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Tribolazioni 03 – Ci Penso Io – Scenari Mentali, Astrazioni e Ipotesi

Ci Penso Io! Di fronte ad un problema elaborano scenari mentali per provare le ipotesi e selezionarle prima di tradurle in comportamenti.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 22 Mar. 2013

Aggiornato il 19 Lug. 2024 15:07

Il pensiero astratto: una strategia privilegia di adattamento

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Gli esseri umani hanno selezionato come strategia privilegiata di adattamento all’ambiente, motivo del loro grande successo evolutivo, il pensiero astratto. Di fronte ad un problema, piuttosto che tentare soluzioni pratiche per prove ed errori con il rischio che alcuni di questi risultino fatali, elaborano scenari mentali dove mettono alla prova le ipotesi  e le selezionano prima di tradurle in comportamenti concreti.

Così se i conigli sembrano agire secondo una regola implicita del tipo “se c’è un problema, scappa!” e le tigri secondo la regola “se c’è un problema, attacca”, gli umani sembrano regolati dall’idea “se c’è un problema pensaci!”. Ora la sofferenza normale serve appunto a segnalare che c’è un problema nel perseguimento attuale o futuro dei propri scopi e attivare le strategie di soluzione. Ciò però conduce ad una possibile trappola.

Più ci si concentra sul problema e più, essendo mentalmente rappresentato, appare grande e pervasivo. Le persone sembrano affette da una sorta di strabismo a motivo del quale osservano e pensano solo alle cose che non vanno bene e sembrano ignorare i settori, magari estremamente importanti della loro vita in cui potrebbero considerarsi ampiamente soddisfatti. E’ vero che ignorare il paesaggio meraviglioso che si sta attraversando per concentrarsi sul fastidioso sassolino nella scarpa ha il vantaggio di porre attenzione a ciò che non va per risolverlo mentre ciò che già funziona bene non necessita di interventi correttivi. Ma è anche vero che in questo modo il mondo sembra fatto solo di fastidiosi sassolini e non si gode mai il paesaggio.

La sopravvalutazione del potere del pensiero

Questa sopravvalutazione del potere del pensiero fa si che le persone ritengano doveroso concentrarsi sulle cose che non vanno come  fosse sempre e comunque una strategia efficace di soluzione dei problemi e, di contro, riprovevole o colpevole distrarsi. Ciò anche quando la concentrazione sull’oggetto della propria sofferenza non porti a nulla. Tipico è il caso del lutto per la morte di una persona cara. Si ritiene riprovevole impegnarsi in attività distraenti e c’è una sorta di attaccamento al dolore che si prova quasi fosse comunque un legame con l’oggetto perduto.

Anche in questo caso sembrano attivi due scopi che si rimandano l’un l’altro ma sono distinti:

  • Uno scopo riguarda il mantenimento di una relazione con l’oggetto d’amore e questo scopo resta definitivamente frustrato dalla scomparsa dello stesso. Rispetto a questo scopo il continuare a pensare all’oggetto perduto è palesemente inutile.
  • Un altro scopo, più interno inerente l’identità, riguarda invece l’idea di avere un forte e insostituibile legame e coinvolgimento con l’oggetto d’amore. Continuare a soffrire per la perdita segnala che il secondo scopo è ancora perseguito con successo. Al punto che può esserci una certa velata soddisfazione e compiacimento nel provare un dolore così assoluto eterno e inconsolabile. Esso è una specie di certificato della grandezza dell’amore che si è vissuto e della propria smisurata capacità di amare. Soggetti che vivono lutti laceranti affermano spesso che se avessero a portata di mano la pasticca in grado di cancellare ogni traccia di dolore non la prenderebbero perché gli sembrerebbe di tradire il morto, quello che è stato il loro grande amore e, in definitiva, sé stessi.

In conclusione molte delle persone che tribolano, hanno un pregiudizio sull’onnipotenza del pensiero. Poiché l’unica realtà che abbia il potere di far stare bene o male è quella rappresentata internamente nella mente e poco conta invece quella esterna e oggettiva, è evidente che concentrarsi sui problemi ed i fallimenti, seppure spinti dalla buona intenzione di porvi rimedio, fa vivere effettivamente in una realtà completamente problematica e fallimentare.

”Ci penso io!”

In sintesi. E’ normale pensare alle cose a cui teniamo e cercare di indirizzare gli eventi a favore dei nostri obiettivi ma spesso questo pensare non è altro che un avvoltolarsi di immagini e frasi smozzicate che non produce strategie di azione ma semplicemente una lamentela interiore senza scopo.

Questo rotolarsi delle idee perfora la mente, gruvierizza l’anima e si ripete senza sosta. Il mostro viene rappresentato nel momento che ci aggredisce ma non per ipotizzare una difesa e  valutarne i punti deboli ( Borkovec 1990; Borkovec, Inz 1990; Borkovec et Al 1993,1998; Laudoucer et al. 1995). Si immagina il suo dilaniarci e poi sgomenti si ricomincia da capo. Eccolo laggiù in lontananza che si avvicina e ride della nostra paralisi. E’ a pochi passi. Alza gli artigli e ci dilania di nuovo.

Non tutti sono, in proposito uguali. Alcuni ritengono di avere la piena e totale responsabilità di quanto gli accade. Si credono  protagonisti e artefici della loro vita. Sentono un fortissimo senso di responsabilità che genera spesso tracotante orgoglio, talvolta penosa colpa. Sentono che tutto dipende da loro. Al contrario altri si pensano in balia di un destino che li determina rispetto al quale sono assolutamente impotenti. Tutto dipende dal caso, dal destino, dagli dei, dalla fortuna. L’emozione di fondo è l’ansia di chi si sente in balia di forze incontrollabili.

La responsabilità non esiste sopraffatta dall’impotenza. La storia della loro vita è il prodotto di ripetuti scontri con gli eventi esterni. Tutto avviene fuori di loro. La colpa o il merito è sempre degli altri. Sono semplici spettatori del loro invecchiare senza infamia né lode. I primi anche di fronte alle malattie più maligne combattono convinti onnipotentemente che l’esito dipenda dalla loro determinazione a non morire e rappresentano i pazienti ideali dei medici dediti all’accanimento terapeutico e soprattutto economico. Al contrario i secondi ritengono fermamente che sarà quel che deve essere e si lasciano divorare da sparuti gruppetti di batteri o da poche cellule cancerogene che trovano nel loro atteggiamento non interventista un inaspettato alleato (Ellis 1962; Liotti , Guidano 1983; De Silvestri 1981, 1999).

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