Kay Toon ha appena lanciato una App per smartphone: K2N The Journey Begins, unica App disponibile per aiutare gli adulti che hanno subito abusi sessuali.
Kay Toon, psicologo clinico, ha lavorato più di 20 anni nel servizio sanitario nazionale con vittime di abusi sessuali e si è occupato dello sviluppo di terapie innovative; è anche autore del best seller “Breaking Free: Help for Survivors of Child Sexual Abuse”, e ha appena lanciato una App pionieristica per smartphone: K2N The Journey Begins. Questa è l’unica App disponibile che mira ad aiutare gli adulti che hanno subito abusi sessuali durante l’infanzia (uno su quattro).
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K2N The Journey Begins (gratuito) è la prima App della “Breaking Free series”. L’applicazione guida i sopravvissuti passo passo attraverso i problemi derivanti dall’avere subito abusi nell’infanzia.
“Le applicazioni consentono ai sopravvissuti che sono in imbarazzo o provano vergogna per gli abusi subiti in passato di accedere alle applicazioni in privato e ogni volta che vogliono. Anche gli amici e familiari dei sopravvissuti possono essere aiutati con l’uso delle app nella comprensione delle conseguenze dell’abuso su chi l’ha subito”, dice Toon.
Gli esercizi nelle applicazioni si basano su esercizi provati e testati dai libri “Breaking Free” (80.000 copie vendute a livello internazionale).
Altre applicazioni disponibili della serie sono “k2n Keeping Safe” (proteggersi) e “k2n Feeling Guilty” (sentirsi in colpa), con ulteriori applicazioni in fase di sviluppo.
L’enfasi in tutte le applicazioni è su come mantenersi al sicuro, e sottolineano che la responsabilità dell’ abuso è sempre dell’abusante e mai del bambino abusato.
Ansia Sociale: Non Tutto lo Stress viene per Nuocere
“Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu rispetto all’altro sei l’altro.”
Andrea Camilleri
Il Disturbo di Ansia Sociale è la paura marcata e persistente di trovarsi in una particolare situazione sociale da cui possa derivare la possibilità di essere valutati negativamente dagli altri, tale timore compromette le abilità del soggetto durante la situazione specifica.
Uno dei maggiori timori di chi soffre di ansia sociale è parlare in pubblico, il soggetto teme di non riuscire e, di conseguenza, di ricevere un giudizio negativo dai presenti. Conseguentemente le situazioni sociali e prestazionali sono evitate.
L’ansia è il sintomo prevalente della fobia sociale e le sue manifestazioni (rossore, tachicardia, sudorazione, tremori, bocca asciutta, confusione, ecc.) possono effettivamente determinare la realizzazione della minaccia temuta, cioè non riuscire nella propria performance e fare la cosiddetta “figuraccia”.
Secondo una nuova ricerca pubblicata su Clinical Psychological Science, per gestire la paura del pubblico è molto utile incoraggiare il soggetto, riformulando il significato dei segnali di stress che il corpo invia. Secondo Jamieson, l’autore principale dello studio, il problema deriverebbe proprio dal pensare che lo stress sia esclusivamente un fattore negativo.
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In realtà, i segnali che il nostro corpo ci invia sono soltanto un modo per comunicarci che stiamo per affrontare una situazione impegnativa, il corpo pompa più sangue verso i nostri muscoli e manda più ossigeno al cervello. La reazione del nostro corpo allo stress sociale è la stessa che produciamo davanti ad un pericolo fisico.
Per comprendere come la gente possa sfruttare i vantaggi dello stress senza essere sopraffatta dalla paura, Jamieson e collaboratori hanno utilizzato il Trier Social Stress Test, uno dei metodi di laboratorio più affidabili per indurre lo stress come risposta ad una minaccia (Kirschbaum et al., 1993).
Nello studio, è stato chiesto a 69 adulti di tenere un discorso di cinque minuti, circa i loro punti di forza e di debolezza, con solo tre minuti per prepararsi. Circa la metà dei partecipanti ha avuto una storia di ansia sociale. Sono stati creati due gruppi a cui i soggetti sono stati assegnati in maniera randomizzata. Il primo gruppo ha ricevuto informazioni sui vantaggi di risposta allo stress del corpo e ha incoraggiato a reinterpretare i segnali corporei, emessi durante il compito di parlare in pubblico, come benefici e normali. A questo gruppo è stato inoltre chiesto di leggere una sintesi di tre studi di psicologia che hanno mostrato i vantaggi dello stress. Il secondo gruppo non ha ricevuto alcuna informazione sullo stress.
I partecipanti hanno esposto il loro discorso davanti a due giudici, i quali, di proposito, hanno mandato feedback non verbali di tipo negativo per tutta la presentazione, scuotendo la testa in segno di disapprovazione, toccando i loro appunti, e fissando impassibili il soggetto sperimentale.
Dopo il discorso, i partecipanti sono stati invitati a contare all’indietro dal numero 996, per cinque minuti a passi da sette. Anche qui, i valutatori hanno fornito un feedback negativo per tutto il tempo.
Di fronte ai giudici contrariati, i partecipanti che non hanno ricevuto la preparazione allo stress, hanno sperimentato una risposta di minaccia, come mostrato dai valori cardiovascolari. Ma il gruppo che è stato preparato, circa i benefici di stress, ha mostrato una maggiore resistenza alla prova. I soggetti hanno riferito la sensazione di avere più risorse per far fronte al compito e, significativamente, le loro risposte fisiologiche hanno confermato tali percezioni.
Sorprendentemente, questo studio ha anche scoperto che le persone che soffrono di ansia sociale, in realtà, non hanno avuto un maggiore aumento di eccitazione fisiologica, rispetto ai non-ansiosi, nonostante la segnalazione di più intensi sentimenti di apprensione.
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Gli autori ritengono che tale risultato sostenga la teoria che la nostra esperienza di stress acuto o di breve durata dipenda da come noi interpretiamo i segnali fisici.
Questa ricerca è molto rilevante perchè sostiene e dimostra sperimentalmente quella che è la base della Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (TCC): non è l’evento in sé a determinare reazioni e comportamenti ma, piuttosto, l’interpretazione personale di tale evento.
Oltre a dimostrarne il principio fondamentale, tale ricerca riesce anche a rendere visibile il risultato di quello che è il risvolto pratico della TCC: condurre il soggetto a reinterpretare e ristrutturare i propri pensieri, aiutandolo così a modificare le azioni conseguenti.
Tale prospettiva corregge la concettualizzazione dello stress, promuovendo modelli di risposta che, pur mantenendo l’eccitazione stressante, consentono di ottenere prestazioni ottimali.
Ecco il video in cui l’autore della ricerca illustra rapidamente la procedura sperimentale:
Nell’organizzazione psicoanalitica esigenze di appartenenza e di apertura verso nuovi orizzonti sono a lungo convissute fianco a fianco, in precario ma produttivo equilibrio.
La psicoanalisi è una prassi, specificamente una prassi diadica. E’ nello stesso tempo un’esperienza di gruppo, anzi comunitaria. Gli uomini e le donne che esercitano la professione psicoanalitica nell’intimità dei propri studi si incontrano periodicamente in contesti istituzionali: condividono le proprie esperienze cliniche, discutono possibili modelli interpretativi, cercano di formulare delle generalizzazioni teoriche. Una dimensione cruciale dell’istituzione psicoanalitica è l’addestramento e la selezione di nuovi membri del gruppo.
La psicoanalisi è dunque una comunità professioinale, o meglio un insieme di comunità professionali, il cui numero è in continua crescita. Tutti gli esseri umani, peraltro, vivono esperienze importanti nel contesto di vari gruppi formalizzati, nettamente distinti sia dai gruppi basati sui legami familiari, sia dalle aggregazioni amicali informali.
La partecipazione ad alcuni gruppi istituzionalizzati ha un ruolo chiave nella determinazione dell’identità personale. L’appartenenza a tali gruppi comporta la condivisione di convinzioni fondamentali sulla natura dell’uomo e di valori etici. Ciò vale ad esempio per le chiese, le organizzazioni politiche, i movimenti sociali e, attualmente, la psicoanalisi.
Freud ha contribuito in modo decisivo alla nostra comprensione dei fenomeni sociali, ma non si interessò del funzionamento dei gruppi in una prospettiva clinica. Negli anni ’40 i fenomeni gruppali furono oggetto di indagini autenticamente psicanalitiche da parte di Siegfried Foulkes (1978). Dobbiamo a Wilfred Bion (1961) una geniale e pionieristica teorizzazione delle modalità inconsce di funzionamento dei gruppi. Da queste radici è nato l’attuale movimento gruppo analitico, attivo e multiforme.
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Tuttavia, resta un dato di fatto che la nascita e lo sviluppo dell’istituzione psicoanalitica sono avvenuti al di fuori di qualsiasi consapevolezza delle forze inconsce che plasmano e condizionano i gruppi ed i fenomeni sociali. La psicoanalisi come istituzione si è sviluppata sotto l’azione delle stesse forze inconsce ed obbedendo alle stesse regole di funzionamento che sono attive implicitamente in qualsiasi gruppo sociale. Tra tali forze e regole richiameremo qui quelle che esercitano l’impatto più evidente sulle caratteristiche e sul funzionamento attuale del movimento psicoanalitico.
Condivisione di convinzioni su aspetti fondamentali della realtà. Tutti i gruppi umani condividono importanti convinzioni. Un accordo sugli obiettivi fondamentali della vita e sulla rappresentazione di sé e degli altri è apparentemente un prerequisito della stabilità e della coesione di un gruppo. I bambini si fidano degli insegnamenti dei genitori sulla vita e sulla natura degli esseri umani, finché l’adolescenza non li spinge ad allentare i propri legami con la famiglia. E la ribellione contro la visione del mondo dei genitori è spesso il primo stadio di tale processo di separazione. Il ruolo cruciale svolto da una fede comune nelle organizzazioni religiose e politiche è del tutto evidente.
Nell’organizzazione psicoanalitica esigenze di appartenenza e di apertura verso nuovi orizzonti sono a lungo convissute fianco a fianco, in precario ma produttivo equilibrio. Scuole lontane tra loro come la psicologia dell’Io e l’approccio kleiniano si sono sviluppate e sono cresciute l’una accanto all’altra. Nella seconda metà del XX secolo il movimento psicoanalitico è stato ripetutamente scosso dalla comparsa di nuove idee, nuove tecniche terapeutiche, e dall’estensione del trattamento psicoanalitico ad un numero crescente di condizioni cliniche e di fenomeni culturali.
Tuttavia, se riflettiamo su questi processi di rinnovamento in una prospettiva storica, siamo costretti ad attenuare il nostro ottimismo. E’ evidente ad ogni osservatore che il settore sta diventando meno fecondo. Il conformismo e i bisogni simbiotici che inducono ad evitare conflitti all’interno dell’organizzazione contribuiscono senza dubbio a questo fenomeno. Questa problematica dovrebbe essere oggetto di una maggiore attenzione da parte di tutti coloro che sono interessati al destino della psicoanalisi.
Confini. Le comunità hanno confini. Le comunità politiche – nazioni, stati città – hanno confini geografici e amministrativi. Anche le comunità ideologiche, filantropiche o religiose hanno dei confini.
La partecipazione alla vita del gruppo è condizionata da regole di ammissione. Tali regole vengono variamente motivate. Nelle comunità professionali il principale requisito di ammissione è in genere l’accertamento di determinate conoscenze e capacità. Anche nelle organizzazioni psicoanalitiche la competenza professionale è considerata un fattore decisivo nei processi selettivi.
Tuttavia, la psicologia sociale ci insegna che la restrizione all’accesso è una regola comune a tutti i gruppi umani, o quasi. Nelle società tradizionali l’accesso a determinate classi di età così come a determinati ruoli sociali, è ritualizzato ed implica spesso il superamento di determinate prove di accesso (Van Gennep, 1909).
Di fatto, quanto più un gruppo è coeso, quanto più l’appartenenze al gruppo è concepita come centrale rispetto all’identità individuale e ai valori personali del membro, tanto più l’ammissione alla comunità è condizionata al superamento di prove impegnative, o all’offerta o alla rinuncia a qualcosa di prezioso sul piano personale o sociale.
L’ordinazione sacerdotale implica la disponibilità a rinunciare completamente alla vita sessuale. L’appartenenza a molti gruppi religiosi, ma anche politici, implica la rinuncia ad una parte consistente del proprio reddito a favore del movimento. La condivisione di stili di vita o credenze comunemente ritenuti inaccettabili o disprezzati è una componente importante in molti gruppi religiosi minoritari, e promuove sia la coesione interna al gruppo che l’isolamento dalla società esterna.
L’ammissione alla comunità psicoanalitica, sia essa l’ortodossa IPA o una delle molteplici scuole attualmente attive, implica sempre una esperienza psicoanalitica personale lunga ed intensiva con un membro esperto dell’organizzazione. I criteri formalizzati per l’ammissione dei candidati prevedono l’accertamento delle capacità professionali e delle qualità umane del candidato, quindi dei risultati attesi dal trattamento psicoanalitico, non una valutazione del processo di trattamento.
Tuttavia, il legame strutturale tra l’analista didatta e l’elite dell’organizzazione psicoanalitica di riferimento è evidente ed insito nelle regole di ammissione. Di conseguenza la selezione dei candidati non è e non potrebbe essere indipendente dalla forma assunta dal transfert nel corso dell’analisi didattica.
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Ciò significa che involontariamente ma inevitabilmente le istituzioni psicoanalitiche tendono ad ammettere candidati che producono transfert idealizzanti o comunque prevalentemente positivi. Strutture di personalità più ambivalenti, competitive o aggressive mantengono sempre una componente di ambivalenza verso l’oggetto di transfert, anche quando analizzate a fondo.
Di fatto, i criteri convenzionali di selezione dei candidati favoriscono strutture di personalità dipendenti o inclini all’idealizzazione. L’elaborazione di tali tratti di personalità oblativi tramite il lavoro interpretativo risulta ostacolato, perché viene inconsciamente percepito dal candidato come una minaccia alla propria crescita professionale e personale, che lo espone al rischio di essere respinto e rifiutato dalla comunità professionale a cui egli attribuisce valenze parentali.
Dobbiamo essere consapevoli che le procedure di selezione attualmente adottate dalla maggioranza delle istituzioni psicoanalitiche influenzano e condizionano in maniera rilevante le strutture di personalità prevalenti tra i membri. L’aggregazione di professionisti complianti e conformisti è di conseguenza più agevole e quantitativamente maggioritaria. Il legame tra analisi personale e training è deleterio e tende attualmente a conferire alle istituzioni psicoanalitiche il carattere di gruppi altamente coesi, in cui il conflitto è temuto e le risorse disponibili per i processi creativi sono insufficienti.
Scissione. La scissione consente all’individuo di liberarsi dalle componenti temute o disturbanti della personalità o degli oggetti d’amore, che possono quindi essere proiettate su rappresentazioni d’oggetto esterne al nucleo centrale del sé. Nei gruppi la scissione consente ai membri del gruppo di proteggere l’immagine idealizzata del gruppo e di percepire l’ostilità, l’aggressività, l’invidia ed ogni sorta di ostacolo alla vita ed allo sviluppo, come provenienti da oggetti esterni al gruppo.
La scissione è attiva in ogni gruppo umano: dalle bande di bambini ai tifosi di una squadra di calcio, dalle scuole filosofiche alle nazioni. Le conseguenze di fenomeni incontrollati di scissione e proiezione sono tragiche e rappresentano probabilmente la più pericolosa forza motivazionale all’origine della guerra, e di altre forme di uccisione di esseri umani.
Nella vita sociale degli psicoanalisti non vediamo alcun pericolo di violenza. Ma processi di scissione incontrollati ed in gran parte inconsci creano danni sostanziali anche nel nostro settore. La maggior parte delle istituzioni psicoanalitiche lodano il dialogo: con i neuroscenziati, i terapeuti cognitivi, i registi, i leader religiosi. Ma quando si tratta di membri di organizzazioni psicoanalitiche concorrenti, non è tollerato alcun contatto significativo. Un veto particolarmente severo li esclude dalla discussione clinica di casi psicoanalitici.
In molti gruppi formalizzati sono attive analoghe regole di esclusione: dalle sette religiose ai partiti politici con forti valenze ideologiche. Tali veti hanno evidentemente e la funzione di proteggere il nucleo centrale della vita del gruppo dal conflitto e dall’ostilità proveniente dall’esterno. Ma il danno per lo sviluppo intellettuale delle organizzazioni psicoanalitiche è molto serio.
L’interazione dialettica con punti di vista diversi, anche contrastanti, è vitale per le organizzazioni scientifiche. E’ un prerequisito del progresso intellettuale. L’esclusione dal dibattito scientifico di contributi significativi realizzati da ricercatori o clinici non appartenenti all’organizzazione implica la perdita di ingredienti fondamentali per una comprensione più profonda della vita mentale inconscia.
Freud riteneva che l’obiettivo ultimo della psicoanalisi fosse la ricerca della verità, la verità rispetto alla vita mentale dell’uomo. Egli insegnò ai propri allievi che essi potevano procedere verso tale obiettivo nella misura in cui potevano accettare la verità su se stessi, sulla propria vita interiore. E’ tempo di sviluppare ulteriormente il mandato freudiano: di promuovere una maggiore consapevolezza delle forze inconsce che plasmano ed orientano la nostra vita professionale a livello gruppale.
L’incapacità di svolgere tale compito, di cui siamo oggi testimoni, restringe la creatività delle organizzazioni psicoanalitiche ed incoraggia atteggiamenti oblativi e conformismo. Il futuro della psicoanalisi come autentica impresa scientifica, rivolta a raggiungere conoscenze originali e sempre più profonde sulla natura della mente umana, dipenderà dalla disponibilità delle istituzioni psicoanalitiche a confrontarsi in modo genuino ed autentico con la propria vita sociale inconscia.
I bambini con un disturbo della condotta quando osservano la sofferenza altrui hanno reazioni cerebrali atipiche, parti del loro cervello non reagiscono.
I bambini con un disturbo della condotta quando osservano la sofferenza altrui hanno reazioni cerebrali atipiche, cioè parti fondamentali del loro cervello non reagiscono come accade alla maggior parte delle persone.
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Questo modello di attività cerebrale ridotta può rapprsentare un fattore di rischio neurobiologico per la psicopatia dell’adulto, è quanto sostenuto in una ricerca pubblicata sulla rivista Current Biology.
Questo non vuol dire che tutti i bambini con problemi di condotta siano uguali, o che tutti i bambini che mostrano questo modello cerebrale diventeranno psicopatici. I ricercatori infatti sottolineano che molti bambini con problemi di condotta abbandonano successivamente il comportamento antisociale.
E però importante considerare questi risultati come un indicatore precoce di vulnerabilità, piuttosto che destino biologico. Sappiamo che i bambini possono essere molto sensibili agli interventi, e la sfida è quella di rendere tali interventi ancora più efficaci.
I problemi della condotta rappresentano un grave problema sociale e comprendono l’aggressione fisica, la crudeltà verso gli altri, e la mancanza di empatia o di sensibilità. Nel Regno Unito, dove è stato condotto lo studio, circa il 5% dei bambini beneficiano di una diagnosi di problemi di condotta. Ma molto poco si sa sulla base biologica del disturbo.
I ricercatori hanno sottoposto a risonanza magnetica funzionale (fMRI) il cervello dei bambini con per vedere come quelli con problemi di condotta differiscono nella risposta alla visualizzazione di immagini di persone sofferenti.
I risultati rivelano che i bambini con problemi di condotta mostrano una diminuzione della risposta al dolore altrui, specificamente nelle regioni del cervello che giocano un ruolo nell’empatia.
“I nostri risultati indicano molto chiaramente che non tutti i bambini con problemi di condotta condividono le medesime vulnerabilità; alcuni possono avere una vulnerabilità neurobiologica alla psicopatia, mentre altri no”, dice Essi Viding. “per questo sarebbe importante personalizzare gli interventi esistenti per soddisfare il profilo specifico che caratterizza un bambino con problemi di condotta.”
Facebook e l’ Invidia del Post – Psicologia & Emozioni
Facebook: terreno fertile sia per esibire con astuzia solo i capitoli migliori della propria vita sia per celare l’invidia dietro a parole poco sincere.
Seduti alla solita scrivania in una grigia giornata uguale a molte altre cercate conforto in un caffè appena munto dalla macchinetta dell’ufficio e con l’occhio sulla sempre aperta pagina di facebook, vi imbattete in un post che ritrae un conoscente sdraiato all’ombra di una palma mentre sorseggia un cocktail dalle spregiudicate dimensioni e contempla con sguardo annebbiato l’oceano che non ha certo dimenticato di immortalare.
Due sono le vostre possibili e immediate reazioni: cliccare energicamente il tasto mi piace e prendere a testate la tastiera o commentare con parole sincere del tipo “spero di avere notizie dalla Farnesina del tuo ritrovamento a largo del pacifico” o “ mi auguro che una noce di cocco ti colpisca in mezzo agli occhi”. In verità questo non lo fate mai, preferendo nascondere i vostri cattivi pensieri dietro a parole benevole.
In ogni caso, ciò che probabilmente vi sta divorando, è il mostro dell’Invidia, niente di meno che uno dei sette peccati capitali, un vizio che nell’Antico Testamento viene qualificato come “la carie delle ossa” (Pr 14; 30).
Infatti, mentre della lussuria ci si può addirittura far vanto, l’invidia è un’emozione che fatichiamo ad accettare in noi stessi, forse proprio in virtù dei pensieri malevoli che l’accompagnano.
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Ma come nasce questa emozione così tipicamente umana eppur così largamente condannata?
Prendiamo in prestito le lezioni del prof.Castelfranchi, direttore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, per tentare di rispondere a questa domanda.
L’invidia prevede un soggetto invidioso, X (il grigio impiegato), un soggetto invidiato, Y (il collega in riva al mare) e un oggetto dell’invidia, Z (il mare, il sole, il silenzio, il cielo limpido, il cocktail).
Dunque si può dire che X invidi Y per via di Z e che ovviamente, in termini di scopi e credenze, X desideri Z che crede di non possedere come invece fa Y.
Un aspetto importante nel comprendere la connotazione negativa di questa emozione umana è che il bene in questione, in questo caso Z, non è un bene scarso. In altre parole il fortunato Y non ha sottratto nulla al povero X, ovvero la sua presenza sulle coste del pacifico non comporta nessuna riduzione delle possibilità che anche X ci possa andare. Ma l’invidia c’è proprio perchè Y può avere Z e X no. Perché poi si possa parlare di vera e propria invidia sono necessarie anche le credenze “X non può avere Z” e “Y può avere Z”. Ecco allora che X, portatore di una mente umana, naturalmente avvezza a far valutazioni sulla base di comparazioni, avverte il peso della sua inferiorità per non poter essere anche lui in riva al mare. L’invidia è dunque l’emozione dell’inferiorità.
E’ proprio la consapevolezza di non poter avere qualcosa, di essere per questo inferiori all’altro, a rendere l’invidia così brutta. Infatti se X potesse ottenere (o fosse convinto di poter ottenere) Z, anche a fatica, il sentimento si tramuterebbe in emulazione, sempre di natura competitiva, ma mai veramente lesiva.
Invece, se si prova la vera invidia, si può addirittura desiderare che Y soffra ma tale scopo non potendosi rendere evidente, a meno che non si ceda alla rabbia, si manifesta nel gioire delle disgrazie di Y.
Fatte tutte queste considerazioni diventa chiaro come Facebook sia terreno fertile sia per esibire con astuzia solo i capitoli migliori della propria vita (avete mai postato la vostra faccia pallida e annoiata in ufficio?!) che per celare l’invidia dietro a parole poco sincere.
Non stupisce dunque che, secondo una ricerca condotta dal Dipartimento di Sistemi Informativi della Technische Universität di Darmstadt in collaborazione con l’Istituto dei Sistemi Informativi della Humboldt-Universität di Berlino, siano soprattutto coloro che fruiscono del social network come fonte principale di informazioni a rischiare invidia e frustrazione.
Quindi attenti a cosa postate e non pensate che commenti amichevoli vi salvino dalle gufate altrui perchè l’invidia ama celarsi e non c’è niente di più comodo che farlo dietro ad un “mi piace”.
E adesso non scordatevi di cliccare “mi piace” a questo articolo! Sarete mica invidiosi? :)
Curare l’ Autolesionismo Attraverso lo Sviluppo di Emozioni Positive
di Melania Marini
Secondo studi recenti (Morris, C., Simpson, J., Sampson, M., Beesley, F., 2013), le persone che mettono in atto condotte autolesioniste mostrano una marcata difficoltà nella regolazione e nella sperimentazione delle emozioni positive e negative. I pazienti che mostrano questa difficoltà hanno una marcata disregolazione emotiva che si manifesta con repentini e marcati cambiamenti dell’umore.
Queste persone possono oscillare rapidamente, ad esempio, tra la serenità e la forte tristezza, tra la rabbia intensa e il senso di colpa. A volte emozioni contrastanti possono essere presenti contemporaneamente, tanto da creare un forte caos nel paziente ed anche nelle persone a lui vicine. Tali tempeste emotive si scatenano soprattutto in risposta ad eventi relazionali spiacevoli, come ad esempio, un rifiuto o una critica altrui: la reazione emotiva è immediata, marcata e duratura e per questo tipo di pazienti diventa molto difficile gestire le proprie emozioni.
Tradizionalmente, i diversi approcci terapeutici, lavorano e hanno lavorato sulla disregolazione delle emozioni negative portate in terapia da questi pazienti, meno attenzione è stata data invece alle emozioni positive; un cambiamento terapeutico importante è avvenuto con l’approccio di Marsha Linehan e la sua Terapia Dialettico-Comportamentale (Linehan, M. M., 1995) dove, per i pazienti con difficoltà nella regolazione delle emozioni e con condotte autolesive, vengono prese in considerazione le emozioni positive e il loro sviluppo in terapia.
In tal senso, rispetto alle terapie fino ad oggi condotte, per poter rispondere al meglio alle esigenze di tali pazienti, l’innovazione attuale, derivante anche dalla teoria della psicologia positiva, sta nel fatto che il lavoro terapeutico può anche essere volto ad ampliare e costruire un linguaggio emotivo positivo comune tra paziente e terapeuta che sia in grado di ridurre gli effetti delle emozioni negative e aiuti a recuperare e sviluppare strategie utili per tollerare le emozioni negative che sono alla base dei comportamenti autolesionistici e degli stati di malessere generale del paziente.
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Se coltivate nel tempo, le emozioni positive (Fredrickson, 2001) possono costruire una protezione che consente alle persone di affrontare meglio gli eventi avversi futuri. Guidate da emozioni positive le persone formulano un repertorio più ampio di soluzioni ai problemi. L’esperienza di emozioni positive è legata a probabilità più alte di godere di buona salute e di adattarsi a situazioni differenti, anche problematiche, sia in senso psicologico che fisico.
I sentimenti di dolore, di vuoto, di ansia, il senso di confusione, definiti dai pazienti come esperienze affettive soggettive spiacevoli, che sono alla base delle condotte autolesioniste, possono essere alleviati e anche dissipati condividendoli con gli altri, intimi, familiari, amici o professionisti della salute mentale.
Quando stati soggettivi mal definiti, sia positivi che negativi, emergono, sono riconosciuti dal clinico e denominati in modo congiunto con il paziente, si trasformano in emozioni e diventano padroneggiabili. In psicoterapia, il lavoro sullo sviluppo delle emozioni positive è mirato a migliorare le relazioni con gli altri e a formulare strategie di pianificazione di attività di vita desiderabili che tamponino l’influenza delle emozioni negative e delle condotte disregolate da esse innescate; per far sì che questa strategia di lavoro funzioni e dia modo di sfruttare pienamente i suoi benefici, è importante avere instaurato col paziente una buona alleanza terapeutica e aver accolto tutti gli eventi e stati d’animo riportati dal paziente stesso.
L’accesso alle emozioni positive aiuta ad attuare una “ristrutturazione cognitiva” dell’evento che ha portato il paziente a compiere atti autolesivi. Il paziente così ha la possibilità di vivere l’evento come meno pericoloso e fonte di minor stress e attivazione fisiologica.
Nello studio citato, lo sviluppo delle emozioni positive nella psicoterapia di pazienti autolesionisti li ha aiutati ad affrontare le avversità, e ha contribuito alla promozione del loro benessere fisico e psichico.
Integrare nella psicoterapia delle condotte autolesive la promozione delle emozioni positive appare quindi una strategia potenzialmente fruttuosa (Morris, C., Simpson, J., Sampson, M., Beesley, F., 2013).
Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale – Roma
Credenze Irrazionali e Sofferenza Emotiva: un paragone transculturale tra 3 modelli teorici – Ricerca
GENTILI LETTORI,
Su richiesta del Prof Raymond DiGiuseppe della St. John’s University vi proponiamo questa interessante ricerca sulla sofferenza emotiva. Come al solito, i dati sono raccolti in forma anonima, si partecipa su base volontaria e il tempo richiesto è di circa 15 minuti.
Vi ringraziamo per la vostra partecipazione che aiuterà a far progredire la ricerca in questo campo.
Mi chiamo Fabian Agiurgioaei Boie sono student di dottorato alla St. John’s University di New York City. La mia collega Alina Agiurgioaei Boie e io vorremmo invitarti a partecipare a una ricerca transculturale. La ricerca esplora il ruolo che hanno le convinzioni irrazionali nello spiegare e causare la sofferenza emotiva.
Lo studio raccoglie e paragona dati di vari paesi del mondo. La partecipazione è volontaria. Se accetti di partecipare a questo studio, ti sarà chiesto di compilare una piccola batteria di questionari.
La batteria include un questionario demografico, varie misure del benessere emotivo, degli atteggiamenti e delle convinzioni personali e dell’uso di alcol. La compilazione richiede circa 15 minuti. Se ti facesse piacere partecipare, ti chiediamo per favore di compilare i questionari. Sebbene non ci siano benefici diretti per i partecipanti, i possibili risultati potrebbero incrementare la conoscenza delle differenze tra le culture, conoscenza che sarà di aiuto per i professionisti e gli studenti del settore.
Lei deve partecipare solo se lei lo vuole e può non rispondere a qualsiasi domanda, se lo ritiene opportuno.
Se decidesse di partecipare, il suo nome sarà inserito nel sorteggio che assegna un certificato da 20$ (USD dollars). Se vuole essere inserito/a nel sorteggio, alla fine della compilazione dovrà fornire un indirizzo e-mail che utilizzeremo per contattare i vincitori.
Non sarà effettuato nessun ulteriore contatto e gli indirizzi e-mail saranno cancellati dopo il sorteggio. Sarà mantenuta la massima riservatezza dei nostri archivi codificando tutti i questionari e separandoli dalle dichiarazioni di consenso per fare si che il vostro nome e identità non si possano conoscere e non si possano collegare a qualsiasi informazione abbiate fornito.
Le sue risposte saranno custodite con l’eccezione di eventuali richieste da parte della legge di ispezione per sospetti di danni a lei stesso/a, bambini o altri. Inoltre, lei ha il diritto di non rispondere a qualsiasi domanda. La non partecipazione o il ritiro non avrà alcun effetto sul suo corso di studi accademici.
Le saranno fatte domande su vari pensieri, emozioni e comportamenti. Sebbene sia improbabile, se qualche problema o preoccupazione dovesse insorgere circa la sua partecipazione a questo studio, lei può scrivermi all’indirizzo e-mail [email protected].
Questa ricerca è condotta sotto la supervisione del Dr. Ray DiGiuseppe, Professore Ordinario di Psicologia alla St. John’s University.
Ci permetta, per favore, di ringraziarla in anticipo per la sua collaborazione e aiuto a far avanzare la ricerca in questo campo.
Nel caso lei abbia bisogno di ulteriori chiarimenti sul progetto di ricerca, lei può chiamare il Dr. DiGiuseppe al 718-990-1955.
I risultati di questa indagine saranno disponibili a richiesta all’indirizzo [email protected].
Per domande riguardanti i suoi diritti come partecipante a una ricerca, lei può contattare lo Human Subjects Review Board dell’università St. John’s University, 718-990-1440. Lei ha ricevuto una copia di questa dichiarazione di consenso da conservare. Cordialmente, Fabian Agiurgioaei Boie
Uno studio condotto su adulti con PTSD (disturbo da stress post-traumatico), ha dimostrato che le persone con una storia di abuso infantile presentano patterns di attivazione genica diversi rispetto agli adulti con PTSD, ma senza una storia di abuso infantile.
Un team di ricercatori di Atlanta e di Monaco di Baviera ha esaminato i campioni di sangue di 169 partecipanti al Grady Trauma Project, uno studio effettuato su più di 5000 soggetti con elevati livelli di esposizione alla violenza, abusi fisici e sessuali e con alto rischio di PTSD.
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La ricerca ha fornito importanti risultati a sostegno dell’ipotesi che diversi sottotipi di un disturbo psichiatrico, che appaiono simili a livello sintomatologico, possono avere importanti differenze a livello biologico.
Il team di ricercatori guidato da Elisabeth Binder, professore associato di psichiatria e scienze comportamentali alla Emory e leader del gruppo presso il Max-Planck Institute of Psychiatry di Monaco di Baviera, ha esaminato i cambiamenti nei pattern di attivazione/inattività dei geni nelle cellule del sangue dei pazienti. I ricercatori hanno inoltre esaminato i modelli di metilazione, una modificazione del DNA in cima alle quattro lettere del codice genetico che è causa dell’inattività di un gene.
I partecipanti allo studio sono stati divisi in tre gruppi: soggetti che hanno subito un trauma senza sviluppare PTSD, soggetti con PTSD che hanno subito abusi nell’infanzia, e soggetti con PTSD che non hanno subito abusi nell’infanzia. I due gruppi con PTSD condividevano sintomi post-traumatici, come pensieri intrusivi (incubi e flashback), l’evitamento dei ricordi traumatici, ipervigilanza e iperarousal.
I ricercatori sono stati sorpresi di scoprire la bassa sovrappiosizione nei pattern di attivazione genica dei due gruppi PTSD.
Il gruppo PTSD con abuso infantile ha presentato più cambiamenti nei geni connessi con lo sviluppo del sistema nervoso e la regolazione del sistema immunitario, mentre il gruppo PTSD senza abusi infantili ha mostrato più cambiamenti nei geni collegati con l’apoptosi (morte cellulare) e la regolazione della crescita. Inoltre, i cambiamenti nella metilazione sono stati più frequenti nel gruppo PTSD con abusi sui minori. Gli autori ritengono che questi percorsi biologici possono portare a diversi meccanismi di formazione dei sintomi PTSD all’interno del cervello.
Gli scienziati Max Planck / Emory hanno esaminato l’attività dei geni nelle cellule del sangue, piuttosto che il tessuto cerebrale. Risultati simili sono stati ottenuti da ricercatori che studiano l’influenza dell’abuso sessuale infantile sul cervello di persone che si sono suicidate.
“Gli eventi traumatici che accadono durante l’infanzia sono incorporati nelle cellule per lungo tempo”, dice Binder. “Non solo la malattia in sé, ma l’esperienza di vita di un individuo è importante nella biologia del PTSD, e questo dovrebbe riflettersi nel modo in cui trattiamo questi disturbi; diversi trattamenti biologici dovrebbero essere implicati per la terapia ed il recupero di PTSD in base alla presenza o assenza di abusi nell’infanzia”.
La sessione di colloquio è composta anche di silenzi. A volte questi hanno una funzione terapeutica, quando l’insight e il cambiamento di prospettiva si stanno realizzando nella mente del paziente, a volte sono invece sintomo di ostilità e rappresentano un ostacolo che lo psicologo deve superare per costruire un modello comunicativo. In entrambi i casi si può intervenire rimanendo in silenzio e aspettando, e spesso ciò porta a più risultati di quanto si potrebbe pensare, oppure agendo come degli specchi mostrando al soggetto come viene visto dagli occhi del terapeuta, per esempio dicendo: “sembra proprio che lei non abbia la minima voglia di essere qui”.
L’efficacia di queste semplici strategie varia in relazione al tipo di silenzio. Fine e Glasser [1996]individuano cinque categorie:
1) Silenzio di Riflessione: in cui il paziente sta cercando di comprendere i significati e le conseguenze delle nuove prospettive scoperte nel corso del colloquio e delle esperienze di insight vissute. L’utilità terapeutica di questo silenzio è tale che non deve essere disturbata dallo psicologo.
2) Silenzio di organizzazione di pensieri ed emozioni: in cui il paziente sta cercando di fare il punto della situazione dentro di sé, nominando e ordinando emozioni e sentimenti. Il terapeuta può intervenire per cercare di comprendere insieme ciò che sta provando.
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3) Silenzio dell’emozione: quello che si verifica in concomitanza con lo sfogo catartico, lo psicologo deve consentire l’esperienza impedendo un abbandono totale ad essa.
4) Silenzio di confusione: quando il paziente, in seguito alla scoperta di nuovi punti di vista, perde le sue certezze; in tal caso il terapeuta deve intervenire cercando di fare chiarezza assieme a lui.
5) Silenzio di ostilità: quando il paziente genere un atmosfera di tensione manifestando la sua scarsa volontà collaborativa attraverso il silenzio. In questi casi il terapeuta deve cercare di smuoverlo quel tanto che basta per arrivare alla formulazione di un precontratto che garantisca un minimo di collaborazione. Questo si può ottenere agendo come specchio con affermazioni del tipo: “mi sto chiedendo a cosa pensa e quale ostacolo le impedisce di parlare”.
“Egli non si lascia intimidire dal silenzio, dall’indifferenza, o dal rifiuto. Sa che, dietro la maschere di ghiaccio che usano gli uomini, c’è un cuore di fuoco.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.74]
Detto ciò risulta chiaro la rilevanza dell’esperienza del terapeuta nel nominare con chiarezza il tipo di silenzio a cui si trova di fronte e nel saperlo trattare nel modo corretto anche perché essi hanno significati molto diversi. Vi sono silenzi fondamentali per il buon esito del colloquio che non devono essere interrotti e altri che, se non sono interrotti, impediranno qualsiasi forma di colloquio stesso.
Disturbo d’Ansia Generalizzato nell’Adolescente: un Aiuto ai Familiari
La ricerca ci porta nuovi strumenti per curare il Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD), un disturbo d’ansia grave che può avere un esordio precoce e graduale e che, se non trattato, può diventare cronico.
La caratteristica principale del DAG è la preoccupazione eccessiva e persistente che negli adolescentiriguarda soprattutto le difficoltà interpersonali: gli adolescenti infatti temono nelle relazioni con gli altri soprattutto di poter essere rifiutati o di non poter scegliere liberamente.
Su questi timori sviluppano il rimuginio che caratterizza il Disturbo d’Ansia Generalizzato: un adolescente che ha l’acne può temere di essere rifiutato da una ragazza che gli piace. Inizierà a pensare a una serie di soluzioni per evitare il rifiuto ad esempio: “Potrei coprire la fronte con i capelli, però la frangia mi ingrossa il viso…allora potrei utilizzare una pomata ma l’effetto non sarà immediato… sono proprio stupido a pensare a queste strategie… però se non faccio qualcosa verrò rifiutato…”
Bögels e Brechman-Toussaint (2006) hanno messo in evidenza che la sintomatologia del DAG può svilupparsi sin dall’età adolescenziale e spesso è associata a comportamenti interpersonali problematici, soprattutto familiari.
Gli stessi autori avevano individuato la tendenza dell’adolescente con DAG a valutare l’attaccamento ai propri genitori come insicuro e che tale percezione contribuiva ad alimentare i sintomi del DAG. Proprio per questo motivo è necessario conoscere meglio in che modo nella famiglia si creino problemi che rinforzano l’ansia in modo da aiutare i familiari a ridurre il disturbo del figlio.
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Muris e Merckelbach (1998) attraverso uno studio trasversale avevano già precedentemente verificato la presenza di una correlazione tra percepire il genitore come ipercontrollante e/o rifiutante e intensità dell’ansia. Ma, oltre che di correlazione, è possibile parlare dell’esistenza di un nesso di causa effetto tra stile genitoriale e ansia?
Un recente studio longitudinale (Hale et al., 2013) fornisce un tentativo di risposta. Studiando 923 adolescenti per un lasso temporale di 5 anni è emerso che la presenza dei sintomi d’ansia porta l’adolescente a percepire i genitori come rifiutanti e ipercontrollanti, andando così ad innescare dei cicli interpersonali disfunzionali in famiglia: così un adolescente con DAG potrebbe vedere i genitori come estremamente preoccupati e controllanti se ad esempio passa ore in bagno cercando di trovare una soluzione all’acne. Allora l’adolescente a causa di questa percezione potrebbe sentirsi ancora più in ansia ed accusare i genitori di essere troppo invadenti. Le critiche rivolte ai genitori potrebbero così andare ad incidere direttamente sul comportamento genitoriale creando squilibri familiari.
I risultati di questo studio sono di notevole rilevanza teorica e clinica poiché grazie a queste riflessioni abbiamo la possibilità di supportare i familiari nella cura del disturbo dei figli: i genitori vanno aiutati a comprendere come le critiche che il figlio con DAG rivolge loro (ossia di essere troppo controllanti o rifiutanti) siano frutto dell’attivazione ansiosa e ad assumere quindi un atteggiamento non difensivo di fronte ad esse. Sottolineiamo che un limite dello studio è che è difficile escludere se le critiche dei genitori siano legati ad ansia e ipercontrollo o siano legate al naturale processo di svincolo e individuazione.
Nel complesso, a partire da questo studio, sembra che esplorare cautamente da parte del genitore i motivi che portano il figlio a sentirsi controllato e rifiutato può aiutare a creare un clima familiare più aperto e collaborativo, condizione che favorisce la riduzione dell’ansia.
I risultati di questo studio mostrano nuovi orizzonti nella cura dell’adolescente con DAG poiché hanno messo in evidenza che i sintomi DAG nell’adolescente possono incidere sullo stile genitoriale: sentirsi descritti come ipercontrollanti e rifiutanti può creare difficoltà nei genitori. Aiutare i genitori a non personalizzare queste critiche può ridurre il clima di allarme o tensione familiare.
Questa idea non sottrae niente all’altro possibile percorso, ovvero che uno stile genitoriale ansioso o allarmato possa favorire nell’adolescente l’idea di essere controllato o fragile.
Appassionati di CSI e Criminal Minds, se dal 10 al 12 Maggio 2013 avete preferito crogiolarvi al mare approfittando di qualche raggio di sole primaverile anziché barricarvi all’Hotel Milton di Milano, sappiate che avete mancato l’evento dell’anno.
Infatti nel weekend si è tenuto nel capoluogo lombardo un imperdibile congresso di scienze criminologiche dove esperti del settore (psicologi, psichiatri, avvocati, criminologi, forze dell’ordine…) si sono confrontati su tematiche quali valutazione, origini e trattamento del comportamento criminale, e dove sono stati presentati in anteprima interessanti studi scientifici sul tema. Ma siete fortunati, per l’occasione State of Mind realizzerà una serie di articoli che illustreranno alcuni tra gli interventi più stimolanti emersi durante il congresso: restate sintonizzati e non ve ne pentirete.
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Ospite d’eccezione al CRINVE 2013 un nome una garanzia: no, non stiamo parlando né di Peter Grissom né di Aaron Hotchner (anche se dati i temi trattati ci aspettavamo di vederli salire sul palco da un momento all’altro), bensì del Prof. Robert D. Hare, una leggenda nel campo della psicologia criminologica, nonché padre del concetto di Psicopatia come è riconosciuto oggi a livello internazionale. Considerando che “la Psicopatia è probabilmente il più importante concetto forense introdotto nei primi anni del XXI secolo”, il congresso non poteva non aprirsi con una Lectio Magistralis sul Costrutto della Psicopatia, costrutto a cui l’ottuagenario professore ha dedicato una vita di ricerca scientifica. Eccovi quindi una breve lezione sulla Psicopatia, sale in cattedra il Prof. Robert Hare.
Per psicopatico si intende una persona egocentrica, arrogante, superficiale, impulsiva, che manipola in maniera spietata gli altri senza provare vergogna, colpa o rimorso; non è guidata da una morale o da dettami di coscienza; manca di empatia ed ha solamente una consapevolezza astratta, intellettuale dei sentimenti altrui.
Lo psicopatico non è leale verso nessuno, ma segue solo il proprio mero interesse. Generalmente conduce uno stile di vita antisociale o asociale (non necessariamente criminale) in cui le altre persone vengono usate o vittimizzate.
Se questa descrizione vi ricorda qualcuno di vostra conoscenza guardatevi le spalle.
Una domanda da un milione di dollari a cui ancora non si è riusciti a dare risposta. L’eziologia della Psicopatia non è ancora chiara, probabilmente l’espressione di tale disturbo è moderata dall’ambiente in un’interazione tra fattori biologici, genetici e sociali.
Qual è la natura della psicopatia?
Alcuni ritengono che la Psicopatia sia un disturbo di personalità, altri – in un’ottica dimensionale -parlano di variazioni estreme di normali tratti di personalità, altri ancora ritengono sia un’anomalia genetica neurobiologica e poi ci sono alcuni che, da un punto di vista evoluzionistico, considerano la Psicopatia una strategia riproduttiva adattiva. Ovviamente sposare una teoria piuttosto che un’altra ha delle forti implicazioni per quanto riguarda il trattamento dei soggetti psicopatici (se, per esempio, la consideriamo una strategia adattiva, allora non è un disturbo e quindi non è da curare), perciò dare una risposta alla domanda sulla natura della psicopatia non è così banale come sembra.
Come valutare il livello di psicopatia?
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Dagli studi condotti il Prof. Hare ha sviluppato la Psychopathy Checklist (PCL) prima e la Psychopathy Checklist Revised (PCL-R) dopo, strumenti universalmente utilizzati per valutare i livelli di Psicopatia nelle persone e la probabilità della messa in atto di comportamenti violenti.
La PCL-R valuta il livello di Psicopatia sulla base di due fattori e quattro componenti. I due fattori principali (Fattore 1 e Fattore 2) individuano due aree della personalità psicopatica: l’area Interpersonale/Affettivo e l’area della Devianza sociale; all’interno del Fattore 1 si distinguono la componente Interpersonale e quella Affettiva, mentre all’interno del Fattore 2 la componente Stile di vita e quella Antisociale.
È innegabile il contributo che il Prof. Hare con i suoi studi ha dato alle scienze criminologiche. Grazie a lui infatti il costrutto di Psicopatia è tornato in auge, forte di una sua validità empiricamente fondata. Non stupisce pertanto che il professore sia stato nominato Presidente del congresso.
Come ha sottolineato il professore nella sua lettera di ringraziamento, il CRINVE 2013 ha avuto il merito di illustrare i recenti progressi scientifici in cui l’integrazione dei contributi della genetica comportamentale, della psicopatologia dello sviluppo, della psicologia, della vittimologia, delle neuroscienze, della pratica clinica e del sistema giuridico, ci aiuta a comprendere e trattare soggetti antisociali e psicopatici in contesti criminali e non criminali.
L’obiettivo degli organizzatori non è stato, sottolinea Robert Hare, solo quello di fornire un forum per discutere questi progressi, ma anche di promuovere la collaborazione interdisciplinare e internazionale sulla comprensione dei comportamenti antisociali e psicopatici per ridurne le conseguenze deleterie per la società. Un’occasione che, vista la qualità degli interventi emersi durante le tre giornate, non è sicuramente andata perduta.
Un nuovo studio è il primo a identificare un fattore di rischio genetico per il dolore cronico dopo eventi traumatici, quali incidenti e violenza sessuale.
Un nuovo studio condotto alla University of North Carolina School of Medicine è il primo a identificare un fattore di rischio genetico per il dolore cronico dopo eventi traumatici come gli incidenti stradali e la violenza sessuale.
Inoltre, lo studio fornisce un’ulteriore prova che il dolore cronico dopo eventi stressanti ha una specifica base biologica.
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I risultati dello studio indicano che i meccanismi che influenzano lo sviluppo del dolore cronico possono essere correlati alla risposta allo stress, piuttosto che a qualsiasi lesione specifica causata dall’evento traumatico, in altre parole, sembra che in alcuni individui qualcosa vada storto, a livello del corpo, nel sistema di difesa ‘fight or flight‘ o in quello di recupero dalla risposta e ne risultati un dolore persistente.
Lo studio ha valutato il ruolo del surrene (HPA) asse ipotalamo-ipofisi, un sistema fisiologico di importanza centrale per la risposta del corpo ad eventi stressanti. Lo studio ha valutato se l’asse HPA influenza la gravità del dolore muscolo-scheletrico sei settimane dopo un incidente stradale e una violenza sessuale. I risultati hanno rivelato che la variazione nel gene codificante per la proteina FKBP5, che svolge un ruolo importante nella regolazione della risposta dell’asse HPA allo stress, è stato associato con un rischio più elevato del 20% di avere un moderato/grave dolore al collo sei settimane dopo l’incidente, così come maggiore dolore del corpo. La stessa variante ha anche previsto un aumento del dolore sei settimane dopo la violenza sessuale.
“In questo momento, se una persona arriva al pronto soccorso dopo un incidente d’auto, non abbiamo alcun intervento per prevenire il dolore cronico in via di sviluppo”, ha detto McLean. “Allo stesso modo, se una donna arriva al pronto soccorso dopo una violenza sessuale, abbiamo farmaci per prevenire la gravidanza o le malattie a trasmissione sessuale, ma mancano i trattamenti per prevenire il dolore cronico. Questo perché non abbiamo idea di quali meccanismi biologici siano alla base del dolore cronico. Questo studio è un primo passo importante nello sviluppo di questa comprensione”.
Lo studio è stato condotto da un team multidisciplinare di ricercatori provenienti da tredici istituzioni. Co-autori dello studio sono stati Andrey Bortsov, professore assistente di ricerca presso il Dipartimento di Anestesiologia UNC, e Jennifer Smith, uno studente di medicina UNC.
Come Ti Senti? La migliore risposta sono le Emozioni in 3D
Emozioni: Siamo chiamati a rispondere alla domanda “Come ti senti?”. Questo implica una inevitabile e non automatica riflessione sul proprio stato mentale.
In molte circostanze della vita siamo chiamati a rispondere alla domanda “Come ti senti?” e questo implica una inevitabile e non sempre automatica riflessione sul proprio stato mentale.
La capacità soggettiva di descrivere “come stiamo” resta ad oggi l’unica via di accesso che abbiamo per parlare di emozioni, in terapia come nella vita!
Nonostante i progressi delle neuroscienze e le migliorate capacità di “leggere” la mente, la descrizione che ognuno di noi fa delle proprie o delle altrui emozioni, resta infatti il principale indizio del nostro stato mentale e dunque il principale indicatore del nostro benessere psicologico. Come misurarlo allora?
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Un gruppo di ricercatori dell’Università della Columbia (Saptute, 2013), si è proposto di analizzare i principali processi coinvolti nella capacità di descrivere le emozioni e di riflettere di esse, attraverso l’utilizzo della fMRI. Gli autori si sono inspirati a due filoni teorici di riferimento. Il primo include le teorie psicologiche che distinguono gli stati affettivi legati al nostro “sentire più immediato” dai processi cognitivi superiori che vengono invece usati per attribuire un’ “etichetta” verbale a questi stati (Barrett, 2006). In questo modello, le emozioni seguirebbero 3 successivi processi di analisi: dirigere l’attenzione verso lo stimolo che ha “acceso” l’ emozione, divenire consapevoli dell’intensità della propria risposta affettiva e dare un nome all’esperienza emotiva vissuta. Il secondo filone di ricerche che ha inspirato gli autori è quello delle neuroscienze cognitive secondo le quali esiste un preciso circuito neurale responsabile di ognuno di questi processi (Ochsner, 2008).
Il complesso disegno sperimentale utilizzato, prevede la somministrazione ai 20 partecipanti di una serie di immagini a diversa intensità emotiva (elevato, medio, basso arousal) e rispetto alle quali era chiesto loro di: 1) porre attenzione per alcuni secondi alla propria emozione, o meglio alla propria risposta emotiva interna di fronte all’immagine, 2) descriverla con un’etichetta generica (neutra, negativa, positiva) e 3) giudicare l’intensità della propria risposta.
I risultati? L’abilità di identificare e descrivere le proprie emozioni e i propri stati affettivi coinvolgerebbe tre sistemi tra loro separati, e dunque separabili in caso di danno cerebrale o altra psicopatologia, ma solo il lavoro integrato dei tre permetterebbe di ottenere il risultato migliore o, almeno, il più ricco di dettagli.
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Il primo sistema, che ci consente di osservare “come stiamo” e sembra legato alla specifica attività della corteccia prefrontale dorso mediale, responsabile dunque della nostra primaria capacità autoriflessiva. Il secondo sistema permette invece di denominare “cosa sentiamo” e pone le basi della nostra capacità di “meta-ragionare” sulle emozioni; i circuiti neurali preposti a questo sono quelli della corteccia prefrontale ventrolaterale. Infine, il terzo ed ultimo sistema coinvolge l’amigdala e l’insula anteriore, responsabili insieme ad altre strutture sottocorticali della risposta emotiva più istintiva (“quanto sentiamo”) e dell’arousal fisiologico conseguente. Fondamentali motori del nostro agire!
Insomma, rispetto alle abilità coinvolte nelle esperienze emotive, ora sappiamo che l’integrazione di questi tre sistemi offre una visione completa, integrata e più “solida” dell’esperienza vissuta.
Insomma, quando stiamo male diventiamo meno capaci di riconoscere le nostre emozioni e di descriverle, togliamo loro spessore e profondità, a volte colore e intensità e in alcuni casi le nostre descrizioni possono risultare impressionistiche e prive di dettagli o talora completamente appiattite…
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso
Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi” lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate.
Non dimenticherò facilmente il giorno in cui venne di corsa al mio studio, preceduto da una sconclusionata telefonata, per chiedermi una terapia. Era la prima volta che ammetteva un disagio personale, non nascondendosi dietro quello dei pazienti. Era febbraio, diluviava e il suo solito completo di velluto zuppo impregnava lo studio di odore di umido. La sua prima moglie lo aveva lasciato, stanca dei suoi innumerevoli tradimenti e, soprattutto, improvvisamente consapevole, dismessi gli occhiali dell’innamoramento, della sua pochezza. In quel periodo ebbi l’impressione che sentisse effettivamente qualcosa e che quel dolore lo compattasse e gli donasse qualche istante di autenticità. Gli ingredienti che bollivano nel melmoso pentolone del dolore erano molti.
La tristezza per la perdita dell’oggetto d’amore era l’ingrediente più superficiale, ovvio e facile da esporre.
Il più consistente era la colpa per essere stato la causa dell’abbandono che, a mio avviso, richiamava una colpa storica più profonda relativa alla morte della madre forse causata dalla sua gravidanza vietata dai medici. Lui accettò di buon grado questa mia interpretazione, ma penso fosse solo per compiacermi e che invece non l’abbia mai sentita reale. Tutto ciò che riguardava la madre era assolutamente assente dalla sua vita emotiva e costituiva solo un oggetto di speculazione teorica fredda, che lo aveva spinto anche ad interessarsi professionalmente di attaccamento, forse un modo per dire dell’importanza di quella perdita che non sentiva affatto.
Ma l’ingrediente più abbondante che univa il tutto era la paura: Carlo era stato, per tutta l’esistenza, soprattutto spaventato. E’ la paura la chiave di lettura che meglio dava ragione delle sue scelte e costituiva il filo conduttore della sua vita.
La paura era poi accompagnata dalla vergogna per la paura stessa. Insistevo con lui perché desse un contenuto a questa fedele compagna, ma riusciva con difficoltà a precisare cosa temesse. La rappresentazione che sentiva più plausibile era la sconfitta umiliante, da parte di qualcuno più forte di lui, che lo batteva di fronte a tutti e lo cacciava via, prova questa di quanto in lui fosse attivo il sistema agonistico nonostante lo negasse in tutti i modi.
Sconfitto, umiliato e solo: questo era l’inferno da cui Carlo ha tentato per una vita di scappare. Durante l’adolescenza non si era fatto mancare un disturbo ossessivo compulsivo impegnativo che lo costringeva a ritirarsi in disparte per recitare lunghe formule rituali atte a garantirgli di aver fatto tutto secondo le regole e dunque di non avere colpe che gli avrebbero meritato l’ostracismo.
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Certamente Carlo rientrava nel gruppo degli psichiatri che scelgono questo mestiere per esorcizzare la paura della follia e per convincersi di essere sani, senza esserci mai riuscito del tutto. Inoltre, gli garantiva di vivere le vite degli altri non potendo farlo con la propria. Aveva una discreta formazione teorica e, come detto, un’ innata capacità di sintonizzarsi sull’altro. Il suo grande limite è sempre stato l’incapacità di essere consapevole di se stesso, aveva la stessa autoconsapevolezza di una panchina, anche di guardarsi dentro aveva paura.
La sua vita affettiva era stata sparpagliata. Facile all’innamoramento, aveva corteggiato moltissime donne, ma rifuggiva sistematicamente da relazioni profonde. Si raccontava, ma non agli altri, di temere il fallimento sessuale ma io credo temesse la delusione sul volto dell’altro alla scoperta della sua assenza.
Carlo aveva l’impressione che nella sua esistenza ci fossero state due fratture, due discontinuità. La prima, più grave, era avvenutanei primi anni dopo la brillante laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria, proprio al tempo in cui feci la sua conoscenza come geniale allievo. Fino a quel momento Carlo era stato una grande promessa: si presentava estroverso, traboccante di energie, altruista, allegro, sempre vincente senza desiderare di esserlo, ricercato e persino affascinante. Ma soprattutto, fino ad allora, si sentiva effettivamente tale, non solo appariva così, era convinto di esserlo veramente. Fu in quegli anni che iniziò lo scollamento tra l’immagine pubblica e il vissuto interiore, che forse solo oggi con il suicidio si è ricomposto. Abbiamo ragionato per ore con lui su quale possa essere stato il motivo di questa “dissecazione” (la prima delle due dissecazioni che hanno segnato la sua esistenza) tra immagine e interiorità che è stata la cifra della sua restante sopravvivenza dopo di allora. Gli eventi che più saltano agli occhi in quel periodo sono due: la rinuncia ad un innamoramento idealizzato e mai concretizzato e la fine del proprio matrimonio. Carlo sosteneva di aver sofferto moltissimo per questi due accadimenti, al punto di essersi anche ammalato fisicamente, eppure non ho mai creduto fossero decisivi. In fondo si trattava di perdite ed era ben attrezzato per gestirle con la dissociazione. Si aggiunga che la fine effettiva del matrimonio ha inaugurato poi un nuovo matrimonio e l’ormai insperata esperienza della paternità. Forse, per la prima volta, Carlo ha sperimentato la sicurezza nei legami affettivi minacciata solo dall’imprevedibile morte.
Quello che invece io ho ritenuto causa del vissuto di estraneità con se stesso, nonostante Carlo non fosse d’accordo, è un evento apparentemente positivo quale la nascita, in quel periodo, di un legame affettivo profondo e duraturo. Pur modificandosi nella forma, questo legame ha accompagnato Carlo fino all’odierno congedo. Ho sempre pensato che il motivo della prima sua frattura esistenziale fosse proprio stato questo rapporto che, essendo con una collega molto conosciuta e vicina alla famiglia, lo aveva portato a vivere nella menzogna e a sentirsi falso e colpevole in ogni sua manifestazione. Era da quel primo rapporto sessuale trasgressivo e adulterino che aveva iniziato a non sentirsi più quello che gli altri credevano fosse e lui stesso aveva creduto essere fino a quel momento. Si trattava di una storia inammissibile, vergognosa, inconfessabile, contraria a tutto quanto professato da Carlo in termini ideali e perciò estremamente attraente e irrinunciabile.
Iniziò a fare sistematicamente finta anche nei contesti più privati, dalla mattina alla sera. Fu allora che Carlo progressivamente rinunciò alla sua interezza, era talmente immerso nella menzogna che perse di vista la verità, la falsità si appropriò di lui come un processo inarrestabile ed irreversibile. A furia di ingannare gli altri confuse se stesso e perse il sentiero della sua promettente identità. Credo davvero che allora, non oggi, perdemmo una bella persona. Divenne rinunciatario e debole, non si sentiva più legittimato ad affermare ed imporre le sue idee, sentiva di doversi nascondere e tacere, il tradimento gli aveva tolto tutti i diritti. Come poteva affermare qualcosa da un pulpito così vergognosamente screditato? Più volte negli ultimi anni Carlo aveva pensato di fare outing, nella speranza di riconquistare così quel senso di autenticità dolorosamente perduto ma io lo sconsigliavo per due motivi. Intanto la falsità, indipendentemente dai motivi per cui era stata inizialmente adottata era ormai diventata l’abito sotto il quale, forse, non c’era più il giovane Carlo di belle speranze ma piuttosto il nulla. Non sapeva far altro che fingere e non poteva che continuare. Inoltre la rivelazione avrebbe cambiato anche la vita della sua amante, che non ne aveva alcuna intenzione. A proposito, credo che lei solo oggi, chinandosi a baciare sulla bocca Carlo adagiato sul raso azzurro che riveste l’interno della bara, abbia tirato un sospiro di sollievo che la ricompensa in parte del dolore di una vedovanza da vivere in silenzio, a dare e non a ricevere le condoglianze.
Solo al termine della sua esistenza Carlo intuiva quanto questa storia d’amore e di menzogna avesse deviato il corso della sua vita e come la patina di inautenticità che avvolgeva tutto fosse il prezzo pagato per quella trasgressione inconfessabile mai perdonatasi.
La seconda frattura della sua vita c’era stata a cinquanta anni, anche questa a motivo di una dissecazione, ma più fisica. Era stata la carotide interna destra a dissecarsi improvvisamente, a monte della diramazione dell’arteria cerebrale media. Tutto era avvenuto in una manciata di secondi che avrebbero lasciato una traccia indelebile. Con accento da telecronista amava raccontare l’evento: “L’arteria carotide interna destra si collassa e si chiude. Il circolo di Willis tenta un compenso con l’arteria vertebrale posteriore ma non è in buone condizioni e non ce la fa. Tentativo lodevole ma fallito. I neuroni di un’ampia zona dell’emisfero destro annaspano senza ossigeno, inviano gli ultimi segnali e si tacciono per sempre”, precedendo di una decina d’anni l’odierno destino di tutti gli altri. Carlo passa nel volgere di pochi minuti dalla condizione di ottima salute, all’imminente rischio di morte che i medici indicano persino come la soluzione migliore, allo stato di handicappato, storpio, spastico o, come si dice oggi, diversamente abile.
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Fu proprio dopo l’uscita dall’ospedale, quando finita la festa per il pericolo scampato si trattò di fare i conti con la nuova condizione di disabile, che Carlo mi chiese per la seconda volta un vero e proprio intervento terapeutico. Ora poteva permetterselo. La malattia per certi versi lo aveva migliorato. Con il danno subito gli sembrava di aver saldato le colpe che si portava appresso e iniziò a permettersi piaceri, comodità e attenzioni che prima si negava. Inoltre il forzato rallentamento che aveva subito la sua attività permetteva un ritmo più umano, con beneficio anche delle persone che aveva intorno. La smaniosa maniacalità era nell’azione frenata dall’handicap sicuramente fisico, ma a suo dire anche mentale, che ne aveva ridotto l’efficienza di un buon 25%. Dall’autonomia coatta di cui andava fiero prima era stato sbalzato in una assoluta dipendenza, inizialmente per tutte le funzioni più elementari, ma poi comunque era rimasto incapace di vivere da solo. Questo aveva peggiorato alcuni aspetti del suo carattere. Era diventato invidioso e cattivo con chi stava bene e ancor più competitivo e sleale, quasi che a risarcimento del danno subito potesse permettersi tutto. La carogna che sapevo essere in lui non esitava più a mostrarsi, malvagio a pieno diritto.
I mesi trascorsi nelle mani dei curanti avevano sviluppato ancora di più se possibile il meccanismo dissociativo: lasciava lì il corpo e se ne andava. La mente ronzava a vuoto, senza riuscire a mettere a fuoco che i dettagli insignificanti di un eterno presente senza passato, nè progettualità.
La paura di tutto, antica compagna in particolare dell’umiliazione, aveva trovato nuovi convincenti argomenti. Se era stato colpevole un tempo nascere e poi tradire, ora era ulteriormente colpevole essere sopravvissuto appesantendo l’esistenza degli altri. Viveva nella fatica dell’affrontare la vita quotidiana e nel terrore che un altro ictus lo privasse della parola e delle capacità cognitive, ma non tanto da renderlo inconsapevole.
Anche il rapporto con me era diventato più difficile e sentivo la sua invidia e persino il suo odio velenoso, non mi perdonava la salute. Tante volte ha tentato di estorcermi la promessa di un mio intervento pietoso nel caso si fosse trovato in condizioni di non poter da solo porre fine alla sua esistenza. Avevo un bel da fare ad argomentare che l’indebolimento del corpo con la vecchiaia ci riguarda tutti e occorre farsene una ragione, scoprendo le positività di un’età senza più le apprensioni per il futuro. Carlo che aveva pensato alla vecchiaia e alla morte sin da ragazzo era in realtà del tutto smarrito. Mi meravigliavo moltissimo di come fosse impreparato alla vecchiaia, come un’ ex bella donna non tollerava la decadenza di quel corpo cui sembrava non avere dato alcuna importanza. Un conto erano le chiacchiere sulla vecchiaia quando si è forti e belli, altro la realtà di un corpo in degrado che diventa inutile e sgradevole. Sentiva che nessuno lo avrebbe cercato per come era ora, nè il suo corpo, nè la sua mente erano attraenti per gli altri. Chi aveva intorno restava in nome di ciò che era stato nel passato.
Anche lamentarsi di ciò lo riteneva ingiusto, chi si credeva di essere per non invecchiare, puzzare, essere compatito, accantonato e poi morire come tutti gli altri? Lo aveva sempre saputo, ci aveva tanto ragionato e scherzato sopra da sentirsi pronto. Invece al momento di fare sul serio si sentiva come una recluta al primo conflitto a fuoco, con la cacca nelle brache. Tra tutte le cose che non si perdonava la principale era la codardia e il suo correlato emotivo, la paura. In questo senso la disabilità rappresentava un vantaggio perché gli permetteva di esibire, attribuendole ad essa e dunque giustificandole, delle paure che lui sapeva bene esserci state sempre.
Soprattutto dopo l’ictus la nostra terapia era orientata più all’accettazione che al cambiamento. Nei primi anni avevamo lavorato a lungo sul suo senso di fragilità e sulla paura di affrontare il nuovo che lo spingeva a cercare qualcuno cui affidarsi. Dopo che l’ictus aveva drammaticamente accentuato questa percezione di sé mi sembrava una battaglia persa cercare di modificarla e ci concentrammo su una benevola accettazione dei propri limiti. Scrivemmo insieme un cartoncino che Carlo teneva in tasca e rileggeva ogni tanto con su scritto “sono un ometto meschino e non posso farci niente ma mi voglio bene lo stesso”. Un po’ funzionò ma non credo che alla prima parte ci abbia mai davvero creduto perchè in fondo era un fottuto narcisista che non si permetteva la normalità. Oscillava tra il disprezzo rabbioso nei suoi confronti e un abbattimento rassegnato in cui gli sembrava di essere completamente vuoto e privo di ogni pensiero ed emozione.
Rispolverando l’armamentario comportamentista, nei momenti di maggiore abulia e anedonia costruimmo delle liste di attività presumibilmente piacevoli e gli prescrissi di dedicarcisi perlomeno alcune ore ogni giorno. La maggiore difficoltà stava proprio nella compilazione della lista: tutto gli sembrava indifferente e accettava ogni mio suggerimento con l’aria di dire “se tu dici che questo è piacevole, mi fido”. Comunque finiva per essere la mia lista delle cose piacevoli e non la sua. L’unica cosa che sembrava piacergli effettivamente era la fruizione passiva di storie: leggere libri, ascoltare la radio o vedere film. Però, nel momento in cui vi si dedicava sentiva la colpa per l’improduttività e un’ incontenibile smania ad attivarsi, solo nei mesi più acuti della malattia si era concesso una vera pausa.
In quel periodo ovviamente la terapia fu interrotta ed io mantenni i contatti con lui come amico, andandolo a trovare nei vari luoghi di cura e riabilitazione. Ebbi la speranza che la regressione ad una fase di totale dipendenza dall’altro per tutte le funzioni più elementari potesse comportare una riscrittura positiva degli “internal working model” dell’attaccamento, considerata la dedizione e la dolcezza con cui la moglie si dedicò alle sue cure. Non accadde, il vecchio ebbe il predominio addirittura, nelle prime fasi acute, sviluppò un delirio molto strutturato in cui tutti i curanti erano una setta di sadici persecutori che facevano di tutto per procurargli dolori fisici ed emotivi. In questa fase fui costretto per la prima volta ad introdurre dei farmaci che furono dapprincipio neurolettici.
Dopo la dimissione, quando con il ritorno alla vita normale si infransero le illusioni di recupero ed il danno apparve in tutta la sua entità, comparvero le prime idee di morte e introdussi degli antidepressivi che incrementarono l’aspetto dissociativo.
Carlo sembrava assorto, come se pensasse, in realtà era come incantato, assente. Per dirla in termini psicoanalitici ritirò progressivamente gli investimenti libidici dal mondo esterno, non voleva vedere nessuno, i temi che lo appassionavano un tempo ora lo annoiavano, tutto gli sembrava già visto, ascoltato, ripetitivo, noioso, al contrario tutto quello che era nuovo lo spaventava e perciò lo rifuggiva. Galleggiava in precario equilibrio tra la Scilla della noia e la Cariddi della paura. Il ritiro dal lavoro peggiorò questa situazione come avevo previsto L’identità di un uomo si fonda spesso sugli aspetti professionali e questo era particolarmente vero per Carlo, che non si riconosceva altrimenti. In questo delicato passaggio fui così preoccupato per lui che, ritenendo ormai inefficace la nostra relazione terapeutica contaminatasi nel tempo di valenze amicali, lo inviai da una collega psicoanalista. Non entrò mai effettivamente in terapia con la collega, pur molto esperta, quello che gli rimase di questa esperienza fu il senso del mio abbandono. Del resto la categoria dell’abbandono era in lui ampia e così vorace da incorporare facilmente tutti gli eventi. Anche quest’altra terapia, della cui inefficacia mi teneva informato con aria rimproverante, fu esclusivamente un esercizio teorico. Proprio quello che temevo e volevo evitare inviandolo in un inconsueto, per lui, setting psicoanalitico. Era un paziente diligente e attivo, portava sogni di cui proponeva acute interpretazioni, raccontava dettagliatamente i fatti della sua infanzia, ricostruiti dalle narrazioni degli altri che avevano sostituito i suoi ricordi diretti assolutamente inesistenti e, soprattutto, aveva rapidamente imparato a fare ciò che riteneva la psicoanalista si aspettasse da lui.
Alla luce dei fatti odierni mi sento in colpa per averlo spinto in quella avventura credo, infatti, che fu allora che si rese dolorosamente conto di non aver mai provato sentimenti, la sua immagine riflessa nello specchio non c’era, ciò causandogli una disperazione fredda, difficile da descrivere. Infatti, se fosse reale disperazione sarebbe essa stessa un’ emozione intensa, contraddicendo il motivo stesso della disperazione, cioè il non provare nulla. Invece c’è solo la dolorosa consapevolezza dell’assenza di ogni sentimento.
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Un sogno pose fine all’esperienza psicoanalitica: una flotta di Green Peace voleva raggiungere il relitto del Titanic per venderne i reperti trovati a bordo e finanziare così le missioni ecologiste in programma. Il relitto fu identificato a duecento metri di profondità, stranamente nel lago di Vico. Un battiscafo giallo, con a bordo Carlo, suo padre e i quattro Beatles si inabissò e raggiunse il relitto. I sei sub entrarono nuotando nei grandi saloni, nella stiva, nella sala macchine, cercando le casseforti dove erano conservati i preziosi dei passeggeri. Rimasto solo davanti alla porta blindata, Carlo riusciva ad aprirla in tempo per accorgersi che era completamente vuota, mentre la sua collega amante lo raggiungeva da dietro e gli strappava il respiratore. Si vedeva affogare mentre, da sotto, osservava le sagome dei quattro Beatles e del padre risalire in superficie lasciandolo solo.
Non so quale interpretazione ne diede l’analista, io ritenni centrale il perdere l’ossigeno vitale per mano dell’amante.
Appena sveglio Carlo decise di interrompere il trattamento e, da allora, non fece più una vera e propria psicoterapia.
Con me ripristinò la originaria formula della supervisione, veniva quando ne aveva bisogno, mi parlava di un caso clinico che lo aveva turbato e lo preoccupava, o lo aveva divertito e lo voleva condividere con me.
Ricordo nitidamente gli ultimi tre di cui mi ha parlato. Il primo era un anziano banchiere che aveva perso la testa per la sua badante ucraina e, interdetto dai figli preoccupati per il capitale, aveva fatto perdere le sue tracce per vivere da clochard ad Amsterdam. La seconda era una donna di sessant’anni, con un passato da bella, che improvvisamente aveva avvertito la brevità del tempo rimasto, si era sottoposta a numerose operazioni di chirurgia estetica e, rinnovato il guardaroba, si era offerta con generosità e non pochi rischi a quanti fossero disposti a confermarle la sua desiderabilità: era una maschera dolorosa e grottesca del timore di invecchiare.
La terza era un’adolescente anoressica per la quale concordammo insieme il ricovero che tuttavia giunse troppo tardi. Questa morte riattivò i temi di inadeguatezza, anche professionale, che Carlo aveva sempre covato, l’impressione che aveva era di possedere una superficiale conoscenza di tutte le cose, anche quelle professionali e di riuscire a cavarsela solo mantenendo il discorso ad un livello assolutamente generico. Tale sensazione era particolarmente forte e imbarazzante soprattutto in ambito medico dove lui, a motivo della sua laurea qualcosa avrebbe dovuto pur sapere.
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Da tempo, ben prima dell’ictus, la morte costituiva per lui un’attrattiva, non come liberazione da chissà quale insopportabile sofferenza, quanto piuttosto come l’attesa conclusione di un’attività faticosa e noiosa. Dopo l’evento, l’attrazione era aumentata proporzionalmente all’incremento della fatica. di vivere la quotidianità, che andava dettagliatamente pensata per programmare i movimenti, prima che agita. Lo tratteneva la paura dell’ignoto, della responsabilità da prendersi nel decidere e il danno, soprattutto economico, che avrebbe comportato per i familiari la sua morte. L’abbraccio umido di Stefania che mi sussurra all’orecchio “hai fatto tutto il possibile” riattiva immediatamente i sensi di colpa che ero riuscito a tenere a freno ripercorrendo mentalmente la storia della nostra relazione.
Nessuno lo saprà mai perché né io né lui ne faremo mai parola ma, non più di venti giorni fa, Carlo mi cercò di nuovo chiedendomi per la seconda volta di fare terapia con me perché diceva di non farcela più. Non gli chiesi di cosa si trattasse perché anch’io non ce la facevo più a sentire i suoi inconcludenti lamenti. Di questo mi rimprovero segretamente, ma nessuno lo saprà mai.
Gli prescrissi una terapia farmacologica pesante dicendo che, a mio avviso, era l’unica strada. In effetti, è proprio con quei farmaci che ha trovato una soluzione che spero gli abbia restituito interezza e autenticità.
Addolorato e colpito per un commento ad un caso clinico pubblicato su “State Of Mind” che sosteneva tale scritto potesse aggravare il rischio suicidario di persone sofferenti, cerco subito di fare ammenda elencando buoni motivi per non suicidarsi.
Ma credo siano soltanto un millesimo di quelli esistenti:
1. La possibilità di non riuscire nell’intento è elevata e ai guai precedenti si aggiungerebbero le lesioni permanenti riportate, un ulteriore esperienza di fallimento e la vergogna di fronte agli altri.
2. Il suicidio è una soluzione definitiva a problemi transitori che, se visti in una prospettiva temporale lunga potrebbero apparire banali.
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3. Chi vi garantisce che non ci sia una vita successiva in cui continuare a tribolare e in questo caso in eterno senza più la possibilità di scendere.
4. Il morire in sé, non lo sappiamo, ma potrebbe essere molto doloroso (ricordate il parto?).
5. Non crediate di ferire coloro che lasciate in questa valle di lacrime, si riprenderanno prontamente e si spartiranno le vostre cose.
6. La maggior parte penserà “un matto di meno”.
7. Non potete sapere quante cose belle vi perdereste.
8. Succedono talmente tante cose e così impreviste che qui non ci si annoia mai e di là?
9. Ma davvero gli volete dare la soddisfazioni di esservi uccisi? Non fosse altro che per l’INPS…
10. E se per questo finiste all’Inferno? Non si può mai sapere.
11. Se avete deciso di sacrificare la vostra vita ma proprio non la trovate una causa migliore che vi iscriva nella storia? (potrei fornire suggerimenti…)
Cerchiamo piuttosto di godercela giorno per giorno che, come diceva De Andrè, la morte è già tanto attenta che non c’è nessun bisogno di darle una mano. E poi avete idee dell’infinità di cose che non avete mai provato e vi potrebbero piacere da morire (senza ironia): il menù è molto più vasto di ciò che avete assaggiato finora. Infine forse potreste sprecare energie in una cosa inutile: che ne sapete di quel doloretto a destra del fegato o di quella tossettina che non se ne vuole andare. Certo una cosa da nulla….
Con l’avanzare dell’età andiamo inevitabilmente incontro a un certo grado di declino cognitivo: secondo alcuni studi la perdita progressiva delle “funzioni esecutive” comincia al raggiungimento della mezza età, secondo altri studi invece il nostro declino cognitivo inizia già a 28 anni.
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Le funzioni esecutive stanno alla base della regolazione dei processi di pianificazione, controllo e coordinazione del sistema cognitivo e sono indispensabili nel problem solving di tutti i tipi, dalla soluzione di problemi matematici, all’acquisizione di abilità sociali; inoltre il deficit delle funzioni esecutive è specifico in alcune sindromi, come nell’autismo, nella dislessia, nell’ADHD, ma anche nella schizofrenia e nel disturbo della condotta.
Secondo uno studio condotto alla University of Iowa i tanto incriminati videogame rappresentano un utile strumento di prevenzione del declino cognitivo della mente. Fredric Wolinsky, autore dello studio e professore al UI College of Public Health, ha studiato proprio l’effetto di videogame chiamato “Road Tour” sulle funzioni esecutive di un ampio gruppo di pazienti. Il gruppo era composto da 681 soggetti sani, che sono stati suddivisi in 4 gruppi, ciascuno di questi suddiviso a sua volta per età (50-64 anni e over 65): il primo gruppo doveva risolvere un cruciverba computerizzato, mentre gli altri tre gruppi hanno giocato a “Road Tour”, in cui lo scopo del gioco è identificare un certo veicolo senza lasciarsi distrarre e confondere da altri stimoli che compaiono sullo schermo; l’obiettivo, naturalmente, è quello di aumentare la velocità e l’agilità mentale del giocatore nell’identificare il veicolo target.
Durante l’esprimento il gioco comincia con una valutazione per determinare la velocità iniziale di elaborazione: I risultati indicano che i gruppi che hanno giocato almeno 10 ore, a casa o in laboratorio, hanno guadagnato almeno tre anni di miglioramento cognitivo al retest un anno dopo. Un gruppo che ha avuto una formazione aggiuntiva di 4 ore al gioco ha ottenuto risultati addirittura migliori, guadagnando 4 anni di migliorameno cognitivo.
Inoltre chi ha giocato a “Road Tour” ha ottenuto un punteggio di gran lunga migliore rispetto al gruppo “parole crociate” su test di concentrazione, agilità di spostamento da un compito mentale a un altro e la velocità con cui nuove informazioni vengono elaborate.
“quante sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni?”
Primo Levi
Come ricorda Shakespeare nell’Amleto, attraverso uno dei personaggi della tragedia, Polonio, “Ché l’abito, spesso, fa da spia all’uomo”; sottolineando come la prima impressione o l’aspetto esteriore delle persone sia la prima strategia umana per caratterizzare gli altri. Polonio aggiunge, nella serie di consigli rivolti al figlio Laerte, “non entrare in una lite, ma se ti ci dovessi trovare immischiato, conducila in modo che il tuo nemico debba star lui attento a te”. Il temperamento umano sembra rivolto alla supremazia, a un retaggio animalesco che ci costringe a vivere l’altro, in caso di conflitto, come il nemico da sconfiggere. Se le riflessioni riprese dalla tragedia inglese permettono un delineamento iniziale delle tematiche trattate nella ricerca che seguirà, dall’altra sono frutto anche di un pensiero popolare diffuso che spesso non rappresenta la realtà. Il detto popolare “l’abito non fa il monaco” riprende il pensiero di Polonio, stravolgendolo e ricordando che la prima impressione è spesso fallace. Umberto Eco sottolinea, in un breve saggio dell’inizio degli anni Settanta dal titolo “L’abito parla il monaco”: «Chi ha fatto la mano ai problemi attuali della semiologia non può più annodarsi la cravatta, la mattina davanti allo specchio, senza avere la netta sensazione di fare una scelta ideologica: o, almeno, di stendere un messaggio, in una lettera aperta ai passanti e a coloro che incontrerà durante la giornata»(Eco, 1972, p.7), tornando a delineare un percorso circolare dove l’abito può “non fare il monaco” o “far da spia all’uomo” ma comunque l’ “abito” che indossiamo in qualche modo comincerà a rappresentarci, o tenderà a trasformare il nostro modo di approcciarci al mondo. Dal momento che i codici legati ai vestiti, o più in generale all’ “abito”, esistono ma sono sovente deboli, cioè essi mutano velocemente ed è difficile stenderne i relativi ‘dizionari’, il codice và spesso costruito sul momento, nella situazione data, inferito dai messaggi stessi (Eco, 1972). Per codificare i messaggi che vengono mandati con gli “abiti” occorre prestare, in primo luogo, la massima attenzione alle coordinate spazio-temporali. Verrà usato il termine “abito” tra virgolette per definire non solo il vestiario ma per allargare il concetto alla descrizione della comunicazione non verbale che si può cogliere nell’incontro con l’Altro. In un contesto dove “non si può non comunicare”, come teorizzò Watzlawick (1967), limitare la lettura al solo vestiario è riduttivo e si allontana dall’interesse psicologico e sociologico della ricerca. Allargare il campo di ricerca agli atteggiamenti, al portamento, alla mimica, legati ad un vestiario particolare, rende l’oggetto di studio più completo. Un esempio è sicuramente il film diretto da Stanley Kubrick , Arancia Meccanica1, dove lo studio delle bande giovanili che in quegli anni crearono tensioni e paura a Londra, servì per estrapolare un modello di giovane violento che avesse una divisa caratteristica ma anche uno modus vivendi e operandi che potesse rappresentare l’”abito” del giovane violento prototipico degli anni Settanta. Il Drugo diventa, in questo modo, facilmente riconoscibile dagli altri, creando una sorta di reverenza e timore nei suoi confronti; dall’altra faccia della medaglia, indossato l’abito da Drugo, il ragazzo incarna e fa proprio lo stile di vita del giovane violento. La lettura del contesto sociale prevede, per correttezza, che si usi una logica circolare e non di causalità lineare, ormai superata nel campo della ricerca. L’oggetto A non influenza l’oggetto B in maniera univoca ma ne viene influenzato nel momento stesso in cui ne viene a contatto. Questa teoria, tratta dalla teoria dei sistemi (Bertalanffy, 1983), è fondamentale per analizzare un tema complesso. Se, da un parte, la regola è chiara per chi si immerga nel sociale con scopi di studio, dall’altra, l’approcciarsi alla “realtà sociale” costringe il ricercatore a semplificare alcuni eventi al fine di poterne dare una lettura che porti un senso. Per completare il concetto di “abito” è necessario analizzare anche il concetto di violenza, cioè i due temi presentati in incipit attraverso la tragedia shakespeariana. La tesi che presenteremo tratta della sottocultura skinhead. L’interesse nasce dalla percezione che esistano due mondi differenti, l’uno presentato dai mass-media e dall’immaginario comune, l’altro dall’incontro vis à vis con alcuni appartenenti alla sottocultura in esame. Soprattutto la figura del “naziskin”, fortemente presente nell’immaginario collettivo grazie ad una campagna mediatica martellante, è il rappresentante di un movimento sotto culturale, è l’unità che rappresenta un tutto, o è un’unità marginale, estrema, che è stata predestinata a diventare rappresentante di un tutto? L’interesse della ricerca è immergersi nel mondo Skinhead per cercare di riemergere con un’idea più chiara su cosa l’ “abito” skinhead rappresenti e su come tale “abito” conduca o sia rappresentativo di una realtà violenta e aggressiva.
La ricerca è frutto di un anno di interviste e partecipazione ad eventi della cultura Skinhead (concerti, manifestazioni, domeniche allo stadio, presentazioni di documenti o saggi da parte di ex esponenti del movimento, serate in birreria, etc.) ma è anche figlia di un percorso molto più ampio che vede gli autori della ricerca intrecciare il proprio percorso di vita con alcuni esponenti del movimento. L’interesse e lo stimolo per iniziare la ricerca nasce dalla sensazione che socialmente ci sia un fenomeno di etichettamento verso il movimento skinhead, che lo identifica come violento e razzista. L’impressione di partenza, rilevata nell’incontrare skinhead prima dell’inizio della ricerca, è che la violenza e il razzismo non fossero rappresentativi dell’intera categoria. Il lavoro di ricerca si è sviluppato in due lavori di tesi, uno dei quali è stato affrontato dal collega Marco Bertolino nell’elaborato “Are the kids united? Costruzione dell’identità nella sottocultura skinhead”. La ricerca qui presentata si pone come obiettivo la costruzione di una narrazione della nascita del movimento skinhead in Italia che cerchi di cogliere le sfumature e il complicato intreccio di fattori che compongono una forma sottoculturale specifica.
La tesi che segue è suddivisa in una parte teorica iniziale dove si analizza il concetto di cultura , di sottocultura, di stile, di devianza e il rapporto tra mass-media e sottoculture attraverso un’ottica sociologica e antropologica. Uno spazio particolare è riservato all’intervento della psicologia dinamica all’interno del dibattito sulla devianza.
In seguito è inserito un capitolo dedicato alla psicologia applicata ai contesti culturali e sottoculturali. Abbiamo scelto l’approccio della psicologia culturale, in particolare nelle figura di Jerome Bruner, come ramo della psicologia che meglio possa confrontarsi con una ricerca che indaghi un ambito culturale. Parallelamente, analizzando contesti sottoculturali dove l’identità dell’individuo viene plasmata e modificata anche grazie al rapporto con il gruppo dei pari, abbiamo analizzato brevemente il concetto di identità e il concetto di gruppo in psicologia.
Il terzo capitolo presenta la metodologia di ricerca. Vengono illustrati i motivi per cui si è scelto di adottare un approccio qualitativo di tipo etnografico, ad eccezione del lavoro di ricerca sui quotidiani che è di tipo quantitativo. In particolare viene sottolineata la necessità di adottare uno sguardo di tipo fenomenologico, dove lo studio dell’essere umano acquista senso solo se quest’ultimo viene osservato nel proprio tempo, in uno spazio preciso occupato dalla propria corporalità che è in relazione con persone e contesti. Si è cercato di sottolineare il profondo rispetto che è richiesto ad un ricercatore, nel momento in cui si appresta a studiare altri esseri umani, nel valutare e interpretare le scelte dell’altro. Il terzo paragrafo del capitolo è dedicato alla presentazione del lavoro di ricerca svolto per l’opera presentata.
Il quarto capitolo tratta le origini della sottocultura skinhead attraverso una ricerca bibliografica che permette di presentare il fenomeno nel suo nascere e svilupparsi in Inghilterra. La seconda parte del capitolo si focalizza sullo sviluppo delle tendenze razziste di destra da parte di una certa frangia del movimento e della loro diffusione dall’Inghilterra verso l’Europa continentale.
Il quinto capitolo racchiude lo studio e l’analisi del materiale raccolto tramite interviste biografiche somministrate ad esponenti del movimento skinhead.
Il sesto capitolo si focalizza sulle fonti secondarie: la presenza delle parole “skinhead” e “naziskin” negli articoli di quattro quotidiani nazionali e la musica skinhead, ossia un’analisi che confronta i testi delle canzoni prodotte da band facenti parte di diverse aree del movimento.
Il settimo capitolo apre la discussione per cercare, attraverso il materiale ricavato dalla ricerca, di sottolinearne i punti di incontro e di distacco tra le possibili fazioni all’interno del movimento e di osservare i fenomeni identitari intervenuti nella nascita della sottocultura esaminata. La discussione permetterà di confrontare il materiale teorico presentato nei primi due capitoli con le narrazioni ottenute tramite la raccolta delle fonti.
ArmoniosaMente prevede l’uso di tecniche meditative basate sui principi del modello Mente-Corpo, rivolto a gruppi di donne affette da tumore alla mammella.
La prima volta che sono entrata nel reparto di Psicologia Clinica Ospedaliera del Dipartimento Oncologico dell’AUSL di Bologna sono subito rimasta colpita dall’attenzione per il dettaglio e dalla cura del contesto: la musicoterapia, l’aromaterapia, le immagini proiettate sulla pareti, il giardino zen, mi sono sentita accolta, l’ambiente caldo e rassicurante che trasmette tranquillità e sensazioni positive.
Ho pensato a come potesse sentirsi un paziente che arriva in quel reparto, un paziente spesso affaticato dal decorso della malattia, e ho pensato a quanto anche questa attenzione potesse far parte del prendere in carico e del processo di cura, e di come possa avere effetti positivi sul percorso di supporto e di benessere dell’individuo. Su questi temi e sul protocollo ArmoniosaMente mi sono confrontata con il Dott. Pagliaro direttore dell’Unità Operativa.
Il protocollo ArmoniosaMente è un progetto attivo dal 2003 che prevede l’utilizzo di tecniche meditative basate sui principi del modello Mente-Corpo, rivolto a gruppi di donne affette da tumore alla mammella con trattamento in corso.
SoM: Ci racconta brevemente come viene strutturato il protocollo ArmoniosaMente, come vengono inviate e selezionate le pazienti, quanti incontri, quali gli obiettivi principali?
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GP: ArmoniosaMente si basa su due aspetti che nel corso degli anni l’evidenza scientifica ha evidenziato come basilari nell’efficacia di ogni pratica inerente la salute: la corretta informazione sanitaria sugli stili di vita e le pratiche meditative. Il particolare disagio psicologico e psicopatologico della persona che si ammala di tumore, caratterizzato da senso di precarietà e vulnerabilità, ansia depressione e panico, fa emergere con chiarezza l’importanza che una corretta informazione possa svolgere nel creare una forte adesione del paziente alle cure mediche e nel dargli fiducia in quello che sta facendo. Per tale motivo il protocollo è stato denominato ArmoniosaMente in quanto ha l’obiettivo di agire sulla dimensione mentale offrendo alle pazienti una specifica informazione sanitaria e una pratica meditativa che consente di aiutare la mente a stimolare il potenziale di guarigione che ogni persona ha rendendo, così, le cure più efficaci.
ArmoniosaMente nel caso del tumore alla mammella è rivolto a donne in cura che vengono raggruppate in gruppi di al massimo 15 pazienti, ognuno di questi gruppi partecipa a 11 incontri a cadenza settimanale della durate di 2 ore ciascuno. I primi 6 incontri riguardano la parte informativa sull’educazione alla salute e sul corretto stile di vita, e sono tenuti da tutti gli specialisti oncologi che il paziente incontra nel suo percorso di cura. Il primo incontro è tenuto dal senologo che si confronta con le pazienti nel presentare il suo ambito di competenza, il secondo incontro è tenuto dal chirurgo che presenta alle donne le varie tipologie di intervento chirurgico, il terzo dall’oncologo che illustra i tipi di trattamenti, il quarto dal radioterapista che presenta l’importanza di questo tipo di trattamenti, il quinto dal dietista dietologo che parlano dell’importanza dell’alimentazione nel pz oncologico, il sesto e ultimo incontro è condotto da un medico specialista dello sport che spiega l’importanza di una equilibrata attività motoria nel prevenire le ricadute nella malattia. In ognuno di questi incontri le pazienti hanno la possibilità di confrontarsi con lo specialista, di fare domande e di tornare a casa sentendo di avere maggiore consapevolezza e padronanza di quello che stanno e che dovranno affrontare. Nei restanti incontri vengono insegnati alle partecipanti alcune tecniche di meditazione e visualizzazione. In linea generale gli obiettivi che ci siamo proposti sono essenzialmente tre:
Offrire alle pazienti una corretta informazione sul tumore alla mammella e sui trattamenti conseguenti;
Insegnare a controllare le reazioni emotive per gestire al meglio lo stress;
Sviluppare un atteggiamento mentale fiducioso nei confronti della cura, per mobilitare le risorse interne di guarigione.
SoM: Quali sono le principali difficoltà che portano le donne a cui vengono insegnate le tecniche di meditazione, e in che modo lei cerca di risolverle?
GP: Le principali difficoltà sono legate ai timori tipici della malattia e al rischio delle ricadute e alla paura di morire, a cui si aggiunge lo stress legato alla specificità del percorso di cura. Il protocollo ArmoniosaMente grazie all’utilizzo della meditazione è un’ottima risposta perché oltre a fornire al gruppo di donne degli strumenti pratici da utilizzare per la gestione dello stress permette a loro anche di condividere le diverse esperienze nel percorso di cura, normalizzandone i vissuti.
SoM: Quali sono i benefici che con questa pratica lei ha potuto riscontrare nelle pazienti che hanno partecipato a questo progetto?
GP: I benefici del protocollo ArmoniosaMente sono facilmente descrivibili in quanto sono delle costanti che emergono da oltre 1200 pazienti che nel corso di questi anni lo hanno utilizzato e sono: gestione dello stress, trattamento dell’ ansia e della depressione, gestione della paura, aumentato senso di fiducia nelle terapie, atteggiamento di speranza ed una maggiore consapevolezza e capacità di affrontare le difficoltà.
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SoM: Quali sono le evidenze scientifiche dell’efficacia della meditazione in oncologia?
GP: Le principali evidenze scientifiche che si sono verificate sull’efficacia della meditazione in oncologia oltre al trattamento dei disturbi psicologici psicopatologici sopracitati, che sono reattivi alla patologia tumorale, sono quelle di un azione di contenimento della nausea, della fatica, della stanchezza, del vomito come effetti collaterali di chemioterapia e radioterapia ed anche una importante azione di contenimento del dolore secondario alla patologia oncologica stessa.
SoM: Questo “protocollo” viene applicato solo in oncologia o ci sono altri campi di applicazione all’interno dell’AUSL di Bologna?
GP: Questo protocollo viene utilizzato anche in cardiologia e in neurologia con pazienti con fase iniziale di sclerosi e con fase iniziale di atassia.
Il protocollo di ArmoniosaMente è uno degli interventi più completi, ad oggi, nel campo della meditazione in oncologia ed attualmente viene insegnato attraverso uno specifico corso organizzato dell’Ausl di Bologna, sotto la supervisione del Dott. Pagliaro, in cui vengono formati sia medici che psicologi.
Rimane comunque importante sottolineare che tutti i pazienti in carico all’Unità Operativa di Psicologia Clinica dell’ Ospedale Bellaria possono apprendere nel corso della presa in carico individuale tecniche di meditativa e visualizzazione.