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Il caso del “Bambino di Padova”, tra etica giornalistica e risvolti legali

PSICHE & LEGGE #2 - Il bambino di Padova - Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista

Di Selene Pascasi

Pubblicato il 19 Ott. 2012

Aggiornato il 05 Nov. 2012 15:02

 

 PSICHE & LEGGE #2

Il caso del “Bambino di Padova”,

tra etica giornalistica e risvolti legali 

Psiche e Legge: la Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista

 

RUBRICA PSICHE & LEGGE

Il caso del “Bambino di Padova”, etica giornalistica e risvolti legali #2Sul “caso di Padova” si è detto tutto. Si è detto troppo. Il circo mediatico si è messo in moto, l’inarrestabile meccanismo della tv e della rete non spegnerà presto i riflettori sulla delicatissima questione che vede come protagonista, suo malgrado, un minore.

E allora perché tornare a discuterne anche ora, scrivendo queste righe? Un motivo c’è. Ristabilire gli equilibri in maniera asettica, o meglio, tecnica. Far luce su alcuni aspetti, probabilmente “oscuri” per internauti, lettori o spettatori dei talk show, estranei al mondo della legge.

Basta fare zapping per ascoltare termini giuridici (prelievo coattivo del minore, decadenza dalla potestà) talora poco comprensibili per i non addetti ai lavori. L’intento di questo breve intervento, dunque, non sarà quello di supportare il partito della madre, del padre, delle forze dell’ordine, della zia materna che ha filmato il video “dell’esecuzione”, o dei giornalisti che lo hanno diffuso.

Del resto, non se ne conoscono le carte processuali, e qualsiasi presa di posizione sarebbe superficiale e, probabilmente, inesatta. Così, senza alcuna pretesa di entrare nel merito della vicenda, della quale solo le parti in causa conoscono ogni minimo risvolto, ci si limiterà a fornire le chiavi di “lettura giuridica” del caso, tentando di chiarirne gli snodi principali, primo fra tutti, quello inerente la Sindrome da Alienazione Parentale (nota come Pas).

Ebbene, sorvolando sugli aspetti clinici di tale dinamica psicologica – affrontati, su questo giornale, da altri autori esperti in materia – ci si chiede: quando la condotta di uno dei genitori, dal punto di vista legale, è qualificabile come Pas? E che peso avrà nelle dinamiche processuali? Ove accertata, se accertabile, a quali soluzioni si potrà ricorrere?

Partiamo da un dato di base. L’ordinamento giuridico italiano, in virtù della Legge n. 54/06 (resa in attuazione dei principi presenti in ambito europeo, nonché della Convenzione sui diritti del fanciullo sottoscritta a New York il 20 novembre 1989, e resa esecutiva in Italia con Legge n. 176/91) prevede oggi l’affidamento condiviso come regime ordinario.

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Ciò vuol dire che, salvo casi particolarissimi – in cui il giudice ritenga, all’esito di un attento vaglio, che l’affidamento condiviso possa recare pregiudizio al minore – il bimbo sarà affidato ad entrambi i genitori. L’affido condiviso, però, non significherà, come molti erroneamente pensano, che la prole dovrà necessariamente trascorrere pari spazi temporali con la mamma ed il papà.

Una tale scelta, va da sé, riserverebbe al minore una vita “da pacco postale”, destinato a spostarsi senza sosta, fino alla maggiore età, da un genitore all’altro. Per questo motivo, anche in caso di affidamento condiviso, il figlio sarà stabilmente collocato presso l’uno o l’altro dei genitori. La novità di rilievo, pertanto, risiede nel fatto che – nell’innovato sistema – non solo ciascuno dei genitori ha pari doveri e pari diritti nei confronti della prole, ma diventa legge il diritto del minore alla bigenitorialità. Espressione, questa, che va intesa come diritto dei figli a mantenere rapporti sani ed equilibrati con ciascun genitore.

Quel che si vuole garantire al minore, dunque, è la stabilità affettiva, la possibilità di continuare – anche a seguito della separazione o cessata convivenza dei genitori – a vivere, seppur non fisicamente, in un tessuto familiare improntato sulla presenza emozionale di entrambe le figure, materna e paterna.

Purtroppo, fa male constatarlo, la coppia che decide di lasciarsi, a volte dimentica che diventare “ex” non deve e non può significare trasformarsi in “genitori a metà”. Genitori si è al cento per cento, e tali si deve restare per sempre, a prescindere dai motivi che hanno provocato la fine del rapporto, o dai torti e dalle ragioni sbandierati da due persone che non si amano più.

Mio malgrado, però, i fascicoli che riposano nel mio archivio, o che fremono decisioni, posati sul tavolo di studio, di sovente, attestano il contrario. Rammarica riscontrare che, troppo spesso, le carte processuali parlano di minori “usati” come armi di ricatto, come bottini da difendere a tutti costi. Già. Perché il figlio, ahimè, anziché frutto dell’amore, diviene sinonimo di assegno, di casa familiare, di benefici. Certo, non sempre, ma quanto basta perché nasca l’esigenza di rispondere con fermezza a condotte “disattente”, poste in essere da genitori troppo concentrati sulle proprie esigenze, sul proprio desiderio di riscatto e di vendetta per la fine della loro storia, da disinteressarsi dei bisogni più reali del minore.

Di qui, la condanna per ogni forma di coinvolgimento dei figli nelle battaglie “dei grandi”, indice d’inadeguata capacità genitoriale e fonte di inevitabili negative ripercussioni sul percorso di crescita della prole, lesa nella serenità e nello sviluppo dell’autostima. Condizione, quella descritta, che si aggrava quando allo svilimento del ruolo del genitore non convivente con la prole, si affianchi una vera progettualità ideata dall’affidatario o collocatario, che elabori un piano ben preciso, teso ad escludere l’altro dal percorso di vita del figlio, denigrandolo, ridicolizzandolo, e vestendolo dei panni di “cattivo genitore”.

Genitore, quello alienato, dal quale è un bene fuggire, che è deleterio incontrare. Un clima, in cui il minore viene manipolato, istruito ad accusare malore o stanchezza in occasione degli incontri con il genitore non convivente, o, ciò che più duole, indotto a rifiutarne “volontariamente” le visite, alleandosi al “genitore buono”. In tali circostanze si parla di Pas, che la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ha riconosciuto come abuso (cfr. Linee guida in tema di abuso sui minori, redatte su indicazioni contenute nel Piano Sanitario Nazionale, nel Progetto Obiettivo Materno Infantile e nel Progetto Obiettivo Salute Mentale).

Linee, che racchiudono sia le definizioni di abuso dell’O.M.S., che le classificazioni delle varie forme abusanti, nel cui ambito la Sindrome di Alienazione Genitoriale compare come abuso psicologico, ovvero come “alienazione di una figura genitoriale da parte dell’altra”. Ad ogni modo, a prescindere dalla dibattuta questione sulla preferibile elisione del termine Sindrome in favore dell’espressione “Alienazione Parentale” – di probabile introduzione nel DSM V, tra i “Disturbi Relazionali” – resta il fatto che a tali atteggiamenti il sistema giuridico deve rispondere in maniera forte, stanti gli incontrovertibili rischi per la salute mentale del minore.

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Ed ecco che, ostacolare i rapporti del figlio con l’ex, può costare persino la decadenza dalla potestà genitoriale, intesa come il potere che la legge attribuisce ai genitori, tenuti (nel rispetto del dovere di mantenere, istruire ed educare la prole) ad esercitarlo esclusivamente nell’interesse dei figli. Per le spiegate ragioni, nell’ipotesi in cui il genitore venga meno, in maniera gravissima, a detti doveri, morali e patrimoniali, trascurando/abusando del minore, decadrà dalla potestà.

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Questo, in sostanza, è quanto accaduto a Cittadella. Ma cosa vuol dire esattamente “decadere”? Di certo, non vuol dire che il giudice decida di troncare ogni rapporto tra il minore e il genitore, che non riesca o non voglia attendere al suo ruolo. Se così fosse, non solo si finirebbe per traumatizzare ulteriormente il bimbo, ma si sottovaluterebbe la concreta possibilità che il decaduto possa comprendere gli errori commessi, lavorare su se stesso – magari con il sostengo di una mirata psicoterapia – e riconquistare il naturale potere di decidere per il figlio, o di vederlo liberamente.

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Decadenza, dunque, significherà “controllare” il comportamento del genitore, affiancarlo nei momenti di contatto con la prole, obbligarlo al rispetto di una serie di indicazioni che il Giudice avrà studiato a tutela del minore. È evidente, allora, come un tale provvedimento – emesso dal Tribunale, ma reclamabile in Appello – proprio perché teso al benessere del piccolo e, perché no, al recupero di un sano rapporto con il genitore decaduto, sarà revocabile e modificabile in ogni tempo.

Tuttavia, fino a “contrordine” dell’autorità, disposto a seguito di un’attenta revisione della situazione familiare, la sentenza che abbia dichiarato la decadenza dalla potestà deve essere rispettata ed eseguita. Questo va annotato e precisato, anche e soprattutto con riferimento alla vicenda padovana, caso in cui il mancato rispetto della decisione giudiziale si protraeva da ben tre anni! Ma cosa accade se i genitori, anziché collaborare con le istituzioni, preparare il figlio al distacco, o consegnarlo spontaneamente, si oppongano all’esecuzione del provvedimento del giudice? Accade che saranno i Servizi Sociali, e le Forze dell’Ordine in loro ausilio, a dover scendere in campo, e fare in modo che la sentenza sia attuata (cfr. Linee guida per i processi di sostegno e di allontanamento del minore).

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Il punto di vista, da Presidente Territoriale A.M.I. (Associazione Matrimonialisti Italiani). Nell’indicata veste, non posso che aderire alle puntuali e perspicaci perplessità sollevate dal Presidente Nazionale, stimato Avv. Gian Ettore Gassani. Concordo con il Collega, quando si chiede il perché, durante il prelievo, vi fosse la presenza dei genitori del minore e di alcuni parenti materni, e il perché gli stessi, a fronte delle resistenze opposte, non siano stati allontanati o arrestati data la flagranza dei reati in concorso di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.

 Il punto di vista, da Giornalista. La mia professione di Avvocato, convive da anni con quella di Giornalista iscritta nell’albo dei pubblicisti. Ebbene, ricordo che proprio in sede di esame, fui chiamata a parlare della Carta di Treviso, un documento appositamente scritto per garantire la privacy dei minorenni. Rinviando gli interessati alla lettura della Carta, basterà qui annotare, in via estremamente esemplificativa che, a mezzo di tale protocollo – firmato da Ordine dei giornalisti, Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono Azzurro – si è voluta tessere una rete di protezione dei diritti dell’infanzia, a tutela della sua riservatezza.

In effetti, se è vero che la Carta costituzionale sancisce il diritto di cronaca, è anche vero che nel fornire le notizie, i mezzi d’informazione sono tenuti ad attenersi al rispetto di “regole” ben precise. Si esige, ad esempio, che “nessun bambino dovrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegali nella sua privacy né ad illeciti attentati al suo onore e alla sua reputazione”, alla luce del “presupposto che la rappresentazione dei loro fatti di vita possa arrecare danno alla loro personalità. Questo rischio può non sussistere quando il servizio giornalistico dà positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare in cui si sta formando”.

È gravissimo, pertanto, che, ancora una volta, si assista ad una palese violazione di un apparato cristallino, che non tollera pericolose intromissioni nella sfera privata del minore, e che obbliga il giornalista all’osservanza di tutte le disposizioni penali, civili e amministrative che regolano l’attività di informazione e di cronaca giudiziaria in materia di minori, specie se coinvolti in procedimenti giudiziari. E se va garantito l’anonimato del minore coinvolto in fatti di cronaca – anche non aventi rilevanza penale, ma lesivi della sua personalità – va altresì “evitata la pubblicazione di tutti gli elementi che possano con facilità portare alla sua identificazione, quali le generalità dei genitori, l’indirizzo dell’abitazione o della residenza, la scuola, la parrocchia o il sodalizio frequentati, e qualsiasi altra indicazione o elemento: foto e filmati televisivi non schermati, messaggi e immagini on-line che possano contribuire alla sua individuazione”.

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Anonimato da garantirsi, si badi, anche nei casi di affidamento o adozione, o inerenti genitori separati o divorziati, così evitando – si legge nell’atto – “sensazionalismi”. Ebbene, non credo occorrano altre parole per rendersi conto di quanto sia sconcertante la vicenda di Padova, ove si pensi alla diffusione mediatica del video. E allora mi domando. Prima che l’esecuzione in sé (contestabile o meno, anche alla luce degli esposti rilievi) di un provvedimento emesso dalla magistratura minorile – in linea con il benessere psicofisico del minore – non è forse l’aver filmato e messo in onda il “prelievo” a ledere, più di tutto, la serenità del bambino? Per quanto tempo si parlerà ancora del piccolo Leonardo? Quanti salottini televisivi riproporranno quelle immagini, peraltro filmate da parenti?

Sappiamo bene che passeranno mesi, prima che possa finalmente calare il sipario su tanto squallore. Senza contare, che la sete di spiare la vita degli altri, di accendere l’occhio del “grande fratello” sui drammi del “vicino di casa”, purtroppo, non farà che alimentare sterili discussioni su fatti di cui, a ben vedere, nulla o poco sappiamo. Ma se una familiare arriva al punto di “portare in TV” lo strazio di un minore, siamo giunti al capolinea del buon senso nel momento in cui il sistema mediatico ne divulga il video senza remora.

Il punto di vista, da Socio Fondatore della Camera Minorile distrettuale. A chiusura di questo modesto intervento, richiamo la posizione dell’Unione Nazionale Camere Minorili, con il cui Presidente concordo quando, riferendosi alla vicenda di Padova, parla di “grave violazione a livello giornalistico della normativa a tutela del diritto alla privacy dei minori”. È vero. Come avvocato, ma soprattutto come giornalista, è doloroso ammetterlo, ma è così. Le immagini, che tutti conosciamo, sono state divulgate e arricchite con dati che rendono estremamente agevole risalire all’identità del bambino. Nel comunicato, che si invita a visionare, si pone, inoltre, l’accento sull’elaborata proposta di modifica del Codice Deontologico Forense, che esorta gli avvocati, nel relazionarsi con la stampa in ordine a procedimenti familiari e minorili, ad adottare estrema cautela, anche sensibilizzando gli assistiti a tenere indenne il minore da pregiudizievoli esposizioni mediatiche.

 

 

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Selene Pascasi
Selene Pascasi

Avvocato, Giornalista Pubblicista e Scrittrice

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