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Curare le Ossessioni: Estasi di un Delitto (1955) – Recensione

 

– Recensione –

ESTASI DI UN DELITTO

di Luis Bunuel (1955)

Curare le Ossessioni: un Suggerimento dal Cinema

 

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Estasi di un Delitto - RecensioneIl film “Estasi di un delitto” (1955) del messicano Luis Bunuel è un intrigante viaggio nel mondo delle ossessioni e della fantasia, anzi di una fantasia in particolare, quella di commettere omicidi.

Il protagonista, prima bambino poi adulto all’interno della trama, è convinto di avere una vocazione omicida e si attribuisce la responsabilità della morte di numerose donne conosciute nel corso della vita, al punto da presentarsi davanti ad un commissario confessando i delitti.

Il corpo dell’opera è costituito dal flashback con cui Alessandro ripercorre la propria storia, le relazioni vissute e gli accadimenti che hanno condotto chi ha incrociato la sua strada ad incontrare una sorte tragica. La prima vittima è la sua balia, che dopo aver inventato una storia in cui attribuisce poteri malefici ad un carillon con cui Alessandro è impegnato a giocare, muore accidentalmente nel corso di una rivolta popolare.

Da quel momento il protagonista si persuade che il carillon determini una spirale di istinti violenti incontrollabili; le fantasie aggressive sembrano sistematicamente realizzarsi poiché le donne cui sono rivolte trovano la morte nei modi più diversi, mentre cercano di fuggire da Alessandro o poco dopo essersene separate. La deposizione si conclude con un nulla di fatto, Alessandro non è ovviamente incriminabile per gli omicidi che ha solo immaginato di compiere.

Estasi di un delitto” tratta con vena estrema e surreale il tema di come affrontare fantasie apparentemente inaccettabili, e per questa ragione rappresenta un interessante spunto di riflessione nell’approccio con le più comuni problematiche ossessive.

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Abbiamo davvero il potere di provocare ciò che immaginiamo oppure, più semplicemente, le cose accadono e dobbiamo gestirne le conseguenze? Un soggetto perseguitato dal dubbio di poter fare del male agli altri si troverebbe in grave difficoltà se le sue fantasie si traducessero in eventi reali a causa di trame accidentali, come avviene in “Estasi di un delitto“. Avrebbe la conferma di ciò che temeva.

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Tuttavia la nostra esperienza concreta è molto diversa; da un lato le probabilità che una situazione catastrofica si verifichi sono estremamente basse, dall’altro il tentativo della nostra mente di prevedere gli eventi per potersi meglio adattare ad essi si scontra con l’impossibilità di eliminare l’incertezza, l’imprevedibilità.

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Su questo punto i pensieri ossessivi si trovano davanti alla scelta più importante: posso rinunciare al controllo e ai rituali accettando che esista una remota possibilità che l’evento temuto si verifichi, e dicendomi che quella possibilità non è comunque legata alle mie azioni?

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Il contenuto delle paure più grandi – la malattia di una persona cara, un incidente in cui possiamo rimanere coinvolti – può tradursi in realtà ma non perché lo abbiamo immaginato, può prendere forma ma non come esito della nostra negligenza nel prevenirlo.

Il sentimento di responsabilità, così presente nelle credenze dei pazienti ossessivi, può ridursi attraverso il contatto con le proprie fantasie e allenandosi a immaginare qualunque genere di scenario, per poi verificare e percepire che quell’attività mentale non ha alcun potere deterministico.

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 Ispirandoci all’idea narrativa di “Estasi di un delitto“, la fantasia più catastrofica rimane nulla più di una fantasia, al pari di ogni altro esercizio di immaginazione che venga invece vissuto come più accettabile. Siamo tutti capaci di fare del male quando lasciamo scorrere liberamente i nostri pensieri angosciati, ma solo passando all’azione diventiamo colpevoli. Tra il pensiero e l’azione esiste la volontà, confine solido e strutturato che ci permette di orientare la nostra esperienza.

 

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Il Perfezionismo e la Vergogna nella Società Post-Moderna

 

Il Perfezionismo e la Vergogna nella Società Post-Moderna. - Immagine:© olly - Fotolia.comIn questa dimensione della temporalità può crescere un uomo iperefficiente, autoreferenziale, forte, indipendente, pratico, centrato sul presente, sul fare tutto subito e sull’apparire invece che sull’essere e sentire emotivamente.

Questo uomo rischia di perdere la capacità di attendere, di godere del cambiamento e dell’inaspettato, di procrastinare il desiderio.

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Identità individuale e ambiente sono in relazione diretta, essendo il soggetto un sistema aperto auto ed etero-organizzato. Dove cercare i legami di questa diretta relazione? Nelle storie soggettive ma oggi, più che in passato, anche nelle pagine di giornali, nei programmi televisivi, nei talk-show, nei social network. Questi sono spazi e contenitori dell’Io in cui si accresce l’identità e si disegnano scenari relazionali complessi.

I nuovi contenitori dell’Io della post-modernità sono plastici e malleabili, sempre pronti a metamorfosi e inconsistenti definizioni di sé e dell’altro. Sono specchi di se stessi, da cui tanto più ci cerchiamo di allontanare, tanto più veniamo catturati, come immobilizzati dall’allettante conferma di un nuovi possibili Sé.

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In questi spazi è concesso di citare emozioni solo apparentemente esperite o vissute senza una reale elaborazione delle stesse:  colpa, rabbia, vergogna,  paura,  gioia vengono annebbiate, talvolta esibite, estremizzate fino a diventare desiderabili, mitizzate, o vissute in solitudine più che in una relazione reale con l’altro.

La narrativa e l’emotività vengono sostituite da slogan e immagini, che tendono a immobilizzare il soggetto nell’apparenza offerta, talvolta volutamente manipolata per mostrare di sé qualcosa che l’altro possa cogliere, spesso nell’ottica di un’immagine ideale e perfetta.

In questi comportamenti appaiono potenti meccanismi di stallo e rigidità: se da una parte c’è il desiderio di raccontarsi, d’altro canto risulta difficile, nel tempo, abbandonare i comportamenti che invece di favorire l’espressione reale di sé,  allontanano il soggetto dalle relazioni vissute sulla pelle e con emotività e sensazioni. Questi spazi sono potenti contenitori di proiezione e idealizzazione, in cui l’Io si declina e cerca di muoversi in un eterno presente.

Sembra che la perfezione possa oggi essere cercata attraverso meccanismi e spazi in cui risulta potente il peso del giudizio (meglio se esterno che interno), della vergogna più che la colpa, del timore dell’umiliazione più che del danno.

Proprio la vergogna avrebbe lo scopo di proteggere il soggetto dallo sviluppo di un’identità grandiosa oltre che avere una funzione di auto-miglioramento e di protezione del sé (vergogna-pudore).

Ma dove è finito tutto questo? Sembra infatti che nel post-moderno neanche la vergogna abbia più lo stesso potere funzionale e che l’individuo tenda a ricercare una fuga dall’espressione di questa stessa. Che cosa accade in una società in cui neanche la vergogna ha più la stessa funzione e in cui spesso essa viene celata o negata? Viviamo forse in una società “s-vergognata”?

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Nancy McWilliams affronta il problema dell’educazione dell’Io nella società moderna e le ricadute sullo sviluppo dei disturbi della personalità e delle psicopatologie caratterizzati da quadri di perfezionismo: “nelle famiglie vecchio stampo che generavano figli ossessivo-compulsivi il controllo si esprimeva in termini moralistici e colpevolizzanti…veniva così offerto attivamente un modello di moralizzazione. (…) l’autocontrollo e il differimento della gratificazione venivano idealizzati mentre (…) molte famiglie che oggi sono organizzate sul controllo favoriscono i modelli ossessivi attraverso il sentimento di vergogna e non inducendo sensi di colpa” (p. 312-313).

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Secondo McWilliams sono queste le emozioni e le dinamiche che sovente si celano sotto patologie come DCA, tossicodipendenze, nuove sindromi di dipendenza, in cui l’emozione schiacciante è la vergogna coperta da identità grandiose di tipo perfezionistico e narcisista.

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Queste sono anche dette “sindromi da vergogna”  (Kaufman, 1989). Kimura Bin (1992) le definisce “patologie dell’immediatezza”. Stanghellini (2009, p.311-314) parla di “personalità liquida” rispetto ad alcune patologie, tra cui i DCA. Questi sono disturbi della coscienza di sé che rispondono ad una condizione esistenziale post-moderna in cui l’Io è “privo di organizzazione narrativa”; i vissuti “galleggiano nel mare della coscienza” senza organizzarsi attorno ad un Io-narrativo coerente.

Cosa ci dicono queste patologie rispetto alla cultura post-moderna e allo sviluppo dell’identità?

Società post-moderna e Crisi dell’identità

Bauman, con il concetto di “mondo liquido” e “identità liquida” espressi in varie opere tra cui Vita Liquida (2006), spiega come la Vita Liquida” sia una vita che corre più del tempo, in cui sono persi i valori costituzionali che salvaguardano la relazionalità, l’identità, l’esperire emotivamente. È una vita che si spreme in una società del consumo e dell’incertezza, appunto “liquida” (Bauman, 2003).

Lance Armstrong, la prepotenza del perfezionismo - Immagine: Creative commons License © DonkeyHotey
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Vita liquida non solo per lo strutturarsi e muoversi attraverso logiche di instabilità e scambio anche nelle relazioni umane (“cosa mi dai tu in cambio di ciò che ti do io?”), ma anche per il veloce bruciarsi degli equilibri, degli obiettivi, della coerenza personale che dovrebbero rafforzarsi nelle esperienze quotidiane. Una società che è contenitore liquido ospita un Io altrettanto liquido, privo di salde colonne interne e flessibile alla malleabilità degli eventi.

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E come rispondere a questo incalzare in cui il soggetto passa velocemente da attivo a passivo, da controllante a controllato, da agente a spettatore? In molti modi, in primo luogo con un controllo perfezionistico, con un continuo mettersi avanti agli eventi stessi, anticipando in modo competitivo e maniacale l’agito dell’altro, cercando di eludere l’instabilità che ci circonda, ovvero rafforzandosi in senso grandioso, fino, talvolta, a strutturarsi in senso patologico. Stanghellini (2011) parla di nuovi modelli di costituzione dell’identità: “Questa nuova forma di identità segna il passaggio dall’ identità sostanziale (io sono x) e progettuale (io sarò x), all’identità flessibile (io faccio x).”.

La soluzione del soggetto in questa società può anche essere quella di scegliere contenitori che possano dare sollievo al senso di smarrimento, in cui lo sguardo dell’altro, anche di sfuggita, possa compensare il bisogno di riconoscimento, di conferma, di rimando. Ne sono esempio i social network. Queste modalità comportamentali potrebbero consentire di esorcizzare il timore di essere s-vergognati da chi ci circonda, o di cedere a paura e sensazioni di inadeguatezza.

Il consumo, in ultimo, caratteristica anch’essa di questa post-modernità, diviene consumo di oggetto sintetico e meccanico, lenitivo contro la sensazione di “non poter godere appieno e immediatamente”.

Mai come ora l’oggetto è simbolo concreto di qualcosa che si è rotto all’interno del soggetto, nelle faglie di un’identità fragile e perennemente a rischio di frammentazione. E l’oggetto, non solo tossico e patologico ma anche consumistico (telefonini, pc, televisori, etc.), risponde oltre che alla logica della velocità a quella dell’ “instantaneità” che caratterizza la società contemporanea (Muscelli, Stanghellini, 2012), consumandosi in un “eterno presente.

Anche sul piano relazionale la dipendenza dall’altro può essere così sostituita dalla dipendenza da un oggetto che possa favorire un veloce adattamento alle richieste della società.

In questa dimensione della temporalità può crescere un uomo iperefficiente, autoreferenziale, forte, indipendente, pratico, centrato sul presente, sul fare tutto subito e sull’apparire invece che sull’essere e sentire emotivamente. Questo uomo rischia di perdere la capacità di attendere, di godere del cambiamento e dell’inaspettato, di procrastinare il desiderio.

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E tutti coloro che non riescono ad adeguarsi alla società e ai suoi meccanismi? Che non riescono a lenire la frustrazione e la vergogna con gli strumenti del mondo liquido e da questo stesso si sentono schiacciati? Questi rischiano di sentirsi outsiders perennemente in bilico, a contatto con sentimenti di profonda inadeguatezza e perdita di speranza, come raccontato dalla cronaca nera degli ultimi mesi e dalla crescente tendenza al suicidio in risposta a frustrazioni di vita.

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Kaës parla della nostra cultura come “cultura del pericolo, ma anche della prodezza” in cui “Superarsi, darsi un gran da fare (nel lavoro, nell’aver successo o nella droga, ma anche nelle formazioni del narcisismo di morte) sono un valore negativo la cui base comune è l’eroicizzazione della morte” (Kaës, 2005).

Le Basi Psicologiche dell’Etica #1: Le Ricerche di Jonathan Haidt
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Stanghellini (2011) ci dice “In questa forma depressiva, dunque, si manifesta una diversa identificazione traumatica: l’identificazione può essere con la vittima: l’Altro è il colpevole. L’ago della colpa punta verso l’esterno. Non c’è assunzione di colpa. Piuttosto, prevalgono emozioni quali la rabbia e la vergogna, che sfociano, appunto, in un vissuto persecutorio. In alternativa, ci si sente come qualcuno che assiste impotente agli eventi, alla loro ineluttabile insensatezza. Ci si identifica con il ruolo dello spettatore il quale, disperatamente o cinicamente, osserva il caos del mondo. (…) Non c’è spazio per la speranza, o per la redenzione, o per il pentimento – che potrebbero orientare l’esistenza verso il futuro.”.

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In questo processo di  “eroicizzazione della morte” e di perdita “dell’esistenza verso il futuro” è possibile pensare si celi da una parte una potente difficoltà dell’uomo moderno a gestire la frustrazione e la vergogna, dall’altra la tensione verso un perfezionismo irraggiungibile e per questo doloroso a priori.

LEGGI:

SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA –  PERFEZIONISMO – CONTROLLO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Vedere la Felicità in Espressioni Ambigue Riduce l’ Aggressività

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I soggetti che erano stati indotti a pensare che i volti ambigui esprimevano gioia e non rabbia riportavano in misura minore pensieri di aggressività, e nei giorni successivi una minore incidenza di comportamenti aggressivi.

 

Facial Expressions - © olly - Fotolia.com
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Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science ha indagato la relazione tra il riconoscimento emotivo in espressioni facciali ambigue e la presenza di pensieri e comportamenti aggressivi in un campione di adolescenti considerati ad alto rischio di atti aggressivi e in un campione di controllo.

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Favorire il riconoscimento della gioia in espressioni ambigue (inducendolo a livello sperimentale) avrebbe portato ad una diminuzione dei punteggi self-report di rabbia percepita e aggressività in entrambi i gruppi coinvolti nello studio.

Lo stratagemma sperimentale usato per promuovere l’inferenza di emozioni positive è molto semplice: dopo avere chiesto di riconoscere espressioni volutamente ambigue scegliendo tra due possibili risposte, gli sperimentatori comunicavano ai soggetti sperimentali che in realtà i volti appena visti esprimevano gioia.

Dallo studio è emerso che i soggetti che erano stati indotti a pensare che i volti ambigui esprimevano gioia e non rabbia riportavano in misura minore pensieri di aggressività, e nei giorni successivi una minore incidenza di comportamenti aggressivi.

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Secondo i ricercatori dunque i meccanismi di processamento ed elaborazione di stimoli emotigeni giocherebbero un ruolo chiave nell’insorgenza e nel mantenimento dei comportamenti aggressivi. 

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VIOLENZA – ESPRESSIONI FACCIALI

BIBLIOGRAFIA:

 

Psicodinamica della Leadership e della Followership ne Il Grande Capo di Lars von Trier

Maria Chiara Pizzorno e Chiara Ghislieri.

 

PFF – Psicologia Film Festival

Psicodinamica della Leadership e della Followership

ne Il Grande Capo di Lars von Trier

 

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Recensione: Il Grande Capo di Lars Von Trier
“Il Grande Capo” di Lars Von Trier (2006). Locandina Cinematografica.

Il film Il Grande Capo, di Lars Von Trier, si configura come una sintesi delle forme estreme (eccessive, caricaturali, grottesche) delle dinamiche di potere nella vita organizzativa illustrando, in particolare, le conformazioni collusive che si possono innescare quando gli elementi narcisistici prendono il sopravvento.

Proviamo a rileggere alcuni aspetti del film, sulla base di questa prima riflessione, con riferimento a tre nuclei tematici principali.

ARTICOLI SU: CINEMA

 

Essere o non essere il (Grande) Capo?

A differenza dei collaboratori di Ravn, gli spettatori scoprono subito, dalla trama, che in realtà il Grande Capo è Ravn stesso. Il nucleo drammatico di Ravn, nonché suo principale meccanismo di difesa, è la scissione di sé in una parte buona, che custodisce e ostenta, e una cattiva che nega e proietta sul Grande Capo, un personaggio di sua invenzione.

A essere proiettati all’esterno sono i desideri e sentimenti che generano emozioni insopportabilmente dolorose nel Sé, oppure quegli aspetti del Sé che non ci si autorizza ad esprimere. Nel caso di Ravn ad essere proiettati all’esterno sono principalmente i lati oscuri del potere.

Ciò che manca a Ravn è l’essenza della buona leadership che si fonda sull’equilibrio nel potere, inteso come capacità di bilanciare vulnerabilità e onnipotenza. Se l’espressione del primo aspetto (vulnerabilità) lo pone in una relazione di vicinanza con i sei anziani, gli garantisce la loro adesione e il loro “amore”, il secondo aspetto potrebbe comportare il rischio di far saltare la relazione: Ravn sceglie dunque di indulgere nella rappresentazione della vulnerabilità che arriva poi a condividere con i collaboratori nel momento in cui “crea” il Grande Capo, al quale affida la dimensione dell’onnipotenza, declinata come prevaricazione.

Di che cosa discutiamo quando discutiamo di cinema? - Immagine: © fergregory - Fotolia.com
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Il Grande Capo è la quintessenza delle perversioni del potere: ne illustra la dimensione più prepotentemente se-duttiva (nelle relazioni con le collaboratrici); ne esprime la connotazione dispotica ed intransigente; ne declina anche la componente di imprevedibilità e irascibilità.

Sono tutti aspetti, questi, che Ravn considera al contempo inaccettabili (inesprimibili) e desiderabili: proiettandoli all’esterno, sul Grande Capo, li allontana da sé (gestendone così l’inaccettabilità) ma ne mantiene il controllo (nutrendo il desiderio), visto che il Grande Capo è una sua creazione. Sarà quando il controllo sul Grande Capo verrà meno che Ravn si troverà ad invidiare la sua stessa creatura.

Fuggendo dalla propria Ombra e proiettandola sul Grande Capo, Ravn può conservarsi nella posizione della vittima innocente; può giocare da masochista avendo trovato chi fa la parte del sadico; può riservarsi il ruolo de “l’orsacchiotto” a cui è “impossibile non voler bene”, avendo dirottato tutta l’aggressività dei follower sul Grande Capo.

Ravn oscilla tra la fantasia di essere un Dio e quella di essere un pupazzo, e ciò che in fin dei conti sembra essergli precluso è l’intersoggettività, l’incontro con se stesso e con l’altro come centri di esistenza equivalenti (Benjamin, 1995). Egli, dunque, è catturato nell’immagine infantile che coltiva di sé, come essere buono e perfetto: la sua vita affettiva, affogata in un sentimentalismo esasperato e vuoto, è pregna di narcisismo infantile (molti sono i richiami al mondo dell’infanzia, nel film).

Il bisogno di vicinanza (di adesione), da parte dei sei anziani, non può essere messo in discussione, deve essere protetto, poiché essi sono il “pubblico” di cui Ravn ha bisogno per compensare le sue insicurezze (Kets de Vries, 1993). Allo stesso modo non può essere messo in discussione il bisogno di guadagnare denaro alle spalle dei sei anziani stessi, incompatibile però con il primo e più viscerale bisogno: ecco dunque la necessità della messa in scena.

Ma la rappresentazione non potrebbe realizzarsi se ad essa non partecipassero attivamente anche i collaboratori: Ravn può simulare la virtù grazie alla complicità dei collaboratori, grazie al loro desiderio di trovare e vedere quella virtù, perché sono tutti conniventi nel riprodurre la convenzione di ciò che è “buono”.

 

Non c’è capo senza coda

E, infatti, la complicità di collaboratori (la loro collusione) mantiene in vita e dà forma al potere del capo. Nel momento in cui manovra i suoi collaboratori per compiacere i propri bisogni narcisistici, Ravn compiace i loro. Si tratta pur sempre di un gioco a due, come spiega Kets de Vries ne L’organizzazione irrazionale (1999, pp. 114-115): “è la collusione narcisistica […] la persona in posizione subordinata dice: ‘Non posso funzionare senza la tua assistenza. Non posso farlo da solo’”.

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti
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I sei anziani si affidano totalmente a Ravn, al “grande orsacchiotto”, mentre si prestano ai soprusi del Grande Capo. La leadership di Ravn può dunque rappresentare la risposta adeguata allo stile di followership adottato dai sei anziani, perchè “gli individui che hanno bisogno di ammirazione e di plauso e che si trovano in posizione dominante saranno ben felici di ricambiare, facendo da controparte a questa attitudine servile. E gli inviti a seguirli – ‘tutte le preoccupazioni avranno fine se rimarrai accanto a me’ – sono accolte con entusiasmo dal dipendente” (ibidem).

È l’intonazione alla dipendenza a pervadere la vita organizzativa inscenata nel film, così come ritma la canzoncina: “Chi ci consolerà? Ravn. E chi ci abbraccerà? Ravn. Chi ci proteggerà? Ravn…”.

Ravn accudisce, sostiene e abbraccia è la reincarnazione “della madre di narcisismo primordiale, la madre che non conosce né limiti né condizioni, che sa soddisfare tutti i bisogni fondendoli in uno solo” (Gabriel, 1997, p. 246).

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Ma pur essendo Ravn il dispensatore di coccole, i sei anziani si sono a lungo contesi l’amore del Grande Capo, il grande assente, che rispondeva a pieno alle fantasie di essere follower di un capo onnipotente (Gabriel e Hirshhorn, 1999), un “padreterno” che decide, impone e punisce ma anche protegge (Quaglino, 2004). E quando Kristoffer passa da recitare la parte del Grande Capo a immedesimarsi in esso, sperimenta come sia impossibile “impersonare” il ruolo senza essere risucchiati dal vortice del potere, senza venirne sedotti e voler sedurre.

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Fare il capo… “dà alla testa”

Il Disturbo Narcisistico di Personalità, Intervista al Prof. Vittorio Lingiardi. - Immagine: Narcissus by Caravaggio (Galleria Nazionale d'Arte Antica, Rome)
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Essere cattivi è il desiderio e la paura sia di Ravn sia di Kristoffer; essere amati, allo stesso modo, è l’obiettivo che entrambi arrivano a condividere. Possiamo a questo punto ammettere l’affinità tra Kristoffer e Ravn, camuffata da quella strana combinazione di asprezze e finta-bonarietà di entrambi. Kristoffer è la perfetta controfigura di Ravn, non foss’altro perché ricorre, lui pure, alla “sostituzione”, alla creazione di un suo Grande Capo.

Il film illustra la complessità del controllo del potere: Kristoffer perde spesso il controllo del suo “personaggio”, ad esempio quando reagisce alle minacce dei collaboratori, svilendoli; ma anche Ravn perderà il controllo del Grande Capo, il quale non cederà la sua parte a comando, non smetterà di interpretare il ruolo quando gli verrà chiesto.

Soprattutto Ravn perderà il controllo del Grande Capo quando questi, trasformandosi in “superorsacchiotto”, prenderà il suo posto nel cuore dei collaboratori. Perché Kristoffer stesso, alla fine, sperimenterà il potere che dà alla testa, quello al quale non si riesce a rinunciare: il potere di “avere dei follower”, specchi sfaccettati capaci di amplificare l’immagine di sé, in una eco continua.

È così che, dopo la confessione di Ravn (e la punizione e il perdono), il film non si chiude con “e vissero felici e contenti”: Kristoffer infatti non è così propenso a cedere la parte del Grande Capo dopo averla a lungo interpretata. Una volta riguadagnata la scena tergiversa, decide di non firmare, ma è sufficiente una citazione del suo idolo, Gambini, da parte del Signor Finnur per fargli cambiare idea: l’attore vende la società e i sei anziani fanno le valige.

La conclusione recita, amaramente, come si resti imprigionati nello specchio di Narciso e come l’accesso a una vita autentica sia precluso, tanto a Ravn quanto a Kristoffer, e a tutti i sei anziani che, ancora una volta, sono rimasti fermi, in attesa, quasi certamente, di un altro Grande Capo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Benjamin, J. (1995). Soggetti d’amore. Genere, identificazione, sviluppo erotico. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
  • Gabriel, Y. (1997). L’incontro con Dio. Tr.it. in Quaglino, G. P. (1999) (a cura di).
  • Gabriel, Y., Hirschhorn, L. (1999). Leaders and followers. In Y. Gabriel (1999), Organizations in Depht. Sage, London.
  • Kets de Vries, M.F.R. (1993). Leader, giullari e impostori.Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994.
  • Kets de Vries, M.F.R. (1999). L’organizzazione irrazionale. La dimensione nascosta dei comportamenti organizzativi. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
  • Quaglino, G.P. (2004). La vita organizzativa. Difese, collusioni e ostilità nelle relazioni di lavoro. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Integrare l’Esperienza nella Coscienza. Dal Congresso di Venezia

Report dal Congresso

Nuove frontiere nella cura del trauma

Approcci Integrativi e Centrati sul Corpo per la cura dei

Disturbi Traumatici Complessi

20-22 aprile 2013, Venezia

 

Nuove Frontiere nella cura del traumaCoscienza: La seconda giornata del convegno di Venezia, si rivela densissima di riferimenti teorici, grazie agli interventi di Liotti, Tagliavini e Farina.

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La seconda giornata del convegno di Venezia, si rivela densissima di riferimenti teorici sul modello di riferimento, grazie agli interventi di Gianni Liotti, Giovanni Tagliavini e Benedetto Farina.

Organizzatori del convegno e ferventi sostenitori della psicotraumatologia in Italia, introducono tre temi fondamentali che arricchiscono la cornice teorica che guida le giornate: il Dott. Liotti introduce il tema della dissociazione, come sintomo principale del cosiddetto “trauma complesso”, collocandolo in un modello di sviluppo psicopatologico dell’individuo in una prospettiva evoluzionista; segue il Dott. Tagliavini spiegandoci l’affascinante modello di Porges, la teoria Polivagale, e il concetto di neurocezione nell’ambito della fisiologia. Chiude, infine, Benedetto Farina, che raccoglie ricerche e riferimenti teorici a favore dell’ipotesi fondante il modello di riferimento: la dissociazione come effetto del fallimento dei processi “integrativi” della coscienza.

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Janina Fisher PhD - Clinical Psychologist
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Il modello proposto da Liotti, e già decritto in precedenti contributi sull’argomento, offre sempre sfumature interessanti e una chiave di lettura “omnicomprensiva” dei comportamenti umani. Nel modello evoluzionista il sistema difensivo umano, descritto nella prima giornata da Janina, viene collocato all’interno del più “evoluto” – presente solo nei mammiferi – sistema di attaccamento, necessario a garantire protezione e conforto a seguito di un’esperienza traumatica. Sarebbe proprio il fallimento di questo secondo sistema a determinare lo sviluppo di psicopatologia in età adulta. Il legame di attaccamento con una figura di riferimento costituisce per l’uomo un secondo e definitivo livello di elaborazione del concetto“pericolo scampato!”. Una figura di attaccamento immobile (still face), spaventata (frightened) o spaventante (frithening) a sua volta, determinerà nel bambino una sensazione di “paura senza sbocco”, lasciando il sistema difensivo per sempre attivo (trauma complesso).

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Il sistema di difesa lavora però “scollegato” dalle funzioni mentali superiori della coscienza (Fonagy, 2008) e dunque i processi di integrazione della coscienza risultano inibiti: questo il principale meccanismo alla base dei sintomi dissociativi in pazienti traumatizzati.

 I comportamenti contraddittori e apparentemente incongrui, derivanti da questa mancata integrazione, emergeranno soprattutto all’interno delle relazioni affettive, proprio perché queste sono state in passato contemporaneamente fonte di terrore e di protezione:  qui si colloca l’idea di dissociazione come “dis-integrazione funzionale” descritto dal Dott. Farina nel suo intervento (Farina, Liotti, 2011).

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Da Janet (1901) al più moderno Russel Meares (2005), l’idea dominante è che le funzione di integrazione tra diversi processi mentali sia costruita nel tempo, contemporaneamente alla crescita e allo sviluppo delle cortecce associative, nelle quali si va ad imprimere la memoria procedurale legata agli eventi. Se nel corso dello sviluppo si è esposti a particolari eventi traumatici o a situazioni di prolungato neglect affettivo, i circuiti neurali delle cortecce associative risulteranno alterati e non più in grado di controllare l’arousal.

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Gli effetti principali di questa dis-integrazione sono riconducibili a due categorie principali di sintomi (Brown 2006; Holmes, 2005): sintomi di “distacco” (detachment) e sintomi di “compartimentalizzazione”. I primi implicano un distacco da sé e dalla realtà (depersonalizzazione, derealizzazione, déja vù, numbing), i secondi riguardano la separazione di funzioni mentali normalmente integrate tra loro (amnesie dissociative, disturbi somatoformi da conversione, dolori psicogeni acuti, dismorfofobie, personalità multiple).

La dis-integrazione è dunque l’effetto diretto del dolore emotivo e non un meccanismo di difesa dal dolore stesso!

 

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ESPERIENZE TRAUMATICHE – PSICOTERAPIA COGNITIVO EVOLUZIONISTA – ATTACCAMENTO – DISSOCIAZIONE – NEUROSCIENZE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La Teoria Polivagale: Fisiologia della Paura – Report dal Congresso.

 

Report dal Congresso

Nuove frontiere nella cura del trauma

Approcci Integrativi e Centrati sul Corpo per la cura dei

Disturbi Traumatici Complessi

20-22 aprile 2013, Venezia

 

Nuove Frontiere nella cura del traumaEcco la solida base neurobiologica che cercavamo. Tagliavini ci illumina a tal proposito descrivendo la meravigliosa Teoria Polivagale di Porges.

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La paura senza sbocco, così come tutti gli altri comportamenti difensivi descritti, ha precisi correlati viscerali che attivano la “modalità di funzionamento” adatta ad ogni situazione e Giovanni Tagliavini ci illumina a tal proposito descrivendo la meravigliosa Teoria Polivagale di Porges.

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Studioso della fisiologia umana, Porges getta luce sui meccanismi primordiali delle nostre reazioni ad uno stimolo, interno o esterno, attraverso la descrizione delle due branche principali del nostro sistema nervoso autonomo (SNA): il SNA simpatico, attivato da adrenalina e noradrenalina, responsabile delle nostre risposte di attacco e fuga e quello parasimpatico, attivato da acetilcolina e responsabile delle risposte “rest and digest”, di calma cioè e mantenimento dell’energia corporea. Secondo il modello (Porges 2007), la componente parasimpatica sarebbe poi ulteriormente divisa in due parti: una attiva in condizioni di sufficiente “sicurezza” (branca del vago-ventrale) che produce uno stato di immobilità senza paura o risposte di interazione e ricerca di aiuto nell’ambiente (attaccamento), l’altra capace di rispondere al solo “pericolo di vita” (branca vago-dorsale), producendo un crollo del tono vagale, ipotonia muscolare (“morte apparente”) e catalessia. Quest’ultima reazione è la più evolutivamente antica e l’uomo lo condivide con i rettili.

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Nuove Frontiere nella cura del trauma
Articolo Consigliato: Nuove Frontiere nella Cura del Trauma – Report dal Congresso di Venezia.

Il meccanismo che decide la pericolosità degli stimoli ambientali e dunque quali delle tre reazioni vada messa in campo si chiama neurocezione, un rilevamento cioè del pericolo senza percezione, né consapevolezza.

Dal punto di vista psicopatologico, è interessante osservare come queste reazioni avvengano soprattutto a fronte di stimoli interni – es: sensazione di essere in pericolo in una relazione –  o di stimoli “trigger” che attivano delle memorie nel corpo di eventi traumatici passati, ma come sempre producano lo stesso lavoro del nostro SN autonomo: sicurezza (vago-ventrale), pericolo (simpatico), minaccia di vita (vago dorsale). Quest’ultima risposta è molto frequente nell’uomo di fronte a traumi gravi quali violenze, abusi fisici, incidenti, catastrofi, e sarebbe responsabile della sensazione di impotenza vissuta sul corpo durante l’evento traumatico: terrore e immobilità, impossibilità a reagire.

Ma cosa succede quando si vive una paura così intensa senza poter fare il benché minimo movimento?

A queste ultime reazioni fisiologiche sono riconducibili i più  frequenti sintomi dissociativi.

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Sebbene il nostro sistema autonomo funzioni appunto “in autonomia”, l’esperienza vissuta viene sottoposta successivamente ad una valutazione più consapevole e il risultato può essere emotivamente devastante. L’idea centrale della psicoterapia sensomotoria è appunto di osservare i segnali di attivazione o disattivazione del sistema nervoso autonomo, con l’obiettivo di monitorare il livello di sicurezza percepito nella relazione terapeutica e lavorare su una sempre maggiore attivazione del sistema vago ventrale, che è quello che permette di allargare la “finestra di tolleranza” di cui ci ha parlato Janina Fisher.

 Importantissime le considerazioni di Porges sulla psicoterapia e sul ruolo del terapeuta:

“Le terapie spesso comunicano ai clienti che il loro corpo non si sta comportando adeguatamente. I clienti si sentono dire che devono essere diversi, che devono cambiare. In questo modo la terapia in se

stessa diventa qualcosa di estremamente giudicante per l’individuo, e quando ci sentiamo giudicati di base siamo in uno degli stati difensivi, quindi non in sicurezza. “

“[…] non esiste “la risposta cattiva”. Ci sono solo risposte adattive. Il punto fondamentale è che il nostro sistema nervoso sta cercando di fare la cosa giusta e dobbiamo rispettare ciò che fa.” (S.W. Porges)

 

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NEUROSCIENZE – TRAUMA & ESPERIENZE TRAUMATICHE – COGNITIVISMO EVOLUZIONISTA – DISSOCIAZIONE 

 

APPROFONDIMENTO: 

 

BIBLIOGRAFIA:

Ciclismo e Attenzione: Correlazioni?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Praticare regolarmente sport sarebbe associato ad un ampliamento dello span attentivo.

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Una nuova ricerca pubblicata su PLoS ONE ha identificato un legame significativo tra la costante pratica sportiva del ciclismo e un miglior funzionamento attentivo.

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Il "segreto" di Andrea Pirlo. - Immagine: fonte - napolinetwork.it
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Analizzando un campione di 28 giovani ciclisti è stato scoperto che coloro che praticavano regolarmente tale attività sportiva presentavano migliori performance cognitive e un aumento dello span di attenzione, in altre parole erano in grado di reagire più velocemente agli stimoli esterni durante uno specifico task attentivo.

 

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Secondo i ricercatori almeno due ragioni potrebbero spiegare il fenomeno: primo, a livello fisiologico le persone più sportive godrebbero di un maggiore livello di ossigenazione cerebrale con il risultato di una maggiore capacità di rilevare stimoli rilevanti e in minor tempo rispetto ai non sportivi.

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L’altra ragione che si colloca più a livello esperienziale e psicologico: i ciclisti sono abituati a mantenere alta la propria attenzione per un significativo periodo di tempo – anche diverse ore- come nel caso di una gara ciclistica allenando di conseguenza, oltre che le gambe anche questa funzione cognitiva. Un limite dello studio è il confronto tra ciclisti e persone non sportive, che non risponde alla domanda di quali differenze in termini di funzioni cognitive si possono rilevare tra praticanti di diverse discipline sportive.

LEGGI:

PSICOLOGIA DELLO SPORT – ATTENZIONE – ATTIVITA’ FISICA – ATTENTION SPAN

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il Sogno Necessario – Di Giuseppe Civitarese – Recensione

 

 

Recensione

Il Sogno Necessario

di Giuseppe Civitarese (2013) Franco Angeli Ed.

 

Civitarese - Il sogno necessario (2013) - Franco Angeli Editore - immagine: Franco Angeli Editore
Civitarese – Il sogno necessario (2013) – Franco Angeli Editore

Quante cose ci sono in Il sogno necessario di Giuseppe Civitarese? Tra tutte, la passione per Bion.

Se fossi più esperto di storia della psicoanalisi, una delle domande più intriganti sarebbe trovare una spiegazione della passione italiana per Wilfred Bion. Mi pare di aver compreso che Bion più in Italia che in Inghilterra è considerato una delle principali figure della psicoanalisi britannica.

ARTICOLI SU: PSICOANALISI

Civitarese analizza il sogno da un punto di vista soprattutto bioniano: il sogno come funzione mentale conoscitiva, anzi cognitiva.

Ovvero come strumento della funzione alpha, che sarebbe la funzione del pensare, mettere in relazione, andare oltre l’osservazione bruta e non elaborata.

Questa idea che il sogno abbia funzione conoscitiva era già dello stesso Bion. Mentre il sogno per Freud era espressione del desiderio, per Bion è espressione della capacità cognitiva dell’uomo, della sua volontà di rappresentarsi il mondo in maniera veritiera, in qualche modo oggettiva. Ovvero, “senza memoria e desiderio” sempre secondo le parole di Bion. Il che è un bel rovesciamento della posizione di Freud, per il quale invece il sogno è desiderio.

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Giuseppe Civitarese - Perdere la Testa - Immagine: Immagine di Copertina © Editrice Clinamen
LEGGI LA RECENSIONE: Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese – A cura di GIovanni M. Ruggiero

Per un terapeuta cognitivo come me la posizione che Bion da alla conoscenza e alla cognizione può essere affascinante. Mi viene in mente che il modello della mentalizzazione di Fonagy in fondo riprende la funzione alpha di Bion. Che la psicoanalisi italiana nutra questa passione per Bion sembra quasi un segnale di una segreta fascinazione per la cognizione stessa. Certo, in terapia cognitiva la conoscenza razionale è soprattutto un processo e un contenuto, mentre per Bion e come poi sarà per Fonagy, si tratta invece di un assetto, di una posizione della mente.

Gli altri due protagonisti del libro di Civitarese sono Melania Klein, altra passione italiana, e Antonino Ferro, un ottimo pensatore italiano. La Klein probabilmente è piaciuta agli italiani per il suo interesse per la psicologia delle figure affettive interiori, in termini tecnici “oggetti interni”, le immagini più o meno consce che abbiamo delle persone care, immagini intrise di odio e di amore. Meno sarà piaciuta, credo, agli italiani, la cupezza della concezione della Klein, intrisi di invidia e di odio e, in fondo, di ben poco amore.

Infine Antonino Ferro, che per Civitarese sembra essere un maestro. Ferro sviluppa Bion, concependo il sogno, e quindi la funzione del pensare, in maniera iperinclusiva. Si sogna sempre, dice Ferro, e quindi si pensa sempre. Ovvero, continuamente la mente, anche nello stato di veglia, trasforma in immagini tutte le sensazioni e gli stimoli da cui siamo bombardati, consentendoci una presa di distanza dalle “cose” che sono fonte di angoscia, perché ne restituiscono uno statuto di pensabilità, un senso.

La psicoanalisi, dice Ferro, è proprio il tentativo di ampliare ulteriormente questa pensabilità di ogni cosa. In psicoanalisi, ovvero nel campo analitico, dice Ferro, tutto ha senso e tutto è pensabile e nulla può rimanere allo stato grezzo, di non pensato.

Proprio in omaggio a questa ipotesi che tutto è sogno e che, in quanto sogno, tutto è pensabile, i sogni di Civitarese sono tutti, o quasi, cinematografici. I sogni che analizza Civitarese sono stati sognati, o raccontati, in film. Film famosi e meno famosi che sono commentati in lungo e in largo in questo libro. Che è quindi un libro di amanti del cinema, oltre che dei sogni.

La lettura è raccomandata un po’ a tutti.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Recensione: Il Grande Capo di Lars von Trier

 PFF- PSICOLOGIA FILM FESTIVAL

 

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Recensione: Il Grande Capo di Lars Von Trier
“Il Grande Capo” di Lars Von Trier (2006). Locandina Cinematografica.

Recensione: Il Grande Capo. La ferocia con cui si demolisce ogni aspirazione dell’essere umano a scoprire le tracce di una sensibilità diversa dall’abuso morale.

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In questo film del 2006 Lars von Trier si cimenta con la commedia, rimanendo però sempre…Lars von Trier. Lo sguardo del regista, spesso feroce nell’esplorare lo smarrimento morale della natura umana, si posa stavolta sulla parabola di una società di informatica danese che sta per essere ceduta ad un compratore islandese.

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I dipendenti dell’azienda non hanno mai conosciuto il vero proprietario, che comunica le proprie decisioni attraverso un portavoce; la scena è ovviamente ingannevole: il portavoce, che fingendosi amico dei dipendenti e facendo intendere di essere dalla loro parte si appropria dei progetti informatici che creano, è in realtà il padrone dell’azienda e il grande capo di cui riferisce i pensieri non è mai esistito. Il compratore islandese vuole però conoscerlo, compare così un attore disoccupato che il finto portavoce assolda per recitare il ruolo del finto capo; la trama de Il Grande Capo assume uno sviluppo surreale e grottesco, il nuovo arrivato fatica a inserirsi nella realtà mistificata che deve interpretare e si scontra con un’umanità comicamente alla deriva, tra chi piange all’azionarsi di una fotocopiatrice e chi non controlla gli impulsi aggressivi trasmessi dalla campagna danese.

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Melancholia, Lars Von Trier - Movie Poster - Property of Zentropa Entertainments
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Gradualmente però prende pieno possesso del proprio ruolo e va persino oltre, incastrando il finto portavoce nelle catene dell’amicizia interessata con cui si era avvicinato agli altri personaggi; il cattivo e il manichino si scambiano ruoli e potere, finendo per mescolare amoralità e impotenza corrotta. Lars von Trier entra con cinico sarcasmo negli intrecci più deteriori del mondo del lavoro e delle relazioni, denudando il rifiuto intenzionale di ogni etica che viene perseguito non solo dai vertici della piramide del potere ma anche da chi ne fa parte come sottoposto – emblematico l’immediato desiderio di una dipendente di concedersi sessualmente al finto capo appena conosciuto – e descrivendo logiche di sopraffazione tanto logore quanto capaci di riprodursi in un ciclo ininterrotto.

La ricerca cieca del profitto, la prospettiva secondo cui gli esseri umani non possiedono un valore intrinseco che va rispettato bensì fanno parte di un ingranaggio che nasce e si alimenta senza considerarli, sono tematiche che Il Grande Capo analizza con ironia spietata, entrando di forza nella rappresentazione soggettiva dei protagonisti e svolgendo una regia veloce, instabile, che rinuncia a sequenze narrative tradizionali per prediligere il flusso delle percezioni immediate. I dialoghi sono serrati, la voce fuori campo di Lars von Trier interviene come un’irruzione fugace, le relazioni tra i personaggi si giocano su due piani interscambiabili, finzione e realtà, senza che ad alcuno interessi definire la legittimità morale dell’una o dell’altra, interrogarsi sulla liceità delle proprie azioni oppure, più semplicemente, sul significato complessivo di ciò che sta accadendo.

 Tutto viene sacrificato ad un’entità di cui non si colgono le fattezze bensì le conseguenze, quasi che il grande capo non fosse solo il padrone dell’azienda ma anche e soprattutto il principio ispiratore di ogni dinamica lavorativa e umana: l’assenza totale di princìpi. Lars von Trier e la commedia: un matrimonio riuscito, non per i suoi detrattori che da questo film ricavano una prova ulteriore e a tratti ancor più aspra della ferocia sfrontata con cui il regista danese demolisce ogni aspirazione dell’essere umano a scoprire in sé le tracce di una sensibilità diversa dall’abuso morale.

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Eppure il male esiste e spesso gli uomini tentano di espellerlo dalla propria immagine desiderata affidandolo all’opera di narratori come Lars von Trier, che si assumono la responsabilità di immergersi in esso trasformandolo se necessario in un sofferto sforzo ironico: Il Grande Capo è anche questo.

 

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RECENSIONI – PSICOLOGIA SOCIALE – CINEMA – ETICA & MORALE 

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Il Grande Capo: La Diffusione dell’Identità Secondo Von Trier

 Recensione del Film:

Il Grande Capo

(2006)

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Il Grande Capo - LocandinaIl regista Lars von Trier, messi da parte per un attimo i toni grevi della Trilogia o dei drammoni escatologici, si cimenta con “Il grande capo” in un’inaspettata  commedia grottesca.

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La trama già di per sé trasuda demenzialità: Ravn, proprietario di una ditta di informatica, decide di cederla licenziando tutti i dipendenti, i quali però non conoscono la sua vera identità e lo credono un dipendente come tutti gli altri. Per non catalizzare le maledizioni degli impiegati destinati a perdere il lavoro, egli decide quindi di assumere un attore affinché finga di essere lui il grande capo, e si prenda in toto la colpa della vendita e dei licenziamenti.

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A primo impatto potrebbe sembrare una critica beffarda mossa contro l’alienazione dei rapporti interpersonali all’interno delle multinazionali (com’è possibile lavorare per qualcuno che non si sa nemmeno chi sia?), ma in realtà l’intento del regista non sembra essere quello di proporre l’ennesima riflessione moralista sui rischi della globalizzazione.

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Piuttosto, suggerendo con ironia quanto possa essere versatile e relativo il concetto di identità, Von Trier sembra voler rappresentare un desiderio che nell’immaginario collettivo è, da sempre, potentissimo: sfuggire alla responsabilità delle proprie azioni e del proprio modo di essere, potendo disporre all’occorrenza di  un capro espiatorio e di una maschera ad hoc per ogni situazione.

Quando Ravn ingaggia l’attore per sostituirlo, sappiamo infatti che il suo obiettivo è quello di non rovinare i rapporti coi suoi dipendenti; semplicemente, non vuole che questi se la prendano con lui.

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Ma in realtà, oltre all’idea geniale di appioppare la malefatta specifica a un capo fasullo, Ravn si dimostra in generale un vero e proprio prestigiatore del Sé, abilissimo nel pilotare le relazioni in modo da evitare qualunque conflitto: riesce a mantenere negli anni i suoi collaboratori all’oscuro del suo vero ruolo nell’azienda e ad accattivarsi la loro simpatia, approfittando dell’equivoco a suo vantaggio.

Non solo: quando entra in gioco il finto capo scopriamo, da come i dipendenti si relazionano con l’attore, che con ognuno di loro Ravn aveva assunto un’identità differente, assecondandone le esigenze e coccolando le inclinazioni e i bisogni individuali.

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All’inizio l’attore è un po’ disorientato da questo caleidoscopio di ruoli da interpretare, ma poi anche lui ci prende gusto ad accontentare tutti e intuisce che neutralizzare gli attriti può essere molto vantaggioso (tant’è che rimedia anche un imprevisto, quanto demenziale, rapporto sessuale con una delle dipendenti).

Viene da chiedersi: perché Ravn si comporta così? Perché sceglie di rinunciare alla propria identità pur di scongiurare qualunque possibile tensione? La spiegazione che si dà lo spettatore è ovviamente quella più cinica, ossia che egli approfitti dell’ambiguità per sfruttare il lavoro dei dipendenti, godere dei profitti e del merito e poi sbarazzarsi di loro, possibilmente senza alcuna seccatura.

In realtà, durante un colloquio con la sua ex moglie, il finto presidente dichiara di aver intuito quale sia il reale motore del comportamento di Ravn, quello che noi psicologi definiremmo il suo core belief, peraltro neanche troppo originale: l’idea che se fosse banalmente sé stesso finirebbe per non essere amato.

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Se Ravn non si fa scrupolo di recitare in continuazione è perché questo gli permette di sentirsi sempre apprezzato e benvoluto nonostante i suoi meschini progetti, e quindi il suo tentativo di sfuggire al rischio della non accettazione sembra essere la ragione (o una delle ragioni) di tante macchinazioni.

 La responsabilità di ciò che si fa e di come si è (con tutto il corollario di possibili condanne, critiche e disprezzo che potrebbero derivarne)  come luogo mentale intollerabile, insomma.

Del resto lo stesso Von Trier fa qualcosa di simile al suo protagonista utilizzando l’Automavision, un sistema che delega le modalità di ripresa (scelta delle inquadrature, delle luci e delle messe a fuoco) ad un computer.

Come a dire: se il film non vi è piaciuto non è che io sia un incapace come regista, perciò non mi seccate: prendetevela con la macchina.

 

 

LEGGI:

CINEMA RAPPORTI INTERPERSONALI – PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’ CREDENZE – BELIEFS

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L’ Autismo Fisiologico. L’intervista alla Dr.ssa Di Biagio

 

L' Autismo Fisiologico. L'intervista alla Dr.ssa Di Biagio. - Immagine: © wladimirowich - Fotolia.com Meglio sarebbe affermare che non esistono solo condizioni fisiologiche tipiche o autistiche , ma anche condizioni fisiologiche miste.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO

Luisa di Biagio è un’etologa, una psicologa e un’autistica sana. Il suo impegno per far conoscere meglio la condizione autistica è costante e caratterizzato da professionalità e competenza. Le sono grata di aver dato a State of Mind la possibilità di dar voce a chi l’autismo non solo lo studia ma lo vive in prima persona.

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SoM: Buongiorno dott.ssa Di Biagio, grazie per aver accettato l’invito di State Of Mind a rispondere a qualche domanda sull’autismo. Vorrei dare ai lettori la possibilità di conoscerla meglio. Lei è psicologa e autistica quindi chi meglio di Lei può affrontare questo tema?

LDB: Grazie a voi per la possibilità di contribuire alla diffusione di notizie corrette sull’autismo, nel faticoso tentativo di contrastare le moltissime informazioni scorrette di cui sono farciti articoli , libri e seminari , persino in contrasto con le direttive ufficiali accademiche .

Chi meglio di un autistico la cui formazione è basata proprio sullo studio della psicologia , del comportamento e dell’educazione umana e non umana, può affrontare l’argomento ? Nessuno. Peccato che gli autistici parlanti in genere “urlano nel deserto” , se mi concede il riferimento.

Autismo e Vaccinazioni: oltre le Teorie del Complotto e gli Allarmismi. - Immagine: © Spectral-Design - Fotolia.com
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SoM: Nei suo contributi al tema “autismo” insiste molto nel descrivere un autismo fisiologico, mentre è comune sentir parlare di autismo come di una condizione patologica che compromette la capacità dei soggetti di vivere una vita indipendente. Cosa intende quindi per autismo fisiologico?

LDB: La domanda dovrebbe essere “Cosa si intende per autismo fisiologico” ? E dovrebbe essere questa perchè non si tratta di una mia personale opinione ma di come stanno le cose . 

Concepire come fisiologico (SANO) qualcosa di diverso dal neurotipico è difficile perchè non ci sono strumenti culturali tali da permettere di concepire questo, il (neuro)tipico centrismo è il fulcro della cultura sbilanciata di questo periodo storico . Sì, certo, è razzismo, senza dubbio. La stessa definizione della condizione con tratti misti (condizione subclinica dello spettro autistico) indica la misura di questa tendenza . Dal mio punto di vista (quello di un’autistica) ad esempio potrei affermare che la condizione con tratti sia tipici che autistici appartiene allo spettro tipico . Meglio sarebbe affermare che non esistono solo condizioni fisiologiche tipiche o autistiche , ma anche condizioni fisiologiche miste .

L’intero sistema di approccio all’autismo è mirato al cambiamento degli autistici, non esiste nessun programma che includa il cambiamento dei tipici e che sia mirato al compromesso culturale. L’unico sistema considerato accettabile di struttura comunicativa, percettiva e sociale è, di fatto, quello della cultura tipica. Questo crea una situazione talmente sbilanciata da creare disagio nella cultura tipica stessa.

L’autismo non è una disabilità , come non lo è l’omosessualità. La tiritera nasce proprio dal fatto che l’autismo , soprattutto quando non è in forma patologica (quando NON è autismo severo) non permette di individuare immediatamente la persona come neurodiversa e il modo di comunicare di quella persona , rispetto a quello medio , è tale da generare “imbarazzo” .. quello che si dimentica è che , se di imbarazzo si tratta , lo stesso imbarazzo lo prova la persona in riferimento al comportamento tipico, quindi direi di smetterla di parlare di “imbarazzo” e cominciare a lavorare per un compromesso culturale.

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Le disabilità, gli adulti e i bambini disabili esistono, esistono adulti e bambini disabili Tipici (con organizzazione neurologica tipica ma in una forma severa o con problemi importanti associati) ed esistono adulti e bambini disabili Autistici (con organizzazione neurologica atipica ma in una forma severa o con problemi importanti associati) ma essere autistici NON vuol dire essere disabili .

La disabilità costituisce una minoranza in tutta la popolazione tipica così come costituisce una minoranza in tutta la popolazione autistica . Considerare TUTTI gli autistici disabili di default è come considerare TUTTI i tipici disabili di default .

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In tanti anni ho sentito sempre parlare e scrivere di genitori che soffrivano per la diversità del figlio  mai ( MAI ) nessuno che abbia pensato “chissà come vive mio figlio IMMERSO  tra persone diverse ” oppure ho sentito e letto di persone “in imbarazzo” a causa di gesti e parole di autistici  ma ( MAI ) nessuno che abbia detto o scritto “chissà quanto ho messo in imbarazzo questa persona ? chissà come mi percepisce strano e imbarazzante ?

E’ un concetto talmente alieno da risultare non credibile . E infatti gli autistici che parlano , a meno che non siano talmente bizzarri da rivestire il ruolo di “orso ballerino” , non vengono proprio considerati .

C’è da dire che come professionista del settore ho incontrato più genitori desiderosi di interventi che mirassero al mascheramento tipico dei figli autistici piuttosto che al riconoscimento e valorizzazione della loro neurodiversità. Di chi è la responsabilità di tale scenario?

Sinead O'Connor
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Fino a dieci anni fa si poteva  anche pensare che questo atteggiamento fosse il risultato di una buona fede . Oggi non trova giustificazione . Sono molti gli autistici nel mondo che raccontano l’autismo . Escludendo quelli che hanno problemi di equilibrio o culturali  (essere squilibrati o ignoranti è una condizione democratica , che coinvolge sia tipici che autistici ) , gli autistici competenti descrivono l’autismo in modo piuttosto esaustivo .

C’è, di fatto, una enorme resistenza che, temo, dipenda da un fattore puramente economico. La dinamica di mantenere alta la soglia di allarmismo per proporre terapie salvifiche e, guarda caso, costosissime, è quella che sta mandando avanti un mercato terribile. Un mercato che pagano i bambini in prima persona, ma anche le famiglie coinvolte. L’autismo, insomma, è  l’affare del secolo . E’ un terribile circolo vizioso che si nutre del panico di genitori spinti a non accogliere la condizione autistica.

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I nostri bambini crescono continuamente disconfermati e arrivano a sviluppare patologie comportamentali secondarie molto serie . Questa la testimonianza di un addetto ai lavori: “è un affare lavorare con gli autistici perchè tanto o non parleranno mai o se parleranno li faremo passare per matti. Per quanto riguarda l’Asperger i maschi sono cavalli da sedare e le femmine cavalle da domare.

SoM: Cosa consiglierebbe dunque a dei genitori che ricevono una diagnosi di autismo ad alto funzionamento o asperger? Quali obiettivi dovrebbe avere un trattamento rivolto a questo bambino, alla sua famiglia e al contesto sociale in cui è inserito?

LDB: Consiglierei di non farsi trascinare nel vortice dell’allarmismo . Di imparare l’autismo per insegnarlo ai figli . Prima di apprendere regole e parametri di una cultura diversa, i bambini autistici dovrebbero apprendere i criteri della propria cultura. Imparare ad essere buoni autistici prima che ad utilizzare alcuni strumenti della cultura tipica. Questo non accade . Al bambino viene negata un’ identità.

I bambini smettono di essere bambini dalla diagnosi in poi, e si trasformano in PROBLEMA  e punto. Consiglierei ai genitori di seguire corsi per apprendere i criteri culturali dell’autismo e cercare un compromesso nella comunicazione con i figli. Consiglierei loro di usare i soldi per vivere serenamente e non per pagare ore e ore di addestramenti e torture . E ovviamente , in particolare se si tratta di diagnosi di autismo ad alto funzionamento e Asperger , consiglierei loro di farsi valutare , molto probabilmente sono autistici e non lo sanno , o hanno una condizione mista ( che è una cosa diversa e NON è autismo ). E ovviamente consiglierei loro di leggere i miei libri e articoli , che credo siano il materiale migliore disponibile in italiano al momento, o di contattarmi.

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SoM: È ragionevole immaginare che anche gli autistici fisiologi, forse anche proprio in virtù dell’ambiente tipico in cui sono inseriti, possano aver bisogno di rivolgersi ad uno psicoterapeuta. Secondo lei che tipo di psicoterapia è più indicata per questi soggetti? Può uno psicoterapeuta “qualsiasi” aiutare un paziente autistico a risolvere per esempio un disturbo d’ansia?

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LDB: Mi pare evidente che tutti , anche gli autistici fisiologici , possano avere bisogno di un aiuto psicologico . Un professionista che non sia PERMEATO di cultura autistica (sin dallo sviluppo possibilmente) non dovrebbe occuparsi di autismo se non accompagnato , supervisionato ecc . Esattamente come per il contrario : un professionista che non sia permeato di cultura tipica non dovrebbe occuparsi di persone tipiche .

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Il grande problema è che TUTTI gli autistici sono permeati di cultura tipica , quindi , potenzialmente , tutti i terapeuti autistici possono occuparsi di persone tipiche , mentre QUASI NESSUN terapeuta tipico è permeato di cultura autistica pur continuando a seguire persone autistiche … c’è da riflettere …

Per quanto riguarda l’approccio di scuola di pensiero , non è questa la sede per discutere sull’efficacia generale di alcune, ma di certo si può affermare che per l’autismo le dinamiche teoriche alla base di scuole come la freudiana sono assolutamente fuori luogo . Gli assunti di base di questi approcci sono quanto di più lontano ci possa essere dalla logica, dal processo di pensiero, dall’emotività e dalla percezione autistica.

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Ma non basta: un valido percorso cognitivo comportamentale ad esempio, o anche un approccio farmacologico, non possono essere identici per una persona tipica o autistica. Ma questo pare che nessuno lo sappia ..

SoM: Grazie dott.ssa Di Biagio, mi auguro che le sue parole arrivino a quanti più professionisti e genitori impegnati a vario titolo in una relazione con un autistico. 

 LEGGI: 

DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO – INTERVISTE –  LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE  – GENITORIALITA’ – BAMBINI

 

APPROFONDIMENTO:

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Modello Metacognitivo Trifasico per i Disturbi Alcool Correlati

 Report dal

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva

05 – Il Modello Metacognitivo Trifasico per i Disturbi Alcool correlati

Manchester - Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva

REPORT DAL CONGRESSO: PARTE I PARTE II PARTE III – PARTE IV

Per la prima volta, viene pubblicamente presentato il modello metacognitivo trifasico dell’abuso di alcool che descrive da una prospettiva psicologica i tre stati dinamici che caratterizzano il consumo problematico di alcool.

Il Secondo Congresso di Terapia Metacognitiva si chiude con un pizzico d’Italia nella lettura magistrale del Prof. Marcantonio Spada, collaboratore del Gruppo Ricerca di Studi Cognitivi e autore assieme al sottoscritto di un nuovo modello di concettualizzazione dei disturbi alcol-correlati (Spada, Caselli & Wells, in press).

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Così, per la prima volta, viene pubblicamente presentato il modello metacognitivo trifasico dell’abuso di alcool che descrive da una prospettiva psicologica i tre stati dinamici che caratterizzano il consumo problematico di alcool: (1) anticipazione/desiderio (craving), (2) consumo/intossicazione, (3) astinenza, stati che sono ben conosciuti e descritti anche a livello neurobiologico (Koob & Volkow, 2010), ma che non sono mai stati esplorati in termini cognitivi.

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Caselli Spada Manchester POSTERIn effetti i problemi di desiderio e craving, ricorda Spada, sono sempre stati un pesante limite per i modelli cognitivi standard che hanno prodotto risultati piuttosto insoddisfacenti (vedi Beck et al, 1993) come dimostrato dal grandioso Project Match che dopo otto anni di ricerca ha decretato l’uguale efficacia di Skill Training, Colloquio Motivazionale, Modello dei 12 Passi nel trattamendo della dipendenza da alcool.

Nella lettura magistrale, Spada rileva come il fallimento del modello di Beck possa dipendere dall’assenza di ricerca sul modello teorico di riferimento, sostanzialmente costruito più o meno sulla base dell’intuito clinico. Se questo tentativo intuitivo aveva portato parziali risultati nei disturbi d’ansia e nella depressione, così non fu nel campo delle dipendenze patologiche.

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Da questa premessa, Spada passa alla rassegna delle oltre venti pubblicazioni che negli ultimi otto anni hanno portato alla concettualizzazione del pensiero desiderante e del modello metacognitivo trifasico. Ognuna di questa fase è connessa alle altre ed è caratterizzata da cicli di mantenimento interno.

La fase PRE-USO (craving) implica la fusione con il pensiero desiderante come strategia per (1) sentirsi carichi di energie e motivati (gratificazione virtuale) o (2) per distrarsi da pensieri e sensazioni negative (evitare i problemi della vita). Il pensiero desiderante, se gratificante a livello virtuale nell’immediato, aumenta nel medio termine il senso di deprivazione che è una sensazione negativa.

 La fase di USO (Binge e intossicazione) implica l’accesso alla sostanza come via di fuga dal crescente senso di deprivazione. Anche solo la decisione di bere, permette di ridurre lo stress generato dal pensiero desiderante. Oppure se la scelta non è messa in discussione, di evitarlo a priori. Pensiero desiderante e senso di deprivazione riducono il fuoco dell’attenzione e il monitoraggio metacognitivo, cioè la tendenza a osservare che impatto la sostanza sta avendo sul proprio stato mentale. Il monitoraggio metacognitivo permette di regolare il consumo di alcool entro i confini desiderati (es. raggiungere un buon grado di alterazione senza esagerare). Il monitoraggio metacognitivo può non essere appreso oppure è distrutto dal potente senso di deprivazione che può seguire una prolungata attivazione del pensiero desiderante.

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La fase di POST-USO (astinenza e stato emotivo negativo) implica la tendenza a ruminare sul proprio comportamento con incremento di emozioni di depressione, colpa e vergogna che a loro volta rappresentano potenziali elementi di vulnerabilità per tutte le altre fasi.

Prof. Marcantonio Spada e Gabriele Caselli Ph.D al Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva - Manchester 2013
Prof. Marcantonio Spada e Gabriele Caselli Ph.D al Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva – Manchester 2013

Il modello è ancora agli inizi e ora la vera sfida è applicare il medesimo rigore scientifico nella realizzazione di un percorso di intervento.

La strada è lunga ma forse più solidamente fondata rispetto a ciò che sino ad ora i modelli cognitivi del desiderio ci hanno offerto. L’insegnamento per ora è semplice ma altrettanto illuminante: You cannot crave alcohol less by thinking more about it (non puoi sentire meno desiderio per l’alcool, pensando di più all’alcool).

 

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BIBLIOGRAFIA

 

 

 

 

Il Ruolo dell’ Intelligenza nella Formazione del Pregiudizio

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un livello più basso di intelligenza  sarebbe predittivo di una maggior quota di razzismo nell’età adulta: tale effetto sarebbe inoltre mediato da ideologie conservative di destra.

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Nonostante siano di fatto inevitabilmente in gioco nelle interazioni e nelle relazioni quotidiane, la letteratura scientifica ha generalemnte trascurato l’intelligenza e le abilità cognitive nella spiegazione dei meccanismi sottostanti il pregiudizio.

Effetto Mozart: Può la Musica Renderci più Intelligenti?. - Immagine: © daniel0 - Fotolia.com
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Alcuni ricercatori canadesi hanno voluto verificare un modello in cui abilità cognitive più basse sarebbero predittive di un maggior livello di pregiudizio, effetto che sembrerebbe mediato dall’assunzione di ideologie di destra di stampo conservatorista e autoritario, nonché dallo scarso contatto con persone dell’outgroup (persone non facenti parte del proprio gruppo di appartenenza, ad esempio stranieri).

 

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Effettuando un’analisi su larga scala (circa 15.000 soggetti di nazionalità inglese) è stato rilevato che un livello più basso di intelligenza  sarebbe predittivo di una maggior quota di razzismo nell’età adulta: tale effetto sarebbe inoltre mediato da ideologie conservative di destra.

 

Un’ulteriore analisi effettuata su un campione statunitense confermerebbe l’effetto secondo cui minori abilità di ragionamento astratto sarebbero in grado di predire pregiudizi omofobici, relazione parzialmente mediata da alti livelli di autoritarismo e da scarso contatto con l’outgroup.

Tale effetto per entrambi gli studi sarebbe indipendente dal livello di scolarità e dallo status socio-economico.

Abilità cognitive e intellligenza risultano dunque fattori da tenere in considerazione nei modelli esplicativi dei fenomeni legati al pregiudizio.

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INTELLIGENZA – PSICOLOGIA SOCIALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Family History and Anxiety #3

 

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Family History and Anxiety #3. - Immagine:© altanaka - Fotolia.comResearchers have investigated the familial aggregation of anxiety disorders using both top-down and bottom-up methodologies. Top-down studies investigate the children of anxious parents while bottom-up studies investigate the parents of anxious children. I will review a few studies from each methodology.

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Several studies have examined the familial aggregation of anxiety using top-down methodology. Turner, Beidel and Costello (1987) used the Anxiety Disorders Interview Schedule (ADIS) and the Children Assessment Schedule (CAS) to measure the mental state of 16 children of mothers with an anxiety disorder, 14 children of mothers with dysthymia and 29 children of mothers with no history of mental illness.

Family History Anxiety #2. - Immagine: © altanaka - Fotolia.com
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Children were between the ages of seven and 12 years. Based on the CAS, compared to both comparison groups of children (i.e. dysthymic and healthy controls), the children of anxious mothers had more anxious and fearful symptoms, more school difficulties, worried more about their family and themselves, and engaged in more solitary activities. The results also demonstrated that children of anxious mothers (44%) were seven times more likely to meet criteria for an anxiety disorder than children of dysthymic parents (21%) and healthy controls (9%).

Beidel and Turner (1997) examined the children of parents with anxiety (n = 28), depressive (n = 24), mixed anxiety/depressive (n = 29) and no psychiatric disorders (n = 48) using semi-structured interviews. The results showed that the children of all three psychopathology groups were more likely to have a diagnosable disorder (including anxiety disorders) than children of healthy control parents.

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When examining anxiety specifically, children of anxious parents were more likely to have only anxiety disorders. The children of depressed or comorbid parents were more likely to have a variety of disorders (e.g. depression, panic).

Merikangas, Dierker and Szatmari, (1998) examined psychopathology in the offspring (age seven to 18 years) of three groups of probands: 1) anxious (n = 36); 2) substance disorder (n = 56); 3) healthy controls (n = 35). Diagnoses were made using the Schedule for Affective Disorders and Schizophrenia Interview (SADS) (Endicott & Spitzer, 1978).

The results showed that the offspring of probands with an anxiety disorder had higher rates of anxiety disorders compared to offspring of the substance disorder and control probands. Interestingly, of the 36 proband parental groups with an anxiety disorder, 6.9% of the children had a diagnosis of social phobia, compared to 1.3% of the substance disorder group and 0.0% of the control group.

Based on these three studies, psychopathology and anxiety disorders appear to run in families.  In the next segment of this series we will look at additional studies investigating the familial aggregation of psychopathology and anxiety disorders.

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REFERENCES:

 

L’ Invidia ai Tempi di Facebook – Psicologia dei Social Network

 

L’invidia ai tempi di Facebook. - Immagine:© Jan Jansen - Fotolia.com Facebook come fonte “d’informazioni” e come metro di giudizio, questo il pericolo, passando da stato in stato, da foto in foto, facendo di volta in volta salire il termometro personale della frustrazione.

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In quanti oggi la prima cosa che fanno appena svegli è aprire il proprio profilo facebook, magari controllare gli aggiornamenti del fidanzato, le foto nuove, i tag, i poke.. e magari si dimenticano di farsi il caffè?Una partita a ruzzle una sola, cara, e poi faccio colazione, aggiorno lo stato e mi preparo, lasciami la camicia sul letto”.. invece ci si perde tra una foto e uno stato, una citazione e una canzone (scene di vita familiare).

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Tutti, o quasi, hanno un profilo facebook, e almeno chi usa internet spesso con altrettante frequenza aggiorna il profilo, mette dei link, inserisce alcune foto  e tagga gli amici. In poche parole una grande vetrina, certo si possono mandare anche dei messaggi privati tra utenti, si può usare la chat per accordarsi sul film da vedere la sera, ma l’attenzione di presentarsi con una “bella” pagina é comune un po’ a tutti. Si è attenti a postare le foto dell’ultima vacanza dell’ultimo acquisto di quella giornata di sole in cui eri in gita con il fidanzato al lago di Garda… quella foto in cui non si vedono le rughe e la pancetta è nascosta da un gioco di luci sapientemente studiato, poi c’è la corsa alla notizia più bella, al link piu accattivante e allo stato più popolare.

Diffamazione su Facebook & Sfogo Emozionale. - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
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Da Berlino ci arriva l’ennesima ricerca sugli effetti che l’uso di Facebook può “causare” ai suoi utenti più assidui.

Si parte della domanda: ma chi legge, chi “spulcia” il profilo facebook degli amici\nemici come vive tutto ciò?

A chiederselo sono stati i ricercatori dell‘Università di Darmstadt e l’Istituto dei Sistemi Informativi dell’Università  Humboldt di Berlino e si sono posti come obiettivo quello di andare ad indagare i sentimenti, i pensieri e le emozioni degli utenti di Facebook concludendo che più di un terzo degli intervistati dichiara di provare sentimenti prevalentemente negativi di fronte allo schermo, rimuginando tra invidia e frustrazione.

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Il Professor Peter Buxmann e la Dottoressa Hanna Krasnova impegnati in questa ricerca ci spiegano che nonostante sia stato inizialmente difficile per gli intervistati ammettere di provare invidia per i loro “amici social” questa emozione spiegherebbe e sarebbe sottesa a quella sorta di frustrazione pensando alla vita degli altri riportata da molti. Sarebbe l’ostentato successo in alcuni ambiti, in particolare amore vacanze e tempo libero, degli amici “virtuali” a promuovere il confronto e in un qualche modo a generare un conflitto che in alcuni casi può portare all’invidia.

Facebook come fonte “d’informazioni” e come metro di giudizio, questo il pericolo, passando da stato in stato, da foto in foto, facendo di volta in volta salire il termometro personale della frustrazione.

Spesso, poi, ci sottolineano i ricercatori si attiva una sorta di circolo vizioso, una spirale dell’invidia in cui chi prima invidiava per farsi invidiare cerca di rendere migliore il suo profilo in tutto e per tutto curando i particolari scegliendo accuratamente la foto da postare e così da suscitare a sua volta l’invidia di un altro utente facebook che per tutta risposta arricchirà anche lui il suo profilo e così via.

I ricercatori hanno dimostrato che non solo gli utenti facebook faticano a riconoscere e ad ammettere di provare invidia ma che tendono, invece, ad attribuire questa agli altri questa emozione.

rassegna stampa
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Tuttavia il campanello d’allarme, che ci portano gli autori nelle loro riflessioni conclusive è il rischio di non riuscire a gestire quella frustrazione e quel sentimento negativo d’invidia, di non essere capaci di chiuderlo in un mondo per così dire virtuale, ma di avere la tendenza a portare poi questa attivazione nella vita tutti i giorni con conseguenze spiacevoli sulle relazioni “reali”.

Forse dovremmo semplicemente tenere a mente che la maggior parte dei profili Facebook è appositamente costruita in modo da amplificare e spesso, ahimè, fingere una felicità personale.

I risultati dell’indagine sono stati presentati all’11th International Conference Wirtschaftsinformatik che si è tenuta a Lipsia, in Germania, dal 27 febbraio al 1 marzo 2013.

LEGGI: 

 SOCIAL NETWORK – RIMUGINIO – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA 

BIBLIOGRAFIA:

 

ADHD Nuove Prospettive con La Tecnica Pomodoro & il SOBER

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Bambini con ADHD: si dovrebbe essere consapevoli delle difficoltà di base. Per questo motivo è nata l’idea di utilizzare la tecnica Pomodoro e il SOBER.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ADHD – DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E IPERATTIVITA’

I comportamenti del bambino in classe e durante la ricreazione sono spesso motivo per i genitori per cercare aiuto psicologico ed educativo. Non perché sia quello il momento in cui sono iniziati problemi relativi alla ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività), piuttosto perché l’ambiente scolastico rende i sintomi inquietanti (Lipowska, 2012). Un’attività che risulta normale per la maggior parte della gente, ad esempio rimanere al lavoro per quarantacinque minuti, ascoltare attentamente un insegnante o fare più cose contemporaneamente, per un bambino con ADHD è una sfida (Barkley,2006).

Inoltre, conoscendo le caratteristiche del disturbo, è difficile immaginare che un bambino che ha bisogno di movimento continuo sia in grado di adeguarsi alle norme vigenti in aula, oppure di memorizzare tutte le informazioni di cui ha bisogno.

Quando si lavora con un bambino con ADHD, si dovrebbe essere consapevoli delle difficoltà di base, come problemi di concentrazione e il bisogno di muoversi. Per questo motivo è nata l’idea di utilizzare la tecnica Pomodoro.

ADHD: RIcerche e Tendenze. - Immagine: © JcJg Photography - Fotolia.com
Articolo Consigliato: ADHD: RIcerche e Tendenze.

Questa tecnica viene collegata al campo della gestione del tempo (time management), ma può anche essere utilizzata nel lavoro con bambini con ADHD. Per iniziare, si scrive un elenco di attività da svolgere. È necessario segnare tutto, ogni piccolo compito. Poi, impostando un timer per venticinque minuti, durante i quali l’attenzione è rivolta solo ai compiti da svolgere. Dopo i venticinque minuti arriva la pausa. Mentre la tecnica prevede generalmente cinque minuti di pausa, per un bambino con ADHD è meglio usare dieci minuti.

In una prima fase della tecnica, può essere difficile concentrarsi per venticinque minuti e poi interrompere il lavoro dopo un determinato periodo di tempo, ma ben presto il bambino impara a lavorare in intervalli di venticinque/dieci minuti. I chiari vantaggi di questa tecnica includono una presenza di brevi ma efficaci periodi di focus sul lavoro e del tempo di creazione, che permettono di pianificare il tempo. Il bambino in questo modo sa che non è vincolato al compito in modo indefinito.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: MINDFULNESS

La pratica del SOBER è una pratica utilizzata all’interno del protocollo MBRP (Mindfulness Based Relapse Prevention) di Marlatt e colleghi (Marlatt et al.,2009). Viene utilizzata come una pratica per “liberarsi” dall’agire in modo reattivo e impulsivo, immediato, modalità che Kabat-Zinn chiama “pilota automatico”.

Che cosa significa l’acronimo SOBER?

S – Stop – fermati un attimo, non reagire automaticamente

O – Observe – osserva dal lato una situazione in cui sei

B – Breathe -concentrati sul respiro

E – Expand – espandi la consapevolezza, trovando alternative inoffensive e fattabili!

R – React – scegli una risposta appropriata

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: BAMBINI

 

 Quindi, come può un bambino con ADHD utilizzare la pratica SOBER?

Dovrebbe imparare che nel momento di crisi può fermarsi e concedersi un attimo di respiro, piuttosto che re-agire al qui e ora. Non è facile, soprattutto per le persone con problemi di impulsività. Quando ci si ferma, si dovrebbe guardare la situazione e concentrarsi sul respiro. Concentrarsi sul respiro permette di sospendere l’azione dettata dal pilota automatico. Occorre pensare a soluzioni meno re-attive e più funzionali e poi scegliere una risposta adeguata ad una situazione in modo da disattivare il pilota automatico e lo schema di reazione dannosa. Questa tecnica dovrebbe essere accompagnata da una pratica di Mindfulness – formale e informale – e sembra essere appropriata per gli adolescenti con ADHD.

Ricerche future potrebbero concentrarsi sull’efficacia della pratica del SOBER nel processo terapeutico per i giovani con ADHD.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

ADHD – DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E IPERATTIVITA’ – MINDFULNESS – BAMBINI 

 

 

APPROFONDIMENTO:

 

BIBLIOGRAFIA:

DCA – Disturbi Alimentari… Parliamone!

di Laura Ciccolini, Fida Torino – CPF (Centro di Psicoterapia e Formazione per la Cura dei Disturbi Alimentari)

 

DCA - Disturbi Alimentari... Parliamone!_300Incontro FIDA Torino – “Disturbi Alimentari… Parliamone!”. In Italia , secondo il Ministero della Salute, soffrono di DCA circa 3 milioni di persone.

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Venerdì 22 marzo si è inaugurato, presso il Comune di Torino, il Centro Fida Torino –CPF, Centro di Psicoterapia e Formazione per la cura dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentari), che fa parte della Federazione Italiana Disturbi Alimentari.

Fida è una federazione costituita da otto associazioni situate in varie città italiane che condividono un modello di cura  multidisciplinare integrato ad orientamento psicoanalitico.

A questa giornata inaugurale dal titolo: ”Disturbi Alimentari…Parliamone”  hanno partecipato numerosi specialisti in questo campo. Queste patologie sono oggi una vera e propria epidemia sociale; in Italia, secondo il Ministero della Salute, soffrono di DCA circa 3 milioni di persone.

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Inoltre, negli ultimi anni le fasce d’ età colpite sono sempre più ampie e vanno dall’ infanzia fino alla maturità e negli ultimi dieci anni, anche la popolazione maschile è stata colpita da questa patologia portando alla luce nuovi sintomi come l’ ortoressia e la bigoressia.

Noi clinici, abbiamo constatato anche un cambiamento rispetto alla sintomatologia: infatti, accanto ai sintomi classici come anoressia, bulimia e alimentazione incontrollata, troviamo sempre più patologie parziali in cui sono presenti solo alcuni tratti della sintomatologia classica.

Magrezza non è Bellezza. I Disturbi Alimentari (e-book) & Booktrailer
Articolo consigliato: Magrezza non è Bellezza.

Queste forme di DCA, definite sottosoglia, non devono essere sottovalutate perché possono evolvere in patologie più gravi o cronicizzarsi.

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Partendo da queste considerazioni, la giornata è stata un momento di riflessione, informazione e scambio  fra professionisti appartenenti a vari ambiti sia clinici che culturali,  in merito alle diverse modalità in cui possono manifestarsi i DCA.

I dibattito si è svolto, principalmente, in una tavola rotonda dal titolo: “Uno, nessuno, centomila: diversi volti dello stesso problema o problemi differenti?” il confronto fra i vari professionisti , ha fatto emergere la difficoltà nell’individuazione di queste patologie che, se non manifestate in forme gravi, tendono ad essere sottovalutate sia dai soggetti sia dalla cultura.  Nell’ ambito dello sport, dei mass-media e della moda spesso il corpo magro viene enfatizzato e valorizzato come immagine a cui  aderire per avere successo, il sintomo viene vissuto in modo ego- sintonico e dunque non viene curato.

In altri ambiti, invece, queste patologie, vengono confuse o mascherate da altri sintomi: uso di sostanzeabuso di alcoliciabusi e maltrattamenti subiti nell’ infanzia o nell’ età adulta,  amenorrea, allergie o intolleranze alimentari, sono tutti segnali che nella maggior parte dei casi mascherano un DCA.

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Dal confronto della tavola rotonda è emersa l’ importanza di un lavoro di prevenzione da effettuare in vari ambiti e della necessità di poter effettuare precocemente una diagnosi poichè la mancanza di cure e il protrarsi negli anni di questa sintomatologia spesso conduce ad una cronicizzazione del disturbo che in seguito diventa molto difficile da trattare.

Al termine di questo interessante dibattito, l’ equipe del nostro Centro ha illustrato le possibili modalità di intervento clinico per curare queste patologie.

Si è evidenziato come la cura, sia lunga e complessa e necessiti di una equipe multidisciplinare composta da più figure professionali che lavorino in una costante integrazione in modo da poter costruire e garantire ai pazienti un trattamento idoneo che tenga conto della loro individualità e della specifica situazione clinica.

I vari membri dell’ equipe nei loro interventi hanno evidenziato come all’ interno del Centro CPF i percorsi terapeutici siano sempre costruiti sulle esigenze di ciascun soggetto e la cura si articoli attraverso colloqui preliminari, psicoterapia individuale e/o di gruppo, terapie espressive, monitoraggio dei parametri medico-nutrizionali, consulenza psichiatrica, sostegno e trattamento dei familiari .

Il Centro , inoltre, lavora in rete per le situazioni che necessitano di interventi più intensivi, con ospedali, case di Cura e Comunità terapeutiche in modo da poter sempre garantire, a seconda del livello di gravità, l’intervento più idoneo mantenendo però, la continuità delle cure.

 

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DCA – CONGRESSI – ANORESSIA & BULIMIA – DIPENDENZE

 

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