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Storie di Terapie #25 – L’uscita di Carlo

Storie di Terapie #25 - L'uscita di Carlo: Carlo non si sentiva. Era sordo alle sue emozioni e persino alle sensazioni fisiche.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 29 Apr. 2013

Aggiornato il 18 Feb. 2016 15:22

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

-LEGGI L’INTRODUZIONE-

 

Storie di Terapie #25

 L’uscita di Carlo

La storia di Carlo la raccontiamo in due articoli per via della “particolare” lunghezza…

Qui di seguito la Parte I.

 

Storie di Terapie #25 - L'uscita di Carlo. - Immagine:© Piumadaquila - Fotolia.com Disturbo distimico

Disturbo evitante di personalità

Suicidio

Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi”  lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate. 

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Quando un paziente si suicida è sempre una brutta cosa, forse non per lui che l’ha scelto, ritenendolo dunque l’opzione migliore, ma per il curante certamente.

In primo luogo non è una gran bella pubblicità, in secondo luogo colpisce l’autostima professionale e, terzo, solleva quel senso di colpa che si aggira sempre nei paraggi di un morto, costituito, in parte, dalla colpa del sopravvissuto ed in parte da tutte quelle azioni ed omissioni che avrebbero potuto indirizzare diversamente gli eventi.

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Siccome Carlo, da collega quale era, sapeva benissimo l’effetto che avrebbe fatto il suo suicidio nella comunità pettegola degli psicoterapeuti romani, consideravo il suo gesto come un vero e proprio attacco personale. Nonostante mi renda conto che uno che abbia deciso di uccidersi non debba essere massimamente preoccupato dell’effetto del suo gesto su di me, tuttavia non  mi meravigliò: si era  dimostrato come al solito un grandissimo stronzo.

Ero incerto se andare o meno alla camera ardente, non ne avevo alcuna voglia, mi vedevo subissato dalle domande maligne dei colleghi, consolatorie e insinuanti ad un tempo, come starai male a vedere la tua sovrastimata competenza sdraiata nella cassa.

Ma non andarci sarebbe stato ingiustificabile e, in qualche modo, un’ esplicita ammissione di colpa. Perciò, indossai la faccia di circostanza più triste che avevo e andai, arrivando però molto tardi per cercare di restare fuori dal capannello dei più intimi, che si inumidivano di lacrime e abbracci.

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Ho sempre trovato disgustose le secrezioni dolorose e non so mai che dire e dove mettere le mani. Carlo se ne stava tutto beato al centro dell’attenzione, con quella sua faccia da bastardo  che la condizione di morto accentuava. Un sorriso sottile e ironico che mostrava appena i denti solcava la faccia più pallida del solito e i capelli lunghi dietro e radi davanti erano di un grigiastro che non aveva avuto il tempo di diventare compiutamente bianco. Era una via di mezzo incerta e indefinita, metafora della sua esistenza.

Aveva appena compiuto  sessant’anni, che portava da schifo, ed erano circa trent’anni che lo conoscevo. Quando lo incontrai, il primo giorno della scuola di specializzazione di cui ero docente, era vestito pressappoco come nella camera ardente: un  abito  di velluto blu a coste sottili. Evidentemente, riteneva quello un momento importante come quello odierno anche se, a pensarci bene, l’abbigliamento attuale e definitivo non doveva averlo scelto lui ma la raffinata Stefania al suo debutto nel ruolo vedovile. Tra quella prima volta e quest’ultima non lo avevo più visto vestito bene: i jeans e un maglionaccio d’inverno o una camiciona d’estate erano la sua uniforme, con grande disappunto di Stefania che ci teneva alle apparenze e al giudizio sociale.

Durante il corso quadriennale si dimostrò brillante, ma già allora percepivo una sofferenza sotterranea e indefinita. Persino a me riesce difficile descriverlo, l’indefinitezza era forse la caratteristica più distintiva.

Carlo non si sentiva. Era sordo alle sue emozioni e persino alle sensazioni fisiche. Caldo, freddo, fame, sete e stanchezza non li percepiva in diretta ma doveva inferirli da indicatori esterni, ci arrivava con il ragionamento. In poche parole, direi che non viveva in un mondo reale ma fittizio, costruito per deduzione logica. II suo era un universo di pensiero disincarnato.

Era molto bravo e lo stimavo, per cui fui contento quando al termine del corso mi chiese di essere il suo supervisore. Ci volle poco a rendermi conto che la supervisione celava una richiesta di terapia che non riusciva ancora a formulare; inconsapevolmente, in ognuno dei pazienti che mi portava con passione, c’era un pezzetto di lui. Di sé non avrebbe saputo parlare. Per vergogna. Per mancanza del diritto di esserci. O peggio per l’assenza del sé.

Anche a me, che l’ho conosciuto così a lungo e profondamente come docente prima, supervisore poi e infine terapeuta, la sua essenza sfugge e il dubbio che ho più volte avuto era non che mi sfuggisse, ma semplicemente non ci fosse. Non saprei dire se non ci fosse mai stata o fosse andata perduta ma certo, guardando dentro di lui, sembrava di sporgersi su un pozzo profondissimo e vuoto.

Era un dubbio che negli ultimi tempi tormentava anche lui.

Mi raccontò un sogno in cui in classe, durante l’appello, giunto al suo nome la maestra si guardava smarrita intorno e, nonostante incontrasse il suo sguardo, decretava inesorabilmente la sua assenza.

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Pensai addirittura che lo avesse inventato per esplicitarmi il suo vissuto di disidentità, ne sarebbe stato capacissimo, la menzogna era fedele compagna  e finiva per confondere lui stesso. Ciò mi metteva in confusione, perché non sapevo in quale categoria diagnostica collocarlo. Mi sembrava piuttosto un puzzle mal ricomposto, con ampi buchi di forma e dimensioni continuamente mutevoli. Forse molte tessere erano per sempre andate perdute ed ogni sforzo sarebbe stato vano. Forse l’aspetto più autentico di lui era proprio la sua falsità.

Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Liotti G. Farina B. (2011). Cortina Editore. - Immagine: Copertina, Raffaello Cortina Editore
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Una falsità non dovuta ad una regia occulta che decide i vari camuffamenti a seconda delle circostanze per raggiungere i propri scopi raggirando gli altri, piuttosto l’inverso: mancando una qualsiasi intenzionalità propria, aderiva automaticamente e immediatamente a quella degli altri di passaggio. In tutta la sua vita non era mai riuscito a rispondere alla domanda “ma tu cosa vuoi?” 

Razionalmente faceva risalire tutto ciò ad un deficit di accudimento a causa di  una madre prima malata e poi precocemente scomparsa; ciò lo aveva convinto di non essere degno e meritevole di cure ed attenzione  e di doversi dare da fare continuamente per essere utile agli altri e dunque in qualche modo considerato.

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Se questa poteva essere pura speculazione, una storia che raccontava e si raccontava senza peraltro sentirla vera, quello che certamente era reale era il dolore della separazione. L’allontanamento dalle persone care che negli anni erano cambiate lo attanagliava dallo stomaco in giù, paralizzandolo. Questa era l’unica emozione che gli sembrava autentica e quel vissuto, profondamente suo, era intollerabile da bambino come ancora ora, da vecchio. 

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Il Carlo orfanello aveva sviluppato alcune efficaci strategie per non essere abbandonato e, siccome funzionavano, si erano progressivamente rinforzate e sofisticate. In primo luogo esibiva le sue debolezze, disinnescando i comportamenti agonistici degli altri maschi e suscitando  l’accudimento delle femmine. Inoltre aveva imparato a mettere l’interlocutore a suo agio, facendolo sentire una persona eccezionale e unica, re o regina che fosse.

Coglieva immediatamente i bisogni dell’altro che avevano la precedenza assoluta. Non era affatto per generosità disinteressata, ma solo per rendersi indispensabile e garantirsene la vicinanza. Paradossalmente, questo bisogno sia della protezione che del riconoscimento altrui, lo portavano all’isolamento volontario poichè  la presenza dell’altro attivava un faticosissimo, incessante lavoro di anticipazione dei desideri per soddisfarli immediatamente.

Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi”  lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate. 

Questo, che potremmo chiamare “relativismo dell’io”, lo aiutava nella sua professione e comportava un buon successo sociale. Era infatti facilmente portato a mettersi nei panni dell’altro, a capirne il funzionamento dall’interno. In effetti i pazienti si sentivano con lui immediatamente compresi, oltreché sedotti dal suo farli sentire meravigliosamente unici.

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I guai, anche professionali, iniziavano quando si trattava di produrre nel paziente un cambiamento sollecitando in lui una revisione critica dei propri punti di vista. Carlo era troppo immerso in loro per vederli dall’esterno. Sopra ogni altra cosa Carlo voleva apparire buono, onesto, generoso, disinteressato e profondamente altruista ma, contemporaneamente, voleva essere vincente e superiore a tutti.

Il suo ideale era quello di primeggiare senza ammettere di voler competere; ricco, ma schierato a difesa dei poveri.

Un giorno in supervisione mi portò il caso di un grave narcisista e mi disse che era molto in sintonia con il vissuto del paziente, con la differenza che lui voleva raggiungere gli stessi obiettivi apparendo, però, di semplicità e umiltà francescana. L’essere preso pervasivamente da se stesso lo aveva reso, con il passare degli anni, incredibilmente superficiale. Tanto più all’esterno appariva disponibile e attento agli altri, quanto più si era rinchiuso in un gretto meschino egoismo che includeva Stefania e i due figli.

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In terapia, quando finalmente la richiese esplicitamente, riportava continuamente la sensazione del bluff. Aveva l’impressione che, se solo gli altri si fossero presi la briga di scavare oltre le imbellettate apparenze, avrebbero scoperto il nulla. Questo era un altro buon motivo per tenere tutti a debita distanza, quella distanza  da dove si potevano ammirare i lustrini ma non abbracciare l’inconsistenza. Carlo diceva che il suo senso di indegnità derivava dalla  considerazione che la sua esistenza non fosse stata sufficiente a trattenere in vita la madre. Lo diceva spesso, ma non credo che lo credesse veramente e, certamente, che non lo sentisse, ammesso che abbia mai sentito qualcosa di autentico eccetto la desertificazione dell’abbandono. Chissà se la prova anche ora, durante il giro dell’operaio con il saldatore sullo zinco.

Io credo, invece, che quella esperienza gli avesse insegnato la capacità di dissociare di fronte alle situazioni dolorose: appena intravedeva all’orizzonte la possibilità di un dolore fisico o di una perdita smetteva di sentire, congelava le afferenze, se ne andava.

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Si ritrovava seduto in disparte ad osservare quanto accadeva come se si trattasse di un film che, da spettatore, commentava in genere con sarcasmo ed ironia. Il sorriso amaro, disincantato e beffardo era la sua arma migliore per negare serietà ed importanza ad ogni cosa. Sono certo che lo utilizzerebbe anche oggi, in questa camera ardente che si presta a mille battute che mi vengono irriverentemente in mente al suo posto.

La dissociazione però gli aveva preso la mano e creato una sorta di air bag emotivo tra lui e la realtà. Non solo quelle brutte, ma anche le emozioni belle non lo raggiungevano, il volume non lo si può abbassare selettivamente, tutte le note diventano in sordina. Ho sempre pensato, e lui era d’accordo, che questo limbo emotivo in cui si era prudenzialmente confinato fosse il motivo della sua mancanza di memoria.

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Carlo non ricordava eventi che gli amici dicevano essere stati importantissimi e pietre miliari della loro e della sua esistenza. Era per lui motivo di grande cruccio, ma non riusciva che a ricostruirli assemblando le narrazioni degli altri, copiando le loro emozioni. Lui in prima persona non c’era. A mio avviso perché non c’era stato neppure mentre accadevano, lui era sempre preso da dettagli insignificanti, fuga nei particolari che diceva avvenire quando l’insieme era intollerabile. 

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Mi piace pensare che, negli ultimi istanti, mentre si addormentava per l’ultima definitiva volta, in quel tempo intercorso prima che le cellule cerebrali soffocassero,  sia effettivamente stato presente a se stesso. Non importa se abbia provato disperazione o terrore, purchè abbia provato effettivamente qualcosa, ma questo è un mio auspicio, che non è detto sia stato suo. Anzi, ho l’impressione che la mancanza di lucidità, lo stordimento e la confusione fossero sempre stati attivamente ricercati ad esempio con l’alcool.

Tutti gli riconoscevano una grande capacità ironica, grande dote che permette di vivere meglio. Ma anche l’ironia era una figlia, seppur buona, della dissociazione. Carlo si vedeva dall’esterno quale che fosse il ruolo che impersonava. Seduto in tribuna poteva commentare sarcasticamente il suo personaggio, in cui non si identificava mai del tutto. Si comportava come si comportano gli psicoterapeuti ma non lo era, si comportava come fanno i mariti o i padri o gli amici ma non lo era fino in fondo.

Forse l’esperienza più integrata che riusciva a vivere era l’innamoramento e la sua perdita, gli era capitato spesso nonostante se ne tenesse prudenzialmente lontano. Non aveva pace finchè non si sentiva ricambiato, trovando una conferma del proprio valore, poi l’altra perdeva il manto dell’idealizzazione e i pensieri ossessivi progressivamente scomparivano.

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Non era interessato alle avventure sessuali, dichiaratamente per fedeltà e per l’interesse esclusivo per i rapporti profondi, in  verità per un vissuto radicato di inadeguatezza relativo in generale al proprio corpo e specificamente alla sessualità. Le donne che lo attiravano dovevano avere caratteristiche materne di accoglienza e accettazione incondizionata, meglio se mostravano debolezze, le donne bellissime non le riteneva alla sua portata e non lo interessavano.

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Aveva la certezza di fare brutta figura e, dunque, poteva cimentarsi solo in situazioni in cui l’accettazione era scontata.  Sin da giovane , l’età in cui gli altri facevano le bravate, lui si era identificato con Don Abbondio: del prevosto manzoniano condivideva la scarsa propensione al rischio e la facilità con cui riporre gli ideali e la dignità pur di evitare ogni pericolo. Per questo apparteneva alla schiera dei pacifisti nella sottocategoria dei paurosi. Credo che proprio questa paura gli abbia fatto procrastinare per tanto tempo il suicidio.

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Non aveva mai fatto a botte, neppure da ragazzino, era maestro nell’evitare i conflitti anche se ciò comportava il cedere su tutti i punti, la sua codardia ne aveva fatto un uomo di pace e di mediazione, ma lui sapeva l’inganno e si disprezzava, nonostante gli apprezzamenti degli altri per il suo equilibrio che sapeva essere equilibrismo.

 

… la storia di Carlo continua la prossima settimana!

 

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DISSOCIAZIONE – SUICIDIO –  EMPATIA – ACCUDIMENTO –  ACCETTAZIONE DEL LUTTO

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