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Stringimi Forte – Sette Passi Per Una Vita Piena d’Amore – Recensione

 

Recensione:

 

STRINGIMI FORTE

Di Sue Johnson

Istituto di Scienze Cognitive Editore 2011

 

 

Conducimi fino alla tua bellezza con un violino ardente

Conducimi attraverso il panico finchè potro essere al sicuro

Alzami come un ramo d’ulivo e diventa la colomba

che mi riconduce a casa

Conducimi fino alla fine dell’amore

Leonard Cohen

 

 

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GIARDINI STRINGIMI FORTE Un libro di “auto-aiuto”, un libro importante che va dritto al cuore, che ti permette di riflettere, che ti fornisce reali spunti di comprensione offrendoti strategie nuove per migliorare il tuo rapporto di coppia.

 

Con queste parole si apre il libro di Sue Johnson, psicoterapeuta riconosciuta a livello internazionale come una tra le più importanti nelle nuove scienze delle relazioni e una tra le fondatrici della Terapia Focalizzata sulle Emozioni (EFT).

Un libro di “auto-aiuto”, un libro importante che va dritto al cuore, che ti permette di riflettere, che ti fornisce reali spunti di comprensione offrendoti strategie nuove per migliorare il tuo rapporto di coppia. Un libro che può essere utilizzato da tutte le coppie giovani, vecchie, fidanzate, sposate, conviventi, in difficolta, felici, eterosessuali, omosessuali; ognuno ha lo stesso bisogno di legami affettivi positivi.

 

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Questo libro è un buono strumento per chi ha voglia di mettersi in gioco, di mettere in gioco la propria relazione, di guardare il legame vivere le emozioni e condividere con il partner un percorso di crescita e condivisione, non è immediatamente indicato per persone che vivono una relazione abusante o violenta, queste situazioni indeboliscono le abilità di impegnarsi positivamente in una relazione di coppia e in questi casi il terapeuta rimane la risorsa migliore, e magari con lui in un percorso più lungo le pagine di questo libro potranno, poi, diventare preziose.

Quanti di noi si sono almeno una volta interrogati su cosa avrebbero potuto fare per migliorare la propria “situazione sentimentale”, in quanti si sono chiesti quale fosse la chiave di lettura del comportamento del partner, bè molti di loro avrebbero potuto trovare la risposta giusta tra le righe di questo libro. Nelle pagine di questo libro l’autrice si concentra sul modo in cui poter rafforzare il legame emotivo all’interno della coppia per favorire una relazione d’amore matura. Per fare questo vengono illustrati alcuni esercizi mutuati della Terapia Focalizzata sulle Emozioni e vengono raccontate la storie di alcune coppie.

IL MITO DELLA MONOGAMIA
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Da terapeuta ho trovato molto utile la lettura di “ Stringimi forte, sette passi per una vita piena d’amore”, l’ho trovato un libro molto chiaro e facile da condividere in terapia con il paziente, una di quelle letture che fatte con il paziente possono apportare molti benefici al processo terapeutico. L’intenzione che sta dietro alla Terapia Focalizzata sulle Emozioni è quella di fornire alle coppie un modo per vivere una relazione matura e duratura assecondando i cambiamenti e rimanendo sempre in connessione con i vissuti emotivi dei partner.l’amore non è immobile come una pietra. Deve essere preparato come il pane rifatto ogni volta, fatto di nuovo”.

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La Terapia Focalizzata sulle Emozioni non solo aiuta a “guarire” la relazione d’amore, ma crea relazioni che guariscono: i pazienti ansiosi e depressi, infatti, traggono estremo beneficio dall’esperienza di connessione supportiva che una relazione più amorevole è capace di offrire.

In particolare credo che per noi terapeuti sia molto utile tenere a mente nella quotidianità della pratica clinica quelle che sono le “lezioni” che Sue Johnson dice di aver imparato dai sui pazienti, così direttamente dal libro le condivido con voi:

 

Il nostro bisogno che gli altri ci vengano vicino quando li chiamiamo- per offrici un rifugio sicuro- è assoluto;

La fame emotiva è una realtà. Il sentirsi emotivamente abbandonati respinti dimenticati dà origine a dolore e panico fisici ed emotivi;

Ci sono pochi modi con cui possiamo affrontare il nostro dolore quando i nostri bisogni primari di connessione non vengono accolti;

L’equilibrio emotivo, la tranquillità e la gioia sono le ricompense dell’amore. L’infatuazione sentimentale è il premio di consolazione;

Non esiste una prestazione perfetta nell’amore o nel sesso. L’ossessione per la prestazione è una strada senza uscita. È la presenza emotiva che conta;

Nelle relazioni non ci sono causa ed effetto, linee dritte, solo circoli che i partner creano insieme. Ci spingiamo reciprocamente in cicli e spirali di connessione e distacco emotivo;

L’emozione se siamo in grado di ascoltarla e di usarla come guida ci dice esattamente ciò di cui abbiamo bisogno;

Tutti a volte proviamo una sensazione di panico. Perdiamo il nostro equilibrio e diventiamo controllanti ansiosi o intorpiditi o evitanti. Il segreto è di non permanere in queste posizioni. È difficile per il tuo partner raggiungerti li;

• I momenti chiave di unione, quando una persona cerca l’altra e quest’ultima risponde ci danno coraggio ma sono magici e trasformanti;

Perdonare le offese è fondamentale e può verificarsi solo quando i partner riescono a dare un senso alla loro sofferenza e sanno che il loro compagno si connette e percepisce il loro dolore;

È possibile che in amore la passione sia duratura. L’incostante ardore dell’infatuazione è solo il preludio: un legame amorevole è la sinfonia;

La trascuratezza uccide l’amore. L’amore necessità di attenzioni. Conoscere i tuoi bisogni d’attaccamento e rispondere a quelli del partener può creare davvero un legame fino a che “morte non vi separi”;

Tutti gli stereotipi dell’amore- quando le persone si sentono amate sono più libere, più vive, più forti- sono più veri di quanto abbiamo sempre immaginato.

 

 Certo non basta avere in testa questi punti per garantirsi e per garantire ai nostri pazienti una relazione piena d’amore, ogni volta è necessario rimettere in discussione e riflettere bene quando si perde la connessione emotiva con le persone care, con le persone che ci stanno vicino. È difficile imparare a gestire quella frazione di secondo in cui si ha ancora la possibilità di scegliere se incolpare, vendicarsi, mettere su un muro, allontanare oppure fare un profondo respiro e sintonizzarsi sulle proprie emozioni e su quelle dell’altro, rallentare, aprire il dialogo…. Ma in questo ci aiuta questo prezioso libro che ogni coppia dovrebbe tenere sul comodino.

In particolare nella prima parte del libro Sue Johnson cerca di dare una nuova luce al concetto d’amore passando per la teoria dell’attaccamento.

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Frequentemente utilizziamo la parola amore, compriamo poesie d’amore, leggiamo libri d’amore, ascoltiamo canzoni d’amore, ci eleviamo per un “Ti amo” e crolliamo per un “non ti amo più”, ma cos’è davvero l’amore? L’autrice in queste pagine ci accompagna in un percorso alla scoperta del concetto di amore.

In questo viaggio il punto di partenza è capire che l’amore non è un vezzo, ma un bisogno primario della nostra vita. Anche noi terapeuti forse quando abbiamo una coppia in terapia dobbiamo imparare ad andare più a fondo a non cadere nel tranello di vedere semplicemente gli schemi in cui i partner sono incastrati, le trappole della loro relazione e lavorare sulla negoziazione e sulla capacità di comunicare meglio, ma dovremmo insieme a loro scendere al nocciolo del problema: la disconnessione emotiva, i partner non si sentono emotivamente sicuri l’uno dell’altro, “potrò fidarmi di te? Ci sarai quando avrò bisogno di te? Ci tieni a me? Sono stimato da te?

Riconoscere le emozioni di Francesco Aquilar- Recensione
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E allora è in questo quadro che le critiche e la collera diventano un modo per richiamare l’attenzione, un goffo tentativo per risvegliare il cuore del partner, e poter finalmente ristabilire un senso di connessione sicura. Grazie alle pagine di questo libro, alle storie delle coppie raccontate, impariamo a conoscere quelli che l’autrice chiama i “Dialoghi Demoni”, tanto più a lungo i partner si sentono disconnessi emotivamente tanto più i risvolti della loro relazione risulteranno negativi.

Nello specifico alla base della EFT troviamo sette conversazioni che hanno lo scopo di promuovere quella particolare responsività emotiva che è alla base di una relazione duratura. La responsività emotiva ha tre caratteristiche principali, che possono essere riassunte in queste domande: sono in grado di raggiungerti? Posso contare sul fatto che mi risponderai emotivamente? Sono sicuro che mi stimerai e mi starai vicino? Concludendo la prima parte del libro l’autrice ci suggerisce come poter vedere la propria relazione sotto la lente d’ingrandimento dell’attaccamento, e questo può esserci molto utile sia come terapeuti che come persone.

Nella seconda parte del libro l’autrice attraverso l’uso delle sette conversazioni ci porta per mano nel lungo percorso della comprensione e costruzione di un legame di coppia sicuro, maturo e duraturo. Una relazione di coppia, un forte vincolo emotivo in cui i partner hanno bisogno di essere visti, curati, protetti e tutelati. Una volta capito con cosa ha a che fare l’amore e la creazione di una relazione di dipendenza positiva passo passo impariamo come poter modificare e cambiare ciò che non funziona nelle nostre relazioni o nelle relazioni dei nostri pazienti.

Le sette conversazioni per il cambiamento

Per ogni passo, per ogni conversazione l’autrice porta esempi, storie e risoluzioni di coppie e spunti di riflessione e lettura delle relazioni di coppia.

Riconoscere i dialoghi demone: in questa conversazione attraverso la storia dei pazienti e attraverso alcuni esercizi in cui l’autrice guida il lettore è possibile identificare i cicli negativi che hanno intrappolato entrambi i componenti della coppia, quella sospettosità ormai data per scontata, quella posizione di difesa, il sentirsi un fallimento come partner… la consapevolezza come primo passo per il cambiamento.

Trovare i punti sensibili: in questa parte vengono esplorate a fondo le emozioni che più di tutte ci impediscono di sintonizzarci come coppia, in particolare le paure dell’attaccamento. L’autrice mette in luce come spesso un punto sensibile per le coppie sia la vulnerabilità, l’ipersensibilità che si è formata nei momenti in cui nelle relazioni passate o presenti di una persona un bisogno di attaccamento è stato trascurato e ignorato, questa ipersensibilità deriva frequentemente da relazioni traumatiche con le persone significative, soprattutto con i nostri genitori. In queste pagine Sue Johnson accompagna il lettore nella comprensione dei propri punti sensibili, aiuta a trovarne la causa e a condividerli con il partner.

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Ripercorrere un momento difficile: una volta condivise e riconosciute le nostre fragilità e i nostri punti di vulnerabilità diventa importante lavorare con i sentimenti relativi all’attaccamento per ridimensionare i pattern distruttivi in cui cadiamo, questo per ridurre i conflitti interni alla coppia. Nelle pagine di questa conversazione l’autrice ci fornisce esempi dalla sua esperienza clinica e fornisce al lettore alcune griglie di lettura e compiti per imparare a leggere un momento difficile della coppia e de-intensificare il conflitto.

Stringimi forte, impegnarsi e connettersi: altro passo importante diventa ora creare delle positive conversazioni che rinforzino il fatto di essere accessibile, responsivo e collegato al partner e viceversa. Ci aiuta a riconoscere i nostri bisogni nella coppia e ci invita a condividerli con il partner.

Perdonare le offese: in questa conversazione Sue Johnons consiglia alle coppie di condividere un momento in cui hanno sentito meno il supporto dell’altro, capire come poi ci si è riavvicinati e rassicurarsi sul fatto che non accadrà più. La capacità di perdonare e perdonarsi dà alla coppia un grande potere, non esiste alcuna relazione a prova di trauma ma sapere di essere capaci di riprendersi dà maggiore forza e sicurezza.

• Legarsi attraverso il sesso e il contatto fisico: l’autrice accompagna il lettore in un analisi del proprio modo di vivere il sesso e il contatto fisico con il partner, ridando importanza e centralità a questo aspetto  nella vita di coppia.

Mantenere vivo il tuo amore: questa conversazione potrebbe essere riassunta con “Quale piccola cosa potresti fare ogni giorno per far sentire al tuo compagno che vuoi ancora stare con lui?”

 

 Nella terza e ultima parte del libro Sue Johnson focalizza l’attenzione sull’importanza della connessione emotiva nella coppia per affrontare, fronteggiare e superare le esperienze traumatiche che si presentano nella vita del partner, lutti, separazioni, perdita del lavoro.. l’affrontare il “mostro”, la fatica, il dolore, con la persona amata al nostro fianco aumenta la resilienza e ci permette di trovare la forza.

 

Un libro da leggere non solo come terapeuti ma soprattutto come persone, persone che vivono una relazione con tutte le gioie e le fatiche del caso. Un libro da consigliare alle coppie che abbiamo in terapia, ma anche un libro da regalare al fidanzato o al marito.

 

 

 

LEGGI:

AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI – IN TERAPIA – ATTACCAMENTO – ATTACHMENT

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BIBLIOGRAFIA:

Johnson, S. (2011),  Stringimi forte, Sette passi per una vita piena d’amore. Istituto di Scienze Cognitive Editore.

 

 

Dismorfofobia. Quando il corpo diventa un nemico

di Denise Biemosi

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La dismorfofobia indica un’eccessiva preoccupazione per un difetto estetico tale da indurre il soggetto a percepire la sua immagine corporea come distorta.

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La dismorfofobia indica un’eccessiva preoccupazione per un difetto estetico tale da indurre il soggetto a percepire la sua immagine corporea in maniera distorta perché si fissa su difetti estetici anche minimi.

La dismorfofobia colpisce sia adolescenti che adulti, soprattutto donne, ma anche uomini, infatti è una malattia che coinvolge chi non è in grado di accettare il proprio aspetto, chi non si sente all’altezza degli altri, chi non ha le difese necessarie per proteggersi dall’ideale di perfezione della nostra società in cui i canoni estetici sono sempre più esigenti. I difetti fisici coinvolti possono essere di vario genere e spesso si ricorre alla chirurgia estetica.

La Dismorfia Muscolare o Vigoressia- lo Specchio deforme di Adone. -Immagine:© olly - Fotolia.com
Articolo Consigliato: La Dismorfia Muscolare o Vigoressia- lo Specchio deforme di Adone

Questa percezione alterata della propria immagine domina la vita della persona e queste preoccupazioni spesso diventano incontrollabili fino a portare il soggetto a passare molte ore della giornata a rimuginare sul difetto fisico.

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La Dismorfofobia è ancora poco studiata, quindi rintracciarne un giusto profilo è un’impresa ardua, anche perché pochi pazienti chiedono un consulto psicologico, per il fatto che oggi sembra del tutto normale preoccuparsi per il proprio aspetto fisico. Si può trovare una possibile correlazione tra dismorfofobia e disturbo dell’umore, disturbo narcisistico della personalità disturbo ossessivo-compulsivo. Ma queste psicopatologie possono esserne sia la causa, sia la conseguenza della cattiva percezione del proprio corpo.

Anche se questo disturbo è stato identificato già da oltre un secolo, non esistono ancora teorie consolidate relative alla sua genesi. Alcune ipotesi fanno riferimento a cause di tipo psicologico, come ad esempio una serie di conflitti emotivi inconsci, mentre altre tesi sostengono che la dismorfofobia dipenda da fattori neurobiologici, in particolare da alterazioni nel funzionamento del sistema serotoninergico o da disfunzioni delle aree cerebrali deputate a controllare l’immagine corporea. Da non trascurare, poi, le ragioni di tipo socioculturale, cioè l’enorme valore attribuito dai mezzi di comunicazione di massa a una bellezza fisica standardizzata e priva della benché minima imperfezione. Tali fattori rappresentano certamente delle concause nell’insorgenza di questo disturbo e ne spiegano la crescente diffusione negli ultimi decenni.

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In personalità già rese fragili da esperienze personali, il contesto ambientale contemporaneo ha un effetto devastante, facendo credere alla persona che il corpo è il solo “mezzo” per ottenere successo e attenzioni. L’adolescente è il bersaglio più ambito per questa società che appare, più si ha una personalità non ancora formata e salda, più si è a rischio di trovarsi travolti da queste eccessive richieste di conformità e stereotipie. Come già esposto sopra la dismorfofobia non ha ancora goduto di un’adeguata attenzione, e anche per questo il trattamento, possiamo dire che, è “in fase di costruzione”.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ADOLESCENTI

Però è anche vero che, come mostrano alcune ricerche rispetto al trattamento farmacologico, i pazienti sembrano rispondere bene all’assunzione di SSRI così come alla clomipramina e alla fluoxetina. È utile  affiancare alla terapia farmacologica, anche una psicoterapia. A riguardo l’approccio terapeutico cognitivo-comportamentale sembra essere particolarmente utile per modificare la percezione distorta di sé, ridurre i comportamenti di controllo del difetto e il recupero di una relazione positiva con la propria immagine e con gli altri.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: 

PSICOPEDIA SULLA DISMORFOFOBIA – RIMUGINIO – ADOLESCENTI 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #5

 

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 5

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

 

Colloquio Psicologico. Come agire nel Primo Colloquio #5. - Immagine: © M.studio - Fotolia.comCOME FARE DOMANDE

Nel corso di un colloquio psicologico lo psicologo può spesso trovarsi nelle condizioni di fare una domanda. Alcuni autori suggeriscono di evitarle.

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

Nel corso di un colloquio psicologico lo psicologo può spesso trovarsi nelle condizioni di fare una domanda. Fine e Glasser [1996] suggeriscono di evitare, se possibile di fare domande, perché il rischio che si corre è quello di ricadere nella trappola delle domande e cioè di far piombare il colloquio psicologico in un fredda sequela di domande-risposte che emula il rapporto comunicativo genitore-figlio e che è assolutamente dannosa per l’instaurazione di un rapporto di fiducia.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: EMPATIA

Colloquio-psicologico. - Immagine: © sabine voigt - Fotolia.com
Monografia sul Colloquio Psicologico. A cura di Gabriele Caselli, Ph.D.

Difficilmente una volta che si è stabilita questa trappola si può tornare indietro. Ciò nonostante si è sempre inclini a fare domande, se non altro per verificare le proprie ipotesi sperimentali e per approfondire argomenti che stanno a cuore allo psicologo, o semplicemente perché non si sa cos’altro dire e ci si rifugia dietro un quesito che possa prolungare la comunicazione e trasmettere qualche informazione in più. Tuttavia, se anche possono aiutare lo psicologo e la sua ansia, possono essere dannose per il paziente.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

Nel momento in cui ci troviamo a dover fare delle domande dobbiamo seguire alcune linee guida:

–    se è possibile evitarle e trasformarle in risposte riflessive o in parafrasi,

–    assicurarsi che siano domande rilevanti rispetto a ciò che sta dicendo il paziente, anche per evitare di mostrare disattenzione,

–    cercare di porre domande che favoriscano il cambio di prospettiva, la conoscenza di nuovi punti di vista e l’insight,

 –    evitare di chiedere “perché” dal momento che potrebbe attivare meccanismi difensivi del paziente come se fosse implicito che non avrebbe dovuto farlo,

–    fare domande aperte piuttosto che chiuse dal momento che conducono più difficilmente alla trappola delle domande e che permettono al paziente di mantenere le redini del fluire del colloquio psicologico.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: IN TERAPIA

Bisogna anche prestare attenzione a quando porre domande. È importante che il momento delle domande sia separato dal resto della comunicazione per non interferire sul discorso del paziente. Questa fase può realizzarsi all’inizio o alla fine del colloquio e lo psicologo può sottolineare l’inizio e la fine dei diversi momenti della sessione. In alcuni casi è possibile far evolvere il colloquio senza utilizzare domande chiuse, in tal caso il resoconto sulle informazioni ottenute può essere fatto dopo il termine del colloquio stesso.

Infine, se capita di porre una domanda in mezzo al fluire della comunicazione del paziente bisogna accertarsi di recuperare il filo del discorso e di rendere breve l’interruzione. In ogni caso ove è possibile gli autori auspicano la rinuncia alle domande.

 

LEGGI:  

EMPATIA – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – IN TERAPIA

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Il Costo Economico della Tristezza #2

 

LEGGI PARTE 1

Il Costo Economico della Tristezza #2. - Immagine: © Ogerepus - Fotolia.comLa tristezza sembra rendere le gratificazioni immediate più attraenti, anche quando è evidente che gratificazioni ritardate portano ad un guadagno maggiore.

Eravamo in attesa di nuove ricerche che analizzassero con più chiarezza la relazione esistente tra stato d’animo e decisioni “economiche” della vita quotidiana. Ci ha accontentati Jennifer Lerner, studiosa dell’Università di Hardvard e co-autrice dell’articolo recensito lo scorso dicembre, in cui abbiamo parlato della tendenza piuttosto diffusa a spendere più denaro quando ci si sente tristi (il “misery-is-not-miserly-effect”).

Lerner e colleghi hanno infatti pubblicato una nuova ricerca, questa volta con lo scopo di indagare sul fenomeno della “myopic misery” (letteralmente, “infelicità miope”: Lerner, Li, & Weber, 2012). L’ipotesi da loro sviluppata è che la tristezza possa incrementare il senso di impazienza e renda più probabili decisioni economiche “miopi” (appunto), per cui soggetti di cattivo umore sarebbero più propensi ad accettare compensi minori, ma immediati, piuttosto che compensi rimandati nel tempo, ma più cospicui.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: PSICOECONOMIA

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Il Costo Economico della Tristezza #1.

In altre parole, rimandare una gratificazione sarà tanto più difficile quanto più basso sarà il nostro umore. Nonostante diversi studi abbiano dimostrato l’effetto contrario, osservando come uno stato d’animo positivo rendesse le persone più pazienti (Ifcher & Zarghamee, 2011; Pyone & Isen, 2011), gli esperimenti di Lerner sono stati i primi ad indagare da vicino il fenomeno in questione.

In un primo esperimento gli autori hanno voluto testare l’ipotesi che non fosse solo la tristezza ad influenzare decisioni economiche del tipo “ora o più tardi”, ma qualsiasi generico stato d’animo negativo, come ad esempio il disgusto. Hanno così aggiunto al paradigma sperimentale utilizzato nella ricerca del 2008 anche una disgust condition: oltre ad un filmato elicitante tristezza e ad un filmato “neutro”, ai soggetti è stato mostrato un terzo filmato, elicitante disgusto (un videoclip su un bagno sporco). I partecipanti hanno poi dovuto scegliere tra un compenso compreso tra gli 11$ e gli 80$, che avrebbero ricevuto immediatamente in contanti, e un compenso maggiore (tra i 25$ e gli 85$) che avrebbero ricevuto invece più tardi, in un periodo compreso tra la settimana e i sei mesi successivi. Come previsto, i soggetti nella condizione tristezza erano coloro che dimostravano più impazienza nella decisione finale e accettavano il compenso immediato. I partecipanti “disgustati”, invece, si comportavano esattamente come i soggetti nella condizione neutra, a dimostrazione del fatto che la responsabile della myopic misery sia unicamente l’emozione in questione.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: BIAS & EURISTICHE

In un secondo esperimento un compito analogo è stato somministrato via internet ad un campione internazionale di soggetti. Prima di prendere la decisione “economica”, i partecipanti dovevano scrivere su un foglio tutto ciò che veniva loro in mente pensando alla scelta che avrebbero dovuto fare. Successivamente ogni partecipante doveva segnalare quali, tra i pensieri registrati, aveva effettivamente favorito la decisione di prendere il denaro subito piuttosto che di aspettare. L’ipotesi qui era che la tristezza potesse facilitare la generazione di giustificazioni per la scelta affrettata: ed è proprio quello che è stato osservato. Le ragioni a sostegno della scelta di un compenso immediato erano più frequenti e venivano in mente più velocemente nei soggetti tristi.

 Ma il senso di impazienza generato dalla tristezza è di natura generica o si riferisce solo alle scelte che implicano un guadagno immediato? Per rispondere a questa domanda è stato condotto un ultimo esperimento, in cui è stato chiesto ai soggetti di scegliere o tra compensi minori immediati e compensi maggiori non immediati, o tra grandi compensi non immediati e compensi ancora più grandi che avrebbero ricevuto però ancora più in là nel tempo. Come risultato, la tristezza influiva sul primo tipo di decisione ma non sull’impazienza implicata nelle due opzioni di non immediato compenso (seconda decisione). È quindi probabile che questo stato d’animo accresca in generale il desiderio di fare qualcosa immediatamente.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: IMPULSIVITA’

La tristezza, quindi, renderebbe le gratificazioni immediate più attraenti, anche qualora venga reso evidente che gratificazioni più ritardate nel tempo potrebbero portare ad un guadagno maggiore.

Questo tipo di fenomeno ha implicazioni pratiche non di poca importanza, dal momento che gran parte delle decisioni rilevanti della nostra vita vengono prese in momenti emotivamente salienti. L’amore ci spinge a fare e ad accettare proposte di matrimonio, la rabbia ci spinge a licenziare o rifiutare qualcuno, e via dicendo: spesso specifiche emozioni sono indissolubilmente legate alle scelte che facciamo. Pensate alla tristezza provata dopo un lutto e a tutte le decisioni di natura economico/organizzativa che devono essere prese per il funerale, o al famoso “shopping terapeutico”, ossia la tendenza a dedicarsi alle spese per riparare ad uno stato d’animo negativo (quanto possono essere dannose, a tal proposito, le sempre più usate carte di credito?). Le scoperte di Lerner e colleghi potrebbero fornire valide indicazioni su come migliorare queste “conseguenze decisionali” e gli stessi contesti in cui esse vengono solitamente prese.

 

LEGGI PARTE 1

LEGGI GLI ARTICOLI SU: 

PSICOECONOMIA – BIAS & EURISTICHE – IMPULSIVITA’ 

 

BIBLIOGRAFIA:

Intervista a Janina Fisher – La Psicoterapia è più un gioco che un lavoro

 

La Psicoterapia è più un gioco che un lavoro.

Intervista a Janina Fisher

Dal Congresso: Nuove Frontiere nella Cura del Trauma – Venezia 2013

 

 

 

Janina Fisher
Janina Fisher, PhD

Il cuore dell’intervento di Janina Fisher è sicuramente la descrizione della disregolazione emotiva, spiegata come difficoltà a riportare uno stato di arousal emotivo a livelli tollerabili.

In linea con Van Der Hart (1999) e Ogden e Minton (2006), la Fisher descrive la capacità di “regolare” i propri stati interni, come una capacità che viene appresa durante l’infanzia grazie al legame con le proprie figure di attaccamento.

Impariamo a calmarci da soli, perché qualcuno ci ha rassicurato in passato, impariamo a tirarci su il morale, perché qualcuno ha saputo farci sorridere quando eravamo tristi!

In questo modello, l’attivazione fisiologica frutto di una buona regolazione emotiva è chiamata Zona di Attivazione Ottimale (o “finestra di tolleranza”), e varia da individuo ad individuo e in base al contesto in cui siamo. Quel che è certo però è che nessuno può stare troppo a lungo al di sotto (ipoarousal) o al di sopra (iperarousal) di questa finestra, senza sviluppare intensa sofferenza psicologica.

La finestra di tolleranza corrisponde ad uno spazio ideale all’interno del quale “ci sentiamo al sicuro”, all’interno del quale possiamo “pensare e allo stesso tempo sentire emozioni”, possiamo pensare ed agire in modo funzionale ai nostri bisogni, possiamo stare.

In situazioni psicopatologiche, la finestra di tolleranza può essere molto piccola, una finestra “toothpick” come dice Janina, e rendere rapidissimo il passaggio da uno stato di bassa attivazione (stati di vuoto, tristezza, rallentamento cognitivo, disperazione, vergogna) ad uno di alta (ipervigilanza, incubi, diffidenza estrema, irritabilità, comportamenti distruttivi), senza che vi sia alcuna possibilità di regolazione.

La corteccia è tagliata fuori, tutto è emozione e azione.

 

Nuove Frontiere nella cura del trauma
Articolo Consigliato: Nuove Frontiere nella Cura del Trauma – Report dal Congresso di Venezia

All’interno della terapia sensomotoria, il ruolo del terapeuta è dunque primariamente quello di “regolatore neurobiologico” degli stati emotivi che escono dalla finestra di tolleranza del paziente, mentre successivamente si potrà ragionare su questi stati e dar loro un significato.

L’acquisizione delle capacità metacognitive necessarie per portare avanti un dialogo clinico che sia efficace, passa dunque dal corpo e dalla sua continua osservazione (tecniche bottom up): postura, tono di voce, gesti, sensazioni interne, espressioni facciali, azioni desiderate, azioni fatte.

ARTICOLI SU: METACOGNIZIONE

“Qualche volta il mio studio sembra più un ambulatorio di fisioterapia che di psicoterapia”

“La psicoterapia può essere un gioco più che un lavoro”

 

Intervista alla Dott.ssa Janina Fisher

SoM: Quando in Italia si parla di neurobiologia o neuroscienze in generale, suona subito come qualcosa che ha che fare più con la medicina che con la psicologia e questo sia nei luoghi di lavoro che talvolta in ambienti universitari. La psicoterapia sensomotoria invece, muove da una solida e imprescindibile base neurobiologica, che diventa terreno comune per paziente e terapeuta. Che clima ha trovato, secondo lei, la psicoterapia sensomotoria in Italia?

JF: Credo che in tutto il mondo ci siano terapeuti in cerca di risposte e sia in una nazione con orientamento più scientifico, che in una culturalmente più orientata alla tradizione psicoanalitica, come ad esempio la Francia, ci sono terapeuti che non conoscono questo tipo di approccio, ma che sono in cerca di strategie e protocolli che siano più adatti ai loro pazienti. Non sono io ad aver portato la psicoterapia sensomotoria in Italia, ma in generale credo che il problema non sia parlare di “circuiti neurali” all’interno delle nostre sedute, ma piuttosto il modo in cui ne parliamo. Perciò quando io dico ad un mio paziente “Si, il tuo dolore e la tua sofferenze sono il tuo corpo che sta ricordando, con i sentimenti e le sensazioni di quel bambino spaventato e solo…”, nessuno mi può rispondere “Lei non ha capito niente!”.

ARTICOLI SU: NEUROSCIENZE

SoM: Durante le giornate del convegno si parlerà di terapia sensomotoria e di EMDR, come approcci da integrare tra loro o da utilizzare all’interno di altri approcci psicoterapici. Quali sono secondo lei le più importanti similarità e differenze tra i due metodi?

Psicoterapia Sensomotoria: il Ruolo del Corpo nelle Esperienze Traumatiche. - Immagine: © Guido Vrola - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia Sensomotoria: il Ruolo del Corpo nelle Esperienze Traumatiche.

JF: Parlando in generale, l’EMDR richiede che il paziente abbia una più ampia “finestra di tolleranza”, mentre con la terapia sensomotoria questa può essere anche bassissima o inesistente. Dall’altro lato, la terapia sensomotoria è più relazionale e quindi con pazienti che non hanno molta consapevolezza del loro corpo o ai quali piace “tenere le distanze” dal terapeuta, l’EMDR è perfetto.

La terapia sensomotoria è per alcuni aspetti più “delicata, mentre qualche volta i pazienti che si sottopongono ad EMDR, riferiscono un intenso stato di attivazione “overwhelming” dopo ogni seduta. Al contrario la conclusione delle sedute di terapia sensomotoria si chiudono con un discreto stato di benessere.

Qualche volta noi siamo soliti utilizzare terapia sensomotoria nella prima parte del trattamento, ma appena il paziente è stabilizzato e mostra una finestra di tolleranza più ampia, consigliamo un percorso EMDR per lavorare in modo più specifico sulle memorie traumatiche.

Tra le somiglianze infine c’è il fatto che entrambi facilitano un atteggiamento mindful. Nell’EMDR l’evento è solo un trigger per trovare un’immagine, una cognizione negativa, un’emozione ed una sensazione fisica collegata ad esso ed osservarle contemporaneamente, e nello stesso modo nella terapia sensomotoria poniamo l’attenzione su questi stessi elementi ma all’interno del dialogo con il paziente.

ARTICOLI SU: TERAPIA SENSOMOTORIAEMDRMINDFULNESS 

 

EMDR – Intervista a Isabel Fernandez
Guarda la Video-Intervista di State of Mind a Isabel Fernandez

SoM: Pensando alla “finestra di tolleranza” sembrerebbe che utilizzare la terapia sensomotoria con pazienti dissociativi sia meno rischioso rispetto all’EMDR, poiché il contatto costante con il corpo funge da “ancoraggio” alla realtà. Cosa ne pensa?

JF: Sì, credo che la terapia sensomotoria sia ottima per dare alle persone la sensazione del “qui ed ora”, ma alcune colleghe molto esperte come Dolores Mosquera e Anabel Gonzalez utilizzano splendidi protocolli di intervento su pazienti dissociativi, molto efficaci e compatibili con le tecniche sensomotorie.

Diciamo che per la media dei terapeuti può essere più rischioso usare EMDR con pazienti dissociativi, mentre la sensomotoria si può usare con un margine di sicurezza maggiore, anche se non si è accumulata troppa esperienza clinica.

ARTICOLI SU: DISSOCIAZIONE

 

Attraversare le emozioni - recensione
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SoM: Parlando ad un terapeuta cognitivo-comportamentale, sarebbe corretto secondo lei spiegare la psicoterapia sensomotoria come un metodo per far sperimentare al paziente nuovi eventi di vita con l’obiettivo di “imprimere” nella sua mente le cognizioni positive e più funzionali?

JF: Sì, assolutamente! Io faccio sempre questa battuta ai terapeuti CBT: “Devi imparare almeno una body therapy, se vuoi davvero diventare un bravo terapeuta cognitivo!” Unire le tecniche sensomotorie alla ristrutturazione cognitiva o agli esercizi di esposizione con prevenzione della risposta (E-RP), è del resto molto semplice e rende il trattamento sicuramente più efficace nel prevenire ricadute.

ARTICOLI SU: RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA

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BIBLIOGRAFIA:

Scenari Negativi & Felicità: la connessione che non ti aspetti

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Felicità & Scenari Negativi: Non è vero che più pensiamo positivo e più saremo felici. Per il nostro benessere è meglio immaginare che qualcosa vada storto

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Ebbene sì, sembra un paradosso ma non lo è. Da recenti studi sembra che le persone riescono a vedere un futuro luminoso nonostante si prefigurino nella mente possibili scenari negativi, perché rifiutano che questi episodi possano realmente accadere.

Spetta a Ed O’Brien (University of Michigan) il merito di aver approfondito come varia la percezione della felicità: perché alcune volte il futuro ci sembra roseo ed altre volte invece le stesse situazioni ci sembrano terrificanti?

Lo studio preso in considerazione è costituito da cinque ricerche sperimentali aventi lo scopo di valutare la percezione di benessere in relazione alla fluidità con cui episodi passati e futuri venivano raccontati. Ai partecipanti venne chiesto, quindi, di pensare ad episodi del passato e del futuro, sia negativi che positivi, e di metterli in relazione alla sensazione di felicità che questi evocavano.

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Essere Ottimisti Conviene! Il Ruolo delle Illusioni. - Immagine: © Time
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I risultati hanno confermato gli studi passati: la facilità con cui questi episodi venivano raccontati aveva l’effetto di amplificare la percezione di benessere esperita. Quindi, maggiore era la facilità di racconto, maggiore era anche la sensazione di felicità.

Allo stesso modo, più erano scorrevoli i racconti su episodi passati negativi, maggiore era la percezione di infelicità ad essi riferita. L’elemento interessante fu scoprire che gli stessi risultati non furono trovati in relazione ad episodi del futuro. Mentre i soggetti riportavano alti punteggi nella percezione di felicità per eventi futuri positivi, nel momento in cui venne chiesto di inventarne di sfavorevoli il trend non venne confermato. Il semplice fatto di immaginare circostanze negative nel nostro futuro non ci rende infelici, come poteva essere ipotizzato. La spiegazione ruota intorno alla capacità umana di giustificare queste situazioni sostenendo l’improbabilità che nella realtà possano effettivamente occorrere.

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Come a dire che siamo in grado di scacciare l’idea che brutte situazioni possano accadere nella nostra vita e, così facendo, sentirci meno infelici. Questa tendenza non si riscontra, però, per quanto riguarda i giudizi nei confronti degli altri, verso i quali è risultato più semplice ipotizzare scenari di infelicità in relazione a condizioni sfavorevoli.

 Inoltre, O’ Brien ha cercato di valutare in che modo variava la capacità di rievocare eventi positivi in relazione alla quantità di episodi che si dovevano immaginare: la ricerca ha evidenziato come fosse più difficile raccontare numerosi fatti del passato che solamente un paio, e i punteggi di benessere percepito rispecchiavano questo aspetto. Il nocciolo sembra essere evidente: pensare ad un gran numero di possibili scenari positivi non aiuta il nostro benessere.

Ciò, ancora una volta, non è stato confermato in merito al nostro futuro. A prescindere dal numero di situazioni future immaginate, le persone tendono a sottostimare la probabilità che queste possano accadere realmente nella vita e quindi la percezione di benessere non risulta negativamente influenzata.

Non è vero, insomma, che più pensiamo positivo più saremo felici. Talvolta per il nostro benessere è meglio immaginare che qualcosa possa andare storto piuttosto che sforzarsi di pensare a numerosi scenari favorevoli. Insomma, è gratificante pensare che essere un po’ pessimisti può aiutare a renderci più felici.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

 PSICOLOGIA POSITIVA – RIMUGINIO & RUMINAZIONE – CREDENZE – BELIEFS

 

BIBLIOGRAFIA:

Futuri sviluppi della Terapia Metacognitiva: Disturbo Borderline e Terapia di Gruppo

Report dal

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva

04 – Futuri sviluppi della Terapia Metacognitiva: Disturbo Borderline e Terapia di Gruppo

 

Manchester - Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva

REPORT DAL CONGRESSO: PARTE 1PARTE 2PARTE 3

Ardue sono le sfide future per la Terapia Metacognitiva, ma i risultati sono piú che promettenti. Due aree di confine emergono come affascinanti proiezioni di ció che sará nei prossimi congressi.

La prima é rappresentata dall’estensione della Terapia Metacognitiva a pazienti con Disturbo Borderline di Personalitá.

Hans Nordhal presenta i risultati del protocollo Eris ormai giunto a un follow-up di due anni. Primo studio, solo dieci pazienti, ma i risultati spingono a perfezionare e continuare gli studi. Interessante la prospettiva:

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva - Manchester 2013
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1. I pazienti hanno una scelta, se iniziano questa terapia sanno che non durerá piú di un anno, indipendentemente dalle condizioni al termine, dopo si tenteranno interventi diversi.

2. Tutta la terapia viene condotta riportando costantemente il paziente in una posizione di consapevolezza distaccata rispetto a pensieri e al pensare. Qualcuno chiede a Nordhal: “Lei che seguiva la Schema Therapy, come mai ha cambiato e cosa trova in questo nuovo approccio?” Risposta: “La Schema Therapy era molto lenta e frustrante nella costante tensione verso la sofferenza, riviverla, cambiarla. Una sfida interessante ma anche, nelle parole dell’autore, al momento molto lontana.

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Seconda sfida é l’estensione della Terapia Metacognitiva come terapia di gruppo.

Con le prime applicazioni nel campo della depressione che sono state presentate al congresso da Costas Papageorgiou. Una presentazione esposta con luciditá rara che descrive due punti chiave del tentativo di trasportare la Terapia Metacognitiva in modalitá di gruppo. Punto primo: la psicoterapia di gruppo é spesso stata introdotta per risparmiare denaro, quando tutti i dati mostrano che pur essendo più economica, tendenzialmente risulta meno efficace di quella individuale.

Quindi la sfida é creare una terapia di gruppo che sia innanzitutto efficace. Il problema nei gruppi é che non é possibile dare una grande attenzione ai processi individuali. Per questo la via del learning by doing insegnando ai pazienti a produrre le formulazioni dei propri compagni di viaggio ed aumentare il lavoro tra loro puó essere (e sembra che sia) una semplice ma buona idea per superare i limiti della terapia di gruppo. Perché applicare direttamente é il miglior modo per acquisire.

 

 

ARTICOLI SU: CONVEGNI E CONFERENZE 

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RISORSE:

ADHD, Iperattività & Attività Sportiva

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Alcuni genitori di bambini con ADHD pensano di introdurre i figli allo sport professionistico per fornire loro spazi in cui l’iperattività sia “premiata”.

 LEGGI GLI ARTICOLI SU: ADHD

I bambini e gli adolescenti con ADHD presentano come sintomo prevalente l’iperattività. Spesso, questo tratto temperamentale porta questi ragazzi a coinvolgersi in diverse attività fisiche, tra cui lo sport. Di fronte a tale difficoltà, alcuni genitori sembrano intravvedere la possibilità di introdurre i propri figli allo sport professionistico al fine di fornire loro uno spazio in cui l’iperattività sia “premiata” e valorizzata.

È, quindi, importante comprendere quali sia l’indicazione più adeguata da fornire a questi genitori, con l’obiettivo di comprendere l’utilità di far perseguire ai propri figli una carriera professionistica nell’ambito dello sport.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Negli ambulatori dei medici e degli psicologi arrivano molti genitori preoccupati da una possibile diagnosi di ADHD per i loro figli. Il funzionamento delle persone con una diagnosi di ADHD è problematico causa della presenza di alcune funzioni cognitive disturbate (Conners, 2000). Tuttavia, ci si può chiedere se tale funzionamento così peculiare e poco comune non possa essere utilizzato al fine della auto-realizzazione nel campo dello sport.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ATTIVITA’ FISICA

É stato condotto uno studio per verificare l’associazione tra iperattività e attività sportiva. Sono stati confrontati i dati ottenuti dai questionari per valutar l’ ADHD e il questionario EAS-D (Buss, Plomin, 1984), una misura del temperamento, per trovare una correlazione tra questi tratti.

 Dai risultati dello studio, è possibile concludere che negli adolescenti con ADHD, non vi sia alcun collegamento tra iperattività e prestazioni elevate nell’ambito dello sport. Poco più del 30% degli intervistati, infatti, presenta un livello di frequenza elevato di attività fisica e la correlazione tra iperattività e quantità attività fisica non sembra statisticamente significativa.

I risultati hanno mostrato che l’iperattività non sembra essere correlata a un livello superiore di prestazioni nell’attività fisica e nello sport.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: IPERATTIVITA’

In conclusione, fare sport per questi bambini è auspicabile, perché permette loro di portare avanti comportamenti a sostegno dello sviluppo sano (Biederman, Spencer, Wilens, Faraone, 2002), e che contribuiscano ad alleviare la tensione, sintomo molto frequente e disfunzionale per i bambini e gli adolescenti con ADHD.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

ADHD – ATTIVITA’ FISICA – IPERATTIVITA’ 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Storie di Terapie #25 – L’uscita di Carlo

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

-LEGGI L’INTRODUZIONE-

 

Storie di Terapie #25

 L’uscita di Carlo

La storia di Carlo la raccontiamo in due articoli per via della “particolare” lunghezza…

Qui di seguito la Parte I.

 

Storie di Terapie #25 - L'uscita di Carlo. - Immagine:© Piumadaquila - Fotolia.com Disturbo distimico

Disturbo evitante di personalità

Suicidio

Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi”  lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate. 

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Quando un paziente si suicida è sempre una brutta cosa, forse non per lui che l’ha scelto, ritenendolo dunque l’opzione migliore, ma per il curante certamente.

In primo luogo non è una gran bella pubblicità, in secondo luogo colpisce l’autostima professionale e, terzo, solleva quel senso di colpa che si aggira sempre nei paraggi di un morto, costituito, in parte, dalla colpa del sopravvissuto ed in parte da tutte quelle azioni ed omissioni che avrebbero potuto indirizzare diversamente gli eventi.

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il Suicidio nella Canzone d’Autore Italiana. #1

Siccome Carlo, da collega quale era, sapeva benissimo l’effetto che avrebbe fatto il suo suicidio nella comunità pettegola degli psicoterapeuti romani, consideravo il suo gesto come un vero e proprio attacco personale. Nonostante mi renda conto che uno che abbia deciso di uccidersi non debba essere massimamente preoccupato dell’effetto del suo gesto su di me, tuttavia non  mi meravigliò: si era  dimostrato come al solito un grandissimo stronzo.

Ero incerto se andare o meno alla camera ardente, non ne avevo alcuna voglia, mi vedevo subissato dalle domande maligne dei colleghi, consolatorie e insinuanti ad un tempo, come starai male a vedere la tua sovrastimata competenza sdraiata nella cassa.

Ma non andarci sarebbe stato ingiustificabile e, in qualche modo, un’ esplicita ammissione di colpa. Perciò, indossai la faccia di circostanza più triste che avevo e andai, arrivando però molto tardi per cercare di restare fuori dal capannello dei più intimi, che si inumidivano di lacrime e abbracci.

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Ho sempre trovato disgustose le secrezioni dolorose e non so mai che dire e dove mettere le mani. Carlo se ne stava tutto beato al centro dell’attenzione, con quella sua faccia da bastardo  che la condizione di morto accentuava. Un sorriso sottile e ironico che mostrava appena i denti solcava la faccia più pallida del solito e i capelli lunghi dietro e radi davanti erano di un grigiastro che non aveva avuto il tempo di diventare compiutamente bianco. Era una via di mezzo incerta e indefinita, metafora della sua esistenza.

Aveva appena compiuto  sessant’anni, che portava da schifo, ed erano circa trent’anni che lo conoscevo. Quando lo incontrai, il primo giorno della scuola di specializzazione di cui ero docente, era vestito pressappoco come nella camera ardente: un  abito  di velluto blu a coste sottili. Evidentemente, riteneva quello un momento importante come quello odierno anche se, a pensarci bene, l’abbigliamento attuale e definitivo non doveva averlo scelto lui ma la raffinata Stefania al suo debutto nel ruolo vedovile. Tra quella prima volta e quest’ultima non lo avevo più visto vestito bene: i jeans e un maglionaccio d’inverno o una camiciona d’estate erano la sua uniforme, con grande disappunto di Stefania che ci teneva alle apparenze e al giudizio sociale.

Durante il corso quadriennale si dimostrò brillante, ma già allora percepivo una sofferenza sotterranea e indefinita. Persino a me riesce difficile descriverlo, l’indefinitezza era forse la caratteristica più distintiva.

Carlo non si sentiva. Era sordo alle sue emozioni e persino alle sensazioni fisiche. Caldo, freddo, fame, sete e stanchezza non li percepiva in diretta ma doveva inferirli da indicatori esterni, ci arrivava con il ragionamento. In poche parole, direi che non viveva in un mondo reale ma fittizio, costruito per deduzione logica. II suo era un universo di pensiero disincarnato.

Era molto bravo e lo stimavo, per cui fui contento quando al termine del corso mi chiese di essere il suo supervisore. Ci volle poco a rendermi conto che la supervisione celava una richiesta di terapia che non riusciva ancora a formulare; inconsapevolmente, in ognuno dei pazienti che mi portava con passione, c’era un pezzetto di lui. Di sé non avrebbe saputo parlare. Per vergogna. Per mancanza del diritto di esserci. O peggio per l’assenza del sé.

Anche a me, che l’ho conosciuto così a lungo e profondamente come docente prima, supervisore poi e infine terapeuta, la sua essenza sfugge e il dubbio che ho più volte avuto era non che mi sfuggisse, ma semplicemente non ci fosse. Non saprei dire se non ci fosse mai stata o fosse andata perduta ma certo, guardando dentro di lui, sembrava di sporgersi su un pozzo profondissimo e vuoto.

Era un dubbio che negli ultimi tempi tormentava anche lui.

Mi raccontò un sogno in cui in classe, durante l’appello, giunto al suo nome la maestra si guardava smarrita intorno e, nonostante incontrasse il suo sguardo, decretava inesorabilmente la sua assenza.

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Pensai addirittura che lo avesse inventato per esplicitarmi il suo vissuto di disidentità, ne sarebbe stato capacissimo, la menzogna era fedele compagna  e finiva per confondere lui stesso. Ciò mi metteva in confusione, perché non sapevo in quale categoria diagnostica collocarlo. Mi sembrava piuttosto un puzzle mal ricomposto, con ampi buchi di forma e dimensioni continuamente mutevoli. Forse molte tessere erano per sempre andate perdute ed ogni sforzo sarebbe stato vano. Forse l’aspetto più autentico di lui era proprio la sua falsità.

Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Liotti G. Farina B. (2011). Cortina Editore. - Immagine: Copertina, Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa di Liotti G. Farina B. (2011).

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Una falsità non dovuta ad una regia occulta che decide i vari camuffamenti a seconda delle circostanze per raggiungere i propri scopi raggirando gli altri, piuttosto l’inverso: mancando una qualsiasi intenzionalità propria, aderiva automaticamente e immediatamente a quella degli altri di passaggio. In tutta la sua vita non era mai riuscito a rispondere alla domanda “ma tu cosa vuoi?” 

Razionalmente faceva risalire tutto ciò ad un deficit di accudimento a causa di  una madre prima malata e poi precocemente scomparsa; ciò lo aveva convinto di non essere degno e meritevole di cure ed attenzione  e di doversi dare da fare continuamente per essere utile agli altri e dunque in qualche modo considerato.

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Se questa poteva essere pura speculazione, una storia che raccontava e si raccontava senza peraltro sentirla vera, quello che certamente era reale era il dolore della separazione. L’allontanamento dalle persone care che negli anni erano cambiate lo attanagliava dallo stomaco in giù, paralizzandolo. Questa era l’unica emozione che gli sembrava autentica e quel vissuto, profondamente suo, era intollerabile da bambino come ancora ora, da vecchio. 

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Il Carlo orfanello aveva sviluppato alcune efficaci strategie per non essere abbandonato e, siccome funzionavano, si erano progressivamente rinforzate e sofisticate. In primo luogo esibiva le sue debolezze, disinnescando i comportamenti agonistici degli altri maschi e suscitando  l’accudimento delle femmine. Inoltre aveva imparato a mettere l’interlocutore a suo agio, facendolo sentire una persona eccezionale e unica, re o regina che fosse.

Coglieva immediatamente i bisogni dell’altro che avevano la precedenza assoluta. Non era affatto per generosità disinteressata, ma solo per rendersi indispensabile e garantirsene la vicinanza. Paradossalmente, questo bisogno sia della protezione che del riconoscimento altrui, lo portavano all’isolamento volontario poichè  la presenza dell’altro attivava un faticosissimo, incessante lavoro di anticipazione dei desideri per soddisfarli immediatamente.

Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi”  lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate. 

Questo, che potremmo chiamare “relativismo dell’io”, lo aiutava nella sua professione e comportava un buon successo sociale. Era infatti facilmente portato a mettersi nei panni dell’altro, a capirne il funzionamento dall’interno. In effetti i pazienti si sentivano con lui immediatamente compresi, oltreché sedotti dal suo farli sentire meravigliosamente unici.

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I guai, anche professionali, iniziavano quando si trattava di produrre nel paziente un cambiamento sollecitando in lui una revisione critica dei propri punti di vista. Carlo era troppo immerso in loro per vederli dall’esterno. Sopra ogni altra cosa Carlo voleva apparire buono, onesto, generoso, disinteressato e profondamente altruista ma, contemporaneamente, voleva essere vincente e superiore a tutti.

Il suo ideale era quello di primeggiare senza ammettere di voler competere; ricco, ma schierato a difesa dei poveri.

Un giorno in supervisione mi portò il caso di un grave narcisista e mi disse che era molto in sintonia con il vissuto del paziente, con la differenza che lui voleva raggiungere gli stessi obiettivi apparendo, però, di semplicità e umiltà francescana. L’essere preso pervasivamente da se stesso lo aveva reso, con il passare degli anni, incredibilmente superficiale. Tanto più all’esterno appariva disponibile e attento agli altri, quanto più si era rinchiuso in un gretto meschino egoismo che includeva Stefania e i due figli.

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In terapia, quando finalmente la richiese esplicitamente, riportava continuamente la sensazione del bluff. Aveva l’impressione che, se solo gli altri si fossero presi la briga di scavare oltre le imbellettate apparenze, avrebbero scoperto il nulla. Questo era un altro buon motivo per tenere tutti a debita distanza, quella distanza  da dove si potevano ammirare i lustrini ma non abbracciare l’inconsistenza. Carlo diceva che il suo senso di indegnità derivava dalla  considerazione che la sua esistenza non fosse stata sufficiente a trattenere in vita la madre. Lo diceva spesso, ma non credo che lo credesse veramente e, certamente, che non lo sentisse, ammesso che abbia mai sentito qualcosa di autentico eccetto la desertificazione dell’abbandono. Chissà se la prova anche ora, durante il giro dell’operaio con il saldatore sullo zinco.

Io credo, invece, che quella esperienza gli avesse insegnato la capacità di dissociare di fronte alle situazioni dolorose: appena intravedeva all’orizzonte la possibilità di un dolore fisico o di una perdita smetteva di sentire, congelava le afferenze, se ne andava.

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Si ritrovava seduto in disparte ad osservare quanto accadeva come se si trattasse di un film che, da spettatore, commentava in genere con sarcasmo ed ironia. Il sorriso amaro, disincantato e beffardo era la sua arma migliore per negare serietà ed importanza ad ogni cosa. Sono certo che lo utilizzerebbe anche oggi, in questa camera ardente che si presta a mille battute che mi vengono irriverentemente in mente al suo posto.

La dissociazione però gli aveva preso la mano e creato una sorta di air bag emotivo tra lui e la realtà. Non solo quelle brutte, ma anche le emozioni belle non lo raggiungevano, il volume non lo si può abbassare selettivamente, tutte le note diventano in sordina. Ho sempre pensato, e lui era d’accordo, che questo limbo emotivo in cui si era prudenzialmente confinato fosse il motivo della sua mancanza di memoria.

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Carlo non ricordava eventi che gli amici dicevano essere stati importantissimi e pietre miliari della loro e della sua esistenza. Era per lui motivo di grande cruccio, ma non riusciva che a ricostruirli assemblando le narrazioni degli altri, copiando le loro emozioni. Lui in prima persona non c’era. A mio avviso perché non c’era stato neppure mentre accadevano, lui era sempre preso da dettagli insignificanti, fuga nei particolari che diceva avvenire quando l’insieme era intollerabile. 

Della morte e del morire. Immagine - © goccedicolore - Fotolia.com
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Mi piace pensare che, negli ultimi istanti, mentre si addormentava per l’ultima definitiva volta, in quel tempo intercorso prima che le cellule cerebrali soffocassero,  sia effettivamente stato presente a se stesso. Non importa se abbia provato disperazione o terrore, purchè abbia provato effettivamente qualcosa, ma questo è un mio auspicio, che non è detto sia stato suo. Anzi, ho l’impressione che la mancanza di lucidità, lo stordimento e la confusione fossero sempre stati attivamente ricercati ad esempio con l’alcool.

Tutti gli riconoscevano una grande capacità ironica, grande dote che permette di vivere meglio. Ma anche l’ironia era una figlia, seppur buona, della dissociazione. Carlo si vedeva dall’esterno quale che fosse il ruolo che impersonava. Seduto in tribuna poteva commentare sarcasticamente il suo personaggio, in cui non si identificava mai del tutto. Si comportava come si comportano gli psicoterapeuti ma non lo era, si comportava come fanno i mariti o i padri o gli amici ma non lo era fino in fondo.

Forse l’esperienza più integrata che riusciva a vivere era l’innamoramento e la sua perdita, gli era capitato spesso nonostante se ne tenesse prudenzialmente lontano. Non aveva pace finchè non si sentiva ricambiato, trovando una conferma del proprio valore, poi l’altra perdeva il manto dell’idealizzazione e i pensieri ossessivi progressivamente scomparivano.

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Non era interessato alle avventure sessuali, dichiaratamente per fedeltà e per l’interesse esclusivo per i rapporti profondi, in  verità per un vissuto radicato di inadeguatezza relativo in generale al proprio corpo e specificamente alla sessualità. Le donne che lo attiravano dovevano avere caratteristiche materne di accoglienza e accettazione incondizionata, meglio se mostravano debolezze, le donne bellissime non le riteneva alla sua portata e non lo interessavano.

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In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E05 Gina. - Immagine: © HBO
In Treatment S01E05 – Immagine: © HBO
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Aveva la certezza di fare brutta figura e, dunque, poteva cimentarsi solo in situazioni in cui l’accettazione era scontata.  Sin da giovane , l’età in cui gli altri facevano le bravate, lui si era identificato con Don Abbondio: del prevosto manzoniano condivideva la scarsa propensione al rischio e la facilità con cui riporre gli ideali e la dignità pur di evitare ogni pericolo. Per questo apparteneva alla schiera dei pacifisti nella sottocategoria dei paurosi. Credo che proprio questa paura gli abbia fatto procrastinare per tanto tempo il suicidio.

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Non aveva mai fatto a botte, neppure da ragazzino, era maestro nell’evitare i conflitti anche se ciò comportava il cedere su tutti i punti, la sua codardia ne aveva fatto un uomo di pace e di mediazione, ma lui sapeva l’inganno e si disprezzava, nonostante gli apprezzamenti degli altri per il suo equilibrio che sapeva essere equilibrismo.

 

… la storia di Carlo continua la prossima settimana!

 

LEGGI: 

DISSOCIAZIONE – SUICIDIO –  EMPATIA – ACCUDIMENTO –  ACCETTAZIONE DEL LUTTO

LEGGI LA RUBRICA: STORIE DI TERAPIE DI ROBERTO LORENZINI

Terapia Metacognitiva: Differenze e Prospettive di Integrazione

 

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva

03 – Tavola Rotonda: MCT, ACT & CBT: Distinctive Features & Futures?

 

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva - Manchester 2013

l’integrazione é utile solo se non diventa un cocktail malcomposto di tecniche che non sottendono a una teoria chiara. Come dire: ció che cura é trasmettere al paziente un modello chiaro della mente entro il quale muoversi.

LEGGI L’INTRODUZIONE AL CONGRESSO

Evento chiave del congresso di Terapia Metacognitiva é la tavola rotonda odierna in cui si confrontano sulle stesse domande esponenti di approcci diversi. Steven Hollon rappresenta l’approccio comportamentale della Behavioural Activation (BA), Robert Lehay per la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), Robert Zettle per l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e naturalmente il padrone di casa Adrian Wells per la Terapia Metacognitiva (MCT).

Alla direzione del confronto Peter Fisher, che ha inaugurato l’intervendo evidenziandone lo scopo: “Sappiamo che ci sono delle somiglianze, ma ora quí cercheremo di chiarire le caratteristiche distintive di ciascun approccio”

Fisher ha poi presentato le tre domande chiave:

1. Quale é il meccanismo che sottende il trattamento?,

2. Come viene spiegato l’obiettivo della terapia al paziente?

3. Quali sono le principali strategie terapeutiche?

 

Behavioural Activation

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ARTICOLO CONSIGLIATO: Imparare a lasciare i pensieri da soli: il Controllo Metacognitivo – Manchester 2013

Le conseguenze del comportamento controllano il comportamento, questa é la chiave e si fonda sul meccanismo del condizionamento operante. Anche processi di pensiero come la ruminazione possono essere letti sulla base delle conseguenze di sollievo che possono produrre. Mostrare queste conseguenze al paziente, insegnare a monitorare quando si attiva e cosa produce nel breve termine di rinforzante e come ostacola nel medio-lungo termine il raggiungimento dei propri obiettivi. Questa é la base per riconoscere gli antecedenti e preparare risposte comportamentali diverse dalla ruminazione.

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale

I pensieri e le convinzioni generano emozioni, talvolta sono distorti o disfunzionali, in quei casi le emozioni divengono troppo intense e dolorose. Emozioni dolorose a loro volta continuano ad alimentare pensieri negativi. Questo é il circuito psicopatologico chiave. L’obiettivo é favorire la distinzione tra i pensieri e la realtá sia attraverso esperienze immaginative, che attraverso la messa in discussione delle convinzioni, sia attraverso esperimenti comportamentali. In questo modo il terapeuta tende ad aumentare la capacitá nel paziente di osservare e distinguere i pensieri dalle emozioni per poi discutere convinzioni disfunzionali sostituendole con nuove prospettive.

 

Acceptance and Commitment Therapy

L’elemento chiave é l’inflessibilitá psicologica che si manifesta nella costante lotta per controllare sofferenza emotiva o pensieri negativi e che ostacola comportamenti guidati dai valori personali. Il terapeuta guida il paziente a riconoscere e seguire condotte in linea con i propri valori, aprendosi anche all’esperienze dolorose che la vita offre senza cercare di controllarle eccessivamente. Tecniche di mindfulness e accettazione sono applicate per evitare l’eccessivo controllo. L’individuazione dei valori e delle potenziali barriere sono la base per scegliere un impegno quotidiano verso la loro realizzazione.

 

Metacognitive Therapy

L’eccessivo e persistente uso del ragionamento (rimuginio, ruminazione) e la percezione di non controllarlo rappresentano il motore della psicopatologia. L’obiettivo é regolare il flusso di pensieri riducendo l’attivitá concettuale o i tentativi di modificare e trasformare ció che abbiamo in testa. Non sfida schemi, non insegna strategie di coping, ma forse é un particolare modo di imparare a non fare nulla. Il paziente impara a raggiungere un controllo superiore del proprio flusso di pensieri, tale da ridurne l’intensitá e liberarsi da qualsiasi risposta ai pensieri negativi che la mente produce. Esercizi di detached mindfulness, rifocalizzazione attentiva, discussione delle metacognizioni mirano a fare nuove esperienze dei propri pensieri.

 

La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.

Mancano scontri accesi e battaglie, ma non qualche provocazione:

“Qualcuno dice che rubiamo le idee altrui” dice Zettle “ma non siamo imbarazzati, gli altri ci danno idee che noi usiamo nella nostra cornice teorica”.

Qualcuno dal pubblico chiede: “ma parlare di valori non puó indurre ruminazione in risposta a pensieri negativi?” Prende la parola Adrian Wells: “Non lo so, io non parlo di valori”.

Ma sull’integrazione c’é maggior accordo: bene mischiare se e solo se riusciamo a chiarire il razionale entro una logica condivisa con il paziente. L’ecletticismo é un nemico pericoloso e potenzialmente dannoso per la terapia.

Insomma l’integrazione é utile solo se non diventa un cocktail malcomposto di tecniche che non sottendono a una teoria chiara. Come dire: ció che cura é trasmettere al paziente un modello chiaro della mente.

ARTICOLI SU: CONVEGNI E CONFERENZE 

 LEGGI L’INTRODUZIONE AL SECONDO CONGRESSO DI MANCHESTER

LEGGI ANCHE: IL PRIMO CONGRESSO DI TERAPIA METACOGNITIVA – MANCHESTER 2011

 
 

RISORSE:

Nuove Frontiere nella Cura del Trauma – Report dal Congresso di Venezia

Report dal Congresso

Nuove frontiere nella cura del trauma

Approcci Integrativi e Centrati sul Corpo per la cura dei

Disturbi Traumatici Complessi

20-22 aprile 2013, Venezia

 

Janina Fisher
Janina Fisher, PhD

La Memoria del Corpo: sentire o ricordare di aver sentito?

Noi esseri umani non sopravviviamo al trauma grazie ad un cosciente e ragionato processo decisionale, ma grazie a reazioni istintive e innate che si attivano di fronte ad una minaccia. I nostri cinque sensi sono in grado di intercettare velocemente nell’ambiente i segnali di un imminente pericolo, attraverso l’attivazione del sistema biologico di risposta allo stress.

L’adrenalina accelera battito cardiaco e respirazione facendo affluire l’ossigeno necessario nei muscoli, mentre la parte del cervello che in genere usiamo per prendere decisioni più complesse (corteccia prefrontale) viene letteralmente “spenta” per accorciare i nostri tempi di reazione. Entriamo in uno stato di emergenza in cui la parte più istintiva del nostro cervello (sistema limbico) funziona benissimo, ma in totale assenza di coscienza!

Il prezzo che paghiamo per questo “annullamento” della coscienza è che il ricordo di quella esperienza e di come l’abbiamo affrontata può essere molto diverso da quello che è effettivamente accaduto e possiamo rimanere scossi e agitati, increduli o ancora molto spaventati anche una volta passata l’emergenza.

Tuttavia se riceviamo un adeguato supporto o viviamo in un contesto sicuro e protettivo, riusciremo più o meno velocemente a lasciarci quell’esperienza alle spalle, a “sentirla” come un pericolo ‘scampato’. Se invece ci troviamo a vivere un’esperienza traumatica quando siamo molto piccoli e vulnerabili e questa è seguita da un inadeguato supporto affettivo (disregolazione affettiva), in un contesto che percepiamo a sua volta come non protettivo (disorganizzazione dell’attaccamento), allora non riusciremo mai a “sentire” il pericolo come realmente scampato.

Trauma: Problema Diagnostico. - Immagine: © udra11 - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Trauma: Problema Diagnostico

Il nostro corpo imparerà così a restare in allerta, carico di risposte emotive intense (memoria procedurale), che continuano a raccontarci senza parole quello che è successo, ogni volta che qualcosa intorno a noi lo riattiva.

Quale il problema principale? Il corpo ricorda, la mente no.

Secondo il modello di Van der Hart (1999), le normali reazioni biologiche al pericolo – attacco, fuga, resa, freezing, attaccamento – possono restare attive a lungo dopo l’evento traumatico e talora alternarsi in base ai cambiamenti del contesto e delle risorse che esso offre.

Questa alternanza rende tuttavia difficile riconoscere e “far convivere” nello stesso momento pensieri, emozioni e comportamenti contrastanti (dis-integrazione) e le risposte difensive rimaste attive diventano talora vere e proprie caratteristiche di personalità tra loro non integrate (dissociazione strutturale): una parte molto rabbiosa e aggressiva (attacco), una parte spaventata (fuga), una parte molto accondiscendente (resa), una parte bloccata (freezing), una parte vulnerabile (attaccamento) e infine una parte che cerca di andare avanti nella vita quotidiana mostrando capacità di adattamento sufficientemente buone, ed è quella che di solito arriva in terapia.

Nel modello di van der Hart quest’ultima viene chiamata Apparently Normal Personality (ANP), mentre le altre sono tutte Emotional Personality (EP), espressione delle emozioni che il sistema difensivo attiva continuamente.

Secondo questo modello dunque i sintomi che i pazienti portano in consultazioneattacchi di panico, depressione, irritabilità, vuoto, insonnia, dolori cronicisono soprattutto ricordi “conservati e scritti” nel corpo, che generano a loro volta i pensieri, le emozioni e le interpretazioni che mantengono e nutrono la sofferenza psicologica, manifestata da ogni EP.

Questa la sintesi estrema della complessa e interessantissima cornice teorica che ha guidato tutte le giornate del convegno Nuove frontiere nella cura del trauma, svoltosi a Venezia lo scorso weekend, secondo appuntamento di un’avventura iniziata proprio lì l’anno scorso con Bessel Van der Kolk.

Questo filone di ricerche, di teorie e di ricchissimi protocolli clinici, sta crescendo negli ultimi anni con timidezza ma inesorabile costanza, a fronte dei sempre migliori risultati di efficacia e di una sempre maggiore richiesta da parte dei clinici di tecniche orientate al corpo (Body therapy).

Apre i lavori una meravigliosa Janina Fisher, autorevolissima esponente mondiale e trainer della Psicoterapia Sensomotoria, che introduce con rigore e semplicità il modello neurobiologico alla base del suo approccio, e ci ricorda il modello di van der Hart, che resterà la mappa su cui lavorare nei giorni successivi.

Seguono Gianni Liotti, Benedetto Farina e Giovanni Tagliavini che descrivono le numerose ricerche provenienti dalle neuroscienze e dalla fisiologia a supporto del modello della dissociazione strutturale, dando una solida base scientifica alla pioggia di considerazioni cliniche.

ARTICOLI SU: DISSOCIAZIONE

EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi. Meet the expert: Giovanni Liotti
Articolo consigliato: EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti

La teoria Polivagale di Porges vince su tutte, per il dettaglio con cui spiega e motiva le nostre reazioni di fronte al pericolo.

Infine chiudono Annabel Gonzalez e Dolores Mosquera sul protocollo EMDR in pazienti dissociativi, portando incredibili esempi di trattamento e offrendo moltissimi spunti di lavoro e idee per affrontare una delle più complicate situazioni cliniche, il disturbo dissociativo dell’identità (DDI).

ARTICOLI SU: EMDR

Integrazione è l’idea forte che guida tutte le giornate.

Integrazione come obiettivo terapeutico, integrazione come modello di funzionamento della mente, integrazione come ruolo del terapeuta e integrazione rispetto ai molti possibili approcci psicoterapici.

La sensazione è di essere di fronte ad un modello forte e di cui difficilmente si potrà fare a meno, una modello che riesce a mettere d’accordo anime molto diverse e a spiegare, con una solida e fondamentale “plausibilità neurobiologica”, la maggior parte della psicopatologia attualmente conosciuta.

 A breve interviste e descrizioni dettagliate dei principali temi trattati nel convegno!

RISORSE: 

Il Convegno: “Nuove frontiere nella cura del trauma – Approcci Integrativi e Centrati sul Corpo per la cura dei Disturbi Traumatici Complessi” è stato organizzato dall’Associazione Culturale Area Trauma. Venezia 20-22 Aprile 2013.

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Meditazione Tonglen Parte la Sperimentazione – Intervista al Dott. Pagliaro

Il Tong Leen ai Banchi di Partenza - Intervista al Dott. Pagliaro. - Immagine: © byheaven - Fotolia.com Tonglen: Tra pochi giorni partirà la sperimentazione della pratica meditativa del Tong Len per la cura delle patologie oncologiche. Il Tonglen è un antichissima pratica meditativa tipica della meditazione tibetana ed ha un grande campo di applicazione in quanto non tratta solo le forme di disagio e di disturbo psicologico, ma è una vera e propria pratica di trasformazione ed evoluzione personale.

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Il Tonglen è un antichissima pratica meditativa tipica della meditazione tibetana ed ha un grande campo di applicazione in quanto non tratta solo le forme di disagio e di disturbo psicologico, ma è una vera e propria pratica di trasformazione ed evoluzione personale.

Tra pochi giorni partirà la sperimentazione della pratica meditativa del Tonglen per la cura delle patologie oncologiche.

Abbiamo la possibilità di confrontarci su alcuni aspetti di questa ricerca con il Dott. Gioacchino Pagliaro, direttore della Psicologia Clinica dell’Ospedale Bellaria di Bologna

Ci può spiegare i fondamenti della pratica meditativa del Tonglen?

Il Tonglen è un antichissima pratica meditativa tipica della meditazione tibetana ed ha un grande campo di applicazione in quanto non tratta solo le forme di disagio e di disturbo psicologico, ma è una vera e propria pratica di trasformazione ed evoluzione personale.

La meditazione Tong Len e il paziente oncologico. - Immagine: © Rido - Fotolia.com
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È molto utilizzata nella medicina tibetana che la ritiene una meditazione molto potente ai fini della guarigione.  Caratteristica principale della medicina tibetana è quella di essere la medicina più spirituale rispetto a tutte le altre medicine orientali proprio perchè si basa sui principi del buddismo e quindi sull’azione terapeutica che la mente svolge, ed è dunque, facile comprendere il perché la meditazione sia ritenuta parte integrante del processo di cura.

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Questa pratica consiste letteralmente nel prendere e nel dare, che vuol dire fare qualcosa per liberare gli altri dalla loro sofferenza applicando, così, il principio buddista della compassione assumendo la sofferenza degli altri su di sé per purificarla e trasformarla in energia benefica riequilibratrice che va  direzionata verso le persone malate.

È la prima volta che questo tipo di meditazione viene utilizzata in un protocollo sperimentale del genere?

Nonostante la pratica del Tonglen sia utilizzata da alcuni anni negli Stati Uniti e nel nord Europa e da alcuni psicologi e medici in Italia non è stato fatto a tutt’oggi nessuno studio che ne verifichi l’efficacia. In questo scenario l’Unita Operativa di Psicologia Ospedaliera dell’ospedale Bellaria di Bologna sarà la prima al mondo nel verificarne l’efficacia.

Ci può spiegare brevemente quali sono gli obiettivi e i risultati aspettati della ricerca che sta per iniziare?

Gli obiettivi principali della ricerca sono quelli di  andare a verificare l’efficacia di questa pratica per un suo eventuale utilizzo nella pratica clinica quotidiana andando a monitorare la reazione e l’eventuale modifica dei linfociti, dei neutrofili, del cortisolo e dei valori pressori, e dal punto di vista psicologico di ansia, stress e depressione.

Non ci sono veri e propri risultati attesi ma per ora ci limiteremo a vedere che cosa emergerà dell’analisi degli esami e delle scale psicologiche utilizzate. Ad una distanza di tre e cinque anni dalla conclusione della ricerca si andrà, poi, a vedere nel registro dei tumori che cosa è successo nella vita di questi pazienti.

Come è avvenuto il reclutamento del campione e quali test vengono fatti ai pazienti che faranno parte del gruppo sperimentale e del gruppo di controllo?

La ricerca prevede un campione di 80 pazienti che sono stati reclutati dall’Unità Operativa di Oncologia dell’Ospedale Bellaria diretta dalla dott.ssa Brandes. Il campione dei pazienti deve avere queste caratteristiche: non presentare disturbi psichiatrici, non essere seguito dalla Psicologia Ospedaliera, non essere nella fase grave di malattia. Di questi 80 pazienti in maniera randomizzata ne saranno scelti 40, che il gruppo di meditatori appositamente formato, non conoscerà e non incontrerà mai, gli altri andranno a formare il gruppo di controllo.

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I test utilizzati saranno il ProfileOfMoodState (Douglas M. McNair, Maurice Lorr e Leo F. Droppleman) le scale di Zung per ansia e depressione e un questionario sulla qualità della vita.

Quali sono secondo lei i risvolti più interessanti di questa ricerca dal punto di vista della presa in carico del paziente e del percorso di cura?

La malattia terminale, il Personale Medico e la Cura della relazione. -- Immagiine: © Ben Chams - Fotolia.com
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Il risvolto più interessante di questa ricerca riguarda il fatto che questa pratica di meditazione è molto diversa da quella che l’Unità Operativa di Psicologia Ospedaliera utilizza abitualmente. Le altre metodiche utilizzate, infatti, funzionano come “addestramento” del paziente rispetto ad una determinata pratica facendo cioè in modo che il pazienti possa impararla e autonomamente utilizzarla. Mentre la pratica del Tonglen è una pratica che si potrebbe quasi definire di meditazione a distanza. Un gruppo di 15 meditatori, in questo caso, medita a favore del gruppo dei pazienti. Questa meditazione dovrebbe produrre un miglioramento della vita dei pazienti, ma anche e contemporaneamente un beneficio importante per chi la sta praticando.

Ogni meditatore, che prenderà parte alla ricerca, avrà un diario in cui indicherà come svolgerà la meditazione, dove potrà annotare cosa per lui è migliorato nel periodo di pratica.

L’importanza di questa ricerca sta anche nel raggiungere un certo rigore dal punto di vista metodologico ricerca che per altro ha avuto l’autorizzazione del Comitato Etico e l’approvazione della direzione sanitaria e del Dipartimento Onclogico dell’Ausl di Bologna.

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Recensione: Caporale & Roberti (2013). Percorsi di Psicodiagnostica Clinica Integrata.

 

State of Mind Presenta:

R.Caporale, L. Roberti (2013).

Percorsi di psicodiagnostica clinica integrata. Manuale pratico per psicologi.

Milano: FrancoAngeli

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Recensione: Percorsi di Psicodiagnostica clinica integrata.
Caporeale & Roberti (2013). Percorsi di Psicodiagnostica clinica integrata. Milano: Franco Angeli.

Il manuale di Caporale e Roberti (2013) è composto da 245 pagine volte a delucidare una domanda principale, come evidenziato nella prefazione del Prof. Tonino Cantelmi: “quali test per quale diagnosi”? Si propone, dunque, l’introduzione di una metodologia clinica di somministrazione ed interpretazione di una batteria di test. Con sinergia pratica gli autori puntano ad identificare le diverse aree di funzionamento della personalità. Inoltre, utilizzando il materiale testistico si mira ad un processo di cambiamento terapeutico orientato a migliorare la salute mentale dell’individuo.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: PERSONALITA’

Il testo si offre come una agile guida alla valutazione psicodiagnostica clinica per psicologi e psichiatri. Dopo una concisa prefazione e un’introduzione ai concetti che verranno esposti, nel primo capitolo si definiscono le nuove linee guida di somministrazione ed interpretazione con una particolare attenzione al principio di integrazione metodica tra i diversi strumenti clinici fruibili. A riguardo, viene presentata una batteria testologica” ideale” di cui avvalersi nei poliedrici campi di applicazione professionale.

Nel secondo capitolo viene approfondito il test di Rorschach, dai fondamenti alle fasi di attuazione, l’analisi del funzionamento psichico e la valutazione del livello di organizzazione della personalità; la siglatura proposta è il metodo di Rizzo, oggi ereditato dalla Scuola Romana Rorschach.

Il terzo capitolo, invece, rivede il Thematic Apperception Test (TAT) attraverso una nuova modalità di scoring ed interpretazione dei risultati: quella del gruppo di Drew Westen. Egli ha introdotto una analisi quantitativa e qualitativa chiamata SCORS (Social Cognition and Object Relations Scales) che fonda le sue radici sull’integrazione tra la social cognition e la psicoanalisi contemporanea. Viene qui spiegato lo strumento e le modalità di interpretazione con alcuni  esempi clinici che aiutano a capire meglio i criteri  esposti.

Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea - Monografia a cura del Dott. Paolo Azzone. - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com
Monografia: Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea.

Il quarto capitolo esamina le prove grafiche: il test della figura umana, della famiglia e dell’albero. Queste sono considerate validi ausili per la valutazione degli aspetti della personalità. Ognuno di questi viene esplicitato nella sua somministrazione, inchiesta ed interpretazione.

Nel quinto capitolo è trattato il Minnesota Multiphasic Personality Inventory( MMPI-II) proposto come un inventario di personalità di ampio spettro che traccia profili la cui valenza si esprime peculiarmente dal punto di vista psicopatologico. Gli autori considerano anche gli elementi di continuità con l’MMPI-II Restructured Form; la nuova versione pubblicata con l’adattamento italiano nel 2012.

Il sesto capitolo, invece, descrive il questionario clinico multiassiale di Millon (MCMI) il self- report più utilizzato nell’individuare i disturbi di personalità. Considerato come uno tra i migliori reattivi  per fare diagnosi sull’Asse II del DSM-IV è trattato nella sua struttura, nei suoi contesti applicativi e nell’interpretazione dei profili.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: DSM

Il settimo capitolo verte sulla Wechler Adult Intelligence Scale-Revised (WAIS-R), il test di intelligenza più utilizzato e conosciuto al mondo. Dopo una presentazione generale del concetto di intelligenza e delle scale di Wechsler, Caporale e Roberti spiegano le singole prove ed espongono le modalità di applicazione e di analisi dei singoli subtest.

 Nell’ottavo capitolo, infine, si propone l’utilizzo dei test come strumento terapeutico, concetto sviluppato da Finn e Tonsager (1992). Attraverso una serie di esempi clinici è evidenziato come la consegna della testistica si rilevi molto utile per produrre cambiamenti importanti nella visione di sé da parte del paziente. Il capitolo si conclude con un caso a cui viene somministrata la batteria di test proposta e mostra la modalità di lavoro delucidando come essa permetta la comprensione del “funzionamento globale” dell’individuo durante l’intervento psicologico. Si dimostra così il percorso psicodiagnostico clinico e come viene garantita la sua validità.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ALLEANZA TERAPEUTICA

La nuova integrazione psicodiagnostica può portare ad una sicura valutazione psicologica e con pratica ed esperienza può arricchire il clinico nella sua pratica professionale. Quel che si acquista con questo manuale è un ottimo strumento sistematico da sfruttare in ambito clinico, giuridico- peritale o addirittura di selezione del personale.

L’approccio alla diagnosi non può non passare per una valutazione clinica e lo sviluppo della scienza psicologica non può fare a meno di una solida base diagnostica che solo una sinergica batteria di test psicologici può darle.

Una ricerca ed un lavoro così orientato dà la speranza di raccogliere risultati su cui lavorare e confrontarsi per sviluppare sempre più una scienza di cui tutti noi facciamo parte: la psicologia.

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RECENSIONI – PERSONALITA’ – DSM – ALLEANZA TERAPEUTICA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Crisi di Terza Età: Riguarda il 30% degli Anziani

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La crisi di terza età è sempre trasformativa, ma il cambiamento porta a crescita o a declino, e il fattore determinante è il numero di eventi stressanti.

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Un ultra 60enne su 3 sperimenta un periodo di crisi di terza età, in questa fase avanzata dell’esistenza.

La scoperta è avvenuta grazie a un nuovo studio dell’Università di Greenwich condotto dal dr. Oliver Robinson, che ha spiegato che la crisi può avere sia effetti positivi che negativi sul benessere individuale.

"Amour", Storia d'Amore e Distruzione - RECENSIONE
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Un totale di 282 volontari tra i 60 e i 70 anni sono stati coinvolti nella prima fase dello studio, durante la quale hanno compilato on-line un questionario di valutazione sull’impatto della crisi.

Il 32% dei maschi e il 33% delle femmine hanno riferito di aver avuto una crisi.

La caratteristica maggiormente comune a tutte le situazioni di crisi di terza età era l’aver sperimentato un lutto, secondariamente una malattia e infine lesioni a se stessi o agli altri e il prendersi cura di una persona amata malata o disabile.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ESPERIENZE TRAUMATICHE

Nella seconda fase, i ricercatori hanno intervistato un gruppo di 20 soggetti. I ricercatori hanno scoperto che episodi di crisi di terza età coincidevano con l’essere stati coinvolti in almeno due eventi stressanti – ad esempio una grave malattia o problema di salute che ha colpito l’individuo stesso o un familiare significativo, – o la perdita del partner o di un parente stretto.

L’evento di vita stressante rende l’individuo consapevole della propria fragilità e della morte. Desideri e valori individuali vengono rivalutati nel corso di una crisi di vita, e l’esito di tale rivalutazione può assumere diverse forme. Alcune persone sono riuscite ad affrontare la crisi positivamente e hanno reagito riuscendo a ridefinire nuovi obiettivi da realizzare; altri ancora si sono concentrati sul presente, sentendo gratitudine per ogni giorno di vita e cercando di goderne più di quanto facessero prima.

 Altri invece, per evitare delusioni, hanno evitato di fare qualsiasi progetto o di fissare obiettivi a lungo e medio termine, ritirandosi dal mondo e isolandosi progressivamente.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: STRESS

La crisi di terza età è sempre trasformativa, dice Robinson, ma il cambiamento può portare alla crescita o al declino, e il fattore determinante rispetto alla direzione presa dall’individuo sembra essere il numero di eventi stressanti e la prossimità con cui si susseguono; in alcuni casi lo stress derivante dalla concomitanza o dalla rapida successione di più eventi stressanti soverchia le risorse individuali e minimizza le possibilità di far fronte alla crisi in termini di crescita e rinnovamento.

Secondo Robinson una migliore comprensione degli episodi di crisi nella terza età sarebbe preziosa per tutti i professionisti che si occupano del benessere delle persone in questa fascia di età, sopratutto per riuscire a intervenire in modo da rendere la crisi un esperienza di crescita e non una di declino.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

TERZA ETA’ – ESPERIENZE TRAUMATICHE – STRESS 

 

BIBLIOGRAFIA:

Imparare a lasciare i pensieri da soli: il Controllo Metacognitivo – Manchester 2013

 

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva

02 – IL CONTROLLO METACOGNITIVO (dalla Keynote di Adrian Wells)

 

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva - Manchester 2013

IMPARARE LASCIARE I PENSIERI DA SOLI CON IL CONTROLLO METACOGNITIVO

LEGGI L’INTRODUZIONE AL CONGRESSO

Il congresso di terapia metacognitiva non poteva che aprirsi con la lettura magistrale di Adrian Wells, padrone di casa e fondatore di questo nuovo approccio terapeutico.

Sono passati due anni dalla prima conferenza e ora é importante ritornare a domandarsi quale é il cuore della terapia metacognitiva. Il punto centrale é considerare la psicopatologia come una questione di selezione e controllo del pensiero e del pensare che dipende dalle metacognizioni. Il problema in particolare é che i pensieri, in particolar modo se negativi, sono percepiti come importanti.

Cosa da importanza ai pensieri?

Wells: Terapia Metacognitiva dei disturbi d'Ansia e della Depressione. Recensione a cura di Gabriele Caselli. - Immagine: Eclipsi Editore
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)

(1) Il modo in cui ne facciamo esperienza, possiamo cioé riconoscerli come semplici formule verbali o immagini, come oggetti quindi, oppure (e purtroppo) essere fusi con essi e percepirli come dati di realtà.
(2) Quanto riteniamo sia importante stare a pensare alle cose che non vanno, con l’esito di produrre narrazioni ancora piú ingabbianti. (3) Le strategie che usiamo per regolare i brutti pensieri che possono essere controproducenti (rimuginio e ruminazione).

Quindi la terapia metacognitiva é un percorso teso a imparare a pensare di meno,  a lasciare i pensieri (ma anche le emozioni) da sole senza rispondervi, a fare esperienza dei pensieri intesi come oggetti e non come aspetti della realtà e ridimensionarne l’importanza. A raggiungere e migliorare un controllo metacognitivo piú flessibile.

E da qui nasce la sferzata alla Terapia Cognitivo-Comportamentale classica: nella Terapia Cognitiva viene data molta importanza ai pensieri. Ergo, terapia metacognitiva e CBT non sono necessariamente compatibili. Aumenta quindi il grado di separazione, come sempre avviene quando si costruisce una nuova entitá la scelta ricade sempre su tracciarne i confini in modo netto affinché non sia inglobata e uccisa. Ci sono alcune ricerche in corso tese a confrontare i due approcci e una loro integrazione. Ne vedremo presto i risultati.

L’impressione generale é che ora per la terapia metacognitiva sia venuto il tempo di scendere dall’altare della ricerca e trovare espressioni semplici e chiare per essere piú fruibile nel mondo della pratica psicoterapeutica quotidiana.

E questo sembra essere lo sforzo anche di Adrian Wells che ci lascia con un pensiero interessante: La terapia metacognitiva aiuta i pazienti a capire che si può imparare ad essere completamente indipendenti dai propri pensieri.

 LEGGI L’INTRODUZIONE AL SECONDO CONGRESSO DI MANCHESTER

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RISORSE:

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva – Manchester 24-27 Aprile 2013

 

 

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva 

01 – INTRODUZIONE

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva - Manchester 2013

 

Un viaggio richiede molte attese. E il viaggio di partenza per un congresso non si esime. In quelle attese il tempo trascorre osservando il programma previsto, spulciando simposi e letture magistrali per cominciare a costruire quel che sarà il proprio percorso dentro al congresso.

ARTICOLI ARCHIVIATI IN: CONGRESSI

Così io scorro il programma del secondo congresso internazionale di Terapia Metacognitiva che inizierá a Manchester domani.

Sono trascorsi due anni dal primo scisma e dalla nascita di un circuito separato da quello ortodosso delle terapie cognitivo comportamentali, EABCT. Una scelta di separazione che forse non ha premiato il dialogo scientifico, ma ha permesso al pargolo di crescere, vista l’espansione di ricerche e gruppi di ricerca indipendenti che stanno nascendo in tutto il mondo sulla terapia metacognitiva con un conseguente proliferarsi di studi pubblicati. Il pargolo sta crescendo.

La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.

Ora Adrian Wells e Hans Nordahl possono permettersi di mettere sul piatto una considerevole mole di evidenze a supporto sia della teoria che della terapia metacognitiva, soprattutto per ansia e depressione, ma che inizia a esplorare le frontiere delle dipendenze patologiche e disturbo borderline di personalità. E intanto la terapia metacognitiva del Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD) é in via di inserimento nelle linee guida nazionali inglesi.

Il pargolo sta crescendo e comincia a camminare da solo. Tanto che nello stesso programma del congresso si apre il confronto con altri approcci invitati a confrontarsi con i temi caldi del mondo clinico e sulle future evoluzioni della psicoterapia.

 

 

Rappresentanti della CBT (Hollon), dell’ACT (Zettle) e dell’Emotional Schema Therapy (Leahy) hanno uno spazio di presentazione magistrale che culminerà in una tavola rotonda con tutti riuniti che si prospetta davvero interessante, nella speranza che non diventi un gentile scambio di diplomatiche cordialità.

Il pargolo sta crescendo in un mondo frammentato.

Quello che ci aspettiamo? Novità, chiarezza, confronto. A due anni di distanza saremo ancora qui a raccontarvi la nostra prospettiva.

 

LEGGI ANCHE: IL PRIMO CONGRESSO DI TERAPIA METACOGNITIVA – MANCHESTER 2011

RISORSE:

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E15 Gina

In Treatment – Psicoterapia in TV

QUINDICESIMA PUNTATA

Gina

 

 – LEGGI L’INTRODUZIONE

LEGGI: In Treatment: la Versione Italiana

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E15 - Gina. - Immagine: HBO
In Treatment S01E15 – Gina. Immagine: © HBO

In Treatment S01E15 – Gina. Non si tratta più di un incontro tra vecchi amici come nella prima puntata. È una supervisione, o forse qualcosa in più.

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT

Terzo incontro con Gina, terza settimana con il dottor Paul Weston e i suoi pazienti. Ne approfitto per far sapere ai lettori che, dalla settimana prossima, non seguiremo più Gina e Paul puntata per puntata, ma passeremo a commentare cicli di cinque puntate alla volta, ovvero l’intero giro settimanale delle quattro sedute e della supervisione di Paul. Perché? Per evitare il rischio della monotonia e della pedanteria, inevitabili nel commentare tutte le puntate. Inoltre, alternerò settimane con Paul Weston e settimane con Giovanni Mari, il terapista della serie italiana di In Treatment, in modo da dare varietà a questo percorso.

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Dicevo che Paul torna da Gina per la terza volta. Non si tratta più di un incontro tra vecchi amici come nella prima puntata. È una supervisione, o forse qualcosa in più. Paul sembra ormai in terapia con Gina. La quale si conferma terapeuta robusta e, a tratti, feroce.

Paul ha problemi con lei, la svaluta. Ne critica la tecnica, alla perenne ricerca di analogie, rimandi e somiglianze col passato.

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E05 Gina. - Immagine: © HBO
In Treatment S01E05 – Immagine: © HBO
Articolo Consigliato: In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E05 Gina

Per Gina, qualunque cosa faccia Paul ha una radice in un comportamento passato, che Paul è condannato a ripetere, meccanicamente e inconsciamente. Se Laura ha dovuto accudire i suoi genitori, questo è in rapporto con il fatto che anche Paul ha dovuto accudire i suoi. Se Laura esce con Alex e non ne può più del suo convivente, questo è in rapporto col fatto che anche Paul non ne può più di sua moglie. Il tutto è bombardato sul povero Paul con impressionante frequenza e intensità. E ferocia.

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Non sono, né pretendo di essere, un esperto di tecnica psicoanalitica, ma questo modo di operare mi pare tendenzialmente kleiniano: interpretazioni precoci, frequenti, intense, con un certo sapore aggressivo verso il paziente, un retrogusto di “ti ho beccato!”-  Non lo dico solo io, lo dice anche Paul, che rimprovera a Gina la sua passione per la rivelazione degli schemi interpersonali come ripetizione di un eterno transfert irrisolto e, in qualche modo, irrisolvibile. È vero che Paul non dice a Gina. “sei un’insopportabile kleiniana!”.

 È anche vero che in USA la psicoanalisi ortodossa tendeva a essere soprattutto annafreudiana, ovvero focalizzata sulle difese più che sulla ripetizione degli schemi transferali. E Gina è molto ortodossa. Tuttavia il sospetto c’è.

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Paul sembra una sorta di sviluppo imprevisto di Gina, e per questo Gina a sua volta sembra avercela con lui. Così come la psicoanalisi relazionale, di cui Paul è esplicitamente adepto, è uno sviluppo dolce e imprevisto dell’attenzione per i temi interpersonali cari alla Klein. Certo, per la Klein questi schemi interpersonali erano sempre completamente interiori, completamente inconsci e profondamente negativi (l’emozione dominante è l’invidia). Invece per Mitchell gli schemi interpersonali sono anche vissuti nel qui e ora delle relazioni presenti, non sono completamente inconsci e soprattutto non hanno la colorazione cupa del kleinismo. Anzi, per Mitchell la relazione è una forza positiva, un’energia di amore. Che poi sembra la differenza tra Paul, che crede nell’amore per Laura, e Gina, che invece predica la diffidenza verso ogni trasporto sentimentale e lo valuta come ripetizione inconscia di rancori infantili.

 

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Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Recensione

 

– Recensione –

Le Sorgenti del Male

Zygmunt Bauman (2013)

 

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Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Recensione
Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Ericskon (immagine di copertina)

L’atteggiamento dell’uomo che sceglie, e non di colui che viene scelto dal contesto, segna il vero discrimine tra l’uomo privo della parola, e quello dotato di decisa loquacità.

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Riflettere. Riflettere è esigenza. Ed è proprio una coerente riflessione, quella cui induce ogni passo delle 108 pagine del nuovo romanzo, carico di travolgenti e vigorosi messaggi, scritto dal sociologo polacco della modernità liquida, Zygmunt Bauman. L’autore, apprezzato come uno dei più accreditati pensatori viventi, aveva già parlato ai suoi lettori, di un male che “non è distinguibile, in mezzo alla folla”, che “non ha segni particolari né usa carta d’identità”, ammonendoli come “chiunque potrebbe trovarsi a essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o potenzialmente arruolabile” (Paura Liquida, 2008, Laterza).

Ebbene, con il saggio sociale pubblicato dalla Erickson Edizioni, a cura di Young-June Park, il filosofo torna a pungolare, quasi solleticandola, la parte più pigra della coscienza umana: quella che fatica a rallentare, a fermarsi, a scartare il plico che custodisce la risposta ai più intimi quesiti, e che, ancor di più, annaspa nel tentativo di dialogare con dubbi e perplessità, per poi raccoglierne un senso… il senso di domanda che, in nuce, contiene già la risposta.

Un’istigazione al pensiero, dunque, di cui il Bauman si rese “complice”, tempo fa, nell’osservare che “essere morali” non significa necessariamente “essere buoni”. Occorre sapere, annota, che “cose e azioni possono essere buone o cattive. Ebbene, per saperlo gli uomini hanno bisogno di un’altra consapevolezza preliminare: cose e azioni possono essere diverse da quelle che sono”.

Dopo tutto, e forse prima di tutto, ricorda il sociologo, la “moralità riguarda la scelta. Niente scelta, niente moralità.

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Come dice Aharon Appelfeld, uno dei grandi narratori morali del nostro tempo: “La montagna è fredda ma non è malvagia. I venti abbattono gli alberi ma non sono cattivi” (Società, etica, politica, 2002, Raffaello Cortina). Elemento distintivo, quindi, sarebbe proprio la peculiare capacità di taluni soggetti di mettere in moto ed usare – come ricorda Riccardo Mazzeo, nella pregiata prefazione all’opera – la “particella no”, intesa come l’elemento in grado di “trasformare l’esistenza nell’esperienza”.

La scelta, dunque. O meglio, la capacità e la forza di scegliere, legata a doppio filo alla tematica della moralità. Così, nel quotidiano vivere, la preferenza accordata all’una, piuttosto che all’altra opzione che ciascun essere umano intravede dinanzi a sé, consentirebbe all’individuo di tracciare un proprio sentiero, mai o di rado calpestato dalla società (politica, professionale o religiosa) di riferimento.

Rilievo, che ha suscitato in chi scrive l’odierna recensione, un pensiero, del tutto personale: l’atteggiamento dell’uomo che sceglie, e non di colui che viene scelto dal contesto, segna, ritengo, il vero discrimine tra l’uomo privo della parola, e quello dotato di decisa loquacità.

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Sarebbe lui, mi preme annotarlo, l’unico tassello, incastrato nel gruppo sociale, in grado di far sentire davvero il proprio io, e di distinguersi in un universo reso sordo dall’appiattimento delle idee. Considerazione, che si ricollega alla meditazione sulla “normalità” di Bauman, proteso a spiegare come chi si distingue dalla maggioranza, non solo per un di meno, ma altresì per un di più, è comunque un soggetto anomalo.

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 È come dire – mi si consenta, ancora, una nota personale – che normalità e anormalità non viaggino su binari paralleli, ma vivano di flussi, incontrandosi, scontrandosi e abbracciandosi più volte, di guisa che persino la più usuale delle normalità, si colorerebbe di stravaganza in un contesto di parametri ordinariamente eccezionali e sopra le righe.

In fondo, tutto è relativo, e se l’anormalità è un qualcosa che si distanzia dalla norma, non potrebbe essere altrimenti, laddove la norma varia con il variare di tempi, culture, religioni e politiche.

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Ebbene, Bauman, ragionando sulle “sorgenti del male”, ovvero sull’unde malum – domanda travolta, come afferma, dal totalitarismo del ventesimo secolo, e dalle “rivelazioni relative all’Olocausto” – regala al lettore, una metodica interpretazione di tre espressioni di pensiero, trattenutesi al riguardo. Il viaggio dell’autore, inizia dagli studi di Theodor Adorno, sulla “personalità autoritaria”, avvalorante l’idea dell’autoselezione dei malfattori, alla stregua della quale, detta autoselezione resterebbe determinata da predisposizioni naturali, più che culturali, del carattere individuale.

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L’itinerario di Bauman, poi, cambia direzione e posa lo sguardo sulla pista del condizionamento comportamentale, teso alla valorizzazione, non già del dato psichico, ma delle peculiarità del singolo, e del fattore contestuale, atti a generare il male, risvegliando latenti predisposizioni malvagie.

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Atmosfera morale, ascritta da Hannah Arendt, alle predisposizioni prototalitarie della borghesia (Arendt, Le origini del totalitarismo, 2004, Torino, Einaudi). La logica del sociologo, di li a breve passo, percorre poi il ragionamento di Kant, per il quale rispetto e benevolenza per il prossimo sarebbero un imperativo della ragione. Ragione che però, marca il filosofo polacco, spiega tempo ed energie nel “disarmare le richieste e le pressioni del sedicente imperativo categorico” (pag. 34), assurgendo a fabbrica di potenza che consentirebbe all’uomo di rifornirsi, come ad un distributore, della capacità di superare lo scoglio dell’inerzia.

Il pensiero, allora, torna alla questione della probabilità che le risposte comportamentali di diverse persone esposte alla pressione di commettere il male, assuma la forma di una “curva gaussiana” laddove (pag. 73) i risultati dipendono dalla “vicendevole interferenza di un gran numero di fattori indipendenti”. Altra tappa del cammino, magistralmente raccontato da Bauman, è lo studio dello psicologo sociale Zimbardo, il cui esito avrebbe dimostrato come persone normali, amabili, dalle occupazioni più responsabili, anime sensibili, dunque brava gente, possano trasformarsi in “mostri” se innestati in determinati contesti, anche territoriali (Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? 2008, Milano, Raffaello Cortina).

Un male banale, quello su cui l’autore si concentra nel quinto capitolo del libro. Un male che, proprio dalla banalità, trae la sua insita pericolosità. Un male insospettabile, che sa cogliere in contropiede, che sorprende, e si fa scudo nell’imprevedibilità del suo scatenarsi. Un male, quello descritto da Bauman, che vive e dorme, nell’uomo “non solo normale” ma nel “più desiderabile” (pag. 56), sulla falsariga del “dormiente” evocato da Steiner, e della sua non rivelata inclinazione a delinquere, sapientemente eletta a titolo del settimo capitolo del saggio.

 Di qui, un interessante “colloquio” con le tesi di Littell e di Anders, padre del pensiero per cui il “potere umano di produrre” è stato emancipato “dal potere meno espandibile degli umani di immaginare, rappresentare e rendere intellegibile”. Intensamente auspicata, dunque, l’esigenza di restituire nuova reattività ad una mente sociale, anestetizzata dall’abituazione desensibilizzante (Roth, Juden auf Wandershaft, 2001). Non si dimentichi, che il pensatore polacco definì il tempo di oggi come “puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate”. Il senso era palese: i particolari della realtà – come accade ammirando un quadro dipinto con la tecnica del puntinismo – si notano solo se osservati a distanza, prospettiva dalla quale è più agevole orientarsi (Vite di corsa – Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, 2009, Il Mulino).

E forse è proprio da una tale prospettiva, che il filosofo, indagando sulle effettive origini del male, parrebbe estirparlo dall’io dell’essere umano, per imputarlo a dati ad esso esterni, all’inarrestabile progresso della tecnica, che ha reso l’individuo straordinariamente potente, ma, probabilmente cieco di immaginazione e fantasia, ed incapace, nel mio pensiero, di percepire i segnali del mondo. Si chiude, così, il riuscito lavoro di Bauman di osservare in controluce i percorsi tracciati sulle fonti del male, prenderne le distanze e – per usare un’espressione del Kundera, presa in prestito dallo stesso autore (pag. 25) – “strappare il sipario delle preinterpretazioni”, questa volta sulle sorgenti del maligno, calando il lettore nell’universo dei perché. E si sa, che da ogni perché nasce un nuovo perché, e forse una risposta. E nel mentre, ci si scava dentro.. ridefinendo i contorni di quelle identità, a mio parere, ormai svendute nel discount delle idee, uniformate, e senza colore.

 

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