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In Treatment – Psicoterapia in TV. Recensione e Analisi del secondo episodio: S01E02 Alex

Alex è il tipico paziente poco capace di comprendere, condividere e rispettare le regole implicite ed esplicite del contratto terapeutico.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 07 Gen. 2013

In Treatment – Psicoterapia in TV

SECONDA PUNTATA

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In Treatment - Psicoterapia in TV. Recensione di S01E02 Alex. - Immagine: © HBOAlex è il tipico paziente poco capace di comprendere, condividere e rispettare le regole implicite ed esplicite del contratto terapeutico.

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Secondo episodio, secondo paziente di In Treatment. È martedì, e Paul Weston nel suo studio riceve una prima visita. Situazione terapeuticamente intrigante: vediamo come se la cava Paul nell’incontro con un paziente mai visto. Mi rendo conto che in me lo spettatore e il terapeuta fanno a pugni. Il primo si accontenta di essere coinvolto, il secondo pensa: “vediamo come Paul fa un accertamento in prima visita”. Lo spettatore per fortuna prevale, anche perché se Paul tirasse fuori un’intervista diagnostica strutturata spegnerei il televisore.

Il paziente è Alex, un atletico pilota d’aerei militari, caccia top gun. È anche uno statuario afro-americano, sicuro di sé, quasi sprezzante eppure simpatico (o, almeno, è simpatico a me, gusti soggettivi). Paul si è ripreso dopo la seduta con Laura e controlla la seduta. E fa bene a farlo, perché Alex è uno che vuole sempre il meglio in tutto, e per ottenerlo si documenta, si informa. E per questo si è informato su Paul ed è giunto alla conclusione che questo terapeuta è “the best”. Vuole il meglio perché si ritiene il meglio. Questo pilota nero fa parte di un’elite che ha ricevuto da Dio (o da chi per lui, precisa Alex) il pacchetto completo: bellezza e talento tutto assieme. È una teoria che Alex dichiara apertamente a Paul.

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Ma qual è il problema di Alex? In queste prime battute sembra un narcisista. Però non proprio un narcisista maligno. È sicuramente fiero della sua bellezza statuaria, del suo talento e del suo essere un pilota d’aerei. Si sente al centro, ma al tempo stesso non sembra insopportabilmente sprezzante, almeno finora.

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In questo mondo di classicità eroica, in cui –come nell’antica Grecia- bellezza, intelligenza e forza coincidono impeccabilmente, però si è intrufolato il suo opposto: la colpa e il senso del male. Alex è un pilota militare che compie missioni di guerra in Iraq, durante una delle guerre del golfo. Missioni che prevedono bombardamenti. Alex ha qui un ultimo sussulto narcisistico e compiaciuto: racconta egli sia capace di rispettare infallibilmente il tempo di ogni azione senza mai uscire dalla massima variazione tollerabile, che è  di non più di 2 (due) secondi. Ma è l’ultimo sussulto eroico. Dopo il quale Alex racconta che, nell’ultima missione, ha bombardato una scuola coranica uccidendo dei bambini.

Alex ci tiene a chiarire subito che non è tormentato dalla colpa e, per dimostrarlo, dichiara che dorme bene di notte, come un bambino. Però ha preso un periodo di riposo dal suo lavoro di pilota. Perché? Perché, parole sue, è morto. E qui inizia un secondo racconto, mentre la storia della scuola coranica e dei bambini uccisi rimane lì, misteriosa e minacciosa.

In che senso Alex è morto? Nel senso che, tornato dalla missione, è uscito a fare jogging con un amico. E ha corso così tanto da procurarsi un infarto. Infarto così grave che, dice Alex, in quella situazione si ha solo il 3% o meno di probabilità di sopravvivere. E Alex è sopravvissuto e, ancora una volta, si compiace di questa ulteriore prova delle sue qualità fisiche, ormai superumane. Per salvarlo, infatti, i medici lo avevano infilato in una tuta termica che lo ha in qualche modo congelato (confesso una mia ignoranza: non so se un simile attrezzo esista davvero, su internet non ho trovato nulla). Alex ci è rimasto dentro 48 ore e –come sottolinea lui stesso- anche questo è un record.

Salvatosi da questo strano episodio, arriva il terzo colpo di scena, che è poi il motivo per cui Alex si è presentato dal dott. Weston (o almeno, lui se la racconta così). Alex non cerca una terapia, vuole solo un parere professionale. Ha deciso di tornare a Baghdad in incognito per visitare le macerie della scuola bombardata e vuole sapere da Paul che ne pensa.

Che dire? Paul non gli risponde direttamente, e fa bene. La richiesta di Alex è estremamente confusa. Nega ogni sentimento di colpa proclamando che lui ha solo eseguito degli ordini, nega di voler tornare a Baghdad sul luogo del disastro per espiare il suo tormento, nega anche di essersi procurato l’infarto quasi volontariamente correndo come un matto per chilometri e nega anche che quasi tentativo di farsi fuori sia stato un modo per punirsi. Insomma, nega tutto, nasconde tutto sotto il compiacimento delle sue qualità superumane e desidera solo un parere. Un parere psicologico su un’azione, ma negando ogni significato psicologico a questa azione.

Insomma, siamo di fronte a una grande difficoltà di concordare un contratto terapeutico chiaro con questo paziente.

Alex è il tipico paziente poco capace di comprendere, condividere e rispettare le regole implicite ed esplicite del contratto terapeutico. In particolare sembra frequentemente sfuggirgli la regola che la terapia è trattamento di problemi psicologici interiori e che il trattamento avviene esplorando e impegnandosi a cambiare i propri stati mentali. Sembra una banalità, ma per molti pazienti non è così chiaro. Per molti pazienti l’esplorazione delle convinzioni distorte e dei propri stati mentali (o dei propri fantasmi inconsci, direbbe Paul Weston) significa rinunciare a una serie di altre convinzioni sul proprio malessere, ovvero teorie naif sulla propria sofferenza, che spiegano i problemi psicologici in termini di responsabilità del mondo o degli altri.

Insomma, alcuni pazienti si presentano al clinico come se non fossero disposti a un’alleanza curativa. È fondamentale che ci si renda conto che non sempre la presenza del paziente in studio, seduto davanti allo psicoterapista, vuol dire che egli abbia la volontà o la capacità di costruire un’alleanza di tipo clinico con il terapista. In altre parole alcuni pazienti portano in terapia domande di terapia non formulate in termini psicologici:

  • Ce l’hanno tutti con me (perché non va da un avvocato?)
  • Ho sempre mal di testa (perché non va dal neurologo?)
  • Mi si è ristretto lo stomaco (perché non va dal gastroenterologo?)
  • Sono tutti stupidi (perché non fonda un movimento culturale?)
  • Sono tutti cattivi (perché non fonda un movimento sociale, politico, religioso?)
  • È tutto sbagliato (perché non fa tutte le cose menzionate insieme?)
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Il problema del contratto un tempo era meno sentito in psicoterapia. Per gli analisti ogni accordo esplicito era sempre una difesa, essendo il paziente del tutto preda inconsapevole delle sue pulsioni e delle sue difese. Per i cognitivisti la situazioni era opposta: il paziente è tendenzialmente ragionevole e razionale e viene in terapia per ragionare sui suoi stati d’animo e ristrutturarli. Per un cognitivista classico era inimmaginabile pensare che il paziente voglia sottrarsi alla terapia: puzzava di inconscio.

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Oggi invece si riconosce che per molti pazienti è bene chiarire e concordare le regole. La tecnica terapeutica descritta da Clarkin, Yeomans e Kernberg (1999) è tutta incentrata sulle regole del contratto e sulla analisi di tutti gli “sgarri” del paziente (o del terapeuta stesso). Ogni violazione è interpretata come manifestazione di quelle stesse difficoltà relazionali che sono oggetto del trattamento.

In questo Paul Weston sembra un analista vecchio stampo: inizia ad ascoltare il racconto di Alex senza dare alcuna direttiva. Alla fine dell’episodio Alex si congeda e va incontro al suo destino.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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