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Iniziare una terapia cognitiva #1: Concordare le regole

Cosa vuol dire iniziare una terapia cognitiva, cosa succede nel primo incontro tra terapeuta e paziente e le regole che vengono definite.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 14 Feb. 2012

Aggiornato il 12 Mar. 2012 16:06

 

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com Il punto di partenza della terapia cognitiva, la prima regola del gioco da stabilire tra paziente e terapeuta, è chiarire le regole. Il terapeuta cognitivo fin dall’inizio agisce in piena trasparenza e comunica al paziente come funziona la terapia cognitiva e come agisce sulla sofferenza emotiva. Proprio perché la terapia cognitiva privilegia l’aspetto esplicito e cosciente dell’attività mentale, è giusto che le regole del gioco siano condivise esplicitamente.

Si tratta di comunicare al paziente l’ipotesi del primato cognitivo, per la quale l’elaborazione consapevole degli stati mentali in forma di informazione esplicita, verbalizzabile e comunicabile è in grado di spiegare e guidare gli stati emotivi e pianificare il comportamento in vista di scopi (Clark e coll., 1999). Una formulazione leggermente differente sostiene che ogni stato mentale, anche il più spontaneo e immediato, corrisponde in realtà a una valutazione cognitiva della realtà esterna e degli stati interni, ovvero è informazione. È il caso delle emozioni, stati interiori spontanei che però sono anche informazione: così la paura è una valutazione di pericolo, la vergogna di un imbarazzo sociale, la colpa di violazione di una regola (Castelfranchi, 1988).

Naturalmente tutto questo va comunicato al paziente non usando questa pedante terminologia tecnica, ma con parole semplici e facilmente comprensibili. La spiegazione avviene partendo proprio dal problema presentato dal paziente stesso. A volte questa operazione è – almeno apparentemente- non troppo difficile. Ad esempio:

P.: Vengo da lei perché ho timore di prendere l’ascensore.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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In questo caso lo stato emotivo di timore è già ben collegato a un pensiero: la valutazione di un pericolo abbastanza ben definito, che è naturalmente rimanere bloccati in ascensore (anche se poi il terapeuta cognitivo metterà in discussione questo pericolo; ma questa è già terapia e quindi lo vedremo in seguito).

Altre volte l’intervento può essere più complesso. Lo stato emotivo di sofferenza è percepito come stato mentale, ma il paziente sembra concepire questo stato mentale come una sorta di fatto oggettivo dotato di vita propria e non come prodotto di operazioni mentali, sia pure in parte automatiche e non ponderate. Leggiamo un altro esempio.

P.: Il mio problema è l’ansia.

T.: Capisco. Poniamoci insieme una domanda: perché proviamo ansia?

Annotazione tecnica: il rischio della sfida razionalistica è sempre dietro l’angolo. Il paziente potrebbe sentirsi sottoposto a un interrogatorio, o peggio trattato da idiota. Il “noi” terapeutico evita questo rischio. Noi soffriamo insieme al paziente e condividiamo il suo problema.

P.: Non so. Perché proviamo ansia?

T.: Intendo dire: questo stato d’animo, l’ansia, come mai lo proviamo? Quando e perché siamo in ansia? Perché lo si prova?

P.: Non c’è un perché. Io ho l’ansia. L’ansia c’è, arriva. Vorrei liberarmene.

Qui è evidente che per questo paziente l’ansia è un fatto negativo che capita, una sorta di disgrazia o di sciagura, sia pure mentale, che va eliminata.

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Non a caso, questa concezione oggettiva degli stati mentali può portare il paziente a cercare spiegazioni in cause non coscienti. La concezione popolare della genetica o dell’inconscio freudiano sono particolarmente adatte a fornire questo tipo di giustificazioni.

P.: La mia ansia potrebbe avere della cause inconsce. Non saprei. Forse c’è un significato che non conosco?

Oppure

P.: Dipenderà dalla mia genetica?

Le ipotesi psicodinamiche o genetiche sono naturalmente rispettabili, ma non sono compatibili con la fiducia della terapia cognitiva nell’elaborazione volontaria e consapevole. 

La terapia cognitiva invece mantiene il presupposto che gli stati emotivi di sofferenza sono spiegabili con cose che il paziente pensa o ha pensato consapevolmente e non inconsciamente. Questi pensieri collegati alla sofferenza sono però percepiti come confusi e incontrollabili. In ogni caso, a un certo punto la condivisione esplicita delle regole diventa necessaria:

T.: Ora le spiego. In terapia cognitiva si dà importanza a quel che lei pensa consapevolemente.

P.: E quindi?

T.: Quindi, ogni emozione, ogni stato d’animo è anche un pensiero. Per “pensiero” intendo quelle piccole frasi che tutti noi diciamo a noi stessi mentalmente, e con le quali valutiamo una situazione, pensiamo cosa fare, come comportarci. Queste frasi interiori sono quello che pensiamo. O meglio, sono il modo con il quale chiariamo a noi stessi quel che sentiamo e pensiamo. Per esempio, la gioia si accompagna alla constatazione che è accaduto qualcosa che ci rende felici, o che almeno ci soddisfa. Per l’ansia è lo stesso. Cosa si pensa quando si ha l’ansia?

Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
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A questo punto dovrebbe essere più facile per il pensiero collegare l’ansia a una preoccupazione cosciente per qualcosa: una valutazione consapevole della presenza di un pericolo.

P.: Beh, l’ansia è timore, timore di qualcosa.

T.: Esatto: per essere precisi l’ansia si unisce a una valutazione di pericolo. Lei teme qualcosa. E che cosa?

Naturalmente non sempre va così liscia.

P.: Le assicuro che non ho pensato a nulla. Ho l’ansia, e nient’altro.

T.: Capisco. Tuttavia vorrei che fossimo d’accordo su questo punto: ogni emozione corrisponde a un pensiero. Magari un pensiero confuso, un pensiero in cui davvero lei non ha pronunciato nessuna particolare “piccola frase” dentro la sua testa. Un pensiero che somiglia più a una sensazione che a qualcosa che possa essere detto in parole. Ma comunque un pensiero.

P.: (cenni o mormorii di assenso)

T.: Quindi le direi che comunque l’ansia corrisponde a un pensiero. Pensiamoci: a quale pensiero?

P.: Evidentemente c’è qualcosa che mi preoccupa. Che mi mette in ansia. Ho paura di qualcosa? Ma di cosa?

T.: Cercheremo di capirlo.

E qui finisce bene. Ma se ancora il nostro paziente non afferra il concetto?

P.: Dottore, continuo a non capire. So solo che io ho l’ansia, punto. Non so come dirglielo: non penso a nulla.

T.: D’accordo, la aiuto. Facciamo l’esempio inverso. Lei dice che quando ha questa ansia che la tormenta non pensa a niente. D’accordo. Ci credo. Però è vero che esistono pensieri che ci fanno venire l’ansia.

P.: Per esempio?

T.: Mah, per esempio, il timore di arrivare in ritardo. Il timore di non poter stare più bene

P.: (cenni o mormorii di assenso) e quindi?

T.: E quindi l’ansia può essere generata da un pensiero.

P.: D’accordo, ma nel mio caso? Continuo a non avere idea di quale pensiero può avermi generato ansia.

T.: Lo troveremo. Per ora l’importante è che lei convenga su questo punto: può esserci un pensiero. Un pensiero che possiamo chiarire e poi perfino modificare. E modificandolo, agire sulla sua sofferenza. Questa è la terapia cognitiva. Vediamo ora come e quando si presenta questa ansia. In quali momenti della sua giornata. Ora le farò delle domande precise.

 

E così siamo passati alla fase successiva: dal concordare le regole al grande tema dell’accertamento cognitivo. Che approfondiremo nei prossimi capitoli. Ora concludiamo con qualche altra annotazione teorica e pratica su come concordare regole.

Insomma, la terapia cognitiva si gioca tutta su questo rapporto tra pensiero verbale interno e altri stati d’animo non verbali. Al paziente il terapeuta cognitivo chiede sempre di effettuare il passaggio dal “sentire” e “provare” al “pensare frasi”. Passaggio a volte forse difficile, ma mai ritenuto impossibile. Non si deve andare alla ricerca di significati profondi, ma valutare le ragioni dei propri stati d’animo del presente con buon senso e semplicità.

Come già scritto, chi ideò questo principio terapeutico fu Albert Ellis. Ellis riteneva che gli stati mentali non solo fossero agevolmente traducibili in parole, ma che essi fossero sempre determinati da pensieri coscienti espressi in forma verbale, o almeno verbalizzabile, che precedevano gli stati emotivi “sentiti”. Questa posizione era ingenua, ma di grande efficacia pratica nello stabilire i principi della tecnica cognitiva.

La formulazione ingenua non impedì a Ellis di cogliere con grande chiarezza e precisione il nuovo principio terapeutico: la sofferenza mentale non dipende da stati mentali inconsci e pregressi, ma da elaborazioni mentali consapevoli che il soggetto si auto-infligge nel presente con un certo automatismo ma in fondo volontariamente, dandone per scontato il valore di verità e la fondatezza razionale. Ellis svalutava quindi tutta la porzione non esplicita e non verbalizzabile dell’elaborazione mentale, sostenendo che invece è la componente esplicita l’elemento responsabile della sofferenza emotiva.

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Naturalmente Ellis non arrivava a sostenere che i pensieri si presentino alla mente sempre e comunque in forma perfettamente articolata e sviluppata. Per Ellis si tratta, piuttosto, di piccole e rapide frasi, apparentemente innocue ma in grado di generare sofferenza.

La formulazione con la quale questi pensieri si presentano alla mente è spesso semplicistica e definitiva: etichettature, indottrinamenti, auto-istruzioni, per lo più poco argomentate e ancor meno articolate ma auto-inflitte in forma di verità apodittiche e auto-evidenti con un gusto che parrebbe masochistico, dato il loro contenuto negativo. Ellis le chiamava “sciocche frasi” che usiamo dire a noi stessi.

La componente effettivamente terapeutica del trattamento diventava quindi la ricerca e l’esplorazione di queste “sciocche frasi” (Ellis, 1962). Così si esprime una paziente descritta da Ellis: “Ogni qual volta mi scopro ad avere dei sensi di colpa o un turbamento, penso immediatamente che la causa di questo turbamento debba essere una sciocca frase che sto dicendo a me stessa…” Non si tratta più di andare a cercare le cause lontane della sofferenza, ma le cause mentali immediate, presenti ed agenti qui ed ora, in questo momento.

Per il terapeuta cognitivo ogni stato mentale è verbalizzabile come informazione, valutazione di una situazione più o meno problematica ed è padroneggiabile e modificabile attraverso la rielaborazione critica razionale e consapevole. Questo vale per qualunque stato mentale, dalle emozioni alle immagini mentali, dagli stati affettivi alle fantasticherie, dalle meditazioni più ponderate agli impulsi improvvisi. Ognuno di questi stati è traducibile in parole, in pensieri verbali comunicabili. E questo è valido anche per gli stati di sofferenza emotiva che sono alla base delle richieste di trattamento terapeutico.

La condivisione esplicita di questo principio con il paziente è una regola molto caratteristica della terapia cognitiva. Essa invece non è sempre presente in altri orientamenti terapeutici, nei quali si ritiene che queste spiegazioni esplicite delle regole del gioco possano o addirittura debbano essere almeno in parte evitate. Il che non vuole dire che esse siano intenzionalmente nascoste al paziente. Semmai si preferisce che esse emergano da sole dallo spontaneo articolarsi dell’interazione tra paziente e terapeuta. Si tratta di una concezione diversa, nella quale si prova diffidenza per l’esplicito, elemento ritenuto potenzialmente sospetto e in grado di falsare l’emergere dei contenuti psichici più profondi e inconsci. Non è invece così nella terapia cognitiva, la quale fin dall’inizio invece segnala la sua fiducia nella gestione esplicita e consapevole del gioco terapeutico e degli stati mentali.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Castelfranchi, C (ed.) (1988). Che figura. Emozioni e immagine sociale. Bologna: Il Mulino, 1988.
  • Clark, D. A., Beck, A. T., Alford, B. A. (1999). Scientific foundations of cognitive therapy and therapy of depression. New York: John Wiley & Sons.
  • Ellis, A. (1962). Ragione ed Emozione in Psicoterapia. Tr. it. 1989. Roma, Astrolabio.
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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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