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Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #4

Colloquio psicologico: lo psicoterapeuta deve dare risposte per stabilire una relazione terapeutica e per negoziare definizioni di problemi e obiettivi.

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 16 Apr. 2013

 

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 4

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IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

Colloquio Psicologico- Come agire nel Primo Colloquio #4. - immagine:© fotogestoeber - Fotolia.comCOME DARE RISPOSTE

“Un guerriero della luce conosce il potere delle parole”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.118]

Nel corso di un colloquio psicologico lo psicoterapeuta deve dare molte risposte per poter stabilire una relazione terapeutica, per negoziare definizioni di problemi e obiettivi, per mostrare nuove prospettive e la propria capacità di accettazione e per stabilire un contratto con il paziente.

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Si possono individuare alcuni modelli di risposta particolarmente utili a livello pratico dal momento che non sono intrusivi, non interferiscono con i processi di pensiero del paziente, non lo distraggono dagli stati d’animo che sta provando e non implicano giudizio di valore. Queste caratteristiche si possono definire proprie delle risposte che permettono allo psicoterapeuta di immedesimarsi nel comportamento e nei sentimenti altrui, giustificandoli ma, contemporaneamente, cercandone il motivo [Gladstein, 1983; Truax e Mitchell, 1971]. Esempi di questi modelli di risposte empatiche sono:

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1) Risposte di incoraggiamento minimo a proseguire ed eco: che sono costituite da cenni di assenso del capo e da semplici frasi. Permettono di trasmettere al paziente un segnale che lo inviti a proseguire senza interrompere in alcun modo il flusso del discorso. È estremamente efficace nel corso del primo colloquio soprattutto per mostrare la disponibilità e l’interesse del terapeuta a raggiungere una conoscenza profonda del paziente.

Gli eco, in particolare, sono impliciti inviti a proseguire trasmes

Il Colloquio Psicologico:Cosa Fare nel Primo Colloquio #1. Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
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si attraverso la ripetizione delle ultime parole dette dal paziente con un tono interrogativo; essendo così semplici possono essere l’ancora di salvezza dello psicoterapeuta che non sa cosa aggiungere e comunque sono utili perché permettono di approfondire le informazioni sulla condizione del paziente. Alcuni esempi di questo modello di risposta possono essere: “e allora cos’è accaduto?”, “la prego, continui pure” o “e lei ne soffre?”.

2) La parafrasi: con questo tipo di risposte lo psicoterapeuta mira a ricapitolare i contenuti espressi dal paziente ripresentandoli con parole proprie. In tal modo ha la possibilità sia di far capire al paziente che ha ascoltato con attenzione tutto ciò che ha detto, sia di far correggere da lui le proprie percezioni sbagliate. Il paziente corregge il terapeuta e il terapeuta ringrazia, dopo di ché si riprende il dialogo, che non ha subito un’ interruzione ma una chiarificazione.

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All’interno di queste parafrasi lo psicoterapeuta può introdurre alcune proprie associazioni tra le cose che ha detto il paziente. Per esempio se un genitore di due bambini (di tre e sette anni) si lamenta con il professionista per comportamento antisociale del primogenito emerso gradualmente da circa 3 anni, lo psicoterapeuta può dire: “quindi suo figlio assume comportamenti violenti nonostante voi abbiate provato ormai qualsiasi tipo di punizione, e ciò va avanti più o meno da quando è nato il fratello piccolo”.

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Con un affermazione di questo tipo viene presentata, mediante la parafrasi, un’associazione non espressa dai genitori, tra la nascita del fratello e l’inizio del disturbo. Questo potrebbe essere l’inizio di un esperienza di insight e di cambio di prospettiva per i genitori. La parafrasi permette, sia di chiarificare e riassumere i contenuti espressi nel colloquio sia di verificare le percezioni dello psicoterapeuta sulla base delle reazioni del paziente alla parafrasi stessa. Un altro esempio potrebbe essere: “Quindi da quando vi siete trasferiti in città sua moglie ha perduto la sua consueta vivacità, e questo la porta a sentire vuota la propria casa quando torna dal lavoro”.

3) Giustificazioni: per essere empatico nei confronti del proprio paziente è necessario un’elevata capacità di comprensione che si traduce, all’interno del colloquio psicologico, nelle risposte di giustificazione. Queste risposte hanno il compito di far sentire il paziente accettato dal professionista, compreso indipendentemente dagli errori commessi e dal giudizio di valore dato dalla società.

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Le risposte di questo tipo servono, appunto, per giustificare le emozioni e i sentimenti trasmessi dall’altro ponendo l’attenzione più sulla carica emotiva che sui contenuti. Rappresentano la via attraverso la quale vengono trasmesse le informazioni con le quali il paziente può giungere a capire di più sé stesso e a scoprire nuove prospettive di osservazione delle sue emozioni e dei suoi sentimenti.

4) Riflessioni: costituiscono una delle tipologie di risposte più efficaci soprattutto all’interno del primo colloquio psicologico. Nelle riflessioni i sentimenti del paziente vengono ritrasmessi dallo psicoterapeuta, il quale agisce come uno specchio in grado di catturare non l’immagine della persona ma ciò che vi è dietro.

Mettere in atto una risposta riflessiva vuol dire esprimere non solo l’emozione ma anche l’intensità con cui è vissuta dal paziente, riuscendo a giungere ad un livello massimo di immedesimazione. Le riflessioni possono trasmettere che lo psicoterapeuta è in grado di comprendere e accettare i sentimenti provati dal paziente indipendentemente da quali essi siano, che non è spaventato o scosso e che si può parlare normalmente di questi sentimenti.

L’effetto paradossale del mettersi nei panni dell’altro. - Immagine: © Pona - Fotolia.com
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Parlare normalmente dei sentimenti vuol dire non aver timore o vergogna di nominarli, e quindi iniziare ad assumere un controllo su di essi. È molto importante anche ciò che lo psicoterapeuta fa dopo aver risposto con una riflessione, solitamente occorre un po’ di tempo al paziente per rielaborare ciò che gli è stato restituito, in quei momenti il professionista deve mantenere uno stato di silenzio attento. Un esempio di riflessione è: “Immagino che ciò la renda molto triste” o “Deve aver provato un intensa rabbia in quel momento”.

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In associazione a questi tipi di risposte empatiche possono quindi essere posti alcuni interventi significativi che emergono facilmente dall’ascolto di ciò che riferisce il paziente. Questi interventi, legati all’intuito dello psicoterapeuta possono condurre , se evitano di essere eccessivamente minacciosi o intrusivi, ad un piccolo insight.

Usare queste strategie consente di evidenziare: l’incongruenza tra sentimenti e comportamento, l’ambivalenza nelle parole del soggetto, le soluzioni possibili e alternative, i modelli di comportamento dietro le singole situazioni, determinare a chi appartiene il problema, quali ruoli ha il paziente all’interno del suo ambiente sociale, quali sono i sentimenti dietro i sentimenti, quali sono le convinzioni del paziente sulla natura umana.

Come esistono delle risposte empatiche consigliabili, così esistono anche delle risposte non empatiche che dovrebbero essere evitate. Queste non solo sono risposte che non funzionano, ma possono compromettere il lavoro svolto finora con il paziente. Già Rogers individuò almeno quattro tipi di risposte che devono essere fuggite attentamente dallo psicoterapeuta se si vuole stabilire un rapporto di fiducia:

1) Risposte banalizzanti: sono le risposte che rendono comune il problema e che fanno apparire il terapeuta come colui che ha la soluzione che, in pochi minuti, farà scomparire tutte le diffcoltà. Bisogna ricordare sempre che esiste un rapporto speciale e unico tra il paziente e il suo problema. La persona non accetta che ciò che l’ha fatta così tanto soffrire o arrabbiare possa essere umiliata e banalizzata dalle parole del terapeuta.

Ognuno considera il proprio caso come unico e deve essere trattato come tale. Non si può affermare di aver visto tanti casi e tutti uguali. Questa è la manifestazione di una forte carenza nella capacità empatica del professionista che alimenta il senso del paziente di non poter essere capito. Alcuni esempi possono essere: “a questa età questo è un comportamento normale” ma anche “non si preoccupi, ho capito benissimo”.

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2) Risposte tecnicistiche: rappresentano tutte le risposte da esperto psicologo, tutte quelle che fanno uso di un linguaggio tecnico di cui il paziente può non conoscere il significato. Sono due i grandi svantaggi di questa abitudine. Prima di tutto si annulla qualsiasi possibilità di instaurare un rapporto di fiducia in quanto il paziente non si sente accettato e capito ma anzi avverte il disagio di trovarsi in un relazione non paritaria in cui lui occupa la parte subordinata.

Secondariamente l’uso di un linguaggio poco comprensibile rende difficile per il paziente poter cogliere prospettive diverse dalla propria. Per questi motivi l’uso di risposte tecnicistiche impedisce di seguire un percorso di negoziazione della definizione di problema e obiettivi ma porta alla negazione delle definizioni del paziente con tutti i danni che ne conseguono per il rapporto interpersonale tra lui e lo psicoterapeuta. Un possibile esempio di risposta tecnicistica può essere: “questo suo comportamento è aumentato di frequenza esclusivamente per l’azione di alcune variabili esterne che hanno agito come rinforzatori positivi”.

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3) Risposte moralistiche: costituiscono tutte quelle risposte tese a incolpare il paziente per un comportamento che travalica i limiti della moralità del terapeuta. Non è difficile comprendere come in questo caso lo psicoterapeuta verrebbe meno a molti dei principi di base presentati nei capitoli precedenti, primo fra tutti quello che impone l’accettazione piuttosto che il giudizio.

In questo caso lo psicoterapeuta, che dovrebbe accettare i valori del paziente e non rimanere scioccato dalle sue rivelazioni compie esattamente l’opposto, umiliando ulteriormente il paziente, instillando sensi di colpa in aggiunta a quelli che potrebbero già esistere. Se una persona si comporta in modo sbagliato secondo i canoni dello psicologo e giunge da lui portando un problema, questi deve occuparsi del problema e non giudicare il suo comportamento, giusto o sbagliato che sia.

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Un’eccezione ampiamente discussa riguarda il caso in cui il comportamento del paziente risulti dannoso per le persone che gli stanno intorno. In questo caso la legalità combatte contro sé stessa. Da un lato lo psicoterapeuta avrebbe il dovere (secondo alcuni) di informare le autorità o gli enti preposti al controllo del comportamento del paziente, dall’altro deve prima di tutto rispettare (secondo altri) l’etica professionale della riservatezza.

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La discussione è così animata e combattuta che molti stati hanno optato per soluzioni differenti. In linea di massima è auspicabile che la rottura della riservatezza sia l’ultima soluzione ma è altrettanto indispensabile una sorta di intervento. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di responsabilizzare il paziente a ciò che sta facendo cercando di suggerire come agire e, se tutto ciò non va in porto, pensando di intervenire più direttamente. Alcuni esempi di risposta moralisitica possono essere: “Lei dovrebbe vergognarsi a fare così”o “Quello che fa è sbagliato”.

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4) Risposte interpretative: sono risposte in cui lo psicoterapeuta dà una spiegazione alle emozioni, sentimenti e comportamenti del paziente basandosi sulla propria intuizione più che sulla connessione con i dati reali ricevuti dalla comunicazione. Implicano quindi l’introduzione di un argomento che al momento non è dato dal colloquio psicologico.

Queste intuizioni dovrebbero rimanere tali e non essere subito trasmesse al paziente, solo al momento opportuno potrebbero essere usate come fonte di insight. Infatti l’intuizione può portare a comprendere su quale canale comunicativo (emotivo, cognitivo o comportamentale) sia l’ostacolo principale che la terapia dovrà rimuovere e che il paziente non vede. Per questo si può definire l’intuizione come il faro che illumina il percorso terapeutico.

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Tuttavia esprimerla con un’interpretazione non basata sui dati o incomprensibile per il paziente può portare il focus della terapia su un altro problema, che non è quello per cui il paziente è venuto in terapia e che magari non esiste neppure (nel caso che l’intuizione sia scorretta). È sempre meglio prendere le proprie intuizioni come spunti che conducono a nuove domande e a nuove osservazioni; alcune di queste intuizioni evolveranno in ipotesi sperimentali che si procederà poi a verificare.

Rendendole subito esplicite si rischia sia di banalizzare che di tecnicizzare le emozioni, i sentimenti e i problemi riferiti dal paziente, infatti spesso le risposte interpretative sono anche banalizzanti o tecnicistiche. Alcuni esempi di risposte interpretative possono essere: “Lei è così ossessionato dalla pulizia perché il suo sviluppo è rimasto fissato alla fase anale” (interpretativa e tecnicistica), “non si preoccupi, è solo dovuto alla nascita del fratellino” (interpretativa e banalizzante).

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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