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Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #3

Colloquio Psicologico: raccogliere informazioni per valutare i progressi, concentrarsi nelle sessioni seguenti e programmare una strategia di intervento.

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 09 Apr. 2013

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 3

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IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

Colloquio Psicologico: Come Agire Nel Primo Colloquio #3. - Immagine:© pressmaster - Fotolia.comPRENDERE APPUNTI

Molto spesso nel corso della terapia è necessario raccogliere informazioni su cui riflettere successivamente per valutare i progressi, segnare i punti su cui concentrarsi nelle sessioni seguenti e i problemi comparsi e per programmare una strategia di intervento.

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Queste informazioni possono essere necessarie, sia per lo psicologo, sia per l’ente che ha inviato il paziente, per semplificare l’opera di monitoraggio sulla terapia.

Esistono modi diversi di registrare le informazioni sui pazienti. Alcuni terapeuti fanno compilare un questionario prima dell’inizio della sessione. In questo modo si evita il rischio di interrompere il flusso della comunicazione ma non si approfondiscono tali informazioni nel diretto colloquio con il paziente. A contrario di ciò, coloro che ricostruiscono l’anamnesi parlando direttamente con il paziente possono indagare nello specifico le situazioni che sembrano più significative e possono avvalersi di tutte le informazioni trasmesse dal paziente attraverso il canale della comunicazione non verbale.

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In questo modo però è importante porre attenzione a limitare il tempo dell’anamnesi all’interno del colloquio per evitare di interrompere il dialogo sul problema e di togliere la guida della comunicazione al paziente. Per evitare in parte questi problemi è consigliabile occuparsi di queste informazioni verso la fine del colloquio, non in mezzo per non interrompere il flusso comunicativo e non all’inizio per concentrarsi subito sul problema che sta a cuore al paziente.

Attento a Come Parli! Il Nocebo Effect. - Immagine: © T. L. Furrer - Fotolia.com
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Molte informazioni emergono in modo naturale dal colloquio psicologico. Alcune di queste informazioni devono essere tenute a mente e registrate. Alcuni terapeuti registrano ogni colloquio in modo da poter riascoltare ogni parola detta e ciò può essere fatto solo dopo aver ricevuto il consenso informato da parte del paziente.

Altri prendono appunti nel corso del colloquio con carta e penna. In tal caso devono prestare attenzione a riferire al paziente cosa stanno facendo e a cosa serve, a non interrompere il flusso del discorso e, soprattutto a non apparire distratti, il che può realizzarsi solo riuscendo a mantenere il contatto oculare con il paziente.

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Molti, infine, raccolgono appunti e riordinano idee al termine del colloquio. Costoro hanno il vantaggio di potersi dedicare completamente al paziente senza alcuna forma di distrazione o rischio di interruzione della comunicazione ma possono perdere alcune informazioni non fissate bene nella memoria, spesso perché non ritenute sufficientemente significative. Riguardo questo problema Fine e Glasser ricordano che argomenti o spunti significativi anche se persi riappariranno più volte nel corso della terapia.

COME RICONOSCERE SEGNALI DI ALLERTA

 

“Il guerriero della luce presta attenzione alle piccole cose, perché esse possono risultare ostacoli difficili.

[…]

<Il diavolo si nasconde nei dettagli>, dice un vecchio proverbio della Tradizione.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.69]

 

Per poter raggiungere gli scopi del primo colloquio è necessario possedere l’abilità o la dote di riconoscere segnali di allerta all’interno della comunicazione del paziente. Per fare ciò è necessaria una grande capacità di ascolto e, per questo motivo, l’ascolto è il cuore della terapia. Questi segnali possono essere argomenti, parole, associazioni, gesti, pensieri, emozioni manifestati dal paziente che accendono la luce della nostra attenzione richiedendo una risposta adeguata. L’elenco dei potenziali segnali di allarme è infinito e solo minimamente scoperto dalle ricerche psicologiche che si sono susseguite nel corso dei decenni, molto spesso lo stesso segnale d’allerta può valere per un paziente e non per un altro in relazione al contesto problematico che lo circonda.

Con questi presupposti, caratterizzati da poche certezze e molte ipotesi, diventa piuttosto arduo poter dire come riconoscere questi segnali o poter scrivere un “Manuale di istruzioni per il riconoscimento dei segnali di allerta”. Si possono solo dare suggerimenti sulle condizioni che possono condurre lo psicologo a migliorare questa sua capacità. I fattori da cui questa dipende sono fondamentalmente tre: la sensibilità (la dote di cogliere attraverso un rapporto empatico la rilevanza di certi segnali per il paziente), l’esperienza e la cultura (poiché come è già stato detto “il colloquio è figlio della cultura psicologica del terapeuta”).

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Queste sono le tre caratteristiche su cui lo psicologo può intervenire direttamente per aumentare la sua capacità di riconoscere questi segnali e di intervenire con tempestività.

Per chiarire ulteriormente il concetto di “segnali di allerta” si possono qui riportare alcuni esempi tratti da Fine e Glasser [1996]: 

–    Il paziente sembra presentare sé stesso secondo un copione preparato: il psicologo deve cercare di interrompere questo schema portandolo lontano dalla storia ripetuta a memoria.

–    La presentazione appare come un dramma di cui il paziente è il protagonista: il psicologo deve far capire che le persone, nel colloquio psicologico, vengono trattate come sono veramente e cercare di non diventare spettatore di un racconto. È possibile fare ciò se lo psicologo riesce a far concentrare il paziente più sui suoi sentimenti che sui suoi comportamenti.

–    Il paziente mantiene un comportamento infantile: lo psicologo può chiedere se le esperienze narrate lo fanno sentire come un bambino.

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–    Il paziente chiede cosa dovrebbe fare: il terapeuta deve rimanere sul vago, il suo compito è dare informazioni e non consigli, deve fare in modo che il paziente si assuma le proprie responsabilità senza affidarsi ad una figura autoritaria esterna.

–    Il paziente presenta contraddizioni tra ciò che dice e ciò che rivela attraverso la comunicazione non verbale: lo psicologo deve porre in rilievo questa differenza e discuterne con il paziente.

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–    Il paziente attribuisce ad altri la responsabilità della sua sofferenza: Fine e Glasser [1996] suggeriscono in proposito di non discutere di questo problema nel primo colloquio ma di ricordarsene in momenti successivi della terapia.

–    Il paziente pensa che il fato, il destino o Dio siano i principali responsabili degli eventi della sua vita: nel primo colloquio il psicologo cerca di raccogliere il maggior numero di informazioni sulle conclusioni tratte dal paziente su molti aspetti della sua vita. Successivamente lo aiuta a capire come ha fatto a raggiungere tali conclusioni e a ristrutturare il suo pensiero per rivalutarle.

–    Il paziente crede che nella sua vita nulla valga più la pena di essere vissuto: lo psicologo non deve cercare di mostrare il contrario discutendo sulla bellezza della vita perché vincerebbe il paziente. Nel primo colloquio è meglio che ascolti e riconosca la profondità delle sensazioni dell’altro. Successivamente si può agire in diversi modi indiretti, ad esempio chiedendo al paziente di elencare le sue doti e le sue esperienza positive.

–    Il paziente sta cercando di giustificare le sue azioni e i suoi sentimenti attraverso la razionalizzazione: anche questo non è un punto che si possa risolvere portando argomenti contrari. È necessario ascoltare e accettare il paziente senza intervenire prima di essersi assicurati che il paziente sia in grado di affrontare la questione e cioè prima di aver instaurato un saldo rapporto di fiducia e stabilito un contratto.

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–    Il paziente mostra sensi di rabbia inespressa e disperazione: in questi casi il psicologo non deve né minimizzare, né esagerare le sensazioni e fare attenzione a come il paziente le presenta, deve ascoltare e permettere che il paziente esprima con chiarezza ciò che sta cercando di comunicare, deve evitare di usare un linguaggio tecnicistico.

–    Il paziente riferisce di aver adottato dei meccanismi particolari per poter affrontare la sua situazione: è importante riconoscerlo come merito del paziente e incoraggiarlo a provare nuove possibili soluzioni.

–    Il paziente mostra di conoscere la materia perché ha già affrontato una terapia: la soluzione migliore è quella di rispondere cercando di riformulare il gergo tecnicistico del paziente in linguaggio comune.

–    Emerge un conflitto tra psicologo e paziente: se dovesse capitare è importante che lo psicologo cerchi di capire il motivo, provi a parlare con un supervisore o un collega e, se la situazione non accenna a migliorare, pensi seriamente ad un invio.

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IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – EMPATIA – IN TERAPIA –  ALLEANZA TERAPEUTICA – COLLOQUIO PSICOLOGICO

 

 

 

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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