PSICHE & LEGGE #3
Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale
Psiche e Legge: la Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista
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“Un’altra donna uccisa: è allarme femminicidio”. “In vertiginoso aumento, la violenza omicida maschile”. Così, purtroppo, titolano, sempre più spesso, le cronache italiane. Ed è vero. Si tratta di un fenomeno in costante aumento.
Le percentuali che inducono a parlare di femminicidio. Le vittime sono per la gran parte donne, non c’è dubbio, ma sono stata chiamata ad occuparmi esclusivamente dei risvolti legali di un fenomeno tragico, come quello cui si assiste quotidianamente. Da avvocato, dunque, non userò il termine femminicidio – propriamente riferibile all’uccisione di un soggetto, motivata esclusivamente dall’appartenenza ad un determinato genere sessuale – ma, più tecnicamente, di omicidio d’impeto e passionale, seppur commesso, nell’80% dei casi, in ambito domestico, familiare, e nei confronti di vittime di sesso femminile.
Mi sia consentito, da donna, marcare quanto possa far male pensare che l’uomo di cui ci si innamora, al quale si rivolgono attenzioni e pensieri, con cui si condividono emozioni, o che si rende padre, possa poi inveire così crudelmente sulla partner o, ancor peggio, maturare nel tempo tanto rancore, rabbia o immotivata voglia di vendetta, da divenirne, un giorno, il carnefice. Così, la persona cui ci siamo affidate, si trasforma (in momenti di crisi del legame affettivo, o in fase di separazione/divorzio) in quella da cui difendersi e fuggire. E se la responsabilità, è stata attribuita talora alla società che esaspera la coppia, talaltra alle difficoltà economiche legate alla frattura di un matrimonio (dimenticando che le “morti rosa” avvengono in qualsiasi contesto socio-culturale), non si può non riflettere come il gesto omicida – prima che da fattori esterni – si formuli e si definisca nella “mente criminale”.
Indaghiamo, dunque, su cosa accade nella psiche del reo nel momento in cui compie un gesto efferato. Quale è la differenza, sotto il profilo strettamente legale, tra raptus e omicidio passionale? Quanto incide, se incide, sull’imputabilità, l’aver agito in preda ad uno “stato emotivo e passionale”? Quanto pesa sulla condanna l’aver progettato l’omicidio? E quali sono le circostanze che potrebbero aggravare o alleggerire la pena?
Non c’è dubbio, che gli omicidi commessi in famiglia, nei confronti di una persona cui si è, o si è stati legati, si differenziano dagli assassinii freddi (scaturiti, ad esempio, a moventi venali) per la particolare crudeltà di esecuzione, indice del forte coinvolgimento personale.
Si parla, così, indifferentemente, di delitti commessi in preda a “raptus” e di “omicidi passionali”. Dal punto di vista giuridico, però, non va fatta confusione. A ben vedere, si tratta di delitti nettamente diversi tra loro. Ciò che li distingue, è il momento ideativo del crimine.
Ma andiamo per ordine. È evidente che nel tracciare la distinzione tra le due figure, non mi tratterrò, non avendone le competenze scientifiche, sugli aspetti prettamente medico-psichiatrici della questione.
Mi limiterò, pertanto, a spiegare cosa – nell’ambito di un processo per omicidio – si intende per “delitto emotivo” e cosa, invece, vuol dire “delitto passionale” (contemplati entrambi dall’art. 90 del Codice Penale, su cui ci soffermeremo più avanti). Lo stato emotivo viene definito come stato mentale permeato dall’emozione, reazione transitoria ed intensa ad un determinato stimolo, fattore scatenante del cosiddetto raptus di follia. Il delitto emotivo, quindi, si ravvisa nel gesto omicida caratterizzato da impeto, impulsività e mancanza di premeditazione, solitamente legato al movente della gelosia (su cui torneremo).
La scena del delitto parlerà chiaro: ogni particolare sarà indice di scatti d’ira, disorganizzazione, assenza di complici, e nessuna tentata dissimulazione. Potrebbe essere accaduto, ad esempio, che il soggetto, intenzionato solo a minacciare o terrorizzare la vittima, l’abbia poi uccisa, mosso da una parola di troppo, o da una psicotica reazione dovuta all’evolversi della discussione.
Diversamente, lo stato passionale – dal greco “pathos”, sofferenza – è frutto di un’emozione che si cronicizza, che perdura nel tempo ed esplode nell’atto estremo. Tanto è vero, che omicidi del genere sono in qualche modo annunciati da una costellazione di fattori spia: gelosia ossessiva, bisogno compulsivo dell’altro, molestie, episodi di stalking.
Gli omicidi passionali, inoltre, si contraddistinguono per il luogo del crimine. Per lo più, avvengono in auto, in casa, e comunque in ambienti chiusi e “intimi”, teatro di un confronto (solitamente concordato per definire la fine di una relazione affettiva) che, troppo spesso, spegne per sempre lo sguardo alla vita della vittima. Gesto che, nella mente del reo, può assumere persino il significato del giusto “prezzo” pagato dalla donna che l’ha abbandonato, tradito o che, semplicemente, ha smesso di amarlo.
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Voglia di rivalsa, dunque, che accomuna sia l’omicida emotivo che quello passionale, e che si evince anche dalla modalità dell’aggressione, di sovente frontale, come attestato, in sede di ricostruzione del crimine, sia da specifiche indagini scientifiche che dall’impressionante concentrazione dei segni della colluttazione, sulle mani e sulle braccia della vittima, ad indicare il disperato tentativo di difendersi, proprio da un attacco frontale. Altro punto di contatto, parrebbe essere il profilo dell’omicida (soggetto apparentemente rassicurante, senza precedenti penali e ignoto alle forze dell’ordine) e il comportamento successivo al reato (egli è solito non opporre resistenza all’arresto, o confessare l’accaduto, seppur in maniera confusa).
Tanto rilevato, ciò che interessa puntualizzare, è la differenza – a livello legale – tra omicidio emotivo e omicidio passionale, legata alla diversità dell’elemento soggettivo del reato. Può affermarsi, difatti, che nel caso del raptus, il soggetto sia mosso da dolo d’impeto, mentre il delitto passionale, in qualche maniera progettato, fa pensare ad un dolo di premeditazione.
Ma quale è l’esatto significato di tali termini? Come messo in luce nel #1 di questa mia Rubrica, l’autore di un reato ne sarà ritenuto responsabile, solo ove si accerti che la sua azione sia frutto di condotta dolosa o colposa. Quanto al delitto doloso, oggi d’interesse, il Codice Penale, all’art. 43, lo definisce come reato commesso “secondo l’intenzione” del soggetto agente e, dunque, da questi “preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.
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Sarà necessario, perciò – non solo accertare la volontarietà dell’omicidio commesso – ma anche il “grado” di intenzione che abbia animato la mano assassina, chiedendosi “quanto” intensamente il criminale abbia voluto quel delitto. Analisi da compiere, prestando particolare attenzione alla fase dell’Ideazione del crimine nella psiche del reo, e a quella della Preparazione, intesa come organizzazione del reato, ravvisabile solo in relazione agli omicidi intenzionalmente commessi, vuoi per dolo d’impeto, vuoi per l’ancor più grave dolo di premeditazione.
La programmazione del crimine indica, difatti, una lucida pianificazione del gesto omicida che potrà, come rilevato, assumere i connotati del reato d’impeto o di quello premeditato. Nel primo caso, la decisione di compiere il crimine è improvvisa, o quasi immediata rispetto allo stimolo esterno. Nel secondo, più intenso, il reo disegna con accuratezza le modalità esecutive del delitto, solitamente posto in essere trascorso un certo lasso di tempo dall’ideazione.
Di qui, l’esigenza di appesantire la pena per l’omicida che abbia agito con premeditazione, giacché colpevole non solo di aver formulato l’intento criminale, ma di averlo altresì mantenuto nel tempo, rafforzandolo nel suo animo.
Chiarita la distinzione tra delitto emotivo e passionale, occorre fare un passo in più e domandarsi: se in entrambe le tipologie di omicidio, il reo sarà punito (perché mosso dalla volontà di uccidere), l’alterazione dovuta ad uno stato emotivo e passionale, ne escluderà o diminuirà la capacità di intendere e volere? In linea di massima no.
Del resto, l’art. 90 del Codice Penale parla chiaro quando recita che gli stati emotivi e passionali “non escludono, né diminuiscono l’imputabilità”. La logica seguita dal legislatore è: l’emozione e la passione sono condizioni psicologiche – e non psicopatologiche – che fanno parte del patrimonio di ciascuno. Non sarebbe, pertanto, accettabile l’idea di giustificare la condotta di chi, pur capace di controllare i propri sentimenti, se ne sia invece lasciato trasportare. Su quali basi scientifiche si fonderebbe una dichiarazione giudiziale di incapacità d’intendere e volere, atta a qualificare il reo come non imputabile (dunque non assoggettabile a pena) o parzialmente imputabile (destinatario di pena ridotta)?
Lo stesso art. 90 c.p., a ben vedere, venne introdotto nel sistema penale, come insegna la dottrina, proprio per stimolare il dominio della nostra volontà sulle emozioni e sulle passioni che proviamo. Ed ecco che detti stati, al più, potranno valere ad attenuare la pena inferta all’assassino, ove il giudice ravvisi un nesso tra l’insorgenza dell’emozione/passione, e la provocazione della vittima. I rilievi finora svolti circa l’ininfluenza degli stati emotivi e passionali sull’imputabilità, non devono però fuorviare. Occorre distinguere, in effetti, due diverse ipotesi:
a) il delitto è stato commesso in presenza di stati emotivi e passionali “normali”, la cui intensità, pur variando da individuo ad individuo, rientra nel range della sana emozione e passione. Il reo, a fini penali, sarà ritenuto capace d’intendere e volere, e assoggettato alla pena prevista, per l’omicidio, dall’art. 575 c.p., salvo il riconoscimento dell’attenuante prima indicata. Usualmente, difatti, il reo che agisce sotto l’influenza di stati emotivi (alterazioni psichiche di breve durata) o passionali (rancore, vendetta, gelosia) non patologicamente rilevanti, mantiene intatta la sanità mentale, restando, per l’occhio della legge, un lucido omicida;
b) Il delitto è stato commesso in presenza di stati emotivi e passionali connotati da un’intensità e morbosità tali, da integrare una vera e propria infermità mentale: l’alterata coscienza diviene “vizio di mente” totale o parziale del reo. Ma l’improvviso turbamento della personalità può anche derivare da una “reazione a corto circuito”, che si traduce in un’azione incontrollabile, aliena da quelle che annoveriamo come normali, dunque patologica e riconducibile nell’ambito delle infermità penalmente rilevanti.
In altre parole, se gli stati emotivi e passionali, in linea di massima, sono ininfluenti sulla condanna penale – trattandosi di alterazioni dell’affettività inerenti un soggetto psicologicamente “normale” – non può dirsi altrettanto in relazione ad una psiche malata. Non può escludersi, dunque, che – in capo a soggetti mentalmente instabili o affetti da disturbi psichiatrici – i medesimi stati emotivi e passionali, assumano la forma di patologie psicotiche atte a incidere sulla capacità d’intendere e volere del reo, che verrà dichiarato affetto da vizio, totale o parziale, di mente. Viene da sé l’esigenza che – in sede processuale penale – il criminale sia sottoposto ad apposita perizia, tesa ad accertare se il riscontrato stato emotivo e passionale, non sia, in realtà, rivelatore di un’infermità mentale.
In via di principio, dunque – per vagliare l’incidenza di tali stati sull’imputabilità – si avrà riguardo alla concreta attitudine degli stessi a compromettere la capacità di percepire il disvalore del fatto commesso, e il significato del trattamento punitivo. Qualche parola in più, ritengo debba spendersi circa il movente principe degli omicidi emotivi e passionali: la “gelosia”, sete di malato possesso dell’altro.
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Memori di quanto appena affermato, è evidente che la gelosia pura e semplice, seppur radicata o fortemente sofferta, non inciderà sulla capacità d’intendere e volere dell’Otello di turno, che conserverà – nel processo, e ai fini della condanna – la veste di freddo criminale.
Sappiamo, però, che la Cassazione (a mezzo della nota sentenza n. 9163/05, emessa dalle Sezioni Unite Penali) ha cristallizzato la regola per cui i disturbi della personalità possono essere valutati quali causa di totale o parziale infermità di mente dell’imputato, purché di consistenza e intensità tali, da aver inciso sulla capacità di autodeterminazione del reo. Così, ove la gelosia abbia oltrepassato i confini degli stati emotivi e passionali, ed assunto le caratteristiche di una vera e propria psicopatologia, la stessa potrà rilevare – previo accertamento peritale – quale vizio di mente.
Il riferimento, è ovvio, è alla sola gelosia catalogata come Disturbo Delirante di tipo Geloso, recante tratti comuni con il Disturbo Ossessivo Compulsivo. E se, come sosteneva Rochefoucauld, “il y a dans la jalousie plus d’amour-propre que d’amour», allora l’uccidere, per il Geloso delirante, sarà l’unica soluzione atta a tamponare la sete di rivalsa per la perdita della persona amata, o meglio, per la perdita di un “possesso”.
Il geloso compulsivo, in sostanza, si delinea come un soggetto calato in una sua personale realtà costruita dapprima su una rete di dubbi e d’incertezze sulla fedeltà del partner, e, di seguito, su una visione parallela del reale, basata non più su sospetti tradimenti, bensì sull’irremovibile certezza che l’infedeltà sia stata già consumata.
Ad aggravare il quadro clinico, concorreranno altri disturbi, legati al sentimento di abbandono, alla perdita delle abilità sociali, o ad un sopraggiunto stato confusionale, nella cui ottica i ricordi si mescolano alle fantasie e l’immaginato – nella mente dello psicotico – diviene un doloroso vissuto. Un vissuto da rimuovere, se necessario, anche “eliminando” fisicamente la causa di tanto malessere. In costanza di una gelosia patologica, dunque, sarà possibile tentare la via di una perizia tesa a vagliare la consistenza del disturbo e la sua eventuale riconducibilità nell’alveo delle malattie consacrate dal DSM-IV.
Parimenti, potrà concludersi per il disturbo borderline di personalità, definito nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali come una “modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’affettività con impulsività notevole, comparsa entro la prima età adulta e presente in vari contesti”.
Ebbene, se la personalità del borderline si caratterizza per disturbi dell’umore, manie di persecuzione, alternarsi di atteggiamenti remissivi e violenti, percezioni di buona autostima seguite da sentimenti di svalutazione, sarà evidente che – a fronte di eventi stressanti, come separazioni e abbandoni affettivi – il soggetto possa spingersi fino a perpetrare condotte auto ed etero distruttive, quali il suicidio o l’omicidio passionale.
Anche in tal caso, sulla falsariga di quanto avviene per i disturbi della personalità, per le gelosie morbose o le nevrosi, anche la personalità del borderline influirà sulla capacità d’intendere e volere, ove abbia assunto una consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla sanità mentale dell’assassino.
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BIBLIOGRAFIA:
- Ferracuti, F. (1988), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol.7, Giuffrè, Milano.
- Lusa, V. & Pascasi, S. (2011). La persona oggetto di reato. Torino: Giappichelli Editore.
- Lusa, V., Pascasi, S. & Borrini, M., Sanity and Insanity in a Criminal Trial: The European Experience Seeks the American Experience, Proceedings 64th Annual Scientific Meeting of American Academy of Forensic Sciences, Global Research: The Forensic Science Edge, Atlanta-Georgia, February 20-25, 2012.