La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Interessante articolo del Wall Street Journal riguardo alle ultime ricerche in campo neuroscientifico su adolescenti e peer pressure.
Si sa che gli adolescenti sono più soggetti all’influenza sociale rispetto agli adulti e fino a poco tempo fa questo era imputato allo sviluppo cerebrale ancora in atto (in particolare dei lobi frontali). Nuovi studi invece pongono l’accento sulla gratificazione immediata derivante dal conformarsi al gruppo dei pari, più forte nei ragazzi che negli adulti. Da questi nuovi studi poi si può per induzione ipotizzare stili genitoriali che aiutino i figli a crescere con personalità in grado di prendere decisioni razionali e autonome.
New studies on peer pressure suggest that teens—who often seem to follow each other like lemmings—may do so because their brains derive more pleasure from social acceptance than adult brains, and not because teens are less capable of making rational decisions.
New studies on peer pressure suggest that teens may follow the herd because their brains derive more pleasure from social acceptance than adult brains, not because teens are less capable of making rational decisions. (…)
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Quanto funzionano gli e-books?
– FLASH NEWS-
Secondo una nuova ricerca dell’Indiana University non vi sarebbero differenze prestazionali per gli studenti che utilizzino materiali digitali (e-books) o libri in carta stampata.
I ricercatori si sono chiesti se vi fossero differenze significative nella comprensione del testo tra la fruizione di dispositivi cartacei o digitali.
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Nello studio sono stati coinvolti circa 200 studenti universitari: la metà ha utilizzato e-books (con la consegna di leggere un capitolo specifico) fruiti attraverso iPad2 mentre l’altra metà ha letto il capitolo da un tradizionale libro di testo stampato su carta.
In seguito gli studenti sono stati sottoposti a una verifica a domande aperte con 8 domande semplici e 8 domande moderatamente difficili riguardanti il capitolo appena letto.
I risultati evidenziano che il livello di comprensione del testo è simile e non presenta differenze significative attribuibili ai dispositivi cartacei o digitali.
Per di più, non sono emerse differenze significative nella comprensione del testo nemmeno in relazione al grado di expertise e di precedente utilizzo dei tablet.
Ad ogni modo dai focus groups che si sono svolti nello studio sono emerse alcune resistenze all’utilizzo degli e-books: i soggetti hanno riferito preoccupazione per lo sforzo percepito a livello oculare durante la lettura del testo dal dispositivo digitale e anche relativamente agli elevati costi dei libri digitali.
I fattori strutturali nel gioco d’azzardo e le implicazioni comportamentali e legislative
PARTE I
Guida per un utilizzo consapevole.
Secondo i dati pubblicati dall’AAMS (Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato), in Italia la raccolta del gioco d’azzardo è stata di quasi 80 miliardi di Euro.
Il gioco d’azzardo è un tema molto indagato nelle ricerche medico-sociali contemporanee. Una parte di queste ricerche si prefigge di comprendere le dinamiche neurobiologiche, psicologiche, demografiche, che possono condurre l’individuo a sviluppare una dipendenza da gioco, o che si associano a essa. Altre ricerche, invece, si occupano direttamente della comprensione delle caratteristiche dei giochi, che in sé possono presentare elementi di rischio, indipendentemente dalle caratteristiche individuali del consumatore.
Facendo riferimento alla trattazione di Griffiths (1999), indichiamo come fattori situazionali determinate caratteristiche
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dell’ambiente, quali la localizzazione delle sale da gioco e soprattutto il loro numero per una determinata area geografica, l’utilizzo di metodi pubblicitari e di richiamo. È facilmente intuibile che sia possibile osservare un incremento del gioco d’azzardo all’interno di una determinata area geografica, in conseguenza all’apertura di nuove sale da gioco. La disponibilità è quindi un fattore chiave.
Per fattori strutturali nel gioco d’azzardo (Griffiths, 1999) s’intendono quelle caratteristiche costruttive del gioco stesso che sono progettate con lo scopo di suscitare nel giocatore un maggior desiderio di giocare.
Ad esempio:
• l’ammontare della scommessa (incluse informazioni riguardo all’affidabilità);
• strutturazione dei premi (il loro numero e il loro ammontare);
• probabilità della vincita (dal 53% delle lotterie istantanee a una probabilità su 620 milioni circa di realizzare un 6 al Superenalotto);
• dimensione del jackpot (dai 1000 Euro dei Gratta & Vinci più economici, fino a svariati milioni di euro nel Superenalotto);
• elementi di abilità (reale o percepita);
• la presenza più o meno alta di “quasi-vincite”;
• effetti di luci e colori (es. l’uso della luce rossa nelle slot-machines);
• effetti sonori (uso di musiche per indicare la vincita);
• natura sociale o asociale del gioco (come attività individuale o di gruppo);
• le regole del gioco;
• le modalità di presentazione degli stimoli (Ladoucer, Sevigny, 2002).
La conoscenza di queste caratteristiche, a differenza di quanto avviene con lo studio delle caratteristiche psicologiche del giocatore, ci permette di stimare quali giochi comportino rischi maggiori (o minori) di condurre allo sviluppo di una problematica da gioco nei consumatori.
La letteratura in esame, del resto, è molto chiara. Due parametri che possono produrre differenti condizioni di rischio psicosociale sono:
• la frequenza con cui si emettono i risultati (continuità Vs. discontinuità);
• il tempo necessario per la riscossione della vincita.
Alcuni giochi forniscono un risultato una volta l’anno (es. Lotteria Italia) o, in intervalli temporali piuttosto larghi. Altri, forniscono i risultati in tempi molto brevi (ad es. 5 minuti per il Win For Life, < 1 minuto i Gratta & Vinci, < 5 secondi le Slot-Machine). Una durata inferiore della scommessa si traduce in una maggiore focalizzazione sul gioco da parte del consumatore, i cui pensieri sono maggiormente assorbiti dall’attesa del risultato. Inoltre, la possibilità di riscuotere la vincita in tempi rapidi favorisce lo sviluppo di uno stile di gioco continuativo, in cui si dedica poco tempo a considerazioni di tipo finanziario, e le vincite possono essere immediatamente rigiocate.
Nelle slot-machines, l’intervallo di tempo che intercorre tra la cessazione di una partita e l’avvio di una nuova puntata, di solito non supera i 2 secondi.
Uno studio empirico (Chòliz, 2010) ha verificato che, qualora questo intervallo fosse allungato fino a 10 secondi, la persistenza del comportamento di gioco risulterebbe drasticamente ridimensionata.
Un altro stratagemma frequentemente impiegato nei giochi d’azzardo, al fine di incrementare la persistenza nel gioco, è quello di inserire delle quasi-vincite, ovvero eventi che rappresentano un fallimento nel raggiungere un obiettivo, ma con uno scarto molto ridotto. La percezione illusoria di aver “sfiorato una vincita” fa sì che il consumatore sia maggiormente invogliato a sfidare nuovamente la sorte; infatti, poiché di casualità si tratta, una relazione tra l’ottenimento di una quasi-vincita e l’abilità personale è del tutto fuori discussione. Tuttavia, di fronte a una quasi-vincita, il giocatore spesso è portato a ritenere che, grazie ai suoi sforzi, la vittoria sia a portata di mano.
ESEMPIO DI QUASI VINCITA
All’interno della comunità scientifica, le quasi-vincite sono conosciute come rinforzatori particolarmente efficaci fin dagli anni ’50 del secolo scorso, al punto che nello stato USA del Nevada (per intenderci, lo stato di Las Vegas) il legislatore ha proibito ai produttori di slot-machines di farne uso (Harrigan, 2008).
Dopo questa breve disamina sui fattori strutturali, analizziamo ora le caratteristiche dei principali giochi d’azzardo consumati in Italia, ordinati, in senso decrescente, sulla base della frequenza di emissione del risultato (continuità Vs. discontinuità).
Secondo i dati pubblicati dall’AAMS (Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato), in Italia la raccolta del gioco d’azzardo
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è stata di quasi 80 miliardi di Euro.Il 56,3% del fatturato totale è stato raccolto grazie a slot-machines e Video Lottery, 12,7% dai Gratta & Vinci, l’8,5 dal Lotto, il 4,9 dalle scommesse sportive, il 3 per cento dal Superenalotto, e il rimanente da bingo e scommesse ippiche. Il 69% della raccolta avviene quindi grazie alle due tipologie di gioco che trovano in cima alla tabella sopraindicata, e questa correlazione non sembra essere frutto di una coincidenza.
Un altro dato che suscita una riflessione è dato dal rapporto Eurispes “L’Italia in gioco” (Eurispes, 2008), in cui risulta che i giocatori di slot-machines sarebbero una percentuale minore del 10% sul totale dei giocatori italiani. Abbiamo quindi un 10% di giocatori che è responsabile di oltre la metà degli incassi del gioco legale.
In effetti, le slot-machines sono oggetto di attenzione da parte dei ricercatori perché, sono considerate la forma di gioco che, più di ogni altra, è in grado di indurre dipendenza, tanto da essere state soprannominate come “The crack cocaine of gambling” (Dowling et al., 2005), ovvero l’equivalente che ha il crack nel mondo delle droghe illegali.
Jackson, A. C., Thomas, S. A., Thomason, N., Holt, T. A., & McCormack, J. (2000). Analysis of clients presenting to break even problem gambling services, July 1 1998 to June 20 1999. Client and Service Analysis Report no 5. Melbourne, Victoria: Victorian Department of Human Services.
In una buona recensione la parte migliore sono le critiche, e le critiche del prof. Enzo Sanavio al nostro volume “Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva” sono centrate. È vero, per cominciare, che il titolo può essere fuorviante. Il nostro libro descrive la tecnica del colloquio di psicoterapia cognitivo-comportamentale, ma citare solo “il colloquio” nel titolo confonde le idee.
Forse sarebbe stato meglio chiamarlo “La seduta di psicoterapia cognitiva”. Il termine “colloquio” intendeva indicare una sorta di unità molecolare e non elementare della psicoterapia; molecolare perché il colloquio è qualcosa in più dell’elemento atomico del singolo intervento; ma è anche certamente meno che una seduta completa.
Comprensibile anche la critica sulla nostra definizione di psicoterapia, molto focalizzata sul versante mentale e psicologico. Vero è che il prof. Sanavio fa storicamente parte di un movimento teorico che -a volte- ha respinto il concetto di psicoterapia, preferendo quello di modificazione comportamentale. È sempre utile che ci si ricordi degli aspetti prescrittivi e didattici della psicoterapia cognitiva.
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Quindi accettiamo le critiche. Forse accettiamo un po’ meno gli elogi. Naturalmente scherziamo, gli elogi sono ancora più graditi; però abbiamo un’osservazione da fare sulle belle parole che Sanavio ci dedica. Il prof. Sanavio scrive che “Probabilmente un libro sulla teoria e sulla tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva è un’impresa impossibile. Non per caso, l’argomento ‘colloquio’ è pressoché assente nelle riviste specializzate e nella ricerca scientifica.”
Questa affermazione ci incoraggia a pensare che abbiamo fatto bene a scrivere questo libro e ci fa capire perché questo libro fosse atteso dagli allievi.
Se è vero quel che scrive Sanavio, ovvero che si fa poca ricerca sul colloquio, questo segnala un lato debole della psicoterapia cognitiva. Ovvero una tendenza a trascurare una descrizione concreta e tecnica di come si conduce un colloquio in questo tipo di psicoterapia. In un certo senso è una verità stupefacente. La psicoterapia cognitiva si è sempre vantata di essere scientifica, controllabile, di non avere misteri e sapienze esoteriche. Ora però apprendiamo che descrivere come si fa un colloquio di psicoterapia cognitiva sarebbe un’impresa impossibile.
E allora tutti i manuali di psicoterapia cognitiva di che parlano? Di una forma astratta e manualizzata di somministrazione della nostra terapia che non corrisponde alla realtà del colloquio? E perché poi ci sarebbe poca ricerca sul colloquio? Anche questo è vero: si fa molta ricerca sui modelli psicopatologici e sull’efficacia, ma su come si fa il colloquio ce ne è poca, scrive Sanavio. Questo significa che tanta scienza, di cui giustamente ci vantiamo, ha prodotto un’insufficiente tecnologia del colloquio in psicoterapia cognitiva. E che troppi ricercatori si dedicano alla ricerca teorica e non a quella applicata. Troppi fisici e pochi ingegneri, in psicoterapia cognitiva.
Il discorso a questo punto diventerebbe lungo. Concludiamo con due annotazioni. È vero che, dopo lo slancio iniziale di Ellis e Beck (soprattutto di Ellis), per molto tempo la tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva non ha visto sostanziali progressi. Clark, Salkovskis e Fairburn non hanno proposto nuovi interventi, ma si sono limitati ad adattare la tecnica di Beck a singoli disturbi, rendendola più specializzata.
Progressi ce ne sono stati in ambito REBT (vedi le varie edizioni del manuale di Walen, DiGiuseppe e Dryden, dal 1980 fino a quest’anno; ad agosto 2013 esce la terza edizione) ma non sono stati recepiti in ambito CBT standard; ed è un peccato, perché la tecnica REBT continua a evolvere in termini meta-cognitivi e meta-emotivi mentre quella CBT rimane quella rigidamente razionalista di Beck.
Infine c’è la terza ondata, con i vari Hayes, Wells e Young, che ha ideato innovazioni tecniche interessanti, ma che spesso tende a rinchiudersi in paradigmi non comunicanti tra loro, di modo che le innovazioni, invece di andare a arricchire il repertorio tecnico dei terapeuti, tendono a diventare una sorta di strumento unico che esclude tutti gli altri: il re-parenting di Young, la detached mindfulness di Wells, gli esercizi di defusione e la riflessione sui valori di Hayes. E gli altri interventi? Un oggettivo impoverimento del patrimonio culturale della tecnica del colloquio.
Tutta questa collettiva rimozione della morte che ha chiuso i cimiteri e deportato le agonie e le camere ardenti negli ospedali si fonda su una premessa sbagliata o quantomeno indimostrata e cioè che il non esistere più sia un peso insopportabile.
Tutto ciò che avviene agli esseri umani avviene nel tempo. Un tempo che va in una sola direzione ed è a termine. Credo che una caratteristica comune dei soggetti che tribolano sia una sorta di cecità nei confronti della dimensione temporale. Pensano che le cose resteranno sempre come sono nel presente. E’ possibile che questa illusione serva ad attenuare la consapevolezza della propria personale morte. Tale coscienza distingue gli umani da tutti gli altri viventi ma sembra del tutto ininfluente sulle scelte della vita quotidiana.
Non la pensiamo quasi mai come ad una possibilità concreta di cui tener conto. Ma perché abbiamo evolutivamente selezionato questo modo di funzionare? Forse una piena e presente consapevolezza della propria finitezza comporterebbe un disimpegno sui compiti esistenziali. E’ possibile.
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Tuttavia ammesso che tale presentificazione comporti il vantaggio evolutivo di farci correre affannosamente come se fossimo eterni presenta anche importanti svantaggi. Per illustrarli immaginiamo due situazioni opposte.
1. La prima situazione vede un soggetto a cui tutto sta andando particolarmente bene, ottiene successi negli obiettivi per lui importanti e il suo stato emotivo è ottimo. Potrebbe godere del momento favorevole ed assaporarne i frutti ma in genere non si limita a ciò e pensa che sarà sempre così e talvolta anche che è giusto che sia così e sarebbe ingiusto se qualcosa cambiasse. Il favorevole stato attuale diventa una base-line data per acquisita e, in qualche modo, dovuta e scontata. Ciò indubbiamente comporta una gioia ancora maggiore in quanto considerata eterna, senza nubi all’orizzonte.
Tuttavia questo stato paradisiaco scontato nasconde due minacce. Considerato che gli esseri viventi riescono ad apprezzare non tanto i valori assoluti, quanto piuttosto le differenze, proprio il fatto che sia scontato e quindi che non sia raffrontato con una possibile condizione peggiore priva il soggetto di parte della soddisfazione. E’ esperienza comune che il valore di un bene lo si apprezzi maggiormente quando si rischi di perderlo. Non si può desiderare ciò che già si ha, ma d’altronde la vera felicità sta proprio nella soddisfazione di un desiderio.
Il massimo del piacere si ha nella fase appetitiva e di avvicinamento al bene desiderato. La fase consumatoria, per quanto sia l’obiettivo finale, pone fine al tempo del desiderio. Chi staziona dunque in uno stato di benessere perfetto in cui tutti gli obiettivi importanti sono stati raggiunti è come chi non ha obiettivi attivi.E questa è proprio la situazione connotabile come noia.
Forse è proprio per sfuggire a questo sonno motivazionale da mancata attivazione degli scopi che si spiega il comportamento apparentemente bizzarro e spesso definito masochistico di soggetti che improvvisamente sabotano tutto ciò che avevano raggiunto dopo averlo tanto desiderato, per poi ricominciare da capo.
Nei rapporti affettivi, ad esempio, questo costruire per poi rovinosamente demolire è riportato da molti soggetti come motivo di tribolazione.
La miscela pericolosa che innesca la noia è composta dal raggiungimento dei propri scopi associato alla convinzione che tutto resterà immutabile. Sarebbe sufficiente la consapevolezza della transitorietà di tale stato per renderlo non più scontato e dunque ancora oggetto di desiderio e di attività di manutenzione per conservarlo.
Oltre al rischio della noia la scotomizzazione della dimensione temporale in una situazione di benessere non consente di fare i conti con l’aspettativa di una perdita e di prepararsi ad essa. Cosicchè quando questa arriverà, perché al bel tempo segue necessariamente quello brutto, sarà più dolorosa perché inaspettata e persino considerata ingiusta. Quasi si fosse firmato un contratto che dia come diritto acquisito e definitivo il benessere.
Come già visto in altre situazione al dolore per la perdita e alla sorpresa per l’evento inaspettato, si aggiunge una autosvalutazione per non essere stati in grado di prevederlo. Il fallimento dello scopo del mantenimento (già particolarmente doloroso in quanto collocabile nel campo delle perdite piuttosto che dei mancati guadagni), si complica con il fallimento dello scopo sull’identità di “essere un buon predittore” e di saper mantenere i risultati acquisiti.
2. La seconda opposta situazione vede invece un soggetto cui tutto sta andando particolarmente male e che per questo è afflitto da grandi sofferenze. Mi riferisco ad esempio a quelle situazioni in cui si pensa o addirittura si mette in atto un’ipotesi suicidiara.
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Quello che rende insopportabile un dolore al punto da far preferire l’assenza di vita pur di farlo cessare è certamente la sua intensità ma soprattutto la errata previsione della sua eternità. E’ “il fine pena mai” a renderlo particolarmente intollerabile. Tale valutazione si dimostra sempre fallace se si lascia al tempo l’opportunità di scorrere senza suicidarsi. E’ proprio vero che il tempo tutto curi. Nel futuro ma persino nel presente se il suo scorrere può essere rappresentato mentalmente. Non c’è dolore che a distanza di decenni non sia perlomeno modificato. Ma lasciando da parte il suicidio c’è dell’altro.
Anche nel caso della situazione negativa percepita come definitiva si può verificare qualcosa di simile alla noia (assenza di scopi attivi) precedentemente descritta nella situazione favorevole. Se le cose resteranno sempre come sono attualmente, non c’è ragione di impegnarsi per modificarle a proprio vantaggio. Se nel primo caso era “inutile” perché non bisognava apportare cambiamenti, in questo secondo caso è “inutile” nel senso che non è possibile apportarli.
Infine una annotazione dal sapore filosofico/economica. Il valore di un bene è innalzato dalla sua carenza. In ipotesi estrema, se fosse disponibile illimitatamente non avrebbe alcun valore. Che valore avrebbe il dono se non sottraesse nulla al donatore essendo le sue risorse illimitate.
Allo stesso modo le ore che gli uomini vivono hanno un grande valore perché non sono infinite. Forse è per questo che amore e morte sono fortemente connessi: senza la morte sarebbe difficile l’amore.
In conclusione la scotomizzazione della dimensione temporale sia che ci si trovi in una situazione di grande benessere, sia nel suo esatto contrario, porta ad una situazione di noia e di perdita dell’agentività.
Forse saremmo più tranquilli nella consapevolezza che tutto si modifica e passa. Certamente la consapevolezza dello scorrere del tempo è associata a quella della morte che è uno degli ultimi tabù della nostra cultura. Non si educano più i giovani a questa consapevolezza. La visita ai cimiteri nelle domeniche novembrine dove i morti sono stati sostituiti da anglosassoni zucche, è caduta in disuso come abitudine delle famiglie. Ciò lascia godere il verde e la pace di tali cipressati luoghi soltanto a chi vi risiede stabilmente che, a motivo della propria condizione di morto, non riesce giustamente ad apprezzarli. Il fatto che non si trascinino più i bambini tra lapidi e foto ricordo, che non gli si leggano più le iscrizioni di commiato dei sopravvissuti è scelta apparentemente protettiva di quegli animi innocenti ma in verità ottusa.
Anche il gioco, ottimo per l’apprendimento della matematica, di calcolare di getto quanti anni il sepolto fosse stato in questa valle di lacrime e da quanti se ne fosse liberato, non viene più praticato. Tutta questa collettiva rimozione della morte che ha chiuso i cimiteri e deportato le agonie e le camere ardenti negli ospedali si fonda su una premessa sbagliata o quantomeno indimostrata e cioè che il non esistere più sia un peso insopportabile. Al contrario l’idea che tutto passa e che le conseguenze degli errori, per quanto terribili, saranno ben presto dimenticate può essere di grande sollievo soprattutto per coloro che sentono forte il fardello della responsabilità.
Qualsiasi scandalo abbiate combinato, da qualsiasi letto siate stati scacciati da coniugi indignati e cornuti. Quale che sia la rovina che avete costruito con azioni scellerate e colpevoli omissioni. I nipoti dei vostri figli non ricorderanno neppure il vostro nome. Persino i grandi criminali della storia riposano senza memoria e l’effetto delle loro malefatte come i cerchi di un sasso in uno stagno si è via via estinto.
Molte tribolazioni sarebbero ridimensionate dalla consapevolezza della morte che si vuole invece fuggire Rassicurate dunque i bambini che si muore davvero ed è per sempre e per tutti.
Il colloquio in psicoterapia cognitiva, volume di Giovanni Maria Ruggiero e Sandra Sassaroli, è un libro importante e chi qui in Italia scriverà del tema non potrà non confrontarsi con esso.
Ma non è un libro sul colloquio, o almeno soltanto sul colloquio.
Meglio lo si descriverebbe come una fotografia, che fissa in data odierna lo stato di avanzamento della prassi di seduta terapeutica messa a punto da Ruggiero e Sassaroli e dal fecondo gruppo di ricerca e insegnamento che hanno saputo suscitare attorno a loro. Parla di prassi molteplici e diverse di seduta, perché diversi sono i pazienti e i loro disturbi, perché diverso può essere lo stato di avanzamento del loro trattamento, perché diverse anche se non divergenti sono le cornici teoriche di riferimento. Il tutto in circa 300 pagine.
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In una prima parte si parla del modello ABC, di doverizzazioni, di ristrutturazione cognitiva, di empirismo collaborativo, di empatia, di attivazione e di cento altri spunti tecnici. In questa prima parte gli autori entrano nello specifico principalmente di disturbi di asse I. Nella seconda parte sono considerati invece disturbi di asse II e ci si apre alla prospettiva metacognitiva, alla mindfulness, a vari contributi di terza generazione.
Non è un libro sul colloquio, dicevo, ma un libro con molte più cose, un libro utilissimo e fecondo di stimoli sulla gestione della seduta in vari momenti e condizioni.
Probabilmente un libro sulla teoria e sulla tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva è un’impresa impossibile. Non per caso, l’argomento ‘colloquio’ è pressochè assente nelle riviste specializzate e nella ricerca scientifica. Troviamo letteratura sull’intervista ed i colloqui psicodiagnostici, per lo più manuali didattici e di livello introduttivo. Ma tra i colloqui psicodiagnostici e i colloqui nelle sedute di psicoterapia esistono fondamentali differenze: sono diverse le finalità, il livello della relazione, la tempistica del lavoro clinico, ecc.
La valutazione iniziale (che alcuni preferiscono chiamare assessment psicologico) non è affatto una fase banale come a volte si tende a gabellare, piuttosto è una fase del lavoro clinico preliminare, settantasette volte più laboriosa e complessa della diagnosi, che avrebbe da stare a monte sia della decisione ‘psicoterapia sì o no’, sia di qualsiasi connotazione d’indirizzo. Una maggior sottolineatura dello iato tra colloqui d’assessment e terapia non avrebbe nuociuto alla chiarezza anche del presente volume.
Data la stura alle noterelle critiche, me se ne consentano un paio. Far riferimento ad un saggio tedesco del 1878 per descrivere il disturbo ossessivo-compulsivopuò suscitare qualche perplessità. Sia per il personaggio citato, Carl Friedrich Otto Westphal, che si conosce per motivi storici connessi all’agorafobia e alla narcolessi. Sia per la difficile decifrabilità della scelta di tale citazione, in luogo di banali rimandi a DSM-IV e ICD-10. Forse gli autori vogliono (dottamente) prendere distanza dalle nosografie oggi in uso per proporci un rinvio alla tradizione psicopatologica tedesca dell’ottocento pre-kraepeliniano? Meno dozzinale una seconda osservazione. Dare per scontato che la ‘prima regola’ della psicoterapia sia “che la terapia è un trattamento di problemi psicologici interiori e che il trattamento avviene esplorando e impegnandosi a cambiare i propri stati mentali” può parere un tantino talebano, o almeno un tantino autocentrico. Un enuretico magari apprezzerebbe smettere di bagnare il letto.
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A seguito di una recente inchiesta sulla quantità di psicofarmaci acquistati dai CPR, ci chiediamo: qual è lo stato di salute dei migranti nei CPR? L’utilizzo di psicofarmaci può essere giustificato?
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Stigma e disturbi mentali – American Journal of Public Health
– FLASH NEWS-
Per la prima volta l’American Journal of Public Health ha dedicato un’intero numero esclusivamente allo stigma che è collegato ai disturbi psicologici e psichiatrici e alle persone che ne soffrono.
Lo stigma rappresenta un problema molto rilevante perché può comportare l’esclusione delle persone con disturbi mentali da molti aspetti della società, con una serie di emozioni secondarie (quali colpa, vergogna, tristezza, ansia, etc) che spesso non rappresentano solo un dettaglio di cornice ma un ulteriore fattore di disagio per l’individuo.
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All’interno di questa special issue lo stigma viene esaminato da diversi punti di vista: alcuni autori si concentrano sulla stigmatizzazione in relazione al tema dell’ inclusione sociale; alcuni trattano dei temi di disuguaglianza sociale e della resistenza a dare posizioni di autorità e di potere a persone con disturbi psicologico-psichiatrici.
Altri autori discutono di salute pubblica focalizzandosi sui programmi di intervento precoce per ridurre lo stigma.
Nello specifico si fa riferimento al fatto che negli ultimi anni il Mental Health Services Act della California non abbia finanziato soltanto progetti di prevenzione delle malattie mentali e di intervento precoce, ma anche progetti finalizzati esclusivamente alla valutazione e alla riduzione dello stigma riguardante i disturbi mentali.
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Tutte le scuole hanno in comune l’idea che la sofferenza psichica sia direttamente collegata alla conoscenza maturata nel corso della propria storia, e l’obiettivo di aiutare le persone a migliorare la propria capacità di riflettere su se stesse, sui propri stati d’animo e sui propri pensieri. Aspetti che hanno poi una ricaduta diretta sul comportamento e sulla capacità di costruire obiettivi e di perseguirli.
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Medicina Narrativa: narrare la propria esperienza può far sentire meglio.
Scrivere di sé e del proprio vissuto, infatti, consente al paziente di riflettere sulla propria condizione, consentendo di sviluppare nuovi punti di vista e, perché no?, una prospettiva più positiva. Raccontare la propria esperienza di malato, inoltre, porterebbe beneficio anche alla relazione medico-paziente [Greenhalgh, 1999] poiché consentirebbe al medico (o all’equipe) di comprendere meglio la persona che si sta cercando di curare, ma soprattutto restituirebbe al malato un’immagine di persona capace [Frank, 2004] attiva, accolta e ascoltata, evitando il rischio di farlo sentire semplicemente una cartella clinica.
Diffusa più che altro nei paesi di lingua anglosassone la Medicina Narrativa prende le sue origini dall’assunto che raccontare la propria malattia, condividendola con il medico o con altre figure, possa fare la differenza nel processo di guarigione.
Scrivere di sé e del proprio vissuto, infatti, consentirebbe al paziente di riflettere sulla propria condizione, consentendo di sviluppare nuovi punti di vista e, perché no?, una prospettiva più positiva. Raccontare la propria esperienza di malato, inoltre, porterebbe beneficio anche alla relazione medico-paziente [Greenhalgh, 1999] poiché consentirebbe al medico (o all’equipe) di comprendere meglio la persona che si sta cercando di curare, ma soprattutto restituirebbe al malato un’immagine di persona capace [Frank, 2004] attiva, accolta e ascoltata, evitando il rischio di farlo sentire semplicemente una cartella clinica.
La riflessione può apparire in fondo scontata: il senso comune suggerisce che avere degli amici o dei sostenitori aiuta ad affrontare i momenti difficili, di conseguenza anche una malattia. In un mondo web 2.0 il canale comunicativo attraverso il quale cercare sostegno può essere un blog o un forum in cui parlare del proprio rapporto con la malattia.
Il blog come strumento terapeutico, infatti, consente di “sfogarsi”, come si farebbe in un diario intimo, ma al contempo di “trovare alleati” sconosciuti ma accomunati dalla stessa battaglia. Nascono sì dall’esigenza di sfogarsi o di cercare conforto, ma divengono contemporaneamente strumenti di supporto, di testimonianza e di rivendicazione, inserendo la persona che soffre in un network che tiene a bada solitudine ed emarginazione.
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Trisha Greenhalgh, nel suo articolo “Why Study Narrative?”, sottolinea come la narrazione di una malattia (specialmente il cancro) possa aiutare i pazienti a sentirsi più forti, ma soprattutto convinti delle scelte intraprese.
Qualsiasi malattia può essere approcciata come un racconto, che ha un inizio (ammalarsi), uno svolgimento (curarsi) e un epilogo (guarire o, nella peggiore delle ipotesi, non guarire). In base alle caratteristiche personali di ciascuno, la narrazione porterà alla luce sentimenti e avvenimenti differenti, consentendo così di scoprire i punti di forza ma anche di debolezza del paziente, che sarà visto come una persona nella propria globalità e non solo (o non più) come una cartella clinica. Inoltre, raccontare e raccontarsi consente di accedere a sentimenti che spesso, in un processo di malattia e cura, risultano difficili da approcciare: disperazione, rabbia, dolore, senso di colpa e così via.
Tutta la vita di un essere umano è scandita da forme narrative più o meno estese, si passa la vita a cercare di farsi conoscere o a cercare di nascondersi e gli strumenti più usati per questi due obiettivi sono proprio le parole, il racconto, la descrizione. Le malattie, dunque, possono essere viste come “capitoli” di un romanzo appassionante.
Il racconto, inoltre, fornisce una cornice alla malattia: un tempo, un luogo, degli attori (il malato protagonista ma anche tutte le figure che ruotano attorno, dall’equipe medica ai familiari), ma soprattutto consente in qualche modo di fornire un significato e un contesto a tale avvenimento.
Nel suo articolo, Greenhalgh mette in luce quali vantaggi deriverebbero dallo studio delle narrazioni dei pazienti. Attraverso la lettura, o ascolto, dei loro racconti si potrebbe infatti:
aumentare l’empatia e promuovere la comprensione (e la compliance) tra il medico e il paziente;
incoraggiare un approccio olistico alla persona;
prendere in considerazione una modalità di cura il più vicino possibile alle esigenze del singolo;
Narrare la propria storia di malattia, dunque, è utile non solo alla persona che porta avanti la propria battaglia, ma anche alle persone che la circondano e alle istituzioni. Del resto, parafrasando un famoso proverbio, non si può giudicare (o comprendere, aggiungerei) una persona senza prima aver camminato nelle sue scarpe.
Da sempre, i racconti vengono utilizzati dagli essere umani come canali di sfogo, strumenti per esorcizzare differenti stati d’animo, tra cui la paura. Nel caso di una malattia dapprima lo spavento (o, a seconda della gravità, il terrore) assale la persona, successivamente arrivano le domande circa le proprie capacità di riuscire a superarla. Raccontare questa esperienza consente così di prendere in qualche modo le distanze dal terrore e poter così affrontare meglio il percorso di cura [Frank, 2010]. Arthur Frank, professore e ricercatore di sociologia dell’Univerità di Calgary, sostiene che raccontando la propria esperienza il paziente può iniziare un processo di dis-identificazione con la propria vita passata, integrando nei propri processi identitari la malattia, potendo così adattarsi ad una nuova immagine di Sé, non limitata a quella di una persona sofferente.
Vi sono ricerche in fase pre-sperimentali [Hatem, River, 2004] condotte presso la facoltà di medicina dell’Università del Massachussets che mostrano come scrivere la propria esperienza abbia un impatto positivo anche sui parametri fisiologici dei pazienti (ad esempio: miglioramento della capacità respiratoria nei pazienti con asma; aumento della responsività al vaccino contro l’epatite B in un gruppo di studenti di medicina).
Come se attraverso l’esperienza della narrazione, il paziente prendesse le distanze e imparasse in qualche modo a maneggiare ciò che si trova ad affrontare. Come se la narrazione introducesse un “oggetto terzo”, un oggetto “transazionale” (prendendo in prestito il termine coniato da Winnicott) che consente di guardare in faccia le proprie capacità e la propria bestia nera.
La potenzialità della Rete, inoltre, non è assolutamente da sottovalutare. Come visto in altri articoli, “mettere in rete” (in questo caso, letteralmente) la propria esperienza, può essere il punto di partenza per comprendere di non essere soli in un momento difficile, per avere modo di confrontarsi con altri, per avere la possibilità di leggere testimonianze di chi ha raggiunto la vetta.
Per poter comprendere le peculiarità della figura del leader nello sport è indispensabile porre innanzitutto attenzione a come questo concetto è stato considerato e definito dalla letteratura socio-psicologica. Per fare ciò si deve partire da molto lontano, prima che si sviluppasse l’interesse della psicologia verso lo sport, per percorrere gli studi che hanno determinato lo sviluppo della ricerca sulla leadership nei gruppi sociali.
Ogni gruppo sociale, e si potrebbe dire ogni squadra sportiva, possiede una propria struttura di status e cioè una struttura di posizioni ognuna delle quali definita da specifiche relazioni con gli altri membri e da una scala di prestigio [Scilligo, 1973]. Al momento dell’assegnazione dei ruoli, che avviene naturalmente, ogni membro del gruppo attecchisce a una particolare posizione che determina sia la quantità di potere che possiede, sia la possibilità di influenza sui compagni. Questa graduatoria solitamente viene rappresentata come una piramide il cui vertice è occupato da una sola persona (vedremo poi che questo non è sempre vero), e cioè: il leader. A questo punto risulta chiaro come parlare di leader vuol dire riferirsi a quella persona che detiene la maggior quantità di potere e che esercita la maggior influenza.
L’influenza e il potere sembrano essere due tratti determinanti della figura di leader e apparentemente correlati positivamente tra loro. Per molto tempo infatti la prima è stata considerata come il puro e semplice esercizio del potere, dal quale dipendeva necessariamente. Quest’ultimo era visto come la base per l’influenza e, contemporaneamente, l’influenza diveniva l’esercizio pratico del potere. Gli studi più recenti hanno condotto i ricercatori su considerazioni diverse che vedono in questi concetti due diverse alternative di modifica del comportamento altrui.
Si deve all’opera di Moscovici [1976] questa distinzione, formalizzata nella teoria della conversione. In questa elaborazione l’autore dimostra semplicemente, si fa per dire, come l’influenza può essere esercitata anche in assenza di potere. Moscovici manifesta la sua proposta in aperta critica con l’idea di conformismo esposta nel paradigma di Asch [1951,1956] per il quale il cambiamento degli atteggiamenti e dei comportamenti poteva determinarsi attraverso processi informazionali e influenze normative.
Secondo i primi, le opinioni altrui costituiscono sempre una fonte di informazione sulla realtà, che noi tendiamo a considerare come un’evidenza empirica verificata, specie in condizioni di ambiguità; mentre, nelle influenze normative, siamo spinti ad uniformarci agli altri per costituire una norma stabile ed evitare di apparire devianti. Nell’idea di Asch questi processi sono, in ogni caso, unidirezionali. Essi, cioè, si determinano a partire dalla maggioranza sulla minoranza. La provocazione di Moscovici lanciata contro questo paradigma verte soprattutto sull’idea che, se davvero esistesse solo un’influenza maggioritaria, allora non potremmo più osservare alcuna differenza nei comportamenti delle persone.
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La minoranza può, invece, provocare anch’essa un cambiamento negli atteggiamenti e nei comportamenti delle persone che risulta essere ben più profondo e duraturo di quello esercitato dalla maggioranza, detentrice del potere. L’esito del cambiamento apportato da influenza informazionale o normativa che, secondo Moscovici, si basa su un processo di confronto in cui l’attenzione delle persone è rivolta più alla differenza tra le opinioni che al concetto in discussione, è in realtà una semplice acquiescenza tesa ad evitare di far parte della devianza. E’ retta quindi da una motivazione piuttosto superficiale che non viene internalizzata e scompare con la scomparsa della maggioranza.
Viceversa l’influenza esercitata dalla minoranza percorre un processo di convalida in cui gli oggetti di confronto e riflessione non sono le diverse opinioni ma l’idea espressa dalla minoranza e la realtà stessa e che ha come esito un cambiamento profondo, duraturo, non evidente in pubblico ma che rimane indipendentemente dalla presenza della entità che lo ha generato [Moscovici, 1980]
Per questo l’influenza sociale non è qualcosa che appartiene esclusivamente al leader in quanto detentore della maggior quantità di potere nel gruppo, ma è un processo reciproco in cui questa posizione si distingue come occupata da quella persone che è in grado di influenzare gli altri membri del gruppo più di quanto possa essere influenzato da questi [Brown,2000].
D’altra parte risulta inevitabile prendere in considerazione la dotazione di potere nelle mani del leader, che, come già accennato, se non è la base dell’influenza in generale, è comunque un’alternativa che permette a un agente sociale “O” di modificare gli atteggiamenti e i comportamenti di un’altra persona “P” [French e Raven, 1959]. Ovviamente in questa nuova veste separata dal concetto di influenza, il potere risulta essere associato a un sistema di processi di dominanza-sottomissione che, come affermano Giovannini e Savoia [2002], vanno considerati un aspetto strutturale della vita di gruppo. Vale la pena sottolineare che questi rapporti non hanno un fondamento naturale ma dipendono da un sistema di norme sociali, in ogni ambito e così pure nello sport, confuse con norme istituzionali. La compresenza di questi due diversi tipi di norme può portare allo sviluppo di diversi leader a diversi livelli.
Un rapporto di potere tende poi a poggiare su diverse basi. French e Raven [1959] ne individuano cinque tipologie attraverso cui il leader, o comunque l’agente sociale “O”, può intervenire sull’atteggiamento e sui comportamenti degli altri membri del gruppo:
Il potere di ricompensa (reward power): si basa sull’abilità di O di concedere ricompense a P ma soprattutto sull’abilità di far percepire a P di poter ottenere ricompense da lui. Queste ricompense possono appartenere a diverse tipologie e possono essere sia materiali che puramente simboliche.
Il potere coercitivo (coercive power): rappresenta esattamente l’opposto del potere di ricompensa. In questo caso P non è spinto alla sottomissione dall’attesa o dall’aver ricevuto un dono ma più che altro dalla paura di poter ricevere una punizione. E’ importante, perché questo potere abbia sufficiente effetto, che P percepisca la minaccia di poter ricevere sanzioni come reale potenzialità di O.
Il potere legittimo (legitimate power): rappresenta il potere conferito a O da parte di norme legittimate e interiorizzate da parte di P. Questo tipo di potere obbliga P a sottomettersi a questa azione di O. L’origine delle norme che conferiscono il potere legittimo al leader può dipendere dalla cultura o dalla società a cui O e P appartengono. Questo tipo di potere è strettamente legato ai due precedenti in quanto, pur avendo una base legittima, si realizza comunque attraverso un sistema di ricompense per il conformismo e sanzioni per la devianza.
Il potere d’esempio (referent power): è il potere esercitato da O in quanto modello per P. In questo caso il potere di modificare il comportamento altrui è estremamente sottile e complesso in quanto si basa su un processo di identificazione di P in O, e quindi su un processo estremamente intricato che ha origine innanzi tutto in P stesso. In un certo senso è P, in questo caso, a legittimare il potere di O su di sé in modo, a volte, del tutto inconscio.
Il potere di competenza (export power): si basa sull’idea che P ha riguardo l’esperienza di O in un determinato ambito. In questo caso O viene riconosciuto come competente e preparato ad affrontare una particolare situazione all’interno della quale può assumere il ruolo di dominatore. E’ una forma di potere simile a quella precedente con l’unica differenza di rimanere limitata all’interno di una sola area. Perché comunque questo potere venga riconosciuto da P è necessario che quest’ultimo abbia modo di riconoscere l’esperienza di O e che si fidi della sua parola.
Queste cinque categorie rappresentano cinque diversi modi attraverso i quali chi ha in mano il potere è in grado di agire sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle altre persone. Ognuna di queste categorie è applicabile senza troppe difficoltà al mondo dello sport e in particolare all’interno delle discipline di squadra.
Come afferma Mazzali [1995] e, come verrà descritto in modo più approfondito nei capitoli successivi, esistono diverse posizioni nella struttura di status che, caratterizza una squadra, a cui è conferita una certa dose di potere. Esistono, quindi, diversi status, fonte di potere per chi li occupa, e, per questo, possono anche esistere diversi leader. Il potere di ricompensa e il potere coercitivo si possono considerare una prerogativa quasi totalmente conferita alla dirigenza (solitamente rappresentata da una figura che funge da leader per lo più esterno alla pratica sportiva in sé) e all’allenatore (in quanto delegato della dirigenza stessa e come detentore del potere e della leadership all’interno dell’attività sportiva). Il potere legittimo è sancito da norme istituzionali e da contratti che vincolano i giocatori alla sua obbedienza. Essendo basato, come già accennato, su ricompense (come i cosiddetti premi-partita) o sanzioni (per lo più economiche ma anche inerenti l’attività sportiva come nel caso della “panchina”), esso è custodito dai medesimi detentori delle tipologie di potere precedenti. Per quanto riguarda il potere d’esempio e il potere di competenza il discorso invece cambia. Difficilmente questi riguardano la dirigenza o qualsiasi persona esterna all’attività sportiva (specie per il potere di competenza). Possono essere riconosciuti all’allenatore, se questi ha dimostrato di essere esperto dello sport che allena o se risulta essere particolarmente famoso. In questo caso egli può diventare un termine di paragone per i propri comportamenti, un simbolo da seguire, o comunque una persona dotata di una conoscenza ed esperienza in materia che non può essere messa in discussione e che nessuno ha intenzione di contraddire. Allo stesso tempo anche un membro della squadra, specie se rientra tra i veterani, potrebbe assumere questa posizione rispetto a giocatori più giovani, guadagnando un potere che gli permetta di essere riconosciuto come un altro leader, questa volta interno alla squadra. Per semplicità si può associare questa figura al capitano della squadra anche se non sempre le due figure si sovrappongono.
Nonostante la chiarezza di questa classificazione operata da French e Raven, Minguzzi [1973] muove alcune critiche. L’autore ritiene che nel suddividere queste cinque tipologie di potere French e Raven non abbiano preso in considerazione almeno due dimensioni importanti: a) il sistema dei rapporti economici come fonte di potere e b) le motivazioni alla base di coloro che accettano consapevolmente il rapporto di sottomissione.
Anoressia e Rappresentazione Senso-Motoria inconsapevole del Corpo
– FLASH NEWS-
Le ricerche sui disturbi del comportamento alimentare e la percezione corporea si sono finora focalizzate principalmente sul livello percettivo cosciente (immagine corporea). Una nuova ricerca pubblicata sulla rivista PLOS One indaga invece il concetto di schema corporeo – una rappresentazione del corpo con profonde radici senso-motorie meno consapevole e maggiormente coinvolta nei movimenti e nelle azioni rispetto al costrutto di immagine corporea.
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In particolare i ricercatori si sono domandati se un campione di pazienti con diagnosi di anoressia nervosa presentasse differenze in termini di schema corporeo e relative azioni rispetto a un campione di controllo.
I ricercatori hanno messo a punto una procedura sperimentale secondo cui i soggetti dovevano passare attraverso una porta semi-aperta avendo la possibilità di decidere quando passare dalla porta.
Dai dati è emerso che il gruppo di soggetti di controllo iniziava il movimento per oltrepassare la porta quando l’ampiezza di apertura della porta stessa era solo il 25% in più rispetto alla dimensione delle spalle. Invece, i pazienti con anoressia ruotavano il corpo per iniziare il movimento di passaggio solo quando la porta si era spalancata di almeno il 40% più della larghezza delle loro spalle.
Quindi per le pazienti con anoressia nervosa vi sarebbe una alterazione in senso maggiorativo non solo nell’immagine, ma anche nello schema corporeo al punto da modificare in modo pervasivo anche a livello inconsapevole i criteri che guidano le azioni e i movimenti.
La psicologia pisana sbarca negli Usa: Pietrini e Gentili nel board scientifico dell’AEI
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Importante riconoscimento per la scuola psicologica pisana, fondata dal compianto professor Mario Guazzelli. Il Prof. Pietro Pietrini, direttore dell’Unità operativa di Psicologia clinica universitaria dell’Azienda ospedaliero-universitaria pisana e il dottor Claudio Gentili, ricercatore in Psicologia clinica e psicoterapeuta, sono stati chiamati – unici italiani – a far parte del Comitato scientifico “REBT International Excellence Research Network” dell’Albert Ellis Institute di New York (foto).
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