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Orari dei Pasti & Salute Mentale negli Adolescenti

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Adolescenti: La regolarità negli orari dei pasti in famiglia é un indice misurabile degli scambi sociali in famiglia di cui beneficiano gli adolescenti.

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Secondo i risultati di una ricerca condotta dal canadese Institute for Health and Social Policy l’abitudine a cenare in famiglia contribuirebbe alla buona salute mentale negli adolescenti; in particolare è la regolarità negli orari dei pasti familiari ad essere un indice misurabile degli scambi sociali in famiglia di cui beneficiano gli adolescenti, addirittura a prescindere dalla facilità di comunicazione che sentono di avere con i genitori.

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Articolo Consigliato: Disturbo Bipolare e Giovani: Trattamento Focalizzato sulla Famiglia

Lo studio, condotto da un team di ricercatori della Queen University, ha esaminato la relazione tra la frequenza di cene di famiglia e gli aspetti positivi o negativi sulla salute mentale nei giovani. I ricercatori hanno utilizzato un campione nazionale di 26.069 adolescenti di età compresa tra 11 a 15 anni che hanno partecipato al 2010 Canadian Health Behaviour in School-Aged Children study. I risultati indicano che gli effetti benefici della regolarità dei pasti familiari sono costanti, indipendentemente da sesso, età o benessere della famiglia. Inoltre, anche in presenza di grandi differenze rispetto alla frequenza delle cene in famiglia (0 o 7 sere a settimana), è risultato evidente come anche solo un momento di incontro aggiuntivo facesse la differenza in termini di incremento del benessere mentale ed emotivo dell’adolescente.

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 Lo studio ha considerato i dati relativi alla frequenza settimanale di cene in famiglia, la facilità di comunicazione genitore-adolescente e cinque dimensioni della salute mentale, tra cui l’internalizzazione e esternalizzazione dei problemi, il benessere emotivo, i comportamenti utili e la soddisfazione di vita.

Gli autori suggeriscono che i pasti in famiglia rappresentino un occasione per la famiglia di interagire in modo aperto e un opportunità per i genitori di insegnare, anche fungendo da modello, comportamenti positivi per la salute, per esempio rispetto alle scelte alimentari, ma anche per consentire agli adolescenti di esprimere preoccupazioni e sentirsi apprezzati, tutti elementi importanti  per il loro benessere mentale ed emotivo.

 

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ADOLESCENTI – FAMIGLIA – GENITORIALITA’ 

 

APPROFONDIMENTO:

 

BIBLIOGRAFIA:

Stress Post Traumatico e Disturbo Ossessivo: Dove Cominciare?

 

Stress Post Traumatico e Disturbo Ossessivo. Dove Cominciare?. - Immagine: © Microstock Man - Fotolia.comStress Post Traumatico & OCD – possono combinarsi quando un paziente che ha subito un grave trauma tenta di alleviare la sofferenza con rituali ossessivi. Il caso di Albert.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO (PTSD)

Il disturbo ossessivo compulsivo (OCD) e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) condividono un tratto comune e molto frequente negli individui che ne sono affetti: il controllo o, meglio, il desiderio di controllo.

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I pazienti affetti da OCD sono ossessionati dall’idea di ottenere e mantenere un controllo assoluto sugli eventi in ogni circostanza e per farlo utilizzano dei rituali, ripetitivi e sempre identici per natura, che hanno l’obiettivo di allentare l’ansia e aumentare la sensazione di controllo (pensiero magico).

I pazienti affetti da Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD), con una storia quindi di uno o più eventi traumatici, cercano invece di recuperare il controllo perso durante l’esperienza traumatica attraverso il sistematico evitamento di tutte le situazioni simili o riconducibili, per qualsivoglia motivo, all’evento vissuto (“se evito mi proteggo e mi sento sotto controllo”).

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Trauma: Problema Diagnostico. - Immagine: © udra11 - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Trauma: Problema Diagnostico

I disturbi descritti possono talora combinarsi insieme quando un paziente che ha subito un grave trauma cerca di alleviare la sua sofferenza attraverso l’utilizzo di rituali ossessivi che favoriscono sì una riduzione immediata dello stato di allerta e un’apparente sensazione di controllo sugli eventi, ma che nel lungo periodo rischiano di non essere più sufficienti e soprattutto di occupare molte ore al giorno.

Un case report descritto in un recentissimo articolo pubblicato da un gruppo di ricercatori olandesi (Nijdam et al, 2013) descrive proprio una situazione clinica di questo tipo, interessante a mio parere soprattutto per l’evoluzione del disturbo durante la cura attraverso il metodo EMDR.

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È subito evidente nel caso descritto la necessità dei clinici di stabilire delle priorità rispetto i sintomi da alleviare e contenere: da un lato la presenza di intensi rituali di lavaggio legati alla propria igiene personale e alla casa scatenati da pensieri intrusivi di “essere sporco” o da veri e propri timori di contaminazione (OCD) e dall’altro la persistenza altrettanto urgente di insonnia, flashback e continui tentativi di ricostruire l’evento traumatico  rivivendo ogni giorno i ricordi rimasti vividi nella memoria (Disturbo da Stress Post Traumatico).

 Il trauma, un abuso sessuale da parte di un estraneo adulto, risaliva a quando il paziente aveva 14 anni, mentre i sintomi da stress post traumatico sono iniziati solo a 21 anni, in occasione di un rapporto sessuale con il partner. Il disturbo ossessivo comparirà invece dopo altri 12 anni, quando il paziente ne ha 34 e rievoca alcuni ricordi del trauma nel corso di una psicoterapia.

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All’inizio dello studio Albert ne ha 49 e riporta una sofferenza psicologica durata quasi 30 anni!

L’ipotesi dei clinici è che i gravi sintomi ossessivi di questo paziente siano una modalità attraverso cui il paziente affronta, cercando di annullarli con rituali “magici”, i pensieri intrusivi di “essere sporco”, le emozioni di colpa e i sintomi fisici di allerta legati al terrore vissuto durante l’esperienza traumatica.

Il disputing delle idee ossessive e delle compulsioni. - Immagine: © fotocomo - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Il Disputing delle Idee Ossessive e delle Compulsioni

Il lavoro terapeutico parte quindi dai sintomi da stress post traumatico, con l’obiettivo di ottenere una rielaborazione efficace e completa dell’abuso, per concentrarsi solo successivamente sui sintomi ossessivi, ritenuti una conseguenza dei primi. Albert viene sottoposto a un trial di 7 sedute di EMDR (Eyes Movement desensitization and Reprocessing) al termine delle quali si riducono significativamente i sintomi da stress post traumatico e in parte anche i rituali ossessivi (OCD). I sintomi ossessivi residui vengono eliminati definitivamente con ulteriori due sedute di terapia ERP (Esposizione con Prevenzione della Risposta), terapia cognitivo-comportamentale di elezione per il disturbo ossessivo.

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Un miracolo? No! Una buona diagnosi funzionale e la scelta del metodo evidence based più adeguato al quadro sintomatologico e all’evoluzione dei sintomi nella storia di Albert.

L’importanza di lavorare sul trauma sembra tornare dunque centrale anche nelle moderne tecniche terapeutiche, sicuramente più orientate sui sintomi attuali e al contesto presente in cui il paziente vive, piuttosto che prevalentemente (o talora unicamente) sul passato.

Identificare tuttavia precocemente e velocemente il legame tra i sintomi attuali e il trauma originario è la loro sfida principale:  il passato viene rivissuto, compreso e reinserito, stavolta in modo non traumatico, nella propria storia di vita, che potrà andare avanti guardando al passato senza paura.

 

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DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO (PTSD) – DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO (OCD) – ESPERIENZE TRAUMATICHE – EMDR – ABUSI & MALTRATTAMENTI – PSICOTERAPIA COGNITIVA 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Aprassia Ideativa: Quando la macchinetta del caffè diventa problema

Aprassia Ideativa: Quando la macchinetta del caffè diventa problema. - Immagine: © fabioberti.it - Fotolia.comAprassia Ideativa – Quando la macchinetta del caffè diventa problema: Breve Panoramica e chiave di lettura diversa dell’Aprassia Ideativa.

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Nell’ambito dei disturbi del movimento, un disturbo complesso e che ha occupato in un primo periodo di tempo una posizione secondaria nello studio della categoria dei disturbi aprassici, è l’aprassia ideativa.

Per aprassia si intende l’incapacità della persona ad eseguire un gesto su richiesta (ad esempio: l’esaminatore che chiede alla persona di riprodurre il gesto del “ciao”), benchè non siano presenti difetti di moto, di senso e di coordinazione che ne giustifichino il suo fallimento, o perché sono assenti in assoluto o perchè non interessano l’arto  esaminato (De Renzi, 1980).

Legame Fraterno: una prospettiva relazionale. - Immagine: © gekaskr - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Legame Fraterno: una prospettiva relazionale

Possono persistere difficoltà  sia per i movimenti che riguardano gesti simbolici e sia verso oggetti inanimati (De Renzi e coll. 1980). Ora una delle varie forma di aprassia è appunto quella ideativa. Descritta per la prima volta da Pick, le persone che soffrono di aprassia ideativa commettono errori grossolani nell’utilizzazione di oggetti, previo mantenimento delle capacità di riconoscimento (ad esempio, usare forbici come cucchiaio, portare il fornello della pipa alla bocca).

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Un esempio famoso viene fornito da De Renzi e Lucchelli (1988) che riportano le difficoltà di una paziente nella preparazione del caffè. “Alla paziente vennero presentati una caffettiera, una scatola chiusa di caffè macinato, una caraffa di acqua e un cucchiaio con l’invito a preparare la macchinetta. La paziente solleva il coperchio della macchinetta e tenta ripetutamente di versare la polvere del caffè nella sua parte superiore, senza aver rimosso il coperchio della scatola di caffè. Alla fine apre la scatola e versa la polvere direttamente nella parte superiore della macchinetta senza usare il cucchiaio. Svita la parte superiore della macchinetta e versa l’acqua prima sulla tavola e poi nel filtro. Guarda a lungo perplessa le due parti della macchinetta, poi le riavvita, dopo aver aggiunto altra acqua nel filtro”.

Questa descrizione rende bene l’idea di come il paziente, appunto, manchi dell’idea o dell’ insight nel senso più lato del termine del fare il caffè per cui la relativa sequenza dei movimenti ne risulta inficiata. In un primo momento si credeva che ci fosse una esclusività di questo disturbo nell’ambito di processi di degenerazione cerebrale (demenza) o in stati post-epilettici, ma fu lo stesso Pick ( 1906) a rilevare la non sola matrice degenerativa o post-epilettica.

 Da un punto di vista neurofisiologico, le aree cerebrali interessate (tenendo a mente gli studi che certificano una dominanza dell’emisfero sinistro sulla produzione, monitoraggio e coordinazione degli engrammi motori) sembra siano, prestando fede al circuito di Liepman, la giunzione parietooccipitale, anche se successivi studi hanno rilevato anche il coinvolgimento di altre aree (ad esempio l’area supplementare motoria etc.).

L’interesse personale per questo tipo di disturbo del movimento nasce dal suo essere trattato, come accennato sopra, disturbo di “serie B” o come un “epifenomeno” dell’aprassia ideomotoria (Liepman, 1900).

Il Potere Trasformativo del Legame con la Famiglia d’origine. - Immagine: © Andrija Markovic - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Il Potere Trasformativo del Legame con la Famiglia d’origine.

La mia idea, dettata dagli studi in letteratura e debitrice dell’ottica della complessità della teoria dei sistemi, è che si tratti di due forme diverse di uno stesso processo, dove per processo intendo in questo caso, quel meccanismo coordinato da molteplici fattori che consente il raggiungimento di un obiettivo (in questo caso sistemare i vari pezzi in modo tale da poter preparare il caffè).

Quindi, tornando al discorso squisitamente neuropsicologico, l’aprassia ideativa e quella ideomotoria rappresenterebbero due disturbi che vanno a minare due aspetti di un processo complesso quale quello della pianificazione e riproduzione vuoi di un gesto appena visto (aprassia ideomotoria) vuoi di una sequenza di movimenti di cui manca la visione d’insieme (aprassia ideativa).

Uno stimolo, anche ai fini riabilitativi, potrebbe essere quello di provare a vedere il processo (in questo caso tutti i passaggi per delimitare un movimento previa conoscenza dell’idea) a 360 gradi e non concentrarsi esclusivamente  solo su una punteggiatura fornita dai soli aspetti interattivi (riproduzione dei gesti o imitazione di questi).

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NEUROPSICOLOGIA – ESPRESSIONI FACCIALI

 

BIBLIOGRAFIA:  

Antidepressivi & Gravidanza: Si Può?

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Antidepressivi & Gravidanza: Assumere antidepressivi durante la gravidanza non ha alcun effetto sulla crescita del bambino durante il suo primo anno di vita

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È quanto emerso da uno studio della Northwestern Medicine sugli effetti dell’assunzione in gravidanza di Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI).

Lo studio ha evidenziato che i bambini nati da madri che assumevano SSRI durante la gravidanza avevano, nel primo anno di vita, circonferenza del cranio, peso, e lunghezza simili a quella di bambini nati da donne non depresse e che non avevano assunto antidepressivi. I neonati le cui madri hanno assunto antidepressivi erano meno alti alla nascita, ma la differenza è scomparsa già a due settimane di vita.

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SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale
Articolo Consigliato: SITCC 2012 – Emozioni in gravidanza. Superare lo stereotipo sociale per identificare e prevenire la “tristezza” delle mamme.

Inoltre, le misure di crescita per i bambini delle donne depresse che non assumevano SSRI erano simili a quelle della popolazione generale.

La depressione ha un impatto negativo sulla salute della madre e del bambino, e spesso le donne che assumono SSRI smettono al momento del concepimento e questo è causa di un alto tasso di recidiva.

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Lo stress prenatale e la depressione sono legati alla nascita pretermine e al basso peso del bambino alla nascita e questo aumenta il rischio di malattie cardiovascolari. La depressione influenza anche l’appetito della donna, la nutrizione e la cura prenatale ed è associata a un aumento dell’abuso di alcol e droghe.

 La depressione non trattata è anche associata un più alto indice di massa corporea, che comporta rischi aggiuntivi per la gravidanza e lo sviluppo del feto.

“Le donne che assumono antidepressivi sono interessate a conoscere gli effetti della malattia e dell’assunzione del farmaco alla nascita e a lungo termine sulla crescita e lo sviluppo del bambino”, dice  Katherine L. Wisner, autrice principale dello studio e direttrice del Northwestern’s Asher Center for the Study and Treatment of Depressive Disorders, “Queste informazioni possono aiutare le donne a valutre i rischi e i benefici nel continuare il  trattamento con antidepressivi durante la gravidanza”. 

 

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GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – DEPRESSIONE – FARMACI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #2

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 2

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #2. - Immagine: © Michael Schindler - Fotolia.comAVVIARE IL COLLOQUIO – Nei primi momenti si possono ricevere informazioni e avere le prime impressioni

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Avviare bene il colloquio è molto importante. Come è già stato sottolineato, nei primi momenti del colloquio psicologico si possono ricevere molte informazioni dal cliente e si possono instaurare le prime impressioni e valutazioni generali l’uno dell’altro. Per questo motivo lo psicologo deve mantenersi neutrale e avere, così maggiori possibilità di essere accettato indipendentemente dalla personalità e dalla cultura del cliente. Anche evitare particolari termini quali “problema” e “terapia” permette di mantenere questa neutralità e di evitare che il cliente avverta di essere già stato giudicato. L’unica cosa che può essere libero di mostrare a volontà è l’atteggiamento di interesse e completa accettazione e la disponibilità all’ascolto. Bisogna evitare discorsi tecnicistici, soprattutto all’inizio del colloquio perché possono generare repulsione e ostilità e aumentarli se sono sentimenti già presenti. Così, se il cliente non parla e mantiene uno sguardo cupo, lo psicologo deve evitare di elogiare gli esiti e i risultati dei propri strumenti.

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I Principi della Comunicazione Terapeutica. - Immagine: © Adam Gregor - Fotolia.com
Articolo Consigliato: La Comunicazione Terapeutica #1

Fine e Glasser [1996] suggeriscono alcuni modi per avviare il colloquio, tutto semplici e non intrusivi:

1) “Cosa l’ha portata qui?”: fare una domanda aperta di questo tipo è una delle vie più semplici da seguire. La domanda aperta permette di passare il testimone della comunicazione al cliente (lasciando nelle sue mani il flusso comunicativo) senza imporre o indurre alcun tipo di argomento specifico e rimanendo totalmente neutrali. E’ consigliabile anche evitare particolari accenti su una o più parole della frase che potrebbero cambiare il suo significato.

2) “Lei mi sembra molto sofferente”: è un esempio del secondo tipo di apertura che, oltre a essere neutrale e semplice mette in mostra un’importante qualità dello psicologo, quella di saper nominare i sentimenti. All’interno del colloquio psicologico è importante mostrare (più che dire) al cliente che, parlando di sentimenti, non si ha paura di nominarli e di discuterne senza turbamento, mantenendoli sotto il proprio controllo.

3) “Mi rendo conto che è stato mandato da me e penso che sia questo il motivo per cui ora ha un aria così arrabbiata”: costituisce l’avvio più adatto, secondo gli autori, in un colloquio con clienti involontari. Si concentra proprio sul fatto che il cliente non è venuto di sua spontanea volontà, mostrando che lo psicologo può capirlo anche in questo. Un’introduzione di questo tipo può avere il potere di smuovere il cliente, posto davanti ad un avvio inaspettato, e di motivarlo a tentare un dialogo. Dopo questa affermazione lo psicologo può rimanere in silenzio prima di proseguire per lasciare al cliente il tempo di realizzare tutto questoe magari di iniziare a parlare.

 4) “Il tribunale per la libertà condizionale l’ha mandata qui per una supervisione”: è un altro metodo per avviare il colloquio con clienti involontari. Equivale a dire cosa si sa sulle condizioni che lo hanno condotto al colloquio psicologico. Lo psicologo espone il problema come viene visto dal suo punto di vista salvo poi porre una domanda aperta del tipo: Me ne vuole parlare?” che permette di lasciare il fluire della comunicazioni nelle mani del cliente.

5) “Lasci che le spieghi di cosa si occupa il nostro ente. Noi aiutiamo le persone a…”: questo è il genere di apertura che gli autori consigliano quando lo psicologo è dipendente di un qualche ente di servizio. Si può immaginare che il cliente sappia già in che tipo di ente si trova, ma probabilmente questo tipo di introduzione serve anche a esprimere ciò che l’ente fa attraverso un linguaggio comune e più facilmente comprensibile e, quindi, a chiarire al cliente di essere giunto nel posto giusto. Dopo questa introduzione, che deve comunque essere breve, una domanda aperta concede la parola al cliente.

 

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

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ALLEANZA TERAPEUTICA – IN TERAPIA  

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Lesbiche: Maggiore Incidenza di Abusi Sessuali Nell’Infanzia? #LGBT

Omossesualità Femminile: Maggiore Incidenza di Abusi Sessuali Nell'Infanzia?. - Immagine: © laurent hamels - Fotolia.comLesbiche e donne bi­sessuali riferiscono più del doppio di esperienze di vittimizzazione ed il triplo di episodi di abusi sessuali nell’infanzia.

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Alcuni studi dimostrano che il 50% di donne lesbiche ha subito abusi sessuali nell’infanzia: circa il doppio rispetto alle donne eterosessuali. (Balsam et al. 2005; Hughes et al. 2000).

Se le dinamiche relazionali di una famiglia e la non-conformità con il genere ses­suale sono già stabilite, l’abuso sessuale può causare il radicamento del distacco, dell’insicurezza dell’identità sessuale e della disidentificazione, che possono con­durre all’attrazione per lo stesso sesso. L’abuso sessuale può essere emotivo, ver­bale o fisico. Una ragazza che è fatta oggetto di inappropriati commenti sessuali, cui viene negata un’adeguata privacy o il cui padre ha tendenze voyeuristiche, nonostante non sia stata toccata è stata lo stesso violata sessualmente. (Peters & Cantrell 1991, Howard 1991)

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Tonda Huges, professore presso l’Università di Illinois a Chicago, ed i suoi col­laboratori hanno pubblicato sulla rivista Science i risultati di uno studio condotto su 34.635 giovani adulti (a partire dai venti anni di età), il 2% dei quali si identificava in una minoranza sessuale (lesbiche, gay, bisessuali), al fine di esaminare la relazione tra esperienze di vittimizzazione e disturbi relativi all’abuso di sostanze stupefacenti (Huges, T. at al. 2010).

Mediante interviste faccia a faccia, i ricercatori hanno raccolto dati circa loro eventuali passate esperienze di attività sessuali indesiderate, abbandono, violen­za fisica, aggressioni con armi per poi comparare gli effetti di questi episodi di vittimizzazione tra i quattro sottogruppi di identità sessuale in cui era stato diviso il campione: eterosessuali, lesbiche o gay, bisessuali, “non sicuri”.

Disturbo dell’Identità di Genere – “Mi Arrangio a Essere Lesbica”. - Immagine: © auremar - Fotolia.com
Articolo consigliato: Disturbo dell’Identità di Genere – “Mi Arrangio a Essere Lesbica”

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Dai risultati è emerso che, rispetto ai soggetti eterosessuali, lesbiche e donne bi­sessuali riferiscono più del doppio di esperienze di vittimizzazione ed il triplo di episodi di abusi sessuali nell’infanzia.

Anche i ricercatori Roberts e Sorensen (1999) hanno condotto una ricerca sulla diffusione di abusi sessuali nell’infanzia in particolare nella popolazione lesbica.

Ventidue questionari sono stati distribuiti attraverso il «Progetto Salute Lesbica» di Boston.

Le domande circa l’abuso sessuale infantile sono state:

sei mai stato molestato o aggredito sessualmente?

• se sì, chi ti ha molestato?

• a che età?

Un totale di 1.633 lesbiche ha restituito il questionario. Delle lesbiche intervistate, il 45,8% ha affermato di essere stata molestata o ses­sualmente aggredita. Tra queste donne, il 26,8% ha indicato di essere stata mole­stata prima dell’età di 12 anni e il 12,1% tra i 12 e i 18 anni.

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– La storia di Rebecca – 

Sono cresciuta in una famiglia un po’ all’antica – per usare un eufemismo – in cui la femmina è “schiava” del maschio. Mi sentivo la bambina invisibile: una bimba vissuta nell’ombra di un fratello più grande, venerato dai miei genitori. Già a tre anni avevo capito che essere maschio era “meglio”, più facile, più bello. Ai maschi tutto era dovuto e soprattutto permesso, così, pur sentendomi donna, cercavo di comportarmi da maschio, per poter godere degli stessi diritti… Ma non è andata così. Avevo un fratello, quattro anni più grande, a lui è stato davvero permesso tutto. Anche l’abuso sessuale sulla sorella. Su di me. Mi son portata dentro questo “segreto” per anni, finché, all’età di 30 anni ho deci­so di parlare e raccontare tutto. In famiglia non sono stata creduta. Il carnefice si è sentito così sicuro e tutelato da ammettere l’abuso, ma i miei genitori hanno smi­nuito il tutto e, messi di fronte alla possibilità di rimediare al loro errore, hanno continuato a fare la scelta sbagliata. Hanno ancora deciso di tutelare il maschio, il figlio. 

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 Io ho troncato i rapporti con quella che non considero più la mia famiglia e che in fondo non lo è mai stata. Fino a 26 anni ho sempre avuto rapporti con soli uomini, mi sono scoperta/ac­cettata lesbica a 30 anni, alla mia seconda storia sentimentale con una donna. Durante la prima relazione negavo l’evidenza: “Io non sono lesbica!”. Data la famiglia e il con­testo in cui vivevo, non riuscivo ad ammettere, prima di tutto con me stessa, di essere omosessuale, e che, quello che provavo era amore, un amore saffico. Entrambe ci definivamo amiche. A riprova della mia eterosessualità ho continua­to a frequentare dei maschi, poi, dopo due anni di “amicizia”, la presa di coscienza. Il bisogno di capire chi ero mi ha portato su una chat di “donne per donne” e lì ho trovato l’amore della mia vita. Lei mi ha spiegato e introdotto nel mondo lesbico, mi ha aiutato a trovare le ri­sposte che cercavo e soprattutto a trovare la forza per uscire dall’inferno che era il mio contesto familiare. I miei genitori non riuscendo ad accettare questa mia “condizione” hanno definito queste persone appartenenti ad una setta. Nel frattempo, dolorosamente, ho affrontato un percorso di psicoterapia che mi ha aiutata a rielaborare il trauma dell’abuso, ad accettare la mia omosessualità e soprattutto a scoprire di non essere io quella sbagliata.

 

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LGBT – Lesbian, Gay, Bisex and Transgender – ABUSI & MALTRATTAMENTI – TRAUMA & ESPERIENZE TRAUMATICHE – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – FAMIGLIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Testosterone Cala Se La Moglie dell’Amico è nei Paraggi

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Testosterone: I risultati suggeriscono che i livelli di testosterone nei maschi subiscano un calo quando questi interagiscono con la moglie di un caro amico

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Un nuovo studio della University of Missouri ha studiato l’influenza delle modificazione biologiche negli individui di sesso maschile sul comportamento sociale e le relazioni sentimentali. I risultati, pubblicati sulla rivista Human Nature, suggeriscono che i livelli di testosterone nei maschi adulti subiscano un calo quando questi interagiscono con la moglie di un caro amico.

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Articolo Consigliato: Testosterone ed Elaborazione della Ricompensa

Mark Flinn, professore di antropologia, spiega che le proposte di adulterio fatte da un uomo alla moglie di un amico sono relativamente rare rispetto alle molte occasioni di corteggiamento offerte dalle circostanze.

I livelli di testosterone degli uomini in genere aumentano quando stanno interagendo con una potenziale partner sessuale o con la compagna di un nemico. Tuttavia, i  risultati di questo studio suggeriscono che la mente maschile si sia evoluta per favorire una situazione in cui, tra amici, siano rispettati i legami di coppia stabili.

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In definitiva, sostiene Flinn, questi risultati mettono in luce come le persone si siano evolute per formare alleanze.

 I sociologi ritengono che la comprensione dei meccanismi biologici che impediscono ai maschi di competere per conquistare le mogli degli altri possono aiutare a comprendere come le persone collaborano in piccole realtà sociali come i quartieri, e in quelle più grandi come le città, fino a comprendere la collaborazione a livello globale.

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Secondo Flinn, a livello evolutivo, gli uomini che hanno costantemente tradito la fiducia degli amici, mettendo in pericolo la stabilità delle famiglie, possono avere causato uno svantaggio in termini di sopravvivenza per l’ intera comunità.

Infatti una comunità di uomini che non si fidano gli uni degli altri sarebbe fragile e vulnerabile agli attacchi esterni. I costi di una reputazione inaffidabile avrebbero superato i vantaggi di avere un maggiore numero di figli con la compagna di un amico.

 

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RAPPORTI INTERPERSONALI – AMORE & RELAZIONI INTERPERSONALI – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Insonnia: Lasciami Dormire Ancora

 

Che cos’è l’insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il suo rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o alla saggia follia dei sogni? (Marguerite Yourcenar)

Insonnia. Lasciami Dormire Ancora. - Immagine: © Johan Larson - Fotolia.com

Persone che dormono in media meno di sette ore hanno probabilità più alte di avere valori della pressione sanguina superiori alla norma.

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“Le ore di sonno devon essere: cinque al viandante, sei al mercante, sette allo studente e otto all’altra gente” dice il proverbio, e ancora “Andar presto a dormire e alzarsi presto chiude la porta a molte malattie”, quello che la saggezza popolare ci ricorda da tempo, la voce della nonna davanti al camino che racconta quello che la sue esperienza l’ha portata a conoscere, viene oggi sempre più confermato dalla ricerca.

Ad esempio, uno studio pubblicato nel Journal of Sleep Research da un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School di Boston ha evidenziato che donne e uomini che dormono regolarmente in media meno di sette ore hanno una probabilità più alta di avere valori della pressione sanguina superiori alla norma, rispetto ai coetanei che, a parità di stile di vita, dormono di più. Un buon sonno ristoratore magari più lungo anche di solo un’ora può aiutare a tenere sotto controllo i valori della pressione arteriosa, oltre a migliorare umore e memoria.

Secondo i ricercatori, infatti, riposare almeno sette ore inciderebbe sulla capacità dell’organismo di rispondere alle sollecitazione degli ormoni dello stress durante la giornata, avendo poi una ricaduta importante sulla regolazione della pressione sanguigna.

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Il Trattamento Cognitivo-Comportamentale dell' Insonnia - Recensione
Articolo Consigliato: Il Trattamento Cognitivo-Comportamentale dell’ Insonnia – Recensione

Alla ricerca hanno partecipato 22 uomini e donne con valori di pressione non eccessivamente alti ma vicini al livello soglia che hanno dichiarato di dormire meno di sette ore per notte. Nelle sei settimane di durata dello studio a 13 persone è stato chiesto di dormire almeno un ora in più, andando per esempio a letto prima tutte le sere, mentre a 9 è stato detto di mantenere le stesse abitudini sonno\veglia. I risultati hanno dimostrato che i valori di pressione sanguigna erano scesi tra gli 8 e i 14 mmHg solo grazie al piccolo cambiamento chiesto ai 13 partecipanti. In affiancamento alla terapia farmacologica a chi soffre di pressione altra potrebbero forse essere prescritte qualche ora di sonno un più?

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E ancora, secondo uno studio condotto dai ricercatori guidati da Timothy Roehrs, solo due ore di sonno in più a notte, almeno dieci invece delle tanto citate otto ridurrebbe la sensibilità al dolore e aumenterebbe il livello di attenzione e vigilanza. Solo due ore di sonno in più produrrebbero gli stessi effetti analgesici di 60 mg di codeina. Alla ricerca hanno partecipato 18 soggetti divisi in modo randomizzato in quattro gruppi differenti tra di loro per il numero di ore di sonno in un range tra quattro e dieci. I membri del gruppo delle 10 ore di sonno hanno mostrato una maggior tolleranza al dolore infatti hanno tenuto il dito su una fonte di calore il 25% più a lungo rispetto agli altri gruppi. Così di contro secondo i ricercatori l’aumentata sensibilità al dolore nelle persone stanche sarebbe da collegare direttamente alla loro mancanza di sonno.

Avete mai subìto la tortura dell’insonnia, quando si avverte ogni istante della notte, quando esistete solo voi al mondo, e il vostro dramma diventa il più importante della storia, di una storia ormai svuotata di senso, e che neppure più esiste, giacché sentite levarsi in voi le fiamme più spaventose, e la vostra esistenza vi appare come unica e sola in un mondo nato soltanto per portare a termine la vostra agonia? (Emil Cioran)

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 INSONNIA – SONNO –  STRESS 

 

BIBLIOGRAFIA:

Procastinazione: Differenze di Genere e Educazione

Procastinazione. Differenze Genere e Educazione. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.comProcrastinazione: una forma di fallimento autoregolato connesso a più bassi livelli di autostima, salute e benessere.

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Una delle leggi di Murphy recita: “Più efficienti si è nel procrastinare, meno efficienti si ha bisogno di essere in ogni altra cosa”. La procrastinazione si può definire come una decisione volontaria di ritardare il corso di un’azione, nonostante la consapevolezza che il ritardo potrebbe avere conseguenze negative. In sintesi, posticipiamo anche sapendo che è la scelta peggiore.

Lo studio di Steel e Ferrari (2012), rispettivamente delle università di Calcary e Chicago negli Stati Uniti, indaga le caratteristiche degli individui che avrebbero la tendenza a rimandare. Lo studio è stato condotto su un imponente campione di 16.413 soggetti, raccolto nell’arco di tre anni, di madrelingua inglese, reclutati attraverso internet. Le variabili prese in considerazione hanno riguardato: sesso, età, stato coniugale, numerosità del nucleo familiare, educazione e nazionalità.

La Tendenza alla Procrastinazione da Dove Origina?. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.com
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Era possibile accedere al questionario attraverso un sito online gratuito e senza fini pubblicitari. Ai partecipanti erano poi restituite informazioni riguardanti i livelli di procrastinazione e dei consigli per ridurli.

I risultati, emersi dalla ricerca, indicherebbero che la procrastinazione sarebbe maggiormente connessa a sesso, età stato coniugale e livello educativo. I procrastinatori sarebbero di sesso maschile, giovani, single, con una bassa scolarità.

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La procrastinazione, non indicherebbe una semplice tendenza a rimandare ciò di cui non si ha voglia, ma costituirebbe un tratto stabile di personalità, come già ipotizzato da Steel (2007); al test-retest reliability  la stabilità dei punteggi nelle somministrazioni successive (a circa 40 giorni), attestato a .73, sembrerebbe confermarlo.

La tendenza a rimandare, non avrebbe effetti negativi solo sugli studi, ma sarebbe anche associata a spese mediche più alte: i procrastinatori sarebbero dei pessimi pazienti, non seguendo le direttive dei medici o facendosi controllare solo quando la malattia è ad uno stato avanzato. Incorrerebbero poi in maggiori debiti economici, l’80% infatti ammette di non riuscire a risparmiare. In conclusione essere più cicala, che formica, come nella favola di Esopo, non avrebbe dei costi elevati solo per il singolo, ma anche per la sanità e la società.

 

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PROCRASTINAZIONE – TRATTI DI PERSONALITA’ – GENDER STUDIES 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Disturbo Borderline di Personalità: Una Cascata Emotiva

Edward Selby, Ph.D. Associate Professor at Rutgers University (New Jersey)

Francesca Martino, Psicologa Cognitiva

 

“Ho sempre sentito queste sensazioni. Non credo ci siano parole per descriverle esattamente, è una combinazione di ira furiosa, rabbia e dolore estremo. Queste si  mescolano insieme in quella che io chiamo “la Furia” … Sto iniziando ad imparare come trattarla, ma fino a poco tempo fa, gli unici modi che conoscevo per domarla erano il bere e le droghe. Prendevo  qualcosa, qualsiasi cosa, e se ne prendevo abbastanza, la Furia si placava. Il problema era che sarebbe sempre tornata, di solito più forte, e che avrebbe richiesto sempre più sostanze per ucciderla. Quello sarebbe stato sempre l’obiettivo: ucciderla”.

– James Frey, A Million Little Piece

 

Il Disturbo Borderline di Personalità - Una Cascata Emotiva - State of Mind
Il Disturbo Borderline di Personalità – Una Cascata Emotiva – State of Mind

Cascata Emotiva: La disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità potrebbe essere considerata il risultato di un uso intenso di ruminazione.

– ENGLISH VERSION –

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La disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità potrebbe essere il risultato di un uso intenso della ruminazione. Infatti, la tendenza a ruminare sulle emozioni negative aumenta la loro intensità e, a loro volta, le emozioni negative intense incrementano i livelli di ruminazione, creando così un circolo vizioso, chiamato Cascata Emotiva.                                                                                                              

Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è caratterizzato da emozioni negative intense, problematiche interpersonali e comportamenti impulsivi e discontrollati. L’instabilità emotiva e il discontrollo del comportamento sono caratteristiche centrali nel DBP (Linehan, 1993). La disregolazione emotiva è intesa come un’ intensa e veloce risposta agli stimoli emotivi e un lento ritorno all’attivazione di base. Il modello teorico suggerisce che l’instabilità emotiva sia responsabile dei comportamenti discontrallati del DBP, tra cui l’autolesionismo, l’aggressività, l’uso di sostanze e le abbuffate alimentari. Nonostante le ricerche abbiano fornito una parziale conferma di tale modello teorico, i meccanismi specifici che provocano la disregolazione emotiva ed elicitano i comportamenti impulsivi nel DBP non sono ancora chiari.

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Frank Yeomans: Understanding the BPD Mind (Interview)
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Di recente, il Modello della Cascata Emotiva (MCE; Selby et al 2008; 2009) ha fornito una maggiore comprensione del DBP, soprattutto rispetto al rapporto tra disregolazione emotiva e comportamentale. Secondo il MCE, la ruminazione potrebbe svolgere un ruolo centrale nell’incrementare le emozioni negative e nel favorire il discontrollo del comportamento. In particolare, quando le persone con DBP sperimentano emozioni negative, inizierebbero automaticamente a rimuginare su queste con l’intenzione di regolare tale emotività intensa e sgradevole. C’è ormai un certo accordo nel definire la ruminazione come una strategia cognitiva disfunzionale di regolazione emotiva caratterizzata dalla tendenza a riflettere ripetutamente sulle cause e sulle conseguenze dell’ esperienza negativa (Nolen-Hoeksema, 1991).  Nonostante sia stato dimostrato come la ruminazione aumenti le emozioni, invece di ridurle, molte persone continuano ad utilizzarla perché credono, erroneamente, che ri-pensare agli eventi aumenti la loro comprensione della situazione e la possibilità di risolvere i problemi (Papageorgiou, 2001).

La disregolazione emotiva nel DBP potrebbe essere dunque il risultato di un uso intenso della ruminazione. Infatti, come la tendenza a ruminare sulle emozioni negative aumenta la loro intensità, così le emozioni negative intense, a loro volta, incrementano i livelli di ruminazione, creando dunque un circolo vizioso chiamato Cascata Emotiva.

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Al fine di interrompere questo ciclo, un individuo può adottare comportamenti disfunzionali che lo distraggono dai pensieri negativi. Questi comportamenti interrompono la cascata emotiva consentendo all’individuo di concentrarsi su altri stimoli intensi, come la quantità elevata di cibi in un’abbuffata, le azioni aggressive verso qualcuno, il dolore fisico e la vista del sangue nell’ autolesionismo. Questi comportamenti si rivelano efficaci nell’immediato (nel modificare/ridurre le emozioni negative) spiegando dunque le ragioni del loro frequente utilizzo, ma disfunzionali nel lungo periodo. Successivamente infatti, gli individui possono sperimentare nuove forme di ruminazione, derivanti dalla vergogna o dal senso di colpa per aver messo in atto comportamenti privi di controllo (come autolesionismo e/o abbuffate).

 Il MCE è stato studiato su popolazioni di studenti con tratti borderline (Selby et al 2008, 2009, 2012). In uno studio trasversale, i risultati hanno mostrato che la ruminazione (depressiva e rabbiosa) mediava tra le emozioni  negative e i comportamenti problematici, confermando il suo ruolo centrale nel favorire azioni impulsive e discontrollate in soggetti con tratti borderline in presenza di emozioni negative.  Inoltre, in uno studio longitudinale, alti livelli di emozioni spiacevoli e di ruminazione predicevano i comportamenti impulsivi dopo poche ore dall’ evento negativo.

 

In conclusione, il MCE è stato studiato ad oggi su popolazione sana. Nonostante siano state confermate nel DBP delle strategie cognitive disadattive di regolazione emotiva, come la ruminazione (Baer et al. 2011), la loro implicazione nel discontrollo del comportamento deve ancora essere dimostrata in campioni clinici. Attualmente in Italia si sta conducendo una ricerca finalizzata ad indagare il MCE nel DBP.

 

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DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – IMPULSIVITA’ – RIMUGINIO & RUMINAZIONE 

 

Bibliografia:

Mediazione Familiare e Separazione Coniugale

 

Mediazione Familiare e Separazione coniugale. -Immagine:© william87 - Fotolia.comLa mediazione familiare offre ai coniugi la possibilità di costruire uno spazio protetto di ascolto e di soluzione del conflitto.

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La mediazione familiare si è sviluppata per la prima volta negli Stati Uniti negli anni 70 e attualmente si sta diffondendo ovunque con l’intento di ridurre i danni indotti da separazioni coniugali molto conflittuali. La carte europea dei Mediatori Familiari (1992) la definisce così: “Un processo nel quale un terzo viene sollecitato dalle parte per affrontare la riorganizzazione resa necessaria dalla separazione nel rispetto del contesto legale esistente. La mediazione è un lavoro che mira a ristabilire la comunicazione fra i coniugi in vista della costruzione di un progetto relativo all’organizzazione delle relazioni dopo la separazione e il divorzio.

Lo scopo quindi dell’intervento sarebbe quello di aiutare genitori che si stanno separando in modo conflittuale a trovare strategie cooperative in quanto genitori. La mediazione offre ai coniugi la possibilità di costruire uno spazio protetto di ascolto e di soluzione del conflitto.

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Sono previsti anche interventi dopo la fase di mediazione, con l’obiettivo di sostenere le risorse genitoriali in coincidenza di eventi come l’adolescenza, la modificazione dell’assetto familiare (esempio: uno dei due ex coniugi si risposa), gestione di famiglie monoparentali.

Gruppi di Parola per Figli di Genitori Separati Una Risorsa alla Genitorialità. - Immagine: © Carlo Toffolo - Fotolia.com
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La mediazione si differenzia dalla psicoterapia di coppia poiché nel primo caso ci si occupa in modo specifico della valorizzazione delle risorse genitoriali dando per assodata una dissoluzione del legame di coppia mentre nel secondo caso ci si interessa direttamente alla dimensione coniugale e relazionale.

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Che formazione possiede il mediatore familiare?

Vi sono pareri diversi in base a quale debba essere la formazione di base del mediatore. In Italia attualmente non è stato approvato dal legislatore un percorso di studio obbligato per divenire mediatore, esistono però dei corsi specifici generalmente frequentati da: avvocati, psicologi e assistenti sociali.

Dove avviene la mediazione e quanto tempo dura?

La mediazione può essere pubblica, privata o collocata presso un Tribunale. Attualmente in Italia i mediatori che lavorano privatamente hanno maggiori occasioni di lavoro proprio collaborando con gli studi legali. I Tribunali per i minorenni e i Tribunali Ordinari quando decidono di prescrivere un percorso di mediazione inviano gli interessati presso i consultori e i centri di mediazione pubblici.

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Per quanto riguarda la durata vi è un accordo nel proporre un numero limitato di incontri, dagli 8 ai 12, che si estendono nell’arco di tempo compreso tra 4- 8 mesi sino ad un massimo di un anno.

Quali sono le tecniche adottate dal mediatore?

Durante il primo colloquio il mediatore spiegherà che il suo tentativo sarò quello di aiutare la coppia a trovare un accordo comune, senza che sia lui stesso a dover proporre delle soluzioni, li aiuterà a definire i campi di interesse e si occuperà del futuro più che del passato.

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Procederà poi con la raccolta delle informazioni più significative relative alla storia della coppie e ai motivi che hanno indotto la separazione, facendo in modo che tutte le informazioni siano condivise. Il primo compito del mediatore è quello di assumere il controllo nella definizione dell’elenco dei problemi da discutere. Il suo obiettivo è quello di far giungere la coppia ad una definizione congiunta di ciascun problema. È molto importante che la definizione avvenga in modo chiaro, non astratto e ben circoscritto.

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Durante questa prima fase è facile constatare nelle persone la convinzione che la causa della crisi coniugale sia qualcosa da attribuire all’altro (ad esempio: litigiosità, aggressività, troppa dipendenza dalla famiglia d’origine, tradimenti, indisponibilità alla vita sessuale ecc). Di conseguenza all’inizio ciascuna parte è fortemente convinta che la soluzione consista nel correggere questi comportamenti presenti nell’altro. Questo atteggiamento oltre ad essere scorretto dal punto di vista relazionale è anche inefficacie dal punto di vista operativo. Compito del mediatore, quindi, è anche quello di sottolineare proprio questo aspetto ai propri clienti, specificando che la mediazione è valida nella misura in cui i partner scelgono di assumersi degli impegni, nell’interesse loro e dei figli.

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Comunque una volta definiti i singoli argomenti da discutere si passa alla fase successiva, stabilendo i problemi da affrontare. Per ogni problema definito, il mediatore stimola i coniugi a trovarne una soluzione univoca o una possibile gamma di opzioni e gestisce la contrattazione fino a raggiungere un accordo. Non deve essere il mediatore a scegliere la soluzione che a lui pare più idonea, il suo compito è quello di fare in modo che i partner raggiungano una soluzione per loro accettabile. Quando è stato individuato un accordo su tutte le questioni si procede con la stesura dell’accordo.

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Tra le principali tecniche che il mediatore può utilizzare citiamo:

la normalizzazione, che serve a definire come risolvibile il problema che si sta affrontando, presentando la situazione come analoga a quella già vissuta da molte altre persone;

la reciprocità, che serve ad evidenziare le somiglianze tra le posizioni dei partner (esempio: “ho notato che entrambi desiderate essere ascoltati dall’altro”);

la sintesi, ovvero fare spesso il punto della situazione, sintetizzando di tanto in tanto ciò che è stato detto, ignorando i contenuti inutili e riaffermando gli obiettivi.

L’uso di tali tecniche ha come obiettivo quello di spostare lentamente  i partener dalla posizione conflittuale di partenza, aiutandoli a comprendere il punto di vista dell’altro attraverso l’acquisizione del principio di negoziazione, cedere qualcosa per ottenere qualcos’altro.

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 GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – FAMIGLIA –  SOCETA’ & ANTROPOLOGIA – DIVORZIO

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BIBLIOGRAFIA:

• Haynes J. (1996), Introduzione alla mediazione familiare, Giuffrè, Milano.

• Vito A. (2009), La perizia nelle separazione, FrancoAngeli, Milano.

Depressione & Comunicazione Cellulare

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa depressione sarebbe riconducibile a un’alterazione delle modalità di comunicazione cellulare e della trasmissione del segnale neuronale.

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Un nuovo studio della University of Maryland School of Medicine e pubblicato su Nature Neuroscience suggerisce che la depressione sarebbe riconducibile a un’alterazione delle modalità di comunicazione cellulare e della trasmissione del segnale neuronale. Invece di focalizzarsi sui livelli di serotonina nel cervello, gli scienziati hanno scoperto che la trasmissione di segnali eccitatori tra le cellule neuronali (comunicazione cellulare) presenta delle anomalie in caso di depressione.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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La gran parte dei farmaci antidepressivi maggiormente in uso di questi tempi fanno riferimento ai cosidetti SSRI (selective serotonin reuptake inhibitor), farmaci che causano un minore riassorbimento cellulare della serotonina, favorendone quindi una maggior concentrazione nel cervello. Poiché molti pazienti traggono beneficio dall’incremento di serotonina a livello cerebrale, è da tempo in voga l’ipotesi che sia proprio un insufficiente livello di tale sostanza il substrato biologico della depressione. Tuttavia, in circa la metà dei casi la sintomatologia della depressione non è responsiva alla farmacoterapia con SSRI.

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Il primo risultato rilevante dello studio è che la serotonina avrebbe la capacità di potenziare la comunicazione cellulare neuronale, amplificando il segnale eccitatorio della trasmissione cellulare in alcune aree cerebrali importanti per il funzionamento cognitivo ed emotivo. Il passo successivo è stato chiedersi se tale funzione della serotonina giocasse un ruolo nell’azione terapeutica dei farmaci SSRI.

 I ricercatori hanno esaminato il cervello di topi che sono stati ripetutamente esposti a situazioni stressanti che hanno causato in tali animali anedonia, una significativa perdita di interesse e preferenza per le attività normalmente svolte piacevolmente. Per esempio, in condizioni normali i topi preferiscono bere acqua zuccherata rispetto ad acqua insapore; gli animali sottoposti a condizioni stressanti non mostravano più tale preferenza, segnale per l’appunto di anedonia secondo gli autori della ricerca. Da un confronto dell’attività cerebrale dei topi anedonici e normali, è emerso che non vi erano differenze nel livello di serotonina cerebrale quanto invece le connessioni eccitatorie rispondevano alla serotonina in modo marcatamente differente, con difficoltà nella trasmissione del segnale eccitatorio nel cervello dei topi depressi.

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Gli autori, pur riconoscendo la necessità di ulteriori approfondimenti e repliche dello studio, ritengono che il malfunzionamento delle connessioni eccitatorie neuronali sia uno dei fattori chiave nella genesi della depressione e che il recupero di una adeguata comunicazione cellulare a livello cerebrale possa essere fondamentale nel trattamento dei sintomi depressivi.

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DEPRESSIONE –  FARMACI ANTIDEPRESSIVI – NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le Basi Psicologiche dell’Etica #1: Jonathan Haidt

 

Le Basi Psicologiche dell’Etica #1: Le Ricerche di Jonathan Haidt
Prof. Jonathan Haidt

Jonathan Haidt e le basi psicologiche dell’etica. L’uomo è dotato di una intuizione morale che non dipende dal ragionamento.

Il sentimento etico, in quanto stato mentale e comportamentale, può essere oggetto di indagine scientifica e psicologica. Ci sono molte ricerche su questo argomento e tra le più famose ci sono delle ricerche di Jonathan Haidt. Da qualche anno, il prof. Jonathan Haidt, che insegna all’Università della Virginia, negli Stati Uniti, fa interessanti esperimenti di psicologia del senso morale. Per esempio, nell’anno 2001, sul quarto numero di quell’annata della Psychological Review, a pagina 814 apparve un articolo dallo strano titolo: “Il cane emotivo e la sua coda razionale”. L’articolo iniziava con una scena agitata:

“Julie e Mark sono fratello e sorella. Stanno viaggiando insieme in Francia durante le vacanze estive. Una notte sono soli in cabina vicino alla spiaggia. Decidono che potrebbe essere interessante e divertente provare a  fare l’amore. Almeno sarebbe una nuova esperienza per entrambi. Julie già prende la pillola per il controllo delle nascite, ma anche Mark usa un preservativo, giusto per essere sicuro. A entrambi piace aver fatto l’amore, ma decidono di non farlo mai più. Considereranno quella notte come un segreto speciale che li renderà perfino più prossimi l’uno all’altro. Cosa pensi di tutto questo? Era “ok” per loro fare l’amore?”

Questa vignetta è stata utilizzata per eseguire uno degli esperimenti psicologici concepiti da Jonathan Haidt. Qual è l’obiettivo di questo esperimento? Haidt fece leggere la vignetta a un certo numero di persone, partecipanti volontari. La gran maggioranza, subito dopo aver letto il brano, esprimeva repulsione, condanna, ribrezzo, o almeno disorientamento e/o perplessità. A questo punto, Jonathan Haidt chiedeva alle persone di giustificare i loro sentimenti di condanna o repulsione. Qui iniziava il nocciolo dell’esperimento. Secondo Jonathan Haidt nessuno riusciva a giustificare in maniera razionale i propri sentimenti di ripulsa. Naturalmente anche nell’articolo di Jonathan Haidt il termine “razionale” è utilizzato secondo il significato moderno di calcolo dei pro e dei contro, dell’utilità e della dannosità pubblica e privata dell’atto. Per questa morale utilitaria non c’è un atto di per sé malefico, un valore in sé, se non quello dell’oggettiva dannosità.

In breve, secondo Jonathan Haidt nessun partecipante seppe giustificare in maniera convincente la propria condanna. A chi invocò danni genetici per l’eventuale prole, si rispose che i due consanguinei avevano usato varie precauzioni. Altri invocavano invece problemi di tipo emotivo, ma gli si rispondeva che invece il rapporto sessuale incestuoso era stato gratificante e privo di conseguenze emotive negative.

Giudizio morale: una questione di stomaco. Immagine: © Andy Dean - Fotolia.com -
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I risultati di questo esperimento possono essere interpretati in molte maniere. Jonathan Haidt ne ha tratto la conclusione che l’uomo è dotato di una intuizione morale che non dipende dal ragionamento. La reazione affettiva, caratterizzata da immediatezza istantanea, da assenza di sforzo da parte dell’attenzione consapevole e prodotta in maniera automatica e non intenzionale era capace di predire molto meglio il giudizio morale di ogni ragionamento sui pro e contro prodotto a posteriori.

Attenzione. Jonathan Haidt non arriva a sostenere che esistano valori universali. Questa conclusione filosofica andrebbe al di là del suo esperimento, e della scienza tutta. Jonathan Haidt sostiene semmai che esiste una tendenza universale al giudizio morale immediato, che è differente dal ragionamento ponderato. Il giudizio morale è quindi un giudizio spontaneo e non pensato. Certo, è vero che i suoi contenuti possono variare a seconda delle culture e delle sensibilità, che essi possono essersi automatizzati dopo essere stati appresi (o dopo che siano stati inculcati, diranno alcuni spiriti critici) o perché essi sarebbero legati a certe predisposizioni biologiche o naturali.

Jonathan Haidt non si esprime subito sui contenuti morali, e sembra incline semmai a individuare una funzione morale spontanea e universale, dal contenuto però relativo.

Jonathan Haidt conclude il suo lavoro assumendo che ogni giudizio morale obbedisca a una sua particolare bilancia morale in sé giusta, sebbene solo parzialmente. Attenzione: il politeismo morale di Jonathan Haidt non cade nell’immoralismo, ma in una sorta di panmoralismo ecumenico, in cui tutti i valori sono altrettanto pieni di una loro onesta e sincera moralità e inoltre sembrano essere in grado di convivere quasi armonicamente.

È giusto notare che il pluralismo morale di Jonathan Haidt non diventa relativismo morale. Per Jonathan Haidt ogni individuo è sempre moralmente motivato, e questa moralità è un valore in sé che non rimanda a nient’altro, tanto meno a un calcolo utilitaristico. L’obiettivo del suo esperimento psicologico era proprio mostrare la natura auto-fondante della moralità. La moralità è quindi un’emozione che non si appoggia ad alcun calcolo razionale, ma è un valore in sé. E il pluralismo non diventa mai relativismo per due ragioni: perché Jonathan Haidt crede nella genuinità del sentimento morale, che per lui non è un inganno prodotto da stati mentali insensati, e perché per Haidt questa pluralità di valori non è infinita, ma si articola su quatto assi, a quatto ordini di valori:

1) Rifiuto della Sofferenza;

2) Reciprocità, Giustizia ed Equità;

3) Gerarchia, Rispetto e Dovere; 

4) Purezza e Contaminazione.

Jonathan Haidt si fida di quella che lui chiama l’intuizione morale dell’uomo, e su di essa fonda la sua visione dell’etica, visione che è al fondo tradizionalista in quanto per lui l’etica è un valore in sé e non il prodotto di una convenienza utilitarista. Dunque, per Jonathan Haidt l’intuizione è sinonimo di verità. Per questa strada Jonathan Haidt rimane all’interno dell’ordine morale, e si rifiuta di attribuire un peso ad obiettivi meta-morali come l’utilità. Ma c’è qualcosa di ancor più notevole. Jonathan Haidt ammette che i valori morali possano essere il prodotto dell’evoluzione, ma per lui questo rimane ininfluente. Che i doveri, che le motivazioni morali, o anzi che l’organo percettivo della moralità (che sia la coscienza?) siano un prodotto di un processo biologico evolutivo non costituisce motivo di dissacrazione o di perdita di senso per la moralità stessa.

Il sentire morale non diventa un futile inganno solo perché è frutto dell’evoluzione. Haidt rimane all’interno del gioco morale.
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VIDEO: Jonathan Haidt: radici morali dei liberali e conservatori

Disarmare il Narcisista di Behary Wendy T.- Recensione

Recensione del Libro:

Disarmare il narcisista.

Sopravvivi all’egocentrico e migliora la tua vita

di Behary Wendy T.

(2012)

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Disarmare il Narcisista. Wendy T. Behary. ISC Editore (2012) Disarmare il Narcisista : un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

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Chi può dire di non avere mai incontrato nella propria vita un narcisista? Che sia il fratello, il fidanzato, il figlio, il collega di lavoro o una persona vicina a noi. Chi non si è almeno una volta sentito schiacciato? Chi non si è mai arrabbiato? Tutti abbiamo esperienza più o meno chiara di quanto sia difficile avere a che fare con un narcisista, di quanto sia difficile comunicare, farsi capire e ascoltare, rompere le difese che ostacolano un rapporto affettivo sereno, che ostacolano la “messa in circolo delle emozioni” .

Con 25 anni di formazione alle spalle e numerose certificazioni, Wendy Behary è fondatrice e direttrice del Cognitive Therapy Center del New Jersey e del The New Jersey Institute for Schema Therapy. E’ Presidente del comitato esecutivo della Società Internazionale di Schema Therapy (ISST).

Come esperta sul narcisismo ha pubblicato e collaborato alla redazione di numerosi testi scientifici sul tema. Tra questi anche Disarma il Narcisista” un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

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È un libro che fornisce sia ai terapeuti che ai pazienti diversi strumenti per migliorare la conoscenza di sé stessi e imparare a “disarmare” il narcisista,  imparando a gestire la relazione in modo più consapevole senza subire la personalità dell’altro. In questo libro Wendy Behary ci fornisce un importante kit di strumenti pratici che ci aiutano a capire come gestire le sfide emotive che subentrano quando ci relazioniamo con qualcuno che non si relaziona con noi, così come accade con il narcisista.

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Vincente in questo libro il fatto che l’autrice utilizza la cornice teorica sia della Schema therapy sia della neurobiologia interpersonale per far arrivare chiaro al lettore come il narcisista veda il mondo e quale sia la connessione tra relazioni interpersonali, mente e cervello. Ci spiega in modo comprensibile e semplice come le componenti biologiche combinate con le esperienze precoci possano plasmare in modo anche drammatico le nostre impressioni e le nostre credenze, e così diventa chiaro per il lettore come gli schemi maladattivi precoci possano essere simili a un boomerang che lo riporta spesso al punto di partenza nonostante i suoi sforzi.

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Molto bello il quadro che fa l’autrice del narcisista, un cavaliere maestro d’illusione, e molto utile l’esercizio presentato nella parte iniziale del libro che aiuta a identificare con quale tipo di narcisista si ha a che fare. Un importante riflettore viene posto sulla connessione emotiva come possibile via di soluzione della relazione, come motore per un cambiamento emotivo e mentale.

Il lettore è accompagnato nel capire come molto spesso gli ostacoli che gli impediscono di relazionarsi con il narcisista siano le proprie esperienze di vita e caratteristiche biologiche, e quindi i propri schemi. Molti sono gli strumenti, che con la lettura di questo libro, si acquisiscono per imparare a riconoscere e anticipare il momento in cui si rischia di cadere nei vecchi schemi maladattivi, dando maggior respiro e importanza alle sensazioni somatiche del momento.

Un passaggio verso l’apprendimento delle abilità di mindfulness come primo step del cambiamento, e tanti altri strumenti che accompagnano nel lungo e faticoso percorso di cambiamento della modalità di relazione, il confronto empatico, la compassione, lo stabilire dei limiti. E infine ancora l’autrice fa chiarezza su quali sono le strategie di comunicazioni maggiormente efficaci con il narcisista.

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Un libro sicuramente da leggere non solo per chi ha a che fare con un narcisista, ma poi chi non ha a che fare almeno con un narcisista, ma anche per chi ha voglia di fermarsi a riflettere sui propri schemi e intraprendere un viaggio pieno di possibili spunti e strumenti per la conoscenza del sé e per migliorare le proprie relazioni.

CONSIGLIATI:

Schema Therapy: Intervista a Wendy Behary. Come trattare il Narcisismo

LEGGI ANCHE: 

RECENSIONI – DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’ – NARCISISMO – RAPPORTI INTERPERSONALI –  SCHEMA THERAPY

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Emozioni Positive & Salute nei Paesi Non Industrializzati

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Emozioni Positive & Salute Fisica nei Paesi Non Industrializzati. Secondo una nuova ricerca le emozioni avrebbero un impatto sulla salute fisica.

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Secondo una nuova ricerca pubblicata su Psychological Science in tutto il mondo le emozioni avrebbero un impatto sulla salute fisica. Con un campione di 150.000 persone provenienti da 142 diversi paesi l’obiettivo della ricerca era di verificare se le emozioni avessero un impatto o meno sulla salute delle persone.

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Sarah Pressman (University of California, Irvine). In particolare, la connessione tra emozioni positive e salute fisica sarebbe più forte nei paesi con inferiore prodotto interno lordo, paesi non industrializzati.

Lo studio quindi dimostra che anche per le persone che vivono nei paesi non industrializzati più poveri, alle prese con carestie e indigenza, e la cui salute fisica di conseguenza viene impattata negativamente da tali condizioni, le emozioni positive avrebbero comunque una correlazione significativamente positiva con il benessere generale e la salute fisica.

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 Se uno studio su larga scala può dare spunti interessanti, gli stessi autori riconoscono alcuni punti di debolezza dello studio tra cui per esempio, l’aver indagato in modo semplicistico lo stato emotivo delle persone soltanto in riferimento al giorno precedente, e altre semplificazioni delle variabili relative al contesto più ampio.

Ad esempio, gli abitanti del Malawi sono definite nella ricerca tra i più povere considerando esclusivamente il criterio del prodotto interno lordo, non considerando che è uno dei pochi paesi africani che non ha mai vissuto una guerra civile dalla sua indipendenza e che ha a disposizione un esteso sistema di acqua potabile.

 

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La Deprivazione di Sonno influenza l’Espressione Genica

Dario Catania.

Psichiatra e Psicoterapeuta, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

“Benedetto sia chi inventò il sonno, cappa che copre tutti gli umani pensieri, cibo che toglie la fame, acqua che estingue la sete, fuoco per cui fugge il freddo, freddo che tempra l’ardore, moneta generale con cui tutto si compra, bilancia e peso che rende eguale il re al pastore e il saggio allo zotico.”

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1605/15

La Deprivazione di Sonno influenza l’Espressione Genica. -Immagine:© Ljupco Smokovski - Fotolia.com Una quantità insufficiente di sonno si ripercuote su molti meccanismi fisiologici di reazione allo stress, sulla risposta immunitaria e su quella infiammatoria; tali modificazioni possono giustificare, almeno in parte, gli effetti negativi sullo stato di salute dell’individuo, associati ad una condizione di deprivazione di sonno. 

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Il sonno è una modificazione dello stato di coscienza che da sempre ha suscitato interesse nelle neuroscienze. Nonostante sia di dominio comune il fatto che tutti i mammiferi e anche gli uccelli dormano, ancora si dibatte su quelle che possano essere le principali funzioni del sonno.

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Le principali di queste funzioni, su cui esiste ormai un certo accordo, sono due: il consolidamento della memoria relativa ad informazioni apprese durante la veglia (attraverso meccanismi di plasticità sinaptica) e il ripristino di una condizione di omeostasi cerebrale (attraverso l’attivazione funzioni metaboliche cerebrali di natura specifica volte a compensare modificazioni  fisiologiche occorse durante la veglia).

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Sebbene gli esseri umani siano capaci di deprivarsi di cibo, fino a lasciarsi praticamente morire, non sono in grado, parimenti, di vincere il loro bisogno di sonno.

Molte patologie psichiatriche, come i disturbi d’ansia o i disturbi dell’umore presentano dei pattern di sonno alterati rispetto ai soggetti normali, così come molti dei sintomi psichiatrici quali dispercezioni somato-sensoriali, fenomeni dissociativi, possono essere indotti da una deprivazione di sonno. Esistono anche molti dati in letteratura che evidenziano come una quantità insufficiente di sonno e una disregolazione del ritmo circadiano risultino associati ad alcune patologie, come l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari e i deficit cognitivi e dell’attenzione.

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Il meccanismo attraverso il quale un sonno disturbato possa determinare l’insorgenza di alterazioni di una generale condizione di benessere, non sono chiare e risultano in larga misura non esplorate.

Un recente studio (Effects of insufficient sleep on circadian rhythmicity and expression amplitude of the human blood transcriptome) pubblicato sul numero del 25 febbraio 2013 della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” (PNAS) tenta di fornire una prima risposta a questi interrogativi.

Alcune ricerche di laboratorio che hanno studiato volontari sani il cui sonno notturno era stato limitato a circa 4 ore per un periodo da 2 a 6 giorni, hanno identificato alcune variabili fisiologiche ed endocrine che possono mediare alcuni effetti negativi sulla salute, senza però  chiarire i meccanismi patogenetici specifici.

Ricerche effettuate su topi di laboratorio hanno invece evidenziato come la privazione di sonno sia associata ad importanti cambiamenti dell’espressione genica nel tessuto cerebrale, anche se il numero dei geni interessati varia ampiamente in relazione ai diversi studi e ai ceppi di animali utilizzati. Sembra che ci siano geni che vadano incontro ad una  up-regulation, ossia che funzionano di più e meglio, durante la veglia sostenuta (deprivazione totale acuta di sonno)  come quelli implicati nella plasticità sinaptica e nell’espressione delle Heat-Shock Proteins (proteine che intervengono in numerosi processi cellulari, in particolare la loro funzione è quella di mantenere la conformazione spaziale di altre proteine presenti nelle cellule). Sempre in condizioni di veglia sostenuta sono stati individuati geni che subiscono una down-regulation, ossia che riducono la trascrizione di proteine; si tratta soprattutto di geni coinvolti nella biosintesi di macromolecole e nella produzione di energia.

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Ciò che si evidenzia nei topi può verificarsi anche nell’uomo, questa è la conclusione a cui giunge la ricerca della Möller-Levet e dei suoi collaboratori dell’Università del Surrey di Guilford, nel Regno Unito, che hanno esposto 26 volontari sani ad 1 settimana di deprivazione di sonno (in media 5,7 ore per notte), seguita da 1 settimana di sonno sufficiente (in media 8,5 ore per notte).

Al termine di ogni settimana i ricercatori hanno effettuato 10 prelievi ematici per valutare i prodotti della trascrizione del genoma, su ogni individuo sottoposto ad una deprivazione totale di sonno per circa 40 ore, in una condizione sperimentale di luce, attività fisica, assunzione di cibo controllate. Lo studio ha evidenziato che ben 711 geni erano up- o down- regolati durante il periodo di sonno insufficiente.

In particolare una deprivazione di sonno:

riduce il numero di geni che hanno un profilo di espressione nell’arco delle 24 ore, caratterizzato da una fase di picco seguita da una fase di declino (i geni ad espressione circadiana si riducono da 1855 a 1481);

riduce l’ampiezza della espressione circadiana di questi geni;

aumenta di circa 7 volte il numero dei geni che la cui espressione è influenzata dalla assenza totale di  sonno per 40 ore (una analoga assenza totale di sonno, preceduta da una settimana di sonno normale, modifica l’espressione di un numero minore di geni).

I geni coinvolti nella deprivazione di sonno riguardano diverse famiglie, tra cui i geni che regolano i ritmi circadiani e l’omeostasi del sonno, i geni legati allo stress ossidativo legato alla formazione di radicali liberi e sostanze ossidanti (agenti chimici dannosi per le cellule), ed infine geni che regolano diversi processi metabolici.

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In conclusione una quantità insufficiente di sonno, condizione sperimentata da molti individui che vivono nelle società più industrializzate e in parte prodotta dalle trasformazioni dell’epoca post-moderna, si ripercuote su molti meccanismi fisiologici di reazione allo stress, sulla risposta immunitaria e su quella infiammatoria; tali modificazioni possono giustificare, almeno in parte, gli effetti negativi sullo stato di salute dell’individuo, associati ad una condizione di deprivazione di sonno. 

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SONNO  – GENETICA & PSICHE –  NEUROSCIENZE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Adolescenza: L’età degli Elefanti in Equilibrio Su un Filo

 

Di Emma Fadda

 

Adolescenza: L'età degli Elefanti in Equilibrio Su un Filo. -Immagine: © tiero - Fotolia.com

Possiamo immaginare l’adolescente come un elefante sospeso in equilibrio su un filo, dove cadere a volte è questione di un attimo e può essere estremamente doloroso se non si ha ancora a disposizione un buon paracadute.

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L’adolescenza è quella fase del ciclo vitale dell’essere umano in cui si verifica la transizione dallo stato del bambino a quello dell’adulto. Essa ricopre quindi un periodo lungo, mutevole da individuo a individuo, da cultura a cultura, che comporta modificazioni fisico-corporee e significativi cambiamenti psicologici.

L’adolescenza quindi, come ogni fase del ciclo di vita, richiede all’individuo di portare a termine un preciso compito di sviluppo, quello cioè di definire la propria identità in modo coerente, integrato e autonomo.

Tale difficile ma allo stesso tempo affascinante scopo può essere raggiunto solo attraversando una fase (quella adolescenziale) in cui il ragazzo da un lato gradualmente si rende autonomo e si differenzia dalla propria famiglia di origine, e dall’altro sperimenta se stesso, le sue capacità, risorse e limiti all’interno di contesti sociali, ruoli e situazioni sempre più differenti e variegati.

Autolesionismo-e-Adolescenza-“Non-Potevo-Farci-Nulla”. - Immagine: © Eky Chan - Fotolia.com
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Sperimentazione, differenziazione e identificazione rappresentano quindi quegli “strumenti del mestiere” attraverso cui i giovani, sulla scia dei processi maturativi fisici, cognitivi, morali e sociali che caratterizzano questa fase di vita, ricercano e danno coerenza al sé, definendo il proprio sistema di scopi e credenze, che guiderà le scelte di vita futura.

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I processi di maturazione adolescenziale coinvolgono prima di tutto il corpo, che “si trasforma” in un corpo adulto tanto nella forma quanto nelle risorse e nella funzione, aprendo la strada alla definizione della propria identità di genere e di una nuova esperienza di sé e della sessualità in termini di intimità con l’altro.

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Il ragazzo acquisisce un nuovo modo di porsi di fronte al mondo. I cambiamenti cognitivi che caratterizzano questa fase favoriscono l’introspezione, la maggiore predisposizione per la discussione, l’esercizio del pensiero come “oggetto” che si può manipolare, astrarre, usare per costruire teorie, per pensare il possibile, per mettersi nei panni degli altri.

Questa importante abilità, quella di leggere la mente dell’altro è ora possibile per l’adolescente, che matura quella sensibilità emotiva, quel linguaggio emotivo, che gli consente di “sentire” l’altro e non solo di vedere il suo comportamento. L’altro che non è più strumentale al soddisfacimento dei propri bisogni, ma diventa un contenitore di emozioni, sensazioni, idee, bisogni e scopi che devono essere legittimati. Ecco quindi che l’amicizia assume un nuovo valore, perché sostenuta dal desiderio di condividere, di stare insieme, di reciprocità, di rispetto dell’altro. Il mondo delle relazioni si rivoluziona, dalla famiglia alla rete sociale ed amicale.

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Un periodo, quello dell’adolescenza che visto così sembra quasi un’esplosione di accadimenti positivi. Purtroppo però “non sempre è oro quello che luccica” per cui frequentemente questa fase di passaggio avviene con impaccio, fatica e difficoltà.

Possiamo immaginare l’adolescente come un elefante sospeso in equilibrio su un filo, dove cadere a volte è questione di un attimo e può essere estremamente doloroso se non si ha ancora a disposizione un buon paracadute.Quel ragazzo un attimo prima è un bambino che vede improvvisamente e velocemente cambiare il suo corpo e la sua mente, che può sentirsi disorientato, confuso, spaventato e insoddisfatto di ciò che accade, o semplicemente ancora poco attrezzato per affrontarlo. Quel ragazzo che nel mettere alla prova le sue risorse e abilità non è ancora consapevole dei suoi limiti, e quindi fa degli errori, si mette in pericolo, confonde e spaventa chi ancora si prende cura di lui come se fosse un bambino.

L’adolescenza nasconde quindi tante insidie, dalle problematiche sempre più diffuse connesse al corpo e all’immagine corporea, all’uso e abuso di alcol e sostanze, ai rischi connessi ad un uso improprio del web, al cattivo rapporto con la scuola e alle conflittualità spesso forti all’interno della famiglia.

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Difficoltà che l’adolescente a volte e si ritrova a dover affrontare da solo, perché non sostenuto, non “visto” ma criticato e giudicato dal mondo degli adulti, in particolare dai genitori.

Adulti e genitori che dal canto loro si ritrovano spesso disarmati e confusi, inadeguati e preoccupati di fronte ad una fase di vita che loro stessi hanno affrontato, ma che spesso “non ricordano” o che a loro volta hanno dovuto affrontare da soli.

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L’adolescenza non è quindi solo una sfida per i giovani ma anche per i loro genitori, che sono chiamati ad acquisire ed allenare quell’abilità di stare vicini, sostenere, comprendere, ascoltare, ma allo stesso tempo stare lontani, lasciando la libertà ai loro figli di sperimentarsi in autonomia, a volte facendo degli errori, ma pur sempre riconoscendo negli adulti una “base sicura”.

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ADOLESCENTI –  GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ –  RAPPORTI INTERPERSONALI – FAMIGLIA

Mindfulness a Scuola & Minor Rischio Depressivo negli Adolescenti

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Una ricerca mostra che i ragazzi che hanno seguito un training di mindfulness a scuola abbiano minori probabilità di sviluppare sintomi depressivi e ansiosi

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Una nuova ricerca belga pubblicata da poco sulla rivista Mindfulness si è occupata degli effetti della mindfulness sugli adolescenti. In particolare, sembrerebbe che i ragazzi che hanno seguito un programma di mindfulness a scuola riportino minori probabilità di sviluppare sintomi di depressione e ansia nei sei mesi successivi.

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Mentre diversi studi si sono già occupati di interventi di mindfulness in setting clinici (si vedano studi su mindfulness e ricadute depressive in popolazioni cliniche) lo studio in questione verifica gli effetti della pratica della mindfulness in un ampio campione (400 soggetti) di adolescenti in un setting scolastico.

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La misura di outcome consiste in un questionario riguardante sintomi ansioso-depressivi, che è stato somministrato prima del programma, alla fine e sei mesi dopo.

Al pre-test entrambi i gruppi- sperimentale e di controllo hanno presentato percentuali simili di studi che riportavano sintomi depressivi (21 e 24%); al termine del programma tale percentuale si è significativamente ridotta nel gruppo sperimentale sceso a 15% di studenti con sintomi depressivi, contro il 27% di soggetti nel gruppo di controllo.

 Tale differenza si è mantenuta anche nel follow-up a sei mesi dalla fine del programma di mindfulness: 16% nel gruppo sperimentale contro il 31% del gruppo di controllo riferivano sintomi depressivi.

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Il limite dello studio è che il gruppo di controllo non ha ricevuto alcun trattamento di nessun tipo, sarebbe stato metodologicmanete più corretto sottoporre il gruppo a trattamenti placebo, e ancora più interessante ad altri interventi psicologici per verificare la maggiore efficacia nel setting scolastico.

 

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MINDFULESS – DEPRESSIONE – ANSIA – ADOLESCENTI 

BIBLIOGRAFIA:

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