Scientific Status of Unconscious Processes. J. Amer. Psychoanal. Assn., 47:1061-1106
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Giuseppe Civitarese
Giuseppe Civitarese

Psichiatra, Psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), dell’American Psychoanalytic Association (APsaA) e dell'International Psychoanalytical Association (IPA).

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