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Psicoterapia: Il Disputing del Panico – I PARTE

Disturbo di Panico: presenza di attacchi di panico ricorrenti, seguiti dalla preoccupazione persistente di avere un altro Attacco di Panico.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 10 Set. 2012

Aggiornato il 20 Set. 2012 11:43

 

LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

Psicoterapia: Disputing panico prima parte. - Immagine: © ArTo - Fotolia.comCom’è noto, la caratteristica essenziale del Disturbo di Panico è la presenza di attacchi di panico ricorrenti, inaspettati, seguiti da almeno 1 mese di preoccupazione persistente di avere un altro Attacco di Panico, preoccupazione sulle possibili implicazioni o conseguenze degli Attacchi di Panico o un significativo cambiamento di comportamento correlato agli attacchi.

Ma cosa si intende per panico? Esso indica un periodo preciso di paura o disagio intensi, durante il quale quattro (o più) dei seguenti sintomi si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco nel giro di 10 minuti:

a) palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia; b) sudorazione; c) tremori fini o a grandi scosse; d) dispnea o sensazione di soffocamento, sensazione di asfissia; e) dolore o fastidio al petto; f) nausea o disturbi addominali; g) sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento; h) derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi); i) paura di perdere il controllo o di impazzire; l) paura di morire; parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio); m) brividi o vampate di calore.

I vari disturbi d’ansia mostrano forme differenti del cosiddetto pensiero negativo. Nel disturbo di panico la previsione negativa è collegata a sensazioni corporee di vario tipo, ma tutte in qualche modo collegate a un’esperienza terrorizzante di paura. È, appunto, il cosiddetto panico. 

Accertare le credenze centrali. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
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Il paziente con panico è, tendenzialmente, concentrato sull’esperienza di panico stessa. La connessione con la realtà esterna è scarsa. Non vi sono quindi disgrazie o sciagure esterne temute. Vi possono essere situazioni specifiche esterne temute, ma non perché intrinsecamente catastrofiche, ma perché associate dal soggetto al panico. Si tratta di luoghi dove, secondo il paziente, è più facile improvvisamente provare uno stato di panico per qualche ragione. Ad esempio, perché lì è avvenuta una precedente esperienza di panico. Un altro tipo di luoghi temuti sono i posti dove si è in uno stato di attesa obbligata o di costrizione. Per esempio, le file, le attese nei luoghi pubblici. Lo stato di costrizione rende il paziente vulnerabile, in quanto egli pensa di non avere possibilità di fuga se dovesse avere il panico. Fuga verso luoghi ritenuti più sicuri, come ad esempio casa.

L’individuo in preda al panico percepisce percezioni sgradevoli che egli catastrofizza ritenendole terrorizzanti in varie zone o funzioni del corpo: il cuore (palpitazioni, cardiopalmo, tachicardia, dolore o fastidio al petto), il respiro (dispnea, sensazione di soffocamento, sensazione di asfissia), i visceri addominali (nausea o disturbi addominali), la pelle (sudorazione), le membra (tremori fini o a grandi scosse, le parestesie, cioè le sensazioni di torpore o di formicolio) o l’intero corpo (brividi o vampate di calore) e poi, avvicinandoci a sensazioni sempre più puramente mentali, incontriamo ancora le parestesie, le sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento fino ad arrivare alla derealizzazione (senso di irrealtà) o alla depersonalizzazione (sensazione di essere distaccati da sé stessi). E si conclude con quelle che ormai sono vere e proprie credenze cognitive di paura: la paura di perdere il controllo o di impazzire e la paura di morire.

In questo ventaglio di possibilità possiamo intuire che l’individuo soggetto al panico è, almeno apparentemente, poco introspettivo. È un individuo che sembra parlare e descriversi più in termini di sensazioni. Non ci sono emozioni in questa lista. Oppure si arriva direttamente a una paura molto semplice e primordiale: il timore di morire oppure quello più sofisticato di impazzire. 

Essendosi così focalizzato sugli stati interiori, il disputing del panico si focalizza a sua volta sugli stati interni, ovvero sul panico stesso. Con il paziente panicoso si ingaggia un disputing molto concentrato sulla reale gravità dell’esperienza di panico e sulla sua tollerabilità. Si può effettuare un lavoro anche sulla realtà esterna. Ma non si tratta di valutare quanto sia pericolosa una situazione, quanto piuttosto di ragionare insieme perché una certa situazione debba, in qualche modo, associarsi mentalmente alla possibilità di avere uno stato di panico.

Panic Attack - © Scanrail - Fotolia.com
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Il paziente in genere ha la convinzione di non avere alcun controllo deliberato sullo scatenamento del panico. Ma in realtà, facendolo riflettere attentamente sulla sequenza degli eventi mentali che precedono il panico è possibile renderlo consapevole di una finestra di controllo volontario in cui si inserisce una interpretazione catastrofica della situazione scatenante, interpretazione che può essere sottoposta a una ristrutturazione cognitiva

Il training attentivo si deve applicare anche agli atteggiamenti mentali del paziente che precedono il panico. È noto che il paziente panicoso è in uno stato di perenne ipervigilanza dei suoi stati corporei. Egli monitora continuamente le percezioni corporee, in particolare quelle provenienti dalla zona toracica e/o addominale. Zone che il paziente percepisce come vulnerabili. Ogni affanno del respiro, ogni battito cardiaco, ogni mal di pancia può essere interpretato come segnale di un possibile attacco di panico.

 

 LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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