Alcuni genitori di bambini con ADHD pensano di introdurre i figli allo sport professionistico per fornire loro spazi in cui l’iperattività sia “premiata”.
I bambini e gli adolescenti con ADHD presentano come sintomo prevalente l’iperattività. Spesso, questo tratto temperamentale porta questi ragazzi a coinvolgersi in diverse attività fisiche, tra cui lo sport. Di fronte a tale difficoltà, alcuni genitori sembrano intravvedere la possibilità di introdurre i propri figli allo sport professionistico al fine di fornire loro uno spazio in cui l’iperattività sia “premiata” e valorizzata.
È, quindi, importante comprendere quali sia l’indicazione più adeguata da fornire a questi genitori, con l’obiettivo di comprendere l’utilità di far perseguire ai propri figli una carriera professionistica nell’ambito dello sport.
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Negli ambulatori dei medici e degli psicologi arrivano molti genitori preoccupati da una possibile diagnosi di ADHD per i loro figli. Il funzionamento delle persone con una diagnosi di ADHD è problematico causa della presenza di alcune funzioni cognitive disturbate (Conners, 2000). Tuttavia, ci si può chiedere se tale funzionamento così peculiare e poco comune non possa essere utilizzato al fine della auto-realizzazione nel campo dello sport.
É stato condotto uno studio per verificare l’associazione tra iperattività e attività sportiva. Sono stati confrontati i dati ottenuti dai questionari per valutar l’ ADHD e il questionario EAS-D (Buss, Plomin, 1984), una misura del temperamento, per trovare una correlazione tra questi tratti.
Dai risultati dello studio, è possibile concludere che negli adolescenti con ADHD, non vi sia alcun collegamento tra iperattività e prestazioni elevate nell’ambito dello sport. Poco più del 30% degli intervistati, infatti, presenta un livello di frequenza elevato di attività fisica e la correlazione tra iperattività e quantità attività fisica non sembra statisticamente significativa.
I risultati hanno mostrato che l’iperattività non sembra essere correlata a un livello superiore di prestazioni nell’attività fisica e nello sport.
In conclusione, fare sport per questi bambini è auspicabile, perché permette loro di portare avanti comportamenti a sostegno dello sviluppo sano (Biederman, Spencer, Wilens, Faraone, 2002), e che contribuiscano ad alleviare la tensione, sintomo molto frequente e disfunzionale per i bambini e gli adolescenti con ADHD.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso
Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi” lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate.
Quando un paziente si suicida è sempre una brutta cosa, forse non per lui che l’ha scelto, ritenendolo dunque l’opzione migliore, ma per il curante certamente.
In primo luogo non è una gran bella pubblicità, in secondo luogo colpisce l’autostima professionale e, terzo, solleva quel senso di colpa che si aggira sempre nei paraggi di un morto, costituito, in parte, dalla colpa del sopravvissuto ed in parte da tutte quelle azioni ed omissioni che avrebbero potuto indirizzare diversamente gli eventi.
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Siccome Carlo, da collega quale era, sapeva benissimo l’effetto che avrebbe fatto il suo suicidio nella comunità pettegola degli psicoterapeuti romani, consideravo il suo gesto come un vero e proprio attacco personale. Nonostante mi renda conto che uno che abbia deciso di uccidersi non debba essere massimamente preoccupato dell’effetto del suo gesto su di me, tuttavia non mi meravigliò: si era dimostrato come al solito un grandissimo stronzo.
Ero incerto se andare o meno alla camera ardente, non ne avevo alcuna voglia, mi vedevo subissato dalle domande maligne dei colleghi, consolatorie e insinuanti ad un tempo, come starai male a vedere la tua sovrastimata competenza sdraiata nella cassa.
Ma non andarci sarebbe stato ingiustificabile e, in qualche modo, un’ esplicita ammissione di colpa. Perciò, indossai la faccia di circostanza più triste che avevo e andai, arrivando però molto tardi per cercare di restare fuori dal capannello dei più intimi, che si inumidivano di lacrime e abbracci.
Ho sempre trovato disgustose le secrezioni dolorose e non so mai che dire e dove mettere le mani. Carlo se ne stava tutto beato al centro dell’attenzione, con quella sua faccia da bastardo che la condizione di morto accentuava. Un sorriso sottile e ironico che mostrava appena i denti solcava la faccia più pallida del solito e i capelli lunghi dietro e radi davanti erano di un grigiastro che non aveva avuto il tempo di diventare compiutamente bianco. Era una via di mezzo incerta e indefinita, metafora della sua esistenza.
Aveva appena compiuto sessant’anni, che portava da schifo, ed erano circa trent’anni che lo conoscevo. Quando lo incontrai, il primo giorno della scuola di specializzazione di cui ero docente, era vestito pressappoco come nella camera ardente: un abito di velluto blu a coste sottili. Evidentemente, riteneva quello un momento importante come quello odierno anche se, a pensarci bene, l’abbigliamento attuale e definitivo non doveva averlo scelto lui ma la raffinata Stefania al suo debutto nel ruolo vedovile. Tra quella prima volta e quest’ultima non lo avevo più visto vestito bene: i jeans e un maglionaccio d’inverno o una camiciona d’estate erano la sua uniforme, con grande disappunto di Stefania che ci teneva alle apparenze e al giudizio sociale.
Durante il corso quadriennale si dimostrò brillante, ma già allora percepivo una sofferenza sotterranea e indefinita. Persino a me riesce difficile descriverlo, l’indefinitezza era forse la caratteristica più distintiva.
Carlo non si sentiva. Era sordo alle sue emozioni e persino alle sensazioni fisiche.Caldo, freddo, fame, sete e stanchezza non li percepiva in diretta ma doveva inferirli da indicatori esterni, ci arrivava con il ragionamento. In poche parole, direi che non viveva in un mondo reale ma fittizio, costruito per deduzione logica. II suo era un universo di pensiero disincarnato.
Era molto bravo e lo stimavo, per cui fui contento quando al termine del corso mi chiese di essere il suo supervisore. Ci volle poco a rendermi conto che la supervisione celava una richiesta di terapia che non riusciva ancora a formulare; inconsapevolmente, in ognuno dei pazienti che mi portava con passione, c’era un pezzetto di lui. Di sé non avrebbe saputo parlare. Per vergogna. Per mancanza del diritto di esserci. O peggio per l’assenza del sé.
Anche a me, che l’ho conosciuto così a lungo e profondamente come docente prima, supervisore poi e infine terapeuta, la sua essenza sfugge e il dubbio che ho più volte avuto era non che mi sfuggisse, ma semplicemente non ci fosse. Non saprei dire se non ci fosse mai stata o fosse andata perduta ma certo, guardando dentro di lui, sembrava di sporgersi su un pozzo profondissimo e vuoto.
Era un dubbio che negli ultimi tempi tormentava anche lui.
Mi raccontò un sogno in cui in classe, durante l’appello, giunto al suo nome la maestra si guardava smarrita intorno e, nonostante incontrasse il suo sguardo, decretava inesorabilmente la sua assenza.
Pensai addirittura che lo avesse inventato per esplicitarmi il suo vissuto di disidentità, ne sarebbe stato capacissimo, la menzogna era fedele compagna e finiva per confondere lui stesso. Ciò mi metteva in confusione, perché non sapevo in quale categoria diagnostica collocarlo. Mi sembrava piuttosto un puzzle mal ricomposto, con ampi buchi di forma e dimensioni continuamente mutevoli. Forse molte tessere erano per sempre andate perdute ed ogni sforzo sarebbe stato vano. Forse l’aspetto più autentico di lui era proprio la sua falsità.
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Una falsità non dovuta ad una regia occulta che decide i vari camuffamenti a seconda delle circostanze per raggiungere i propri scopi raggirando gli altri, piuttosto l’inverso: mancando una qualsiasi intenzionalità propria, aderiva automaticamente e immediatamente a quella degli altri di passaggio. In tutta la sua vita non era mai riuscito a rispondere alla domanda “ma tu cosa vuoi?”
Razionalmente faceva risalire tutto ciò ad un deficit di accudimento a causa di una madre prima malata e poi precocemente scomparsa; ciò lo aveva convinto di non essere degno e meritevole di cure ed attenzione e di doversi dare da fare continuamente per essere utile agli altri e dunque in qualche modo considerato.
Se questa poteva essere pura speculazione, una storia che raccontava e si raccontava senza peraltro sentirla vera, quello che certamente era reale era il dolore della separazione. L’allontanamento dalle persone care che negli anni erano cambiate lo attanagliava dallo stomaco in giù, paralizzandolo. Questa era l’unica emozione che gli sembrava autentica e quel vissuto, profondamente suo, era intollerabile da bambino come ancora ora, da vecchio.
Il Carlo orfanello aveva sviluppato alcune efficaci strategie per non essere abbandonato e, siccome funzionavano, si erano progressivamente rinforzate e sofisticate. In primo luogo esibiva le sue debolezze, disinnescando i comportamenti agonistici degli altri maschi e suscitando l’accudimento delle femmine. Inoltre aveva imparato a mettere l’interlocutore a suo agio, facendolo sentire una persona eccezionale e unica, re o regina che fosse.
Coglieva immediatamente i bisogni dell’altro che avevano la precedenza assoluta. Non era affatto per generosità disinteressata, ma solo per rendersi indispensabile e garantirsene la vicinanza. Paradossalmente, questo bisogno sia della protezione che del riconoscimento altrui, lo portavano all’isolamento volontario poichè la presenza dell’altro attivava un faticosissimo, incessante lavoro di anticipazione dei desideri per soddisfarli immediatamente.
Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi” lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate.
Questo, che potremmo chiamare “relativismo dell’io”, lo aiutava nella sua professione e comportava un buon successo sociale. Era infatti facilmente portato a mettersi nei panni dell’altro, a capirne il funzionamento dall’interno. In effetti i pazienti si sentivano con lui immediatamente compresi, oltreché sedotti dal suo farli sentire meravigliosamente unici.
I guai, anche professionali, iniziavano quando si trattava di produrre nel paziente un cambiamento sollecitando in lui una revisione critica dei propri punti di vista. Carlo era troppo immerso in loro per vederli dall’esterno. Sopra ogni altra cosa Carlo voleva apparire buono, onesto, generoso, disinteressato e profondamente altruista ma, contemporaneamente, voleva essere vincente e superiore a tutti.
Il suo ideale era quello di primeggiare senza ammettere di voler competere; ricco, ma schierato a difesa dei poveri.
Un giorno in supervisione mi portò il caso di un grave narcisista e mi disse che era molto in sintonia con il vissuto del paziente, con la differenza che lui voleva raggiungere gli stessi obiettivi apparendo, però, di semplicità e umiltà francescana. L’essere preso pervasivamente da se stesso lo aveva reso, con il passare degli anni, incredibilmente superficiale. Tanto più all’esterno appariva disponibile e attento agli altri, quanto più si era rinchiuso in un gretto meschino egoismo che includeva Stefania e i due figli.
In terapia, quando finalmente la richiese esplicitamente, riportava continuamente la sensazione del bluff. Aveva l’impressione che, se solo gli altri si fossero presi la briga di scavare oltre le imbellettate apparenze, avrebbero scoperto il nulla. Questo era un altro buon motivo per tenere tutti a debita distanza, quella distanza da dove si potevano ammirare i lustrini ma non abbracciare l’inconsistenza. Carlo diceva che il suo senso di indegnità derivava dalla considerazione che la sua esistenza non fosse stata sufficiente a trattenere in vita la madre. Lo diceva spesso, ma non credo che lo credesse veramente e, certamente, che non lo sentisse, ammesso che abbia mai sentito qualcosa di autentico eccetto la desertificazione dell’abbandono. Chissà se la prova anche ora, durante il giro dell’operaio con il saldatore sullo zinco.
Io credo, invece, che quella esperienza gli avesse insegnato la capacità di dissociare di fronte alle situazioni dolorose: appena intravedeva all’orizzonte la possibilità di un dolore fisico o di una perdita smetteva di sentire, congelava le afferenze, se ne andava.
Si ritrovava seduto in disparte ad osservare quanto accadeva come se si trattasse di un film che, da spettatore, commentava in genere con sarcasmo ed ironia. Il sorriso amaro, disincantato e beffardo era la sua arma migliore per negare serietà ed importanza ad ogni cosa. Sono certo che lo utilizzerebbe anche oggi, in questa camera ardente che si presta a mille battute che mi vengono irriverentemente in mente al suo posto.
La dissociazione però gli aveva preso la mano e creato una sorta di air bag emotivo tra lui e la realtà. Non solo quelle brutte, ma anche le emozioni belle non lo raggiungevano, il volume non lo si può abbassare selettivamente, tutte le note diventano in sordina. Ho sempre pensato, e lui era d’accordo, che questo limbo emotivo in cui si era prudenzialmente confinato fosse il motivo della sua mancanza di memoria.
Carlo non ricordava eventi che gli amici dicevano essere stati importantissimi e pietre miliari della loro e della sua esistenza. Era per lui motivo di grande cruccio, ma non riusciva che a ricostruirli assemblando le narrazioni degli altri, copiando le loro emozioni. Lui in prima persona non c’era. A mio avviso perché non c’era stato neppure mentre accadevano, lui era sempre preso da dettagli insignificanti, fuga nei particolari che diceva avvenire quando l’insieme era intollerabile.
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Mi piace pensare che, negli ultimi istanti, mentre si addormentava per l’ultima definitiva volta, in quel tempo intercorso prima che le cellule cerebrali soffocassero, sia effettivamente stato presente a se stesso. Non importa se abbia provato disperazione o terrore, purchè abbia provato effettivamente qualcosa, ma questo è un mio auspicio, che non è detto sia stato suo. Anzi, ho l’impressione che la mancanza di lucidità, lo stordimento e la confusione fossero sempre stati attivamente ricercati ad esempio con l’alcool.
Tutti gli riconoscevano una grande capacità ironica, grande dote che permette di vivere meglio. Ma anche l’ironia era una figlia, seppur buona, della dissociazione. Carlo si vedeva dall’esterno quale che fosse il ruolo che impersonava. Seduto in tribuna poteva commentare sarcasticamente il suo personaggio, in cui non si identificava mai del tutto. Si comportava come si comportano gli psicoterapeuti ma non lo era, si comportava come fanno i mariti o i padri o gli amici ma non lo era fino in fondo.
Forse l’esperienza più integrata che riusciva a vivere era l’innamoramento e la sua perdita, gli era capitato spesso nonostante se ne tenesse prudenzialmente lontano. Non aveva pace finchè non si sentiva ricambiato, trovando una conferma del proprio valore, poi l’altra perdeva il manto dell’idealizzazione e i pensieri ossessiviprogressivamente scomparivano.
Non era interessato alle avventure sessuali, dichiaratamente per fedeltà e per l’interesse esclusivo per i rapporti profondi, in verità per un vissuto radicato di inadeguatezza relativo in generale al proprio corpo e specificamente alla sessualità. Le donne che lo attiravano dovevano avere caratteristiche materne di accoglienza e accettazione incondizionata, meglio se mostravano debolezze, le donne bellissime non le riteneva alla sua portata e non lo interessavano.
Aveva la certezza di fare brutta figura e, dunque, poteva cimentarsi solo in situazioni in cui l’accettazione era scontata. Sin da giovane , l’età in cui gli altri facevano le bravate, lui si era identificato con Don Abbondio: del prevosto manzoniano condivideva la scarsa propensione al rischio e la facilità con cui riporre gli ideali e la dignità pur di evitare ogni pericolo. Per questo apparteneva alla schiera dei pacifisti nella sottocategoria dei paurosi. Credo che proprio questa paura gli abbia fatto procrastinare per tanto tempo il suicidio.
Non aveva mai fatto a botte, neppure da ragazzino, era maestro nell’evitare i conflitti anche se ciò comportava il cedere su tutti i punti, la sua codardia ne aveva fatto un uomo di pace e di mediazione, ma lui sapeva l’inganno e si disprezzava, nonostante gli apprezzamenti degli altri per il suo equilibrio che sapeva essere equilibrismo.
… la storia di Carlo continua la prossima settimana!
l’integrazione é utile solo se non diventa un cocktail malcomposto di tecniche che non sottendono a una teoria chiara. Come dire: ció che cura é trasmettere al paziente un modello chiaro della mente entro il quale muoversi.
Evento chiave del congresso di Terapia Metacognitiva é la tavola rotonda odierna in cui si confrontano sulle stesse domande esponenti di approcci diversi. Steven Hollon rappresenta l’approccio comportamentale della Behavioural Activation (BA), Robert Lehay per la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), Robert Zettle per l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e naturalmente il padrone di casa Adrian Wells per la Terapia Metacognitiva (MCT).
Alla direzione del confronto Peter Fisher, che ha inaugurato l’intervendo evidenziandone lo scopo: “Sappiamo che ci sono delle somiglianze, ma ora quí cercheremo di chiarire le caratteristiche distintive di ciascun approccio”
Fisher ha poi presentato le tre domande chiave:
1. Quale é il meccanismo che sottende il trattamento?,
2. Come viene spiegato l’obiettivo della terapia al paziente?
3. Quali sono le principali strategie terapeutiche?
Behavioural Activation
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Le conseguenze del comportamento controllano il comportamento, questa é la chiave e si fonda sul meccanismo del condizionamento operante. Anche processi di pensiero come la ruminazione possono essere letti sulla base delle conseguenze di sollievo che possono produrre. Mostrare queste conseguenze al paziente, insegnare a monitorare quando si attiva e cosa produce nel breve termine di rinforzante e come ostacola nel medio-lungo termine il raggiungimento dei propri obiettivi. Questa é la base per riconoscere gli antecedenti e preparare risposte comportamentali diverse dalla ruminazione.
Terapia Cognitivo-Comportamentale
I pensieri e le convinzioni generano emozioni, talvolta sono distorti o disfunzionali, in quei casi le emozioni divengono troppo intense e dolorose. Emozioni dolorose a loro volta continuano ad alimentare pensieri negativi. Questo é il circuito psicopatologico chiave. L’obiettivo é favorire la distinzione tra i pensieri e la realtá sia attraverso esperienze immaginative, che attraverso la messa in discussione delle convinzioni, sia attraverso esperimenti comportamentali. In questo modo il terapeuta tende ad aumentare la capacitá nel paziente di osservare e distinguere i pensieri dalle emozioni per poi discutere convinzioni disfunzionali sostituendole con nuove prospettive.
L’elemento chiave é l’inflessibilitá psicologica che si manifesta nella costante lotta per controllare sofferenza emotiva o pensieri negativi e che ostacola comportamenti guidati dai valori personali. Il terapeuta guida il paziente a riconoscere e seguire condotte in linea con i propri valori, aprendosi anche all’esperienze dolorose che la vita offre senza cercare di controllarle eccessivamente. Tecniche di mindfulness e accettazione sono applicate per evitare l’eccessivo controllo. L’individuazione dei valori e delle potenziali barriere sono la base per scegliere un impegno quotidiano verso la loro realizzazione.
L’eccessivo e persistente uso del ragionamento (rimuginio, ruminazione) e la percezione di non controllarlo rappresentano il motore della psicopatologia. L’obiettivo é regolare il flusso di pensieri riducendo l’attivitá concettuale o i tentativi di modificare e trasformare ció che abbiamo in testa. Non sfida schemi, non insegna strategie di coping, ma forse é un particolare modo di imparare a non fare nulla. Il paziente impara a raggiungere un controllo superiore del proprio flusso di pensieri, tale da ridurne l’intensitá e liberarsi da qualsiasi risposta ai pensieri negativi che la mente produce. Esercizi di detached mindfulness, rifocalizzazione attentiva, discussione delle metacognizioni mirano a fare nuove esperienze dei propri pensieri.
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Mancano scontri accesi e battaglie, ma non qualche provocazione:
“Qualcuno dice che rubiamo le idee altrui” dice Zettle “ma non siamo imbarazzati, gli altri ci danno idee che noi usiamo nella nostra cornice teorica”.
Qualcuno dal pubblico chiede: “ma parlare di valori non puó indurre ruminazione in risposta a pensieri negativi?” Prende la parola Adrian Wells: “Non lo so, io non parlo di valori”.
Ma sull’integrazione c’é maggior accordo: bene mischiare se e solo se riusciamo a chiarire il razionale entro una logica condivisa con il paziente. L’ecletticismo é un nemico pericoloso e potenzialmente dannoso per la terapia.
Insomma l’integrazione é utile solo se non diventa un cocktail malcomposto di tecniche che non sottendono a una teoria chiara. Come dire: ció che cura é trasmettere al paziente un modello chiaro della mente.
Nuove Frontiere nella Cura del Trauma – Report dal Congresso di Venezia
Report dal Congresso
Nuove frontiere nella cura del trauma
Approcci Integrativi e Centrati sul Corpo per la cura dei
Disturbi Traumatici Complessi
20-22 aprile 2013, Venezia
Janina Fisher, PhD
La Memoria del Corpo: sentire o ricordare di aver sentito?
Noi esseri umani non sopravviviamo al trauma grazie ad un cosciente e ragionato processo decisionale, ma grazie a reazioni istintive e innate che si attivano di fronte ad una minaccia. I nostri cinque sensi sono in grado di intercettare velocemente nell’ambiente i segnali di un imminente pericolo, attraverso l’attivazione del sistema biologico di risposta allo stress.
L’adrenalina accelera battito cardiaco e respirazione facendo affluire l’ossigeno necessario nei muscoli, mentre la parte del cervello che in genere usiamo per prendere decisioni più complesse (corteccia prefrontale) viene letteralmente “spenta” per accorciare i nostri tempi di reazione. Entriamo in uno stato di emergenza in cui la parte più istintiva del nostro cervello (sistema limbico) funziona benissimo, ma in totale assenza di coscienza!
Il prezzo che paghiamo per questo “annullamento” della coscienza è che il ricordo di quella esperienza e di come l’abbiamo affrontata può essere molto diverso da quello che è effettivamente accaduto e possiamo rimanere scossi e agitati, increduli o ancora molto spaventati anche una volta passata l’emergenza.
Tuttavia se riceviamo un adeguato supporto o viviamo in un contesto sicuro e protettivo, riusciremo più o meno velocemente a lasciarci quell’esperienza alle spalle, a “sentirla” come un pericolo ‘scampato’. Se invece ci troviamo a vivere un’esperienza traumatica quando siamo molto piccoli e vulnerabili e questa è seguita da un inadeguato supporto affettivo (disregolazione affettiva), in un contesto che percepiamo a sua volta come non protettivo (disorganizzazione dell’attaccamento), allora non riusciremo mai a “sentire” il pericolo come realmente scampato.
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Il nostro corpo imparerà così a restare in allerta, carico di risposte emotive intense (memoria procedurale), che continuano a raccontarci senza parole quello che è successo, ogni volta che qualcosa intorno a noi lo riattiva.
Quale il problema principale? Il corpo ricorda, la mente no.
Secondo il modello di Van der Hart (1999), le normali reazioni biologiche al pericolo – attacco, fuga, resa, freezing, attaccamento – possono restare attive a lungo dopo l’evento traumatico e talora alternarsi in base ai cambiamenti del contesto e delle risorse che esso offre.
Questa alternanza rende tuttavia difficile riconoscere e “far convivere” nello stesso momento pensieri, emozioni e comportamenti contrastanti (dis-integrazione) e le risposte difensive rimaste attive diventano talora vere e proprie caratteristiche di personalità tra loro non integrate (dissociazione strutturale): una parte molto rabbiosa e aggressiva (attacco), una parte spaventata (fuga), una parte molto accondiscendente (resa), una parte bloccata (freezing), una parte vulnerabile (attaccamento) e infine una parte che cerca di andare avanti nella vita quotidiana mostrando capacità di adattamento sufficientemente buone, ed è quella che di solito arriva in terapia.
Nel modello di van der Hart quest’ultima viene chiamata Apparently Normal Personality (ANP), mentre le altre sono tutte Emotional Personality (EP), espressione delle emozioni che il sistema difensivo attiva continuamente.
Secondo questo modello dunque i sintomi che i pazienti portano in consultazione – attacchi di panico, depressione, irritabilità, vuoto, insonnia, dolori cronici – sono soprattutto ricordi “conservati e scritti” nel corpo, che generano a loro volta i pensieri, le emozioni e le interpretazioni che mantengono e nutrono la sofferenza psicologica, manifestata da ogni EP.
Questa la sintesi estrema della complessa e interessantissima cornice teorica che ha guidato tutte le giornate del convegno Nuove frontiere nella cura del trauma, svoltosi a Venezia lo scorso weekend, secondo appuntamento di un’avventura iniziata proprio lì l’anno scorso con BesselVan der Kolk.
Questo filone di ricerche, di teorie e di ricchissimi protocolli clinici, sta crescendo negli ultimi anni con timidezza ma inesorabile costanza, a fronte dei sempre migliori risultati di efficacia e di una sempre maggiore richiesta da parte dei clinici di tecniche orientate al corpo (Body therapy).
Apre i lavori una meravigliosa Janina Fisher, autorevolissima esponente mondiale e trainer della Psicoterapia Sensomotoria, che introduce con rigore e semplicità il modello neurobiologico alla base del suo approccio, e ci ricorda il modello di van der Hart, che resterà la mappa su cui lavorare nei giorni successivi.
Seguono Gianni Liotti, Benedetto Farina e Giovanni Tagliavini che descrivono le numerose ricerche provenienti dalle neuroscienze e dalla fisiologia a supporto del modello della dissociazione strutturale, dando una solida base scientifica alla pioggia di considerazioni cliniche.
La teoria Polivagale di Porges vince su tutte, per il dettaglio con cui spiega e motiva le nostre reazioni di fronte al pericolo.
Infine chiudono Annabel Gonzalez e Dolores Mosquera sul protocollo EMDR in pazienti dissociativi, portando incredibili esempi di trattamento e offrendo moltissimi spunti di lavoro e idee per affrontare una delle più complicate situazioni cliniche, il disturbo dissociativo dell’identità (DDI).
Integrazione è l’idea forte che guida tutte le giornate.
Integrazione come obiettivo terapeutico, integrazione come modello di funzionamento della mente, integrazione come ruolo del terapeuta e integrazione rispetto ai molti possibili approcci psicoterapici.
La sensazione è di essere di fronte ad un modello forte e di cui difficilmente si potrà fare a meno, una modello che riesce a mettere d’accordo anime molto diverse e a spiegare, con una solida e fondamentale “plausibilità neurobiologica”, la maggior parte della psicopatologia attualmente conosciuta.
A breve interviste e descrizioni dettagliate dei principali temi trattati nel convegno!
RISORSE:
Il Convegno: “Nuove frontiere nella cura del trauma – Approcci Integrativi e Centrati sul Corpo per la cura dei Disturbi Traumatici Complessi” è stato organizzato dall’Associazione Culturale Area Trauma. Venezia 20-22 Aprile 2013.
Meditazione Tonglen Parte la Sperimentazione – Intervista al Dott. Pagliaro
Tonglen: Tra pochi giorni partirà la sperimentazione della pratica meditativa del Tong Len per la cura delle patologie oncologiche. Il Tonglen è un antichissima pratica meditativa tipica della meditazione tibetana ed ha un grande campo di applicazione in quanto non tratta solo le forme di disagio e di disturbo psicologico, ma è una vera e propria pratica di trasformazione ed evoluzione personale.
Il Tonglen è un antichissima pratica meditativa tipica della meditazione tibetana ed ha un grande campo di applicazione in quanto non tratta solo le forme di disagio e di disturbo psicologico, ma è una vera e propria pratica di trasformazione ed evoluzione personale.
Tra pochi giorni partirà la sperimentazione della pratica meditativa del Tonglen per la cura delle patologie oncologiche.
Abbiamo la possibilità di confrontarci su alcuni aspetti di questa ricerca con il Dott. Gioacchino Pagliaro, direttore della Psicologia Clinica dell’Ospedale Bellaria di Bologna
Ci può spiegare i fondamenti della pratica meditativa del Tonglen?
Il Tonglen è un antichissima pratica meditativa tipica della meditazione tibetana ed ha un grande campo di applicazione in quanto non tratta solo le forme di disagio e di disturbo psicologico, ma è una vera e propria pratica di trasformazione ed evoluzione personale.
Articolo Consigliato: La meditazione Tong Len e il paziente oncologico
È molto utilizzata nella medicina tibetana che la ritiene una meditazione molto potente ai fini della guarigione. Caratteristica principale della medicina tibetana è quella di essere la medicina più spirituale rispetto a tutte le altre medicine orientali proprio perchè si basa sui principi del buddismo e quindi sull’azione terapeutica che la mente svolge, ed è dunque, facile comprendere il perché la meditazione sia ritenuta parte integrante del processo di cura.
Questa pratica consiste letteralmente nel prendere e nel dare, che vuol dire fare qualcosa per liberare gli altri dalla loro sofferenza applicando, così, il principio buddista della compassione assumendo la sofferenza degli altri su di sé per purificarla e trasformarla in energia benefica riequilibratrice che va direzionata verso le persone malate.
È la prima volta che questo tipo di meditazione viene utilizzata in un protocollo sperimentale del genere?
Nonostante la pratica del Tonglen sia utilizzata da alcuni anni negli Stati Uniti e nel nord Europa e da alcuni psicologi e medici in Italia non è stato fatto a tutt’oggi nessuno studio che ne verifichi l’efficacia. In questo scenario l’Unita Operativa di Psicologia Ospedaliera dell’ospedale Bellaria di Bologna sarà la prima al mondo nel verificarne l’efficacia.
Ci può spiegare brevemente quali sono gli obiettivi e i risultati aspettati della ricerca che sta per iniziare?
Gli obiettivi principali della ricerca sono quelli di andare a verificare l’efficacia di questa pratica per un suo eventuale utilizzo nella pratica clinica quotidiana andando a monitorare la reazione e l’eventuale modifica dei linfociti, dei neutrofili, del cortisolo e dei valori pressori, e dal punto di vista psicologico di ansia, stress e depressione.
Non ci sono veri e propri risultati attesi ma per ora ci limiteremo a vedere che cosa emergerà dell’analisi degli esami e delle scale psicologiche utilizzate. Ad una distanza di tre e cinque anni dalla conclusione della ricerca si andrà, poi, a vedere nel registro dei tumori che cosa è successo nella vita di questi pazienti.
Come è avvenuto il reclutamento del campione e quali test vengono fatti ai pazienti che faranno parte del gruppo sperimentale e del gruppo di controllo?
La ricerca prevede un campione di 80 pazienti che sono stati reclutati dall’Unità Operativa di Oncologia dell’Ospedale Bellaria diretta dalla dott.ssa Brandes. Il campione dei pazienti deve avere queste caratteristiche: non presentare disturbi psichiatrici, non essere seguito dalla Psicologia Ospedaliera, non essere nella fase grave di malattia. Di questi 80 pazienti in maniera randomizzata ne saranno scelti 40, che il gruppo di meditatori appositamente formato, non conoscerà e non incontrerà mai, gli altri andranno a formare il gruppo di controllo.
I test utilizzati saranno il ProfileOfMoodState (Douglas M. McNair, Maurice Lorr e Leo F. Droppleman) le scale di Zung per ansia e depressione e un questionario sulla qualità della vita.
Quali sono secondo lei i risvolti più interessanti di questa ricerca dal punto di vista della presa in carico del paziente e del percorso di cura?
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Il risvolto più interessante di questa ricerca riguarda il fatto che questa pratica di meditazione è molto diversa da quella che l’Unità Operativa di Psicologia Ospedaliera utilizza abitualmente. Le altre metodiche utilizzate, infatti, funzionano come “addestramento” del paziente rispetto ad una determinata pratica facendo cioè in modo che il pazienti possa impararla e autonomamente utilizzarla. Mentre la pratica del Tonglen è una pratica che si potrebbe quasi definire di meditazione a distanza. Un gruppo di 15 meditatori, in questo caso, medita a favore del gruppo dei pazienti. Questa meditazione dovrebbe produrre un miglioramento della vita dei pazienti, ma anche e contemporaneamente un beneficio importante per chi la sta praticando.
Ogni meditatore, che prenderà parte alla ricerca, avrà un diario in cui indicherà come svolgerà la meditazione, dove potrà annotare cosa per lui è migliorato nel periodo di pratica.
L’importanza di questa ricerca sta anche nel raggiungere un certo rigore dal punto di vista metodologico ricerca che per altro ha avuto l’autorizzazione del Comitato Etico e l’approvazione della direzione sanitaria e del Dipartimento Onclogico dell’Ausl di Bologna.
Il manuale di Caporale e Roberti (2013) è composto da 245 pagine volte a delucidare una domanda principale, come evidenziato nella prefazione del Prof. Tonino Cantelmi: “quali test per quale diagnosi”? Si propone, dunque, l’introduzione di una metodologia clinica di somministrazione ed interpretazione di una batteria di test. Con sinergia pratica gli autori puntano ad identificare le diverse aree di funzionamento della personalità. Inoltre, utilizzando il materiale testistico si mira ad un processo di cambiamento terapeutico orientato a migliorare la salute mentale dell’individuo.
Il testo si offre come una agile guida alla valutazione psicodiagnostica clinica per psicologi e psichiatri. Dopo una concisa prefazione e un’introduzione ai concetti che verranno esposti, nel primo capitolo si definiscono le nuove linee guida di somministrazione ed interpretazione con una particolare attenzione al principio di integrazione metodica tra i diversi strumenti clinici fruibili. A riguardo, viene presentata una batteria testologica” ideale” di cui avvalersi nei poliedrici campi di applicazione professionale.
Nel secondo capitolo viene approfondito il test di Rorschach, dai fondamenti alle fasi di attuazione, l’analisi del funzionamento psichico e la valutazione del livello di organizzazione della personalità; la siglatura proposta è il metodo di Rizzo, oggi ereditato dalla Scuola Romana Rorschach.
Il terzo capitolo, invece, rivede il Thematic Apperception Test (TAT) attraverso una nuova modalità di scoring ed interpretazione dei risultati: quella del gruppo di Drew Westen. Egli ha introdotto una analisi quantitativa e qualitativa chiamata SCORS (Social Cognition and Object Relations Scales) che fonda le sue radici sull’integrazione tra la social cognition e la psicoanalisi contemporanea. Viene qui spiegato lo strumento e le modalità di interpretazione con alcuni esempi clinici che aiutano a capire meglio i criteri esposti.
Monografia: Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea.
Il quarto capitolo esamina le prove grafiche: il test della figura umana, della famiglia e dell’albero. Queste sono considerate validi ausili per la valutazione degli aspetti della personalità. Ognuno di questi viene esplicitato nella sua somministrazione, inchiesta ed interpretazione.
Nel quinto capitolo è trattato il Minnesota Multiphasic Personality Inventory( MMPI-II) proposto come un inventario di personalità di ampio spettro che traccia profili la cui valenza si esprime peculiarmente dal punto di vista psicopatologico. Gli autori considerano anche gli elementi di continuità con l’MMPI-II Restructured Form; la nuova versione pubblicata con l’adattamento italiano nel 2012.
Il sesto capitolo, invece, descrive il questionario clinico multiassiale di Millon (MCMI) il self- report più utilizzato nell’individuare i disturbi di personalità. Considerato come uno tra i migliori reattivi per fare diagnosi sull’Asse II del DSM-IV è trattato nella sua struttura, nei suoi contesti applicativi e nell’interpretazione dei profili.
Il settimo capitolo verte sulla Wechler Adult Intelligence Scale-Revised (WAIS-R), il test di intelligenza più utilizzato e conosciuto al mondo. Dopo una presentazione generale del concetto di intelligenza e delle scale di Wechsler, Caporale e Roberti spiegano le singole prove ed espongono le modalità di applicazione e di analisi dei singoli subtest.
Nell’ottavo capitolo, infine, si propone l’utilizzo dei test come strumento terapeutico, concetto sviluppato da Finn e Tonsager (1992). Attraverso una serie di esempi clinici è evidenziato come la consegna della testistica si rilevi molto utile per produrre cambiamenti importanti nella visione di sé da parte del paziente. Il capitolo si conclude con un caso a cui viene somministrata la batteria di test proposta e mostra la modalità di lavoro delucidando come essa permetta la comprensione del “funzionamento globale” dell’individuo durante l’intervento psicologico. Si dimostra così il percorso psicodiagnostico clinico e come viene garantita la sua validità.
La nuova integrazione psicodiagnostica può portare ad una sicura valutazione psicologica e con pratica ed esperienza può arricchire il clinico nella sua pratica professionale. Quel che si acquista con questo manuale è un ottimo strumento sistematico da sfruttare in ambito clinico, giuridico- peritale o addirittura di selezione del personale.
L’approccio alla diagnosi non può non passare per una valutazione clinica e lo sviluppo della scienza psicologica non può fare a meno di una solida base diagnostica che solo una sinergica batteria di test psicologici può darle.
Una ricerca ed un lavoro così orientato dà la speranza di raccogliere risultati su cui lavorare e confrontarsi per sviluppare sempre più una scienza di cui tutti noi facciamo parte: la psicologia.
La crisi di terza età è sempre trasformativa, ma il cambiamento porta a crescita o a declino, e il fattore determinante è il numero di eventi stressanti.
Un ultra 60enne su 3 sperimenta un periodo di crisi di terza età, in questa fase avanzata dell’esistenza.
La scoperta è avvenuta grazie a un nuovo studio dell’Università di Greenwich condotto dal dr. Oliver Robinson, che ha spiegato che la crisi può avere sia effetti positivi che negativi sul benessere individuale.
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Un totale di 282 volontari tra i 60 e i 70 anni sono stati coinvolti nella prima fase dello studio, durante la quale hanno compilato on-line un questionario di valutazione sull’impatto della crisi.
Il 32% dei maschi e il 33% delle femmine hanno riferito di aver avuto una crisi.
La caratteristica maggiormente comune a tutte le situazioni di crisi di terza età era l’aver sperimentato un lutto, secondariamente una malattia e infine lesioni a se stessi o agli altri e il prendersi cura di una persona amata malata o disabile.
Nella seconda fase, i ricercatori hanno intervistato un gruppo di 20 soggetti. I ricercatori hanno scoperto che episodi di crisi di terza età coincidevano con l’essere stati coinvolti in almeno due eventi stressanti – ad esempio una grave malattia o problema di salute che ha colpito l’individuo stesso o un familiare significativo, – o la perdita del partner o di un parente stretto.
L’evento di vita stressante rende l’individuo consapevole della propria fragilità e della morte. Desideri e valori individuali vengono rivalutati nel corso di una crisi di vita, e l’esito di tale rivalutazione può assumere diverse forme. Alcune persone sono riuscite ad affrontare la crisi positivamente e hanno reagito riuscendo a ridefinire nuovi obiettivi da realizzare; altri ancora si sono concentrati sul presente, sentendo gratitudine per ogni giorno di vita e cercando di goderne più di quanto facessero prima.
Altri invece, per evitare delusioni, hanno evitato di fare qualsiasi progetto o di fissare obiettivi a lungo e medio termine, ritirandosi dal mondo e isolandosi progressivamente.
La crisi di terza età è sempre trasformativa, dice Robinson, ma il cambiamento può portare alla crescita o al declino, e il fattore determinante rispetto alla direzione presa dall’individuo sembra essere il numero di eventi stressanti e la prossimità con cui si susseguono; in alcuni casi lo stress derivante dalla concomitanza o dalla rapida successione di più eventi stressanti soverchia le risorse individuali e minimizza le possibilità di far fronte alla crisi in termini di crescita e rinnovamento.
Secondo Robinson una migliore comprensione degli episodi di crisi nella terza età sarebbe preziosa per tutti i professionisti che si occupano del benessere delle persone in questa fascia di età, sopratutto per riuscire a intervenire in modo da rendere la crisi un esperienza di crescita e non una di declino.
Il congresso di terapia metacognitiva non poteva che aprirsi con la lettura magistrale di Adrian Wells, padrone di casa e fondatore di questo nuovo approccio terapeutico.
Sono passati due anni dalla prima conferenza e ora é importante ritornare a domandarsi quale é il cuore della terapia metacognitiva. Il punto centrale é considerare la psicopatologia come una questione di selezione e controllo del pensiero e del pensare che dipende dalle metacognizioni. Il problema in particolare é che i pensieri, in particolar modo se negativi, sono percepiti come importanti.
Cosa da importanza ai pensieri?
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)
(1) Il modo in cui ne facciamo esperienza, possiamo cioé riconoscerli come semplici formule verbali o immagini, come oggetti quindi, oppure (e purtroppo) essere fusi con essi e percepirli come dati di realtà.
(2) Quanto riteniamo sia importante stare a pensare alle cose che non vanno, con l’esito di produrre narrazioni ancora piú ingabbianti. (3) Le strategie che usiamo per regolare i brutti pensieri che possono essere controproducenti (rimuginio e ruminazione).
Quindi la terapia metacognitiva é un percorso teso a imparare a pensare di meno, a lasciare i pensieri (ma anche le emozioni) da sole senza rispondervi, a fare esperienza dei pensieri intesi come oggetti e non come aspetti della realtà e ridimensionarne l’importanza. A raggiungere e migliorare un controllo metacognitivo piú flessibile.
E da qui nasce la sferzata alla Terapia Cognitivo-Comportamentale classica: nella Terapia Cognitiva viene data molta importanza ai pensieri. Ergo, terapia metacognitiva e CBT non sono necessariamente compatibili. Aumenta quindi il grado di separazione, come sempre avviene quando si costruisce una nuova entitá la scelta ricade sempre su tracciarne i confini in modo netto affinché non sia inglobata e uccisa. Ci sono alcune ricerche in corso tese a confrontare i due approcci e una loro integrazione. Ne vedremo presto i risultati.
L’impressione generale é che ora per la terapia metacognitiva sia venuto il tempo di scendere dall’altare della ricerca e trovare espressioni semplici e chiare per essere piú fruibile nel mondo della pratica psicoterapeutica quotidiana.
E questo sembra essere lo sforzo anche di Adrian Wells che ci lascia con un pensiero interessante: La terapia metacognitiva aiuta i pazienti a capire che si può imparare ad essere completamente indipendenti dai propri pensieri.
Un viaggio richiede molte attese. E il viaggio di partenza per un congresso non si esime. In quelle attese il tempo trascorre osservando il programma previsto, spulciando simposi e letture magistrali per cominciare a costruire quel che sarà il proprio percorso dentro al congresso.
Sono trascorsi due anni dal primo scisma e dalla nascita di un circuito separato da quello ortodosso delle terapie cognitivo comportamentali, EABCT. Una scelta di separazione che forse non ha premiato il dialogo scientifico, ma ha permesso al pargolo di crescere, vista l’espansione di ricerche e gruppi di ricerca indipendenti che stanno nascendo in tutto il mondo sulla terapia metacognitiva con un conseguente proliferarsi di studi pubblicati. Il pargolo sta crescendo.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Il pargolo sta crescendo e comincia a camminare da solo. Tanto che nello stesso programma del congresso si apre il confronto con altri approcci invitati a confrontarsi con i temi caldi del mondo clinico e sulle future evoluzioni della psicoterapia.
Rappresentanti della CBT (Hollon), dell’ACT (Zettle) e dell’Emotional Schema Therapy (Leahy) hanno uno spazio di presentazione magistrale che culminerà in una tavola rotonda con tutti riuniti che si prospetta davvero interessante, nella speranza che non diventi un gentile scambio di diplomatiche cordialità.
Il pargolo sta crescendo in un mondo frammentato.
Quello che ci aspettiamo? Novità, chiarezza, confronto. A due anni di distanza saremo ancora qui a raccontarvi la nostra prospettiva.
Terzo incontro con Gina, terza settimana con il dottor Paul Weston e i suoi pazienti. Ne approfitto per far sapere ai lettori che, dalla settimana prossima, non seguiremo più Gina e Paul puntata per puntata, ma passeremo a commentare cicli di cinque puntate alla volta, ovvero l’intero giro settimanale delle quattro sedute e della supervisione di Paul. Perché? Per evitare il rischio della monotonia e della pedanteria, inevitabili nel commentare tutte le puntate. Inoltre, alternerò settimane con Paul Weston e settimane con Giovanni Mari, il terapista della serie italiana di In Treatment, in modo da dare varietà a questo percorso.
Dicevo che Paul torna da Gina per la terza volta. Non si tratta più di un incontro tra vecchi amici come nella prima puntata. È una supervisione, o forse qualcosa in più. Paul sembra ormai in terapia con Gina. La quale si conferma terapeuta robusta e, a tratti, feroce.
Paul ha problemi con lei, la svaluta. Ne critica la tecnica, alla perenne ricerca di analogie, rimandi e somiglianze col passato.
Per Gina, qualunque cosa faccia Paul ha una radice in un comportamento passato, che Paul è condannato a ripetere, meccanicamente e inconsciamente. Se Laura ha dovuto accudire i suoi genitori, questo è in rapporto con il fatto che anche Paul ha dovuto accudire i suoi. Se Laura esce con Alex e non ne può più del suo convivente, questo è in rapporto col fatto che anche Paul non ne può più di sua moglie. Il tutto è bombardato sul povero Paul con impressionante frequenza e intensità. E ferocia.
Non sono, né pretendo di essere, un esperto di tecnica psicoanalitica, ma questo modo di operare mi pare tendenzialmente kleiniano: interpretazioni precoci, frequenti, intense, con un certo sapore aggressivo verso il paziente, un retrogusto di “ti ho beccato!”- Non lo dico solo io, lo dice anche Paul, che rimprovera a Gina la sua passione per la rivelazione degli schemi interpersonali come ripetizione di un eterno transfert irrisolto e, in qualche modo, irrisolvibile. È vero che Paul non dice a Gina. “sei un’insopportabile kleiniana!”.
È anche vero che in USA la psicoanalisi ortodossa tendeva a essere soprattutto annafreudiana, ovvero focalizzata sulle difese più che sulla ripetizione degli schemi transferali. E Gina è molto ortodossa. Tuttavia il sospetto c’è.
Paul sembra una sorta di sviluppo imprevisto di Gina, e per questo Gina a sua volta sembra avercela con lui. Così come la psicoanalisi relazionale, di cui Paul è esplicitamente adepto, è uno sviluppo dolce e imprevisto dell’attenzione per i temi interpersonali cari alla Klein. Certo, per la Klein questi schemi interpersonali erano sempre completamente interiori, completamente inconsci e profondamente negativi (l’emozione dominante è l’invidia). Invece per Mitchell gli schemi interpersonali sono anche vissuti nel qui e ora delle relazioni presenti, non sono completamente inconsci e soprattutto non hanno la colorazione cupa del kleinismo. Anzi, per Mitchell la relazione è una forza positiva, un’energia di amore. Che poi sembra la differenza tra Paul, che crede nell’amore per Laura, e Gina, che invece predica la diffidenza verso ogni trasporto sentimentale e lo valuta come ripetizione inconscia di rancori infantili.
Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Ericskon (immagine di copertina)
L’atteggiamento dell’uomo che sceglie, e non di colui che viene scelto dal contesto, segna il vero discrimine tra l’uomo privo della parola, e quello dotato di decisa loquacità.
Riflettere. Riflettere è esigenza. Ed è proprio una coerente riflessione, quella cui induce ogni passo delle 108 pagine del nuovo romanzo, carico di travolgenti e vigorosi messaggi, scritto dal sociologo polacco della modernità liquida, Zygmunt Bauman. L’autore, apprezzato come uno dei più accreditati pensatori viventi, aveva già parlato ai suoi lettori, di un male che “non è distinguibile, in mezzo alla folla”, che “non ha segni particolari né usa carta d’identità”, ammonendoli come “chiunque potrebbe trovarsi a essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o potenzialmente arruolabile” (Paura Liquida, 2008, Laterza).
Ebbene, con il saggio sociale pubblicato dalla Erickson Edizioni, a cura di Young-June Park, il filosofo torna a pungolare, quasi solleticandola, la parte più pigra della coscienza umana: quella che fatica a rallentare, a fermarsi, a scartare il plico che custodisce la risposta ai più intimi quesiti, e che, ancor di più, annaspa nel tentativo di dialogare con dubbi e perplessità, per poi raccoglierne un senso… il senso di domanda che, in nuce, contiene già la risposta.
Un’istigazione al pensiero, dunque, di cui il Bauman si rese “complice”, tempo fa, nell’osservare che “essere morali” non significa necessariamente “essere buoni”. Occorre sapere, annota, che “cose e azioni possono essere buone o cattive. Ebbene, per saperlo gli uomini hanno bisogno di un’altra consapevolezza preliminare: cose e azioni possono essere diverse da quelle che sono”.
Dopo tutto, e forse prima di tutto, ricorda il sociologo, la “moralità riguarda la scelta. Niente scelta, niente moralità“.
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Come dice Aharon Appelfeld, uno dei grandi narratori morali del nostro tempo: “La montagna è fredda ma non è malvagia. I venti abbattono gli alberi ma non sono cattivi” (Società, etica, politica, 2002, Raffaello Cortina). Elemento distintivo, quindi, sarebbe proprio la peculiare capacità di taluni soggetti di mettere in moto ed usare – come ricorda Riccardo Mazzeo, nella pregiata prefazione all’opera – la “particella no”, intesa come l’elemento in grado di “trasformare l’esistenza nell’esperienza”.
La scelta, dunque. O meglio, la capacità e la forza di scegliere, legata a doppio filo alla tematica della moralità. Così, nel quotidiano vivere, la preferenza accordata all’una, piuttosto che all’altra opzione che ciascun essere umano intravede dinanzi a sé, consentirebbe all’individuo di tracciare un proprio sentiero, mai o di rado calpestato dalla società (politica, professionale o religiosa) di riferimento.
Rilievo, che ha suscitato in chi scrive l’odierna recensione, un pensiero, del tutto personale: l’atteggiamento dell’uomo che sceglie, e non di colui che viene scelto dal contesto, segna, ritengo, il vero discrimine tra l’uomo privo della parola, e quello dotato di decisa loquacità.
Sarebbe lui, mi preme annotarlo, l’unico tassello, incastrato nel gruppo sociale, in grado di far sentire davvero il proprio io, e di distinguersi in un universo reso sordo dall’appiattimento delle idee. Considerazione, che si ricollega alla meditazione sulla “normalità” di Bauman, proteso a spiegare come chi si distingue dalla maggioranza, non solo per un di meno, ma altresì per un di più, è comunque un soggetto anomalo.
È come dire – mi si consenta, ancora, una nota personale – che normalità e anormalità non viaggino su binari paralleli, ma vivano di flussi, incontrandosi, scontrandosi e abbracciandosi più volte, di guisa che persino la più usuale delle normalità, si colorerebbe di stravaganza in un contesto di parametri ordinariamente eccezionali e sopra le righe.
In fondo, tutto è relativo, e se l’anormalità è un qualcosa che si distanzia dalla norma, non potrebbe essere altrimenti, laddove la norma varia con il variare di tempi, culture, religioni e politiche.
Ebbene, Bauman, ragionando sulle “sorgenti del male”, ovvero sull’unde malum – domanda travolta, come afferma, dal totalitarismo del ventesimo secolo, e dalle “rivelazioni relative all’Olocausto” – regala al lettore, una metodica interpretazione di tre espressioni di pensiero, trattenutesi al riguardo. Il viaggio dell’autore, inizia dagli studi di Theodor Adorno, sulla “personalità autoritaria”, avvalorante l’idea dell’autoselezione dei malfattori, alla stregua della quale, detta autoselezione resterebbe determinata da predisposizioni naturali, più che culturali, del carattere individuale.
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L’itinerario di Bauman, poi, cambia direzione e posa lo sguardo sulla pista del condizionamento comportamentale, teso alla valorizzazione, non già del dato psichico, ma delle peculiarità del singolo, e del fattore contestuale, atti a generare il male, risvegliando latenti predisposizioni malvagie.
Atmosfera morale, ascritta da Hannah Arendt, alle predisposizioni prototalitarie della borghesia (Arendt, Le origini del totalitarismo, 2004, Torino, Einaudi). La logica del sociologo, di li a breve passo, percorre poi il ragionamento di Kant, per il quale rispetto e benevolenza per il prossimo sarebbero un imperativo della ragione. Ragione che però, marca il filosofo polacco, spiega tempo ed energie nel “disarmare le richieste e le pressioni del sedicente imperativo categorico” (pag. 34), assurgendo a fabbrica di potenza che consentirebbe all’uomo di rifornirsi, come ad un distributore, della capacità di superare lo scoglio dell’inerzia.
Il pensiero, allora, torna alla questione della probabilità che le risposte comportamentali di diverse persone esposte alla pressione di commettere il male, assuma la forma di una “curva gaussiana” laddove (pag. 73) i risultati dipendono dalla “vicendevole interferenza di un gran numero di fattori indipendenti”. Altra tappa del cammino, magistralmente raccontato da Bauman, è lo studio dello psicologo sociale Zimbardo, il cui esito avrebbe dimostrato come persone normali, amabili, dalle occupazioni più responsabili, anime sensibili, dunque brava gente, possano trasformarsi in “mostri” se innestati in determinati contesti, anche territoriali (Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? 2008, Milano, Raffaello Cortina).
Un male banale, quello su cui l’autore si concentra nel quinto capitolo del libro. Un male che, proprio dalla banalità, trae la sua insita pericolosità. Un male insospettabile, che sa cogliere in contropiede, che sorprende, e si fa scudo nell’imprevedibilità del suo scatenarsi. Un male, quello descritto da Bauman, che vive e dorme, nell’uomo “non solo normale” ma nel “più desiderabile” (pag. 56), sulla falsariga del “dormiente” evocato da Steiner, e della sua non rivelata inclinazione a delinquere, sapientemente eletta a titolo del settimo capitolo del saggio.
Di qui, un interessante “colloquio” con le tesi di Littell e di Anders, padre del pensiero per cui il “potere umano di produrre” è stato emancipato “dal potere meno espandibile degli umani di immaginare, rappresentare e rendere intellegibile”. Intensamente auspicata, dunque, l’esigenza di restituire nuova reattività ad una mente sociale, anestetizzata dall’abituazione desensibilizzante (Roth, Juden auf Wandershaft, 2001). Non si dimentichi, che il pensatore polacco definì il tempo di oggi come “puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate”. Il senso era palese: i particolari della realtà – come accade ammirando un quadro dipinto con la tecnica del puntinismo – si notano solo se osservati a distanza, prospettiva dalla quale è più agevole orientarsi (Vite di corsa – Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, 2009, Il Mulino).
E forse è proprio da una tale prospettiva, che il filosofo, indagando sulle effettive origini del male, parrebbe estirparlo dall’io dell’essere umano, per imputarlo a dati ad esso esterni, all’inarrestabile progresso della tecnica, che ha reso l’individuo straordinariamente potente, ma, probabilmente cieco di immaginazione e fantasia, ed incapace, nel mio pensiero, di percepire i segnali del mondo. Si chiude, così, il riuscito lavoro di Bauman di osservare in controluce i percorsi tracciati sulle fonti del male, prenderne le distanze e – per usare un’espressione del Kundera, presa in prestito dallo stesso autore (pag. 25) – “strappare il sipario delle preinterpretazioni”, questa volta sulle sorgenti del maligno, calando il lettore nell’universo dei perché. E si sa, che da ogni perché nasce un nuovo perché, e forse una risposta. E nel mentre, ci si scava dentro.. ridefinendo i contorni di quelle identità, a mio parere, ormai svendute nel discount delle idee, uniformate, e senza colore.
Bauman Z. – Tester K., Conversations with Zygmunt Bauman, Polity Press. Trad. it. Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman 2002. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Roth J., Juden auf Wandershaft 2001, trad. inglese di M. Hoffmann The Wandering Jews, London.
Tim Wadsworth, professore associato di sociologia alla University of Colorado a Boulder, ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio secondo il quale la frequenza dei rapporti sessuali coincide con la felicità.
Come è stato ben documentato a proposito del reddito, sostiene Wadsworth, la felicità in relazione alla propria vita sessuale può aumentare o diminuire a seconda di come gli individui si percepiscono paragonandosi ai loro coetanei.
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Utilizzando i dati del General Social Survey e l’analisi statistica, Wadsworth ha scoperto che lacorrelazione tra felicità e frequenza del sesso elevata è costante in tutte le persone. Ma ha anche scoperto che chi crede di avere una vita sessuale meno soddisfacente in termini di frequenza rispetto ai coetanei è meno felice di chi invece è convinto di avere una vita sessuale come quella degli altri, o migliore.
L’indagine ha incluso domande sulla frequenza del sesso dal 1989. Il campione ha incluso 15.386 persone che sono state intervistate tra il 1993 e il 2006.
Chi ha riferito di aver fatto sesso almeno due o tre volte al mese ha avuto il 33% in più di probabilità di riportare un livello di felicità elevato di coloro che hanno riferito di non aver avuto rapporti sessuali negli ultimi 12 mesi.
La probabilità di essere felici aumenta all’aumentare della frequenza del sesso: una volta alla settimana produce un 44% in più di probabilità di riportare un più alto livello di felicità e con una frequenza di due o tre volte alla settimana si arriva a 55% .
C’è quindi un aumento complessivo nel senso di benessere dato dalla frequenza con cui si hanno rapporti sessuali, ma se fare più sesso ci rende felici, farne più degli altri ci rende ancora più felici.
Anche se il sesso è un fatto privato, i mezzi di comunicazione di massa e altre fonti di informazione forniscono indizi. Il risultato di questa raccolta, spesso involontaria, di informazioni è che se i membri di un gruppo di pari fanno sesso due o tre volte al mese, ma credono che i loro coetanei lo facciano una volta alla settimana, la loro probabilità di riportare un più alto livello di felicità scende di circa il 14%.
Le persone sono creature sociali, dice Wadsworth, e il loro senso di sé o di identità è dipendente dagli altri. Nelle sue lezioni di sociologia, Wadsworth chiede agli studenti di scrivere tre aggettivi per descrivere se stessi e poi chiede loro se quegli stessi aggettivi avrebbero lo stesso significato se si trovassero su un’isola deserta e non avessero nessuno con cui confrontarsi. “Indipendentemente dagli aggettivi usati – attraente, intelligente, divertente, povero – questi sono significativi solo se c’è la consapevolezza di come sono gli altri che ci circondano. Per questo motivo”, conclude, “non possiamo che essere ricchi se gli altri sono poveri, e sessualmente attivi se gli altri non lo sono”.
Open – La Mia Vita, Di Andre Agassi, Einaudi (2011) – Copertina
Il tennis era l’unica strategia che padroneggiava, e che nel tempo aveva funzionato per tenere lontano da sé quel pezzetto di sofferenza. Le sconfitte erano diventate così le dolorosissime dimostrazioni di aver fallito, di più: di essere un fallimento.
Qualsiasi psicologo non può che essere profondamente colpito da questo libro. Ci s’immagina il racconto di una serie di match points, di colpi sbagliati o azzeccati, di vittorie e sconfitte e invece… il lettore si trova di fronte a un vero e proprio testo di psicopatologia, calato nel racconto di una vita famosa con narrazioni di episodi, di emozioni e di pensieri.
Con molta facilità uno psicogo può rintracciare ABC, nuclei patologici tipici di alcuni disturbi, sistemi motivazionali interpersonali, credenze, scopi, cicli interpersonali ecc., insomma un autentico godimento, soprattutto per un Cognitivista!
Ogni pagina del libro è uno spunto di riflessione, un ragionamento sulle cause e sulle conseguenze, una domanda sulle modalità relazionali. In pratica una concettualizzazione del caso, narrata da un non addetto ai lavori. Proprio per ciò densa di contenuti, ma disorganizzata. Infatti lo psicologo, oltre a godersi il volume, si sentirà come costretto a conferire un ordine a questa immensa mole di informazioni tremendamente interessanti da un punto di vista psicologico. E pagina dopo pagina trarrà un immenso piacere nel concettualizzare il caso.
Ma andiamo per ordine. La prima parte del libro è senza dubbio la più interessante, proprio perché, come in ogni storia di vita che si rispetti, del protagonista Agassi viene narrata l’infanzia. Tutto ha inizio in questa fase della vita, e molto di quanto accade nelle età successive del protagonista, in queste pagine trova una spiegazione e un senso proprio in relazione alla sua età infantile. Ogni episodio e ogni emozione vengono raccontati col giusto trasporto ma al contempo con un elaborato distacco, proprio come se l’Agassi, che adesso rievoca, avesse trovato un senso a quegli eventi passati.
Articolo Consigliato: Recensione: Daniel Pennac, “Storia di un corpo”. Diario di un viaggio tra i sentieri delle emozioni.
Al proposito, certamente al Cognitivista che ci sta leggendo sta venendo in mente un termine… ebbene, anche al lettore succede lo stesso pagina dopo pagina: ipotesi dopo ipotesi da verificare durante la lettura del volume, proprio come le ipotesi formulate durante un assessment, da verificare in seguito nel corso della terapia. Ed eccoci alla prima ipotesi da formulare: il rapporto di Agassi col padre. Un «narcisista», definito così dallo stesso figlio, non appena apprenderà il significato della parola. Appunto da bravo narcisista, il padre non riesce a decentrare per comprendere la mente degli altri, e ritiene che anche la vita del figlio sia di sua proprietà. Cosa piaccia o interessi al figlio, per lui non è importante: è lui padre a decidere.
Agassi non ha mai messo in dubbio l’amore da parte del padre, l’avrebbe soltanto voluto meno duro, meno rabbioso e più disposto ad ascoltarlo. È completamente terrorizzato da lui, la sola idea di ribellarsi alle sue decisioni gli fa tremare le gambe. E fa bene a temere il padre: ogni volta che pensa di ribellarsi alle sue decisioni, gli torna in mente l’immagine del camionista lasciato esanime sulla strada proprio dal genitore, dopo averlo cazzottato a morte (o quasi, non lo sapremo mai) poiché quello aveva avuto l’ardire di protestare per un mancato inserimento della freccia di direzione.
Ma perché il padre si comporta così? Esiste una spiegazione a tutto ciò? Emigrato dall’Iran, vive costantemente un senso di non-appartenenza che cerca di gestire attraverso un forte bisogno di rivalsa, di cui il figlio è lo strumento: il successo di quest’ultimo nel tennis per il padre equivale a una vendetta nei confronti di un mondo sempre vissuto come ostile. Egli infatti desidera unicamente che Agassi diventi un campione, e non importa che il futuro eventuale campione odi con tutto se stesso il tennis.
E chissà se lo odia fin dall’inizio o se l’odio è soltanto la fisiologica conseguenza di un letterale martellamento, di un nemmeno troppo sofisticato lavaggio del cervello, di una quotidiana tortura subita a suon di milioni di palline sparate da un lanciapalle a forma di drago appositamente costruito, sempre dal padre, per incutere terrore ad Agassi, con la scusa di allenarlo.
Una volta pure diventato campione, Agassi non riuscirà mai a godersi appieno una vittoria, non saprà mai se è diventato un tennista in quanto obbligato a diventarlo, o perché lo voleva in prima persona, o forse – ancor peggio – perché non avrebbe saputo cos’altro fare nella vita.
I momenti di euforia sono passeggeri, poco gratificanti in confronto alla sofferenza che segue a ogni sconfitta («Vincere non cambia niente. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente»). Il dilemma tra amore e odio riguardo al tennis ci accompagna per tutto il libro. Di continuo si avverte il desiderio di abbandonare l’agonismo da parte di Agassi, di pagina in pagina si percepisce l’insofferenza per le critiche dei giornalisti, per i riflettori perennemente puntati su di lui e sulle sue azioni, l’intolleranza verso le sconfitte e la già citata insoddisfazione per le vittorie.
Agassi paragona il tennis al pugilato, nei termini in cui «il tennis è boxe senza contatto… solo che nel tennis le batoste sono più sottopelle». È vero che il dilemma amore/odio per il tennis occuperà l’intero volume, ma di sicuro il lettore alla fine può agevolmente darsi una risposta. Infatti una cosa è certa: Agassi, fra i tennisti della sua generazione, sarà quello che si ritirerà per ultimo, sebbene in molti glielo consiglino da tempo. Il libro, inoltre, termina con una piena dimostrazione di amore per il tennis: un improvvisato match con sua moglie, Steffi Graf, grande tennista a sua volta. Ma allora l’affermazione di odio verso quello sport non maschera piuttosto un tentativo di ribellione verso il padre?
Del resto Agassi, con un padre così, cosa poteva fare? Sembra proprio raccontarci di aver avuto due sole strade da seguire: o ribellarvisi o compiacerlo. La ribellione senza dubbio è sempre stata presente in Agassi, ma sopita, attuata limitatamente a questioni di poco conto (per esempio, l’ostentazione degli orecchini, vietati alla scuola di tennis e detestati dal padre come segno di omosessualità), mai urlata.
La compiacenza, invece, non si è sostanziata solo nell’assecondare le decisioni prese dal padre relativamente al suo futuro professionale, ma anche nel far propria la spasmodica ricerca del perfezionismo, eredità a sua volta di una caratteristica paterna. Agassi, infatti, non pensa di aver sviluppato negli anni tale mania perfezionistica, ma che essa sia una parte innata di sé, al pari della sua calvizie o della sua colonna vertebrale ispessita. Ha esclusivamente questa strada per potersi sentire vicino al padre: non, dunque, tramite l’affetto, terreno sconosciuto al padre, ma tramite la performance, che è l’unica strategia che nella vita al figlio abbia dispensato una seppur minima sensazione di essere amato.
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Nel tempo questa modalità si è generalizzata, diventando un vero e proprio pattern: è divenuta non la sua unica modalità per costruire una relazione col padre, ma l’unica per leggere il mondo, gli altri e soprattutto se stesso. Così, quando incontrerà un nuovo coach, il quale gli farà capire quanto sia faticoso e terribilmente dannoso ricercare di continuo la perfezione, Agassi avrà come una rivelazione: «La sua tesi che il perfezionismo è facoltativo mi dà serenità. Il perfezionismo è qualcosa che ho scelto, e mi sta rovinando, e posso scegliere qualcos’altro. Devo scegliere qualcos’altro».
Egli, a quel punto, non dovrà cercare di essere sempre il migliore del mondo, non dovrà inseguire primati e perfezione in ogni partita, in ogni colpo tirato, contro ogni avversario, ogni giorno. Capirà che può bastargli essere migliore di una sola persona alla volta, mentre gioca una partita di tennis, e che invece di essere costretto a cercare sempre di far bene lui, può anche indurre l’altro a sbagliare, o lasciare che sbagli di sua iniziativa.
Questo ci dice qualcosa sulla sua antica componente di odio per lo sport praticato. Il tennis, fino appunto all’avvento del nuovo allenatore e della sua alternativa filosofia agonistica, non era per lui un piacere ma un dovere, forse qualcosa di più, l’unica strategia che padroneggiava, e che nel tempo aveva funzionato per tenere lontano da sé quel pezzetto di sofferenza. Le sconfitte erano diventate così le dolorosissime dimostrazioni di aver fallito, di più: di essere un fallimento.
Solo un cambio di relazione poteva aiutarlo, e non più la strategia della prestazione – in cui egli peraltro aveva sempre eccelso, ma che tuttavia si era rivelata “il problema” – bensì l’aprirsi proprio a un altro tipo di relazione, che riuscisse a disconfermargli quelle credenzedisfunzionali.
Infatti, come abbiamo accennato, saranno proprio le relazioni “sane” a salvarlo, prima col suo neo-allenatore Gil (parlando con lui del suo primo figlio, Agassi dice: «Se diventa anche solo la metà dell’uomo che sei tu, avrà un successo fenomenale, e se io riesco a essere anche solo la metà del padre che tu sei stato per me, avrò superato i miei stessi standard»), poi con sua moglie Steffi Graf.
Cinematerapia & Fondamenti Psicoanalitici. Il cinema costituisce un regno tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga.
Grazie a Freud e a suoi studi sul significato dell’arte possiamo affermare che il cinema costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga, un dominio in cui sono ancora sopravvissute le aspirazioni all’onnipotenza dell’umanità primitiva.
Freud non vede nell’arte del cinema, proprio per il suo valore innovatore, una soluzione di compromesso, che invece riscontra nel sogno e nel sintomo nevrotico. Egli non approfondisce la natura di questa particolare attività dello spirito umano, ma grazie alla sua elaborazione degli istinti di vita e di morte, pone le basi per un sua validità terapeutica.
Il fatto che l’arte e in particolare il cinema, inteso come atto di vita, abbia uno stretto rapporto con la morte e con l’esperienza del lutto è un’ipotesi antica, evidenziata dalle origini funerarie e apotropaiche dell’arte. Partendo da questa premessa è, a mio avviso, decisivo l’apporto di Melanie Klein. Parafrasando la Klein possiamo sostenere che il mondo del cinema, mondo di “finzione”, si presta alla ricostruzione dell’oggetto perduto estrinsecando un’onnipotenza creativa, insieme illusoria e realistica, proprio perché, attraverso esso, si passa dalla realtà naturale della perdita alla realtà culturale del processo di simbolizzazione.
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La creazione filmica può far rivivere ciò che è morto di una vita del tutto singolare. I singoli fotogrammi, senza struttura formale, sono come lettera morta, ma inseriti nel contesto della struttura filmica diventano creazione, oggetto d’amore privilegiato, e si tramandano da cultura a cultura, da generazione a generazione come trionfo sulla morte.
Il passaggio dal caos al cosmos, tipico di ogni film, contiene in sé una connotazione creativa, cioè il passaggio dalla morte alla vita. Il cinema avrebbe, in modo specifico, la prerogativa di prestarsi ad elaborare la pulsione di morte, proprio perché dà al regista la possibilità di esprimere, in una particolare area di realtà, che è insieme illusoria e reale, la sua creatività.
Per comprendere, esprimere e superare la sua depressione, elaborarla in un atto creativo, il regista deve, non solo riconoscere, ma anche sopportare l’istinto di morte nei suoi aspetti aggressivi ed autodistruttivi, mostrandosi capace di accettare la realtà della morte, per il suo mondo e per gli oggetti esterni. Prendendo a prestito i contributi di Kris (Kris, 1967; Kris & Kurz, 1980) possiamo sostenere inoltre che il regista pone, nell’atto della creazione, se stesso al posto del suo pubblico, e si identifica col suo Io e Super-Io.
Il regista non rappresenta la natura, né la imita, ma la crea di nuovo. Con il suo film egli domina la realtà. Rivolgendosi alla situazione che egli intende creare, la fruga con lo sguardo, finché non ne è in pieno possesso; il significato inconscio di questo processo è il bisogno di dominare le cose, a costo di distruggerle. La distruzione della realtà si fonda sulla costruzione della sua immagine: indipendentemente dal grado di somiglianza, la natura è ricreata.
Come nel regista, anche nel pubblico, si attuano spostamenti di livelli psichici. Lo spostamento procede dalla coscienza, dalla percezione del film, verso l’elaborazione preconscia e le risonanze dell’Es. In una prima fase, l’Io diminuisce il controllo, vale a dire: apre la strada ad un’integrazione dell’Es. Questa fase è principalmente passiva: il film domina il pubblico. Nella risposta del pubblico, c’è inizialmente lo stadio più semplice e meno ambiguo, che può essere chiamato riconoscimento. La situazione ci è nota e la mettiamo in relazione con una traccia mnestica, sia pure leggera; può accadere che si cerchi, prima in modo impercettibile e poi consapevole, di reagire col proprio corpo; oppure può anche accadere che la reazione rimanga inconscia.
In uno stadio successivo, il pubblico passa da una fase passiva ad una attiva, l’Io afferma la sua posizione nell’atto della ricreazione, il film viene ricreato e la possibilità di rendere consapevoli conflitti inconsci del pubblico è di per se curativa.
Grazie alla rielaborazione dei contributi degli psicoanalisti, da me citati in questo articolo, possiamo attribuire alla cinematerapia una valenza terapeutica. Attraverso l’immaginario filmico gli spettatori entrano in contatto profondo con le proprie emozioni e rielaborano positivamente conflitti interiori.
Consolidano il proprio Io e rendono meno rigido il proprio Super-Io, ottenendo benefici che spaziano dalla sfera affettiva alla sfera individuale ed esistenziale.
Esercizi cognitivi aiutano a prevenire il declino cognitivo negli anziani sani, al contrario i benefici di farmaci e dell’esercizio fisico sarebbero scarsi.
Lo rivela una review apparsa sul Canadian Medical Association Journal, in cui gli autori hanno esaminato 32 studi randomizzati e controllati in cui sono state testate diverse forme di prevenzione del declino cognitivo.
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Il declino cognitivo lieve (più che normale per una persona di una certa età) colpisce il 10% -25% delle persone oltre i 70 anni. Il tasso annuale di declino in demenza (che è il declino cognitivo in diverse aree con una certa capacità funzionale) è di circa il 10%. Si stima che circa 18 milioni di persone nel mondo siano affette da demenza, di cui circa 1 milione in Italia.
L’analisi dei dati evidenzia che non ci sono prove forti per i trattamenti farmacologici come il ginkgo, il deidroepiandrosterone (DHEA), le vitamine e altre sostanze. Maggior parte degli studi di efficacia non mostrano alcun effetto mentre la terapia estrogenica ha mostrato un aumento del declino cognitivo e della demenza; anche i dati a favore dell’esercizio fisico sono deboli.
L’esercizio mentale, tuttavia, ha mostrato benefici nei tre studi clinici inclusi nella review. Ciò ha comportato programmi di formazione computerizzati o una formazione cognitiva intensiva per la memoria, il ragionamento o la velocità di elaborazione. In uno studio, i partecipanti hanno migliorato significativamente la memoria che è rimasta stabile in un follow-up a 5 anni. Un altro studio ha dimostrato un miglioramento nella memoria uditiva e dell’attenzione in un gruppo di anziani che hanno partecipato a un programma di training cognitivo computerizzato.
Questa revew fornisce alcune indicazioni che possono aiutare i medici ad indirizzare i pazienti verso le migliori strategie per prevenire il declino cognitivo. Studi futuri dovrebbero inoltre affrontare l’impatto della formazione cognitiva sulla prevenzione del declino cognitivo e incoraggiare i ricercatori a prendere in considerazione strumenti facilmente accessibili, come i cruciverba e il sudoku, ma che non sono ancora stati studiati in modo rigoroso.
In quest’ultima parte della monografia mi concentrerò sull’ultimo dei processi inseriti nel modello dell’ Acceptance and Commitment Therapy: la mancanza di attività e impegno per perseguire un valore personale.
Cosa significa? anche quando riusciamo a diventare consapevoli dei nostri meccanismi dannosi, delle nostre fusioni, delle maschere che indossiamo e dei momenti di mindlessness, in cui ci comportiamo con il pilota automatico acceso, resta un passo importante da fare: Impegnarsi per l’azione! e perseguire i propri valori!
Gli ostacoli più dannosi a tale impegno possono essere riassunti in due categorie di comportamenti: l’impulsività e l’evitamento persistente.
Entrambi tali comportamenti portano a vivere una vita caratterizzata da restrizione delle attività e rigidità del repertorio comportamentale. Fare sempre le stesso cose, evitare sempre le stesse situazioni equivale a non fare!
Monografia ACT – Parte 5 – Quale Maschera Indossiamo?
L’effetto maggiormente disfunzionale della inflessibilità comportamentale è che tale scelta (perchè in fondo, di scelta si tratta…) rende difficile adattare i propri obiettivi e i propri scopi personali alle esigenze del contesto e ciò porta l’individuo ad un continuo confronto con i propri ostacoli, che spesso ha esito negativo.
Ciò che L’Acceptance and Commitment Therapy persegue è favorire la consapevolezza dell’individuo su tali meccanismi e il riconoscimento di come perseguire mantenersi all’interno di un panorama di impulsività e evitamenti lo porti ad agire contro i propri valori.
L’azione impegnata, termine usato in Acceptance and Commitment Therapy per definire l’azione personale guidata dai propri valori, prevedere che l’individuo “faccia i conti” con le proprie difficoltà e fragilità.
Accogliendo e prendendo contatto con le proprie fragilità e guidando le proprie azioni partendo dai propri valori personali permette di perseguire una vita significativa e ricca, non senza sofferenze, ma soddisfacente e SCELTA!
Un tema molto caro all’ Acceptance and Commitment Therapy è il concetto della workability, della “fattibilità“. Un’azione impegnata e guidata dai propri scopi deve essere anche fattibile, perseguibile. Ad esempio, se io vado in terapia con l’obiettivo di “non provare mai l’ansia“, posso anche impegnarmi a cercare di evitare il meno possibile le situazioni ansiogene, posso impegnarmi nelle esperienze proposte dal percorso psicoterapeutico, ma se il mio obiettivo rimane quello di non provare mai ansia l’esito sarà fallimentare, perché non è fattibile!
Perchè allora l’impulsività e l’evitamento sono azioni poco funzionali? Perchè entrambe non sono perseguibili per un lungo periodo di tempo. Sia l’agire in modo impulsivo nella maggior parte delle situazioni sia evitare tutto ciò che mi fa paura non può portare a risultati soddisfacenti, in termini di benessere personale e relazionale.
La proposta dell’ Acceptance and Commitment Therapy è ciò che viene chiamata “committed action”, l’azione impegnata.
Che cos’è l’azione impegnata?
– Scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il percorso
– Impegnarsi nelle azioni importanti per se stessi e nel momento di difficoltà ancorarsi al respiro, in modo quanto possibile gentile, grazie alle pratiche di mindfulness
– Godersi anche il viaggio, non concentrarsi sempre e solo sui piccoli obiettivi (un piccolo fallimento può essere un passo importante e diretto verso i propri valori personali)
– Persistere e mantenere tale impegno, mettendo in conto ostacoli e difficoltà (ad esempio, paura di a sbagliare, ricordi dolorosi, sensi di colpa, vergogna etc…)
– Do what it takes! fa quel che serve per vivere secondo i propri valori.
A parere di chi scrive, l’azione impegnata rappresenta una delle parti più difficili dei percorsi di vita di ognuno di noi. Talvolta, noi sappiamo bene cosa sarebbe utile e significativo per noi e passare all’azione spesso risulta comunque difficile, soprattutto se oltre alle normali paure umane ci mettiamo ad ascoltare la radio della nostra mente (metafora molto usata nell’ Acceptance and Commitment Therapy), con le sue storie catastrofiche e giudicanti di come siamo, di come ci vedranno gli altri e di cosa siamo e non siamo in grado di fare.
E talvolta, farlo da soli può risultare molto difficile… E per fare il “balzo in avanti” a volte è utile un percorso di psicoterapia.
Musica & Neuroscienze: Un nuovo studio rivela che cosa accade nel nostro cervello quando sentiamo per la prima volta una canzone e decidiamo di acquistarla.
Lo studio, condotto presso il Montreal Neurological Institute and Hospital – The Neuro, McGill University e pubblicato su Science, ha individuato una specifica attivazione cerebrale che rende gratificante l’ascolto di un nuovo canzone e predice la decisione di acquistarlo.
I partecipanti allo studio, mentre venivano sottoposti a risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno ascoltato 60 brani musicali mai sentiti prima e valutato quanto sarebbero stati disposti a spendere per l’acquisto di ogni brano. Un aspetto innovativo di questo studio è l’aver imitato l’ascolto musicale nella vita reale. I ricercatori hanno utilizzato una interfaccia e dei prezzi simili a quelli di iTunes. Il valore di ricompensa di ogni canzone era indicato dalla disponibilità a comprarla per poterla riascoltare. Dal momento che le preferenze musicali sono influenzate dalle associazioni passate, sono stati selezionati solo canzoni nuove (per ridurre al minimo le previsioni esplicite) utilizzando software di music recommendation (come Pandora, Last.fm) per riflettere le preferenze individuali.
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La regione del cervello che reagisce alla piacevolezza dell’ascolto di un canzone mai udito prima è il nucleo accumbens, che è coinvolto nella formazione di aspettative che possono venire soddisfatte. L’attività nel nucleo accumbens è un indicatore che le aspettative sono state soddisfatte o addirittura superate, dice Valorie Salimpoor, uno dei ricercatori, e questo studio ha permesso di scoprire che quando, durante l’ascolto di una nuova canzone, si verifica l’attivazione in questa zona del cervello, le persone sono anche disposte a spendere di più per averla e poterla riascoltare.
Il secondo dato importante è che il nucleo accumbens non lavora da solo, ma interagisce con la corteccia uditiva, una zona del cervello che memorizza le informazioni sui suoni e la musica. Più l’ascolto di una canzone è soddisfacente, maggiore è la comunicazione tra queste regioni. Interazioni simili sono state osservate anche tra il nucleo accumbens e altre aree cerebrali, coinvolte nel sequenziamento ad alto livello, nel riconoscimento di forme complesse e nell’assegnazione di un valore emotivo e di ricompensa agli stimoli.
In altre parole, il cervello assegna valore alla musica attraverso l’interazione tra un antico circuito della ricompensa dopaminergico – coinvolto nel rafforzare comportamenti che sono necessari per la nostra sopravvivenza, come alimentarsi e la sessualità – con alcune delle regioni più evolute del cervello, coinvolte invece in processi cognitivi avanzati, unici nell’essere umano.
“Questo è interessante perché la musica è costituita da una serie di suoni che presi singolarmente non hanno alcun valore intrinseco, ma che quando si fondono insieme in modelli prevedibili possono agire come una ricompensa”, dice Zatorre, ricercatore presso The Neuro e co-direttore del International Laboratory for Brain, Music and Sound Research, “l’attività integrata di circuiti cerebrali coinvolti nel riconoscimento di pattern, la previsione e l’emozione ci permettono di vivere la musica come una ricompensa estetica o intellettuale. Questi risultati ci aiutano anche a capire perché alla gente piace musica diversa: ogni persona ha la propria corteccia uditiva dalla forma unica, che si forma sulla base di tutti i suoni e di tutta la musica ascoltata nel corso dell’intera vita. Inoltre i modelli sonori memorizzati possono avere creato precedenti associazioni emotive”.
Le interazioni tra il nucleo accumbens e la corteccia uditiva suggeriscono che ci creiamo delle aspettative di come i suoni musicali dovrebbero essere sulla base di quanto appreso e immagazzinato nella nostra corteccia uditiva, e le nostre emozioni derivano dalla violazione o dall’adempimento di queste aspettative.