Tim Wadsworth, professore associato di sociologia alla University of Colorado a Boulder, ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio secondo il quale la frequenza dei rapporti sessuali coincide con la felicità.
Come è stato ben documentato a proposito del reddito, sostiene Wadsworth, la felicità in relazione alla propria vita sessuale può aumentare o diminuire a seconda di come gli individui si percepiscono paragonandosi ai loro coetanei.
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Utilizzando i dati del General Social Survey e l’analisi statistica, Wadsworth ha scoperto che lacorrelazione tra felicità e frequenza del sesso elevata è costante in tutte le persone. Ma ha anche scoperto che chi crede di avere una vita sessuale meno soddisfacente in termini di frequenza rispetto ai coetanei è meno felice di chi invece è convinto di avere una vita sessuale come quella degli altri, o migliore.
L’indagine ha incluso domande sulla frequenza del sesso dal 1989. Il campione ha incluso 15.386 persone che sono state intervistate tra il 1993 e il 2006.
Chi ha riferito di aver fatto sesso almeno due o tre volte al mese ha avuto il 33% in più di probabilità di riportare un livello di felicità elevato di coloro che hanno riferito di non aver avuto rapporti sessuali negli ultimi 12 mesi.
La probabilità di essere felici aumenta all’aumentare della frequenza del sesso: una volta alla settimana produce un 44% in più di probabilità di riportare un più alto livello di felicità e con una frequenza di due o tre volte alla settimana si arriva a 55% .
C’è quindi un aumento complessivo nel senso di benessere dato dalla frequenza con cui si hanno rapporti sessuali, ma se fare più sesso ci rende felici, farne più degli altri ci rende ancora più felici.
Anche se il sesso è un fatto privato, i mezzi di comunicazione di massa e altre fonti di informazione forniscono indizi. Il risultato di questa raccolta, spesso involontaria, di informazioni è che se i membri di un gruppo di pari fanno sesso due o tre volte al mese, ma credono che i loro coetanei lo facciano una volta alla settimana, la loro probabilità di riportare un più alto livello di felicità scende di circa il 14%.
Le persone sono creature sociali, dice Wadsworth, e il loro senso di sé o di identità è dipendente dagli altri. Nelle sue lezioni di sociologia, Wadsworth chiede agli studenti di scrivere tre aggettivi per descrivere se stessi e poi chiede loro se quegli stessi aggettivi avrebbero lo stesso significato se si trovassero su un’isola deserta e non avessero nessuno con cui confrontarsi. “Indipendentemente dagli aggettivi usati – attraente, intelligente, divertente, povero – questi sono significativi solo se c’è la consapevolezza di come sono gli altri che ci circondano. Per questo motivo”, conclude, “non possiamo che essere ricchi se gli altri sono poveri, e sessualmente attivi se gli altri non lo sono”.
Open – La Mia Vita, Di Andre Agassi, Einaudi (2011) – Copertina
Il tennis era l’unica strategia che padroneggiava, e che nel tempo aveva funzionato per tenere lontano da sé quel pezzetto di sofferenza. Le sconfitte erano diventate così le dolorosissime dimostrazioni di aver fallito, di più: di essere un fallimento.
Qualsiasi psicologo non può che essere profondamente colpito da questo libro. Ci s’immagina il racconto di una serie di match points, di colpi sbagliati o azzeccati, di vittorie e sconfitte e invece… il lettore si trova di fronte a un vero e proprio testo di psicopatologia, calato nel racconto di una vita famosa con narrazioni di episodi, di emozioni e di pensieri.
Con molta facilità uno psicogo può rintracciare ABC, nuclei patologici tipici di alcuni disturbi, sistemi motivazionali interpersonali, credenze, scopi, cicli interpersonali ecc., insomma un autentico godimento, soprattutto per un Cognitivista!
Ogni pagina del libro è uno spunto di riflessione, un ragionamento sulle cause e sulle conseguenze, una domanda sulle modalità relazionali. In pratica una concettualizzazione del caso, narrata da un non addetto ai lavori. Proprio per ciò densa di contenuti, ma disorganizzata. Infatti lo psicologo, oltre a godersi il volume, si sentirà come costretto a conferire un ordine a questa immensa mole di informazioni tremendamente interessanti da un punto di vista psicologico. E pagina dopo pagina trarrà un immenso piacere nel concettualizzare il caso.
Ma andiamo per ordine. La prima parte del libro è senza dubbio la più interessante, proprio perché, come in ogni storia di vita che si rispetti, del protagonista Agassi viene narrata l’infanzia. Tutto ha inizio in questa fase della vita, e molto di quanto accade nelle età successive del protagonista, in queste pagine trova una spiegazione e un senso proprio in relazione alla sua età infantile. Ogni episodio e ogni emozione vengono raccontati col giusto trasporto ma al contempo con un elaborato distacco, proprio come se l’Agassi, che adesso rievoca, avesse trovato un senso a quegli eventi passati.
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Al proposito, certamente al Cognitivista che ci sta leggendo sta venendo in mente un termine… ebbene, anche al lettore succede lo stesso pagina dopo pagina: ipotesi dopo ipotesi da verificare durante la lettura del volume, proprio come le ipotesi formulate durante un assessment, da verificare in seguito nel corso della terapia. Ed eccoci alla prima ipotesi da formulare: il rapporto di Agassi col padre. Un «narcisista», definito così dallo stesso figlio, non appena apprenderà il significato della parola. Appunto da bravo narcisista, il padre non riesce a decentrare per comprendere la mente degli altri, e ritiene che anche la vita del figlio sia di sua proprietà. Cosa piaccia o interessi al figlio, per lui non è importante: è lui padre a decidere.
Agassi non ha mai messo in dubbio l’amore da parte del padre, l’avrebbe soltanto voluto meno duro, meno rabbioso e più disposto ad ascoltarlo. È completamente terrorizzato da lui, la sola idea di ribellarsi alle sue decisioni gli fa tremare le gambe. E fa bene a temere il padre: ogni volta che pensa di ribellarsi alle sue decisioni, gli torna in mente l’immagine del camionista lasciato esanime sulla strada proprio dal genitore, dopo averlo cazzottato a morte (o quasi, non lo sapremo mai) poiché quello aveva avuto l’ardire di protestare per un mancato inserimento della freccia di direzione.
Ma perché il padre si comporta così? Esiste una spiegazione a tutto ciò? Emigrato dall’Iran, vive costantemente un senso di non-appartenenza che cerca di gestire attraverso un forte bisogno di rivalsa, di cui il figlio è lo strumento: il successo di quest’ultimo nel tennis per il padre equivale a una vendetta nei confronti di un mondo sempre vissuto come ostile. Egli infatti desidera unicamente che Agassi diventi un campione, e non importa che il futuro eventuale campione odi con tutto se stesso il tennis.
E chissà se lo odia fin dall’inizio o se l’odio è soltanto la fisiologica conseguenza di un letterale martellamento, di un nemmeno troppo sofisticato lavaggio del cervello, di una quotidiana tortura subita a suon di milioni di palline sparate da un lanciapalle a forma di drago appositamente costruito, sempre dal padre, per incutere terrore ad Agassi, con la scusa di allenarlo.
Una volta pure diventato campione, Agassi non riuscirà mai a godersi appieno una vittoria, non saprà mai se è diventato un tennista in quanto obbligato a diventarlo, o perché lo voleva in prima persona, o forse – ancor peggio – perché non avrebbe saputo cos’altro fare nella vita.
I momenti di euforia sono passeggeri, poco gratificanti in confronto alla sofferenza che segue a ogni sconfitta («Vincere non cambia niente. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente»). Il dilemma tra amore e odio riguardo al tennis ci accompagna per tutto il libro. Di continuo si avverte il desiderio di abbandonare l’agonismo da parte di Agassi, di pagina in pagina si percepisce l’insofferenza per le critiche dei giornalisti, per i riflettori perennemente puntati su di lui e sulle sue azioni, l’intolleranza verso le sconfitte e la già citata insoddisfazione per le vittorie.
Agassi paragona il tennis al pugilato, nei termini in cui «il tennis è boxe senza contatto… solo che nel tennis le batoste sono più sottopelle». È vero che il dilemma amore/odio per il tennis occuperà l’intero volume, ma di sicuro il lettore alla fine può agevolmente darsi una risposta. Infatti una cosa è certa: Agassi, fra i tennisti della sua generazione, sarà quello che si ritirerà per ultimo, sebbene in molti glielo consiglino da tempo. Il libro, inoltre, termina con una piena dimostrazione di amore per il tennis: un improvvisato match con sua moglie, Steffi Graf, grande tennista a sua volta. Ma allora l’affermazione di odio verso quello sport non maschera piuttosto un tentativo di ribellione verso il padre?
Del resto Agassi, con un padre così, cosa poteva fare? Sembra proprio raccontarci di aver avuto due sole strade da seguire: o ribellarvisi o compiacerlo. La ribellione senza dubbio è sempre stata presente in Agassi, ma sopita, attuata limitatamente a questioni di poco conto (per esempio, l’ostentazione degli orecchini, vietati alla scuola di tennis e detestati dal padre come segno di omosessualità), mai urlata.
La compiacenza, invece, non si è sostanziata solo nell’assecondare le decisioni prese dal padre relativamente al suo futuro professionale, ma anche nel far propria la spasmodica ricerca del perfezionismo, eredità a sua volta di una caratteristica paterna. Agassi, infatti, non pensa di aver sviluppato negli anni tale mania perfezionistica, ma che essa sia una parte innata di sé, al pari della sua calvizie o della sua colonna vertebrale ispessita. Ha esclusivamente questa strada per potersi sentire vicino al padre: non, dunque, tramite l’affetto, terreno sconosciuto al padre, ma tramite la performance, che è l’unica strategia che nella vita al figlio abbia dispensato una seppur minima sensazione di essere amato.
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Nel tempo questa modalità si è generalizzata, diventando un vero e proprio pattern: è divenuta non la sua unica modalità per costruire una relazione col padre, ma l’unica per leggere il mondo, gli altri e soprattutto se stesso. Così, quando incontrerà un nuovo coach, il quale gli farà capire quanto sia faticoso e terribilmente dannoso ricercare di continuo la perfezione, Agassi avrà come una rivelazione: «La sua tesi che il perfezionismo è facoltativo mi dà serenità. Il perfezionismo è qualcosa che ho scelto, e mi sta rovinando, e posso scegliere qualcos’altro. Devo scegliere qualcos’altro».
Egli, a quel punto, non dovrà cercare di essere sempre il migliore del mondo, non dovrà inseguire primati e perfezione in ogni partita, in ogni colpo tirato, contro ogni avversario, ogni giorno. Capirà che può bastargli essere migliore di una sola persona alla volta, mentre gioca una partita di tennis, e che invece di essere costretto a cercare sempre di far bene lui, può anche indurre l’altro a sbagliare, o lasciare che sbagli di sua iniziativa.
Questo ci dice qualcosa sulla sua antica componente di odio per lo sport praticato. Il tennis, fino appunto all’avvento del nuovo allenatore e della sua alternativa filosofia agonistica, non era per lui un piacere ma un dovere, forse qualcosa di più, l’unica strategia che padroneggiava, e che nel tempo aveva funzionato per tenere lontano da sé quel pezzetto di sofferenza. Le sconfitte erano diventate così le dolorosissime dimostrazioni di aver fallito, di più: di essere un fallimento.
Solo un cambio di relazione poteva aiutarlo, e non più la strategia della prestazione – in cui egli peraltro aveva sempre eccelso, ma che tuttavia si era rivelata “il problema” – bensì l’aprirsi proprio a un altro tipo di relazione, che riuscisse a disconfermargli quelle credenzedisfunzionali.
Infatti, come abbiamo accennato, saranno proprio le relazioni “sane” a salvarlo, prima col suo neo-allenatore Gil (parlando con lui del suo primo figlio, Agassi dice: «Se diventa anche solo la metà dell’uomo che sei tu, avrà un successo fenomenale, e se io riesco a essere anche solo la metà del padre che tu sei stato per me, avrò superato i miei stessi standard»), poi con sua moglie Steffi Graf.
Cinematerapia & Fondamenti Psicoanalitici. Il cinema costituisce un regno tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga.
Grazie a Freud e a suoi studi sul significato dell’arte possiamo affermare che il cinema costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga, un dominio in cui sono ancora sopravvissute le aspirazioni all’onnipotenza dell’umanità primitiva.
Freud non vede nell’arte del cinema, proprio per il suo valore innovatore, una soluzione di compromesso, che invece riscontra nel sogno e nel sintomo nevrotico. Egli non approfondisce la natura di questa particolare attività dello spirito umano, ma grazie alla sua elaborazione degli istinti di vita e di morte, pone le basi per un sua validità terapeutica.
Il fatto che l’arte e in particolare il cinema, inteso come atto di vita, abbia uno stretto rapporto con la morte e con l’esperienza del lutto è un’ipotesi antica, evidenziata dalle origini funerarie e apotropaiche dell’arte. Partendo da questa premessa è, a mio avviso, decisivo l’apporto di Melanie Klein. Parafrasando la Klein possiamo sostenere che il mondo del cinema, mondo di “finzione”, si presta alla ricostruzione dell’oggetto perduto estrinsecando un’onnipotenza creativa, insieme illusoria e realistica, proprio perché, attraverso esso, si passa dalla realtà naturale della perdita alla realtà culturale del processo di simbolizzazione.
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La creazione filmica può far rivivere ciò che è morto di una vita del tutto singolare. I singoli fotogrammi, senza struttura formale, sono come lettera morta, ma inseriti nel contesto della struttura filmica diventano creazione, oggetto d’amore privilegiato, e si tramandano da cultura a cultura, da generazione a generazione come trionfo sulla morte.
Il passaggio dal caos al cosmos, tipico di ogni film, contiene in sé una connotazione creativa, cioè il passaggio dalla morte alla vita. Il cinema avrebbe, in modo specifico, la prerogativa di prestarsi ad elaborare la pulsione di morte, proprio perché dà al regista la possibilità di esprimere, in una particolare area di realtà, che è insieme illusoria e reale, la sua creatività.
Per comprendere, esprimere e superare la sua depressione, elaborarla in un atto creativo, il regista deve, non solo riconoscere, ma anche sopportare l’istinto di morte nei suoi aspetti aggressivi ed autodistruttivi, mostrandosi capace di accettare la realtà della morte, per il suo mondo e per gli oggetti esterni. Prendendo a prestito i contributi di Kris (Kris, 1967; Kris & Kurz, 1980) possiamo sostenere inoltre che il regista pone, nell’atto della creazione, se stesso al posto del suo pubblico, e si identifica col suo Io e Super-Io.
Il regista non rappresenta la natura, né la imita, ma la crea di nuovo. Con il suo film egli domina la realtà. Rivolgendosi alla situazione che egli intende creare, la fruga con lo sguardo, finché non ne è in pieno possesso; il significato inconscio di questo processo è il bisogno di dominare le cose, a costo di distruggerle. La distruzione della realtà si fonda sulla costruzione della sua immagine: indipendentemente dal grado di somiglianza, la natura è ricreata.
Come nel regista, anche nel pubblico, si attuano spostamenti di livelli psichici. Lo spostamento procede dalla coscienza, dalla percezione del film, verso l’elaborazione preconscia e le risonanze dell’Es. In una prima fase, l’Io diminuisce il controllo, vale a dire: apre la strada ad un’integrazione dell’Es. Questa fase è principalmente passiva: il film domina il pubblico. Nella risposta del pubblico, c’è inizialmente lo stadio più semplice e meno ambiguo, che può essere chiamato riconoscimento. La situazione ci è nota e la mettiamo in relazione con una traccia mnestica, sia pure leggera; può accadere che si cerchi, prima in modo impercettibile e poi consapevole, di reagire col proprio corpo; oppure può anche accadere che la reazione rimanga inconscia.
In uno stadio successivo, il pubblico passa da una fase passiva ad una attiva, l’Io afferma la sua posizione nell’atto della ricreazione, il film viene ricreato e la possibilità di rendere consapevoli conflitti inconsci del pubblico è di per se curativa.
Grazie alla rielaborazione dei contributi degli psicoanalisti, da me citati in questo articolo, possiamo attribuire alla cinematerapia una valenza terapeutica. Attraverso l’immaginario filmico gli spettatori entrano in contatto profondo con le proprie emozioni e rielaborano positivamente conflitti interiori.
Consolidano il proprio Io e rendono meno rigido il proprio Super-Io, ottenendo benefici che spaziano dalla sfera affettiva alla sfera individuale ed esistenziale.
Esercizi cognitivi aiutano a prevenire il declino cognitivo negli anziani sani, al contrario i benefici di farmaci e dell’esercizio fisico sarebbero scarsi.
Lo rivela una review apparsa sul Canadian Medical Association Journal, in cui gli autori hanno esaminato 32 studi randomizzati e controllati in cui sono state testate diverse forme di prevenzione del declino cognitivo.
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Il declino cognitivo lieve (più che normale per una persona di una certa età) colpisce il 10% -25% delle persone oltre i 70 anni. Il tasso annuale di declino in demenza (che è il declino cognitivo in diverse aree con una certa capacità funzionale) è di circa il 10%. Si stima che circa 18 milioni di persone nel mondo siano affette da demenza, di cui circa 1 milione in Italia.
L’analisi dei dati evidenzia che non ci sono prove forti per i trattamenti farmacologici come il ginkgo, il deidroepiandrosterone (DHEA), le vitamine e altre sostanze. Maggior parte degli studi di efficacia non mostrano alcun effetto mentre la terapia estrogenica ha mostrato un aumento del declino cognitivo e della demenza; anche i dati a favore dell’esercizio fisico sono deboli.
L’esercizio mentale, tuttavia, ha mostrato benefici nei tre studi clinici inclusi nella review. Ciò ha comportato programmi di formazione computerizzati o una formazione cognitiva intensiva per la memoria, il ragionamento o la velocità di elaborazione. In uno studio, i partecipanti hanno migliorato significativamente la memoria che è rimasta stabile in un follow-up a 5 anni. Un altro studio ha dimostrato un miglioramento nella memoria uditiva e dell’attenzione in un gruppo di anziani che hanno partecipato a un programma di training cognitivo computerizzato.
Questa revew fornisce alcune indicazioni che possono aiutare i medici ad indirizzare i pazienti verso le migliori strategie per prevenire il declino cognitivo. Studi futuri dovrebbero inoltre affrontare l’impatto della formazione cognitiva sulla prevenzione del declino cognitivo e incoraggiare i ricercatori a prendere in considerazione strumenti facilmente accessibili, come i cruciverba e il sudoku, ma che non sono ancora stati studiati in modo rigoroso.
In quest’ultima parte della monografia mi concentrerò sull’ultimo dei processi inseriti nel modello dell’ Acceptance and Commitment Therapy: la mancanza di attività e impegno per perseguire un valore personale.
Cosa significa? anche quando riusciamo a diventare consapevoli dei nostri meccanismi dannosi, delle nostre fusioni, delle maschere che indossiamo e dei momenti di mindlessness, in cui ci comportiamo con il pilota automatico acceso, resta un passo importante da fare: Impegnarsi per l’azione! e perseguire i propri valori!
Gli ostacoli più dannosi a tale impegno possono essere riassunti in due categorie di comportamenti: l’impulsività e l’evitamento persistente.
Entrambi tali comportamenti portano a vivere una vita caratterizzata da restrizione delle attività e rigidità del repertorio comportamentale. Fare sempre le stesso cose, evitare sempre le stesse situazioni equivale a non fare!
Monografia ACT – Parte 5 – Quale Maschera Indossiamo?
L’effetto maggiormente disfunzionale della inflessibilità comportamentale è che tale scelta (perchè in fondo, di scelta si tratta…) rende difficile adattare i propri obiettivi e i propri scopi personali alle esigenze del contesto e ciò porta l’individuo ad un continuo confronto con i propri ostacoli, che spesso ha esito negativo.
Ciò che L’Acceptance and Commitment Therapy persegue è favorire la consapevolezza dell’individuo su tali meccanismi e il riconoscimento di come perseguire mantenersi all’interno di un panorama di impulsività e evitamenti lo porti ad agire contro i propri valori.
L’azione impegnata, termine usato in Acceptance and Commitment Therapy per definire l’azione personale guidata dai propri valori, prevedere che l’individuo “faccia i conti” con le proprie difficoltà e fragilità.
Accogliendo e prendendo contatto con le proprie fragilità e guidando le proprie azioni partendo dai propri valori personali permette di perseguire una vita significativa e ricca, non senza sofferenze, ma soddisfacente e SCELTA!
Un tema molto caro all’ Acceptance and Commitment Therapy è il concetto della workability, della “fattibilità“. Un’azione impegnata e guidata dai propri scopi deve essere anche fattibile, perseguibile. Ad esempio, se io vado in terapia con l’obiettivo di “non provare mai l’ansia“, posso anche impegnarmi a cercare di evitare il meno possibile le situazioni ansiogene, posso impegnarmi nelle esperienze proposte dal percorso psicoterapeutico, ma se il mio obiettivo rimane quello di non provare mai ansia l’esito sarà fallimentare, perché non è fattibile!
Perchè allora l’impulsività e l’evitamento sono azioni poco funzionali? Perchè entrambe non sono perseguibili per un lungo periodo di tempo. Sia l’agire in modo impulsivo nella maggior parte delle situazioni sia evitare tutto ciò che mi fa paura non può portare a risultati soddisfacenti, in termini di benessere personale e relazionale.
La proposta dell’ Acceptance and Commitment Therapy è ciò che viene chiamata “committed action”, l’azione impegnata.
Che cos’è l’azione impegnata?
– Scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il percorso
– Impegnarsi nelle azioni importanti per se stessi e nel momento di difficoltà ancorarsi al respiro, in modo quanto possibile gentile, grazie alle pratiche di mindfulness
– Godersi anche il viaggio, non concentrarsi sempre e solo sui piccoli obiettivi (un piccolo fallimento può essere un passo importante e diretto verso i propri valori personali)
– Persistere e mantenere tale impegno, mettendo in conto ostacoli e difficoltà (ad esempio, paura di a sbagliare, ricordi dolorosi, sensi di colpa, vergogna etc…)
– Do what it takes! fa quel che serve per vivere secondo i propri valori.
A parere di chi scrive, l’azione impegnata rappresenta una delle parti più difficili dei percorsi di vita di ognuno di noi. Talvolta, noi sappiamo bene cosa sarebbe utile e significativo per noi e passare all’azione spesso risulta comunque difficile, soprattutto se oltre alle normali paure umane ci mettiamo ad ascoltare la radio della nostra mente (metafora molto usata nell’ Acceptance and Commitment Therapy), con le sue storie catastrofiche e giudicanti di come siamo, di come ci vedranno gli altri e di cosa siamo e non siamo in grado di fare.
E talvolta, farlo da soli può risultare molto difficile… E per fare il “balzo in avanti” a volte è utile un percorso di psicoterapia.
Musica & Neuroscienze: Un nuovo studio rivela che cosa accade nel nostro cervello quando sentiamo per la prima volta una canzone e decidiamo di acquistarla.
Lo studio, condotto presso il Montreal Neurological Institute and Hospital – The Neuro, McGill University e pubblicato su Science, ha individuato una specifica attivazione cerebrale che rende gratificante l’ascolto di un nuovo canzone e predice la decisione di acquistarlo.
I partecipanti allo studio, mentre venivano sottoposti a risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno ascoltato 60 brani musicali mai sentiti prima e valutato quanto sarebbero stati disposti a spendere per l’acquisto di ogni brano. Un aspetto innovativo di questo studio è l’aver imitato l’ascolto musicale nella vita reale. I ricercatori hanno utilizzato una interfaccia e dei prezzi simili a quelli di iTunes. Il valore di ricompensa di ogni canzone era indicato dalla disponibilità a comprarla per poterla riascoltare. Dal momento che le preferenze musicali sono influenzate dalle associazioni passate, sono stati selezionati solo canzoni nuove (per ridurre al minimo le previsioni esplicite) utilizzando software di music recommendation (come Pandora, Last.fm) per riflettere le preferenze individuali.
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La regione del cervello che reagisce alla piacevolezza dell’ascolto di un canzone mai udito prima è il nucleo accumbens, che è coinvolto nella formazione di aspettative che possono venire soddisfatte. L’attività nel nucleo accumbens è un indicatore che le aspettative sono state soddisfatte o addirittura superate, dice Valorie Salimpoor, uno dei ricercatori, e questo studio ha permesso di scoprire che quando, durante l’ascolto di una nuova canzone, si verifica l’attivazione in questa zona del cervello, le persone sono anche disposte a spendere di più per averla e poterla riascoltare.
Il secondo dato importante è che il nucleo accumbens non lavora da solo, ma interagisce con la corteccia uditiva, una zona del cervello che memorizza le informazioni sui suoni e la musica. Più l’ascolto di una canzone è soddisfacente, maggiore è la comunicazione tra queste regioni. Interazioni simili sono state osservate anche tra il nucleo accumbens e altre aree cerebrali, coinvolte nel sequenziamento ad alto livello, nel riconoscimento di forme complesse e nell’assegnazione di un valore emotivo e di ricompensa agli stimoli.
In altre parole, il cervello assegna valore alla musica attraverso l’interazione tra un antico circuito della ricompensa dopaminergico – coinvolto nel rafforzare comportamenti che sono necessari per la nostra sopravvivenza, come alimentarsi e la sessualità – con alcune delle regioni più evolute del cervello, coinvolte invece in processi cognitivi avanzati, unici nell’essere umano.
“Questo è interessante perché la musica è costituita da una serie di suoni che presi singolarmente non hanno alcun valore intrinseco, ma che quando si fondono insieme in modelli prevedibili possono agire come una ricompensa”, dice Zatorre, ricercatore presso The Neuro e co-direttore del International Laboratory for Brain, Music and Sound Research, “l’attività integrata di circuiti cerebrali coinvolti nel riconoscimento di pattern, la previsione e l’emozione ci permettono di vivere la musica come una ricompensa estetica o intellettuale. Questi risultati ci aiutano anche a capire perché alla gente piace musica diversa: ogni persona ha la propria corteccia uditiva dalla forma unica, che si forma sulla base di tutti i suoni e di tutta la musica ascoltata nel corso dell’intera vita. Inoltre i modelli sonori memorizzati possono avere creato precedenti associazioni emotive”.
Le interazioni tra il nucleo accumbens e la corteccia uditiva suggeriscono che ci creiamo delle aspettative di come i suoni musicali dovrebbero essere sulla base di quanto appreso e immagazzinato nella nostra corteccia uditiva, e le nostre emozioni derivano dalla violazione o dall’adempimento di queste aspettative.
Family studies have shown specificity in familial aggregation of social phobia. Reich and Yates (1988) examined the family histories of three groups of individuals: 1) panic disorder; 2) healthy controls; 3) social phobia. The family histories revealed those with social phobia had more relatives with social phobia than both panic disorder and control relatives.
Using DSM – III diagnostic criteria, Fyer, and colleagues (1993) interviewed first-degree relatives of 83 individuals with social phobia and 231 healthy controls.
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The results revealed a 16% risk of developing social phobia for individuals with a family member who had a social phobia diagnosis, compared to 5% for those with no history of a mental illness. Importantly for transmission specificity, this increase in risk was only associated with social phobia and not associated with any other anxiety disorder.
Stein, and colleagues (1998) used DSM-IV diagnostic criteria and examined the family aggregation of social phobia. Interviews were conducted with 106 first-degree relatives of 23 patients with social phobia and 74 first-degree relatives of 24 participants without social phobia. This study aimed to examine the family history of the two social phobia subtypes: 1) performance; 2) generalized. The results demonstrated that 26.4% of the 106 first-degree relatives of the social phobia sample had generalized social phobia themselves, compared to 2.7% of the 74 first-degree relatives without social phobia.
In regard to the familial aggregation of performance social phobia, 14.2% of the 106 first-degree relatives of the social phobia sample had performance social phobia themselves, compared to 14.9% of 74 first-degree relatives of probands without social phobia.
Although conclusions from family history studies are to be interpreted with caution because they are retrospective, these studies (Reich et al. 1988; Fyer et al. 1993; Stein et al. 1998) demonstrate the familial aggregation of anxiety and specificity of social phobia. However, further evidence of intergenerational aggregations is needed using both top-down and bottom-up methodology.
Il Malato Immaginario – Cinema & Psicoterapia #2 – Argante è attento alle variazioni fisiologiche del suo organismo alla ricerca della certezza assoluta.
Il Malato Immaginario è un film di Tonino Cervi, con Ettore Manni, Christian De Sica, Alberto Sordi, Vittorio Caprioli. Italia 1979. Commedia. Tratto dall’omonima commedia di Molière.
TRAMA:
Don Argante, padre di una bella figlia, marito di una donna opportunista e fedifraga e vittima di uno sciame di dottori, nonostante sia sano come un pesce è convinto di essere malato. I medici vanno e vengono in continuazione dalla sua casa. Medicine, pozioni, clisteri sono placebo che rassicurano temporaneamente il ricco signore. Naturalmente la sua malattia lo tiene al ripario dai problemi della vita: I guai cominciano quando Argante promette la figlia in moglie ad un giovane dottore per potersi garantire un gratuito futuro di consulti e ricette. La figlia, però, è segretamente innamorata di Cléante e, con l’aiuto interessato e truffaldino della madre, architetta un piano che spinge il povero Argante in una fitta trama di inganni, equivoci, e finzioni. Sarà la sua fedele serva a salvarlo e a restituirlo ad una vita felice e senza malattie.
Ipocondriaco sino a rasentare la follia, Argante vive di medici e medicine, spiando ossessivamente in se stesso i sintomi di tutte le possibili malattie.
Il film rappresenta gli elementi del disturbo con modalità espressive che consentono di familiarizzare con la patologia e normalizzarla. Gli ingredienti essenziali sono costituiti da idee disfunzionali su salute, malattia, morte, da eventi attivanti (segni di malattia, conoscenza di nuove malattie, malattia o morte di conoscenti, parenti, amici) e infine dall’interpretazione erronea di sensazioni corporee e pensieri automatici negativi. Argante è attento a tutte le minime variazioni fisiologiche del suo organismo e ai paroloni in “latinorum” dei medici che definiscono malattie improbabili alla ricerca della certezza assoluta che possa escludere il peggio. Naturalmente i controlli devono essere ripetuti anche se esauriscono la loro funzione rassicurante in un batter d’occhio. L’ansia conferma l’idea di essere malato e chiude il circolo vizioso del povero paziente che naturalmente evita di preoccuparsi e di impegnarsi negli affanni della vita, troppo rischiosi per il suo malsano stato di salute.
La descrizione, la chiarificazione e la stimolazione al cambiamento sono proposti con immagini tematiche ironiche, capaci di sdrammatizzare e accelerare la comprensione dei meccanismi della patologia.
Le strane patologie elencate dai dottori, i clisteri che provocano le deflagranti flatulenze del malato immaginario, la realtà farsesca e ironica che circonda Argante possono portare il paziente che visiona il film ad un’evoluzione funzionale del sistema cognitivo in quanto sdrammatizzanti e stimolanti la messa in discussione del processo pseudo diagnostico privo di interpretazioni alternative.
In fase di restituzione dell’assessment, può facilitare i compiti specifici di questa fase della terapia: chiarificazione, descrizione, motivazione. Può consentire di familiarizzare con la patologia, normalizzarla e soprattutto sdrammatizzarla. Offre un’ottima base di discussione per far sì che il paziente si distanzi criticamente dai contenuti che propone e che ostacolano il miglioramento mantenendo la patologia.
Un gruppo di ricercatori del dipartimento di psicologia della National University of Singapore (NUS) hanno dimostrato per la prima volta che la temperatura corporea può essere regolata dalla mente e dal cervello.
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Lo studio ha evidenziato che l’aumento della temperatura corporea può essere raggiunto attraverso una specifica pratica meditativa (G-Tummo).
Pubblicato sulla rivista PLOS ONE lo studio documenta l’effetto in un campione di monache tibetane praticanti la meditazione g-tummo, una delle tradizioni meditative più antiche e mantenuta per lo più nelle remote regioni orientali del Tibet.
I ricercatori hanno curiosamente raccolto i loro dati in un setting ad elevata validità ecologica, addirittura durante l’esclusiva cerimonia in Tibet durante la quale le monache sono solite innalzare la loro temperatura corporea al punto da asciugare stracci bagnati avvolti sui loro corpi nel mezzo del freddo Himalayano (-25 gradi Celsius!) mentre meditano.Utilizzando misure di elettroencefalografia (EEG) e della temperatura corporea sono state rilevate temeperature anche superiori a 38.3 gradi Celsius.
Un secondo studio è stato effettuato con partecipanti occidentali che praticavano esercizi di respirazione secondo la pratica g-tummo, ed entro certi limiti si è comunque osservato un aumento della temperatura corporea. I ricercatori hanno identificato due aspetti della meditazione G-Tummo che possono avere impattato sul fenomeno di innalzamento della temperatura corporea: la “respirazione del vaso”, una specifica modalità di respirazione che porta alla termogenesi e alla produzione di calore, e la visualizzazione mentale in modalità immaginativa di fiamme lungo la colonna vertebrale.
Tribolazioni: perché un individuo prende sul serio l’educazione ricevuta? Ottimizzare l’uso delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi
Quando si cercano le cause di un malfunzionamento o di una sofferenza nell’educazione ricevuta si va alla ricerca della storia di apprendimento delle credenze che risultano attualmente disfunzionali.
Credo, invece, che ci si dovrebbe porre una domanda diversa del tipo: “perché il soggetto in questione ha preso così sul serio quell’insegnamento che più o meno tutti quelli della sua generazione hanno ricevuto, dandogli tuttavia una importanza molto relativa o addirittura nessuna?”.
Certamente quasi tutti hanno ricevuto l’esortazione a concentrarsi, a fare bene una cosa per volta e a “non mettere troppa carne al fuoco”. A tal proposito, possiamo ipotizzare che gli umani siano regolati da uno pseudo-scopo (intendo con ciò uno scopo non esplicitamente rappresentato ma che regoli il funzionamento del sistema, Castelfranchi, Mancini, Miceli 2002) di “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”.
Ipotizzo altresì che tale pseudo-scopo comporti la selezione di priorità di perseguimento sia in termini di risorse da investire che di un vero e proprio timing. Sin qui tutto sembra banale e di buon senso. Essendo sia le risorse che il tempo limitati, occorre necessariamente scegliere per quali scopi, investirli.
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Questa tendenza comporta un evidente vantaggio evolutivo, in termini di successo di sopravvivenza e procreativo. Non è però altrettanto pagante in termini di realtà interna che, come già detto, è l’unica rilevante per il benessere. Conduce infatti verso una riduzione degli scopi da perseguire e verso una specializzazione delle strategie per farlo che si riducono a quelle dimostratesi più efficienti. Potremmo dire, mutuando un termine biologico, che riduce la biodiversità.
Il sistema in sostanza taglia i rami secchi:
– sia per quanto riguarda gli scopi terminali.
– sia per quelli strumentali (le strategie di perseguimento dei primi).
Un tale sistema aumenta progressivamente la sua efficienza ma contemporaneamente la sua rigidità, l’inadattabilità ai cambiamenti e, in una parola, la fragilità.
Immaginiamo, del tutto ipoteticamente, due sistemi cognitivi a confronto: il primo dotato di due soli scopi terminali ed un secondo, invece con dieci scopi terminali. Immaginiamo, inoltre, che sia il primo che il secondo vadano incontro ad un fallimento definitivo e irrevocabile di uno scopo, avremo due situazioni molto diverse. Il secondo avrà fallito per il 10% dei suoi investimenti, una perdita grave e dolorosa ma non una bancarotta. Il primo, invece, avrà perduto il 50% dei suoi investimenti. Si aggiunga che forse il primo dovrà fare i conti anche con il fallimento dello pseudo-scopo di “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”. Il che agirà dunque come moltiplicatore del vissuto di fallimento. Al contrario il secondo constatando che nonostante le circostanze avverse lo abbiano privato del 10% del suo patrimonio, il 90% resta saldamente in suo possesso potrà essere soddisfatto per il buon perseguimento dello pseudo-scopo in questione.
Al contrario degli educatori che esortano alla concentrazione e alle scelte, gli economisti suggeriscono l’opposto. Consapevoli di dover fronteggiare un mercato in cui, come nella vita reale, il controllo è un’illusione o tutt’al più una aspirazione, invitano a differenziare gli investimenti in modo che ciò che regge sostenga ciò che frana e si possa poi ricostruire partendo da lì.
Tutto questo è vero a due diversi livelli:
– a livello degli scopi terminali che è meglio siano molteplici e non strettamente interconnessi tra loro (come ad esempio avere un partner e fare dei figli) in modo che il fallimento di uno non ne inneschi altri in una sorta di domino perverso.
– a livello degli scopi strumentali (d’ora in avanti le strategie). E’ ovvio che le strategie che si sono dimostrate efficaci vengano mantenute e ulteriormente sofisticate con un vero e proprio processo di selezione naturale, ma tale specializzazione va a discapito della ricchezza di alternative.
Come, per dirla con un paragone biologico, il successo schiacciante di una specie riduce la biodiversità. Tale riduzione ininfluente agli occhi della specie dominante e in periodi di stabilità può diventare, a seguito di drastici cambiamenti ambientali, un vulnus intollerabile per la sopravvivenza della vita nel suo insieme. Uscendo di metafora la specializzazione è un vantaggio economico finchè le condizioni ambientali si mantengono stabili ma costituisce un fattore di rigidità e di fragilità che espone a possibili fallimenti irrecuperabili di fronte ai cambiamenti.
Le condizioni ambientali in cui si gioca la partita dell’ esistenza sono mutevoli non foss’altro per il processo unidirezionale dell’invecchiamento. Scopi che erano adattivi nella prima infanzia (ad es.:essere amati da tutti) non lo sono più nella piena maturità e se ancora ostinatamente perseguiti portano a tribolazioni certe.
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Strategie efficaci a vent’anni diventano grottesche e fallimentari mezzo secolo dopo. Molti soffrono e chiedono aiuto disorientati perché non funziona più ciò che aveva funzionato in passato, alla frustrazione si aggiunge smarrimento e confusione. Infine va detto che quanto più una strategia è antica e tanto più è stata di successo tanto più sarà difficile metterla in discussione e intravederne delle alternative: non ci si è mai pensato perché non ce ne è stato alcun bisogno.
In sintesi la naturale tendenza a concentrarsi su pochi obiettivi ed a perseguirli con strategie efficaci ma sempre identiche costituisce un elemento di grande fragilità quando il cambiamento dell’ambiente rende inefficace il vecchio funzionamento.
Detto in altri termini lo pseudo-scopo dell’ “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”, rende efficienti ed economici i sistemi in condizioni di stabilità ambientale ma pericolosamente rigidi e dunque fragili in situazioni di cambiamento.
In questi casi alla sofferenza per il mancato raggiungimento di uno scopo si aggiunge quella derivata dall’avvertire che il proprio sistema non funziona bene, non riesce a trovare nuove soluzioni e ripropone incessantemente vecchie modalità che, seppure dimostratesi fallaci, non hanno alternative.( Girotto 1994; Girotto, Legrenzi 1999; Mancini, Semerari 1985,1990;Lorenzini, Sassaroli 2000)
Riepilogando:
– fallisce lo scopo S’
– falliscono le strategie di perseguimento di S’ cioè St’
– falliscono gli scopi S’’, S’’’ S(n) strettamente connessi a S’
– tale fallimento riguarda una parte cospicua dell’intero sistema di scopi
– fallisce dunque anche lo pseudo scopo PS’
Per dirlo in parole povere.
Restringere il portafoglio in cui si investe piuttosto che ampliarlo è una manovra difensiva che comporta molti rischi. Poiché il possibile fallimento in un settore è sempre in agguato e mai escludibile con certezza è chiaro che maggiori saranno gli ambiti cui si da importanza e minore sarà il riverbero di un singolo insuccesso sull’assetto generale. Chi punta solo sull’amore rischia di affondare insieme al suo matrimonio che naufraga.
Chi si identifica con il lavoro può fallire insieme alla sua attività. Quando la posta in palio è puntata tutta su un solo cavallo ci sarà costantemente ansia nel timore del possibile insuccesso e disperazione dopo che sarà avvenuto. La regola base degli economisti che suggerisce di differenziare gli investimenti dovrebbe essere sempre seguita ma talvolta gli uomini sembrano presi dal brivido del gioco d’azzardo. Amano rischiare. Si sentono più vivi se sanno di poter perdere tutto e ciò poi non avviene.
Naturalmente non c’è un numero giusto di scopi su cui investire e spesso essi sono embricati e in riferimento reciproco.
Numerosi psicologi (Beck 1988, Guidano 1988,1992,1996;Hall Lindzey 1957; James 1890; Liotti 1994,1995; Weiner 1992)) si sono cimentati nella classificazione delle motivazioni fondamentali degli esseri umani: bisogni fisici legati alla sopravvivenza come mangiare, bere, dormire e proteggersi dagli agenti atmosferici o sociali legati alla consuetudine di vivere in branchi e tra questi: avere un ruolo riconosciuto e rispettato, collaborare con gli altri, accudire i piccoli e accoppiarsi felicemente e ripetutamente per diffondere i propri geni nel mondo. Spesso un singolo obiettivo è al servizio di scopi diversi, ha un carattere, per così dire, pluristrumentale.
Tribolazioni 03 – Ci Penso Io.
L’insieme del portafoglio di obiettivi organizza la quotidianeità. Faccio l’esempio di un giovane ingegnere al primo impiego. Guardandosi allo specchio la mattina, fruga mentalmente nell’elenco e decide. Oggi mi dedicherò a conquistare la Livia Arcuati, una quasi coetanea riccioluta evidentemente insoddisfatta. Sia per rilanciare con il suo sostegno i miei geni sul mercato, sia per aumentare il mio prestigio tra amici e conoscenti e, non ultimo, per vedere di ottenere il posto di direttore nella Arcuati s.r.l. e magari subentrare come amministratore delegato alla scomparsa del padre di lei.
Il saggio tenta sempre di prendere più piccioni con una fava. Riproduzione, prestigio sociale, ricchezza e risorse sono tutti concentrati per il giovane ingegnere nella deliziosa figurina esile e neroricciuta di Livia Arcuati. Ella una specie di imbuto, la via finale comune dove tutti gli scopi convergono. Lei è l’enorme fava che attira e cattura tutti i piccioni. Conquistare Livia da un senso di unitarietà che compatta l’identità e bandisce ogni dubbio e incertezza.
Recensione: Il Lato Positivo … di una tragicommedia psichiatrica
Il Lato Positivo – Locandina Cinematografica
Recensione: Il Lato Positivo – potrebbe essere definito commedia nevrotica all’americana, per l’alta densità di contenuti da DSM-IV, o oramai da DSM-V.
Il Lato Positivo (che sarebbe stato meglio chiamare “Il risvolto positivo”, secondo il titolo originale The Silver Lining Playbook), diretto da David O. Russell è un film che ha destato molto clamore alla recente notte degli Oscar (8 candidature) e che potrebbe essere definito commedia nevrotica all’americana, per l’alta densità di contenuti da DSM-IV, o oramai da DSM-V.
Si parte dal protagonista Pat (un bravissimo Bradley Cooper), che esce da un istituto psichiatrico forense (tipo OPG), dove era stato ricoverato per aver malmenato l’amante dell’amatissima moglie, dopo averli colti in flagrante. Nell’occasione gli viene diagnosticato un disturbo affettivo bipolare, che prima dell’evento aveva dato segni di sé solo attraverso occasionali sbotti d’ira e lievi sbalzi d’umore. Lo scoprire la moglie sotto la doccia con l’amante rappresenta l’evento traumatico che slatentizza la malattia, in accordo con recenti teorie che sottolineano l’importanza dei life events nell’insorgenza del disturbo bipolare (Kauer-Sant’Anna et al, 2007). L’evento aveva come colonna sonora una canzone di Stevie Wonder, che rappresenterà, in occasione di ascolti successivi, un potente trigger per esplosioni di rabbia.
Ne Il Lato Positivo, Pat affronta tutte le consuete difficoltà di un paziente psichiatrico che prova a reinserirsi in un contesto sociale, dopo un lungo ricovero, per di più con una misura restrittiva, che gli impedisce di tornare a casa con la moglie fedifraga e che lo costringe a regredire a casa dei genitori. Nel ritratto del personaggio emergono aspetti di evidente disforia, che a tratti sfociano nella sintomatologia ipomaniacale, anche causati dall’iniziale rifiuto della terapia farmacologica, considerata troppo sedativa. Il problema della compliance farmacologica per i pazienti bipolari è di assoluta importanza, se si pensa che certi studi sottolineano come la mancata aderenza alle medicine raggiunga il 60% in certi gruppi (Vieta et al., 2012). D’altra parte è anche abbastanza comprensibile che un individuo preferisca trovarsi in uno stato di eccitazione, rispetto a uno stato di profonda malinconia.
Ne Il Lato Positivo, l’assunzione del farmaco pare comunque sortire un effetto benefico, di controllo degli stati mentali più clamorosi e distruttivi. Restano inalterati invece gli altri aspetti della personalità del personaggio, caratterizzata da una candida ingenuità un po’ infantile e che a tratti sfocia in un vero e proprio pensiero magico, soprattutto rispetto all’impresa di ripresentarsi alla moglie completamente cambiato. Pat è guidato in ogni sua azione da una sorta di pensiero positivo («Excelsior!»), che lo porta a concentrarsi solo sui risvolti rosei delle situazioni. Non si capisce quanto questa attitudine sia connaturata agli aspetti ipomaniacali del disturbo o quanto sia una strategia di primo livello appresa in qualche percorso psicologico.
Il pensiero magico caratterizza in modo evidente anche il padre del protagonista (Robert De Niro), che imprigionato nell’idea prevalente della vittoria della squadra del cuore, i Philadelphia Eagles, vive la realtà che lo circonda con continui rituali ossessivi e procedure scaramantiche. Si tratta di un ossessivo “caldo” che in un paio di situazioni riesce ad essere molto empatico e contenitivo con Pat. La provenienza statunitense della pellicola impone la presenza di uno sceriffo, ed ecco apparire il poliziotto addetto al controllo della misura restrittiva, che sottolinea come in America l’idea della pericolosità sociale dei pazienti psichiatrici sia tutt’altro che superata (ma in compenso si possono comprare le pistole nei supermercati…).
La parata dei nevrotici si arricchisce della madre di Pat, vera martire della casa, del fratello avvocato, mostro di insensibilità, dello psicoterapeuta indiano che al sabato si trasforma in un hooligan dei Philadelphia Eagles, del migliore amico di Pat che si chiude in garage a ascoltare heavy metal per scaricare la rabbia verso il perfezionismo coercitivo della moglie borghese.
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La figura femminile di spicco della pellicola è Tiffany (la vincitrice dell’Oscar Jennifer Lawrence), giovane vedova disinibita e promiscua (ma solo come modalità di elaborazione del lutto…) che si innamora di Pat e riesce, tramite un concorso di ballo (danzaterapia?), a farsi ricambiare e a fargli abbandonare l’idea di riconquistare la moglie.
Tiffany e Pat si incontrano soprattutto sul terreno delle rispettive fragilità ed è ben riuscito uno dei primi loro dialoghi, dove si scambiano pareri sugli psicofarmaci sperimentati (Abilify, Seroquel, Trazodone…), come fossero ricette di cucina.
Nonostante qualche caduta in certi luoghi comuni («forse perché riusciamo a vedere cose che a voi altri sfuggono»), il regista cerca di evidenziare come chi riceve l’etichetta di malato psichiatrico sia più libero e meno bloccato emotivamente dei cosiddetti “normali”, con un lieto fine stars and stripes all’insegna (ovviamente) della positività.
Sono uscito dal cinema con il sorriso sulle labbra e quel vago senso di speranza che fa tanto bene e non ha effetti collaterali.
Scrivere storie può aiutare le persone a esplorare e comprendere le proprie emozioni.
Già Pennebaker (1997a; 1997b) con il metodo del diario sottolineava il potere benefico della scrittura in termini di benessere emotivo e fisico. Un nuovo progetto in atto presso quattro scuole della Gran Bretagna e coordinato dalla fondazione Young Minds si fonda sull’assunto che scrivere storie possa aiutare le persone a esplorare e comprendere le proprie emozioni. Una sessione tipica di questa attività prevede diversi step. Si inizia con un esercizio di rilassamento o midfulness, seguito da un breve assessment dello stato emotivo presente.
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Arriva quindi l’indicazione di scrivere una storia a partire da un’indizio emotivamente connotato quale “c’era una volta un drago molto arrabbiato…”: i ragazzi iniziano a scrivere la loro storia in completa fantasia.
Se l’indizio emotivo fornito non corrisponde allo stato emotivo del ragazzo, si adatta la consegna affinchè vi sia concordanza. Viene poi loro richiesto di condividere le loro storie con il resto della classe, e al termine vi è nuovamente una breve valutazione dello stato emotivo del momento.
E’ fondamentale avere un facilitatore di questa attività che possa validare il lavoro di scrittura e di espressione emotiva dei ragazzi. I vissuti personali dei ragazzi sono comunque mantenuti riservati in tale setting poichè viene data loro la consegna soltanto di identificare lo stato emotivo. Sembrerebbe che il progetto – così semplice da attuare- abbia effetti positivi nel senso che gli studenti coinvolti avrebbero l’opportunità di esprimere le emozioni negative durante e attraverso l’esercizio di scrittura delle storie riportando quindi maggiori emozioni positive al termine dell’esperienza.
Il libro offre un’analisi interessante del percorso che le relazioni hanno dovuto compiere storicamente e indirizza sugli aspetti che aiutano a mantenere una relazione sana.
Enrico Chieli è uno psicologo e sociologo che insegna all’Università di Siena, si occupa di relazioni consapevoli, comunicazioneassertiva, intelligenza emotiva e mediazioni dei conflitti.
In quest’opera Chieli riflette sulla nostra grande libertà d’azione e di pensiero come individui, un modo di vivere che per noi è abituale e quasi scontato, ma che costituisce una vera e propria rivoluzione rispetto a tempi nemmeno troppo lontani, quando la vita del singolo si svolgeva secondo schemi immodificabili e prestabiliti.
Nonostante i cambiamenti positivi nel nostro modo di vivere, il nostro malessere sembra maggiore rispetto a quello di un tempo, secondo Chieli, proprio per la qualità insoddisfacente delle relazioni interpersonali. Il benessere, in tutte le sfere significative di vita, dipende da aspetti relazionali ed emozionali e dalla loro mancanza o problematicità possono derivare disturbi psicoemotivi, psicosociali e psicosomatici.
Lo scopo del libro è fornire strumenti operativi che ci permettano di navigare in quello che l’autore definisce “un oceano di incertezza”. Il testo di facile lettura si rivolge a tutti, perchè tutti noi siamo inseriti in contesti relazionali come mogli, mariti, figli, genitori, insegnanti, lavoratori, medici, pazienti.
Il mito della monogamia. Animali e uomini (in)fedeli Barash David P.; Lipton Judith E. Raffaello Cortina Editore (2002)
L’opera è organizzata in tre sezioni. La prima parte è dedicata alla coppia; com’è cambiata, perchè è in crisi, quali sono i nuovi modelli e come si evolve quando la famiglia cresce.
I rapporti rigidamente regolati, sanciti in base a contrattazioni, secondo un modello patriarcale, col passare del tempo, si sono trasformati, almeno in Occidente, grazie una graduale e sempre maggiore libertà di relazione, permettendo agli individui di esprimere emozioni e sentimenti senza vincoli e convenzioni.
Soprattutto dagli anni Sessanta in poi, con il boom economico, con la democrazia, l’emancipazione della donna e con la liberalizzazione dei costumi sociali, il nucleo relazionale si è spostato da quello familiare al singolo individuo, che si trova oggi a vivere rapporti autodeterminati e flessibili, liberi dai tabù sessuali in cui entrambi i membri della coppia hanno un ruolo paritario. Questa rivoluzione ha portato a rapporti più gratificanti, costruttivi e consapevoli, ma li ha resi anche anche più fragili e suscettibili di crisi, che dall’individuo si estende a tutta la comunità; un caos sociale ed esistenziale.
Il matrimonio è un’istituzione in crisi, i cui vincoli, gli obblighi e le formalità mal si adattano a soddisfare i bisogni e le aspettative che i singoli nutrono all’interno di uno scenario culturale che è profondamente cambiato. Decidere di sposarsi è ormai una scelta che sempre meno si compie e che quando si realizza porta spesso a conflitti e separazioni.
L’autore non si limita a considerare solo la relazione tra due partner: nella seconda parte del testo Chieli effettua una lettura sociale della relazione, analizzando la relazione del lavoratore con l’azienda, del genitore nei confronti del figlio, quella dell’insegnante con gli allievi, del medico con il paziente, sempre mettendo in evidenza il cambiamento, visto come un generatore di opportunità, ma anche di debolezza.
Uno degli assunti che Chieli sottolinea è che la libertà va gestita, in tutti i contesti, grazie a strumenti conoscitivi, operativi e consapevoli, che permettano di orientarsi nei rapporti interpersonali e di affrontare in maniera funzionale i conflitti che li caratterizzano.
La terza e ultima parte, si rivolge agli operatori che effettuano interventi nei contesti relazionali e tratta di come si può insegnare a gestire costruttivamente il cambiamento, grazie a una formazione adeguata e all’aggiornamento costante che permetta ai professionisti di utilizzare interventi terapeutici come la mediazione e la terapia familiare in un’ottica relazionale. Compito degli operatori è sensibilizzare, educare e aggregare, con il fine di promuovere le nuove socialità e prevenire e gestire le problematiche interpersonali.
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Il libro offre un’analisi interessante del percorso che le relazioni hanno dovuto compiere storicamente e indirizza sugli aspetti che aiutano a mantenere una relazione sana. Il primo è la consapevolezza di chi siamo, di chi ci sta di fronte, di quali sono le opzioni possibili e quali le conseguenze che una scelta comporta.
Un altro elemento importante è maturare una competenza comunicativareciproca ed efficace, che vada oltre la semplice capacità linguistica e presti attenzione ai segnali non verbali, orientata a stabilire bisogni, propri e altrui, aspettative e obiettivi, dinamiche di funzionamento, tenendo presente che gli stili comunicativi e i vissuti emozionali del singolo.
Prediligere uno stile di dialogo aperto, continuo e costruttivo per evitare le liti, che quando si presentano vanno comunque gestite in modo non distruttivo. Chieli ci ricorda che stare in relazione è difficile, ma è anche qualcosa che si può e si deve apprendere per vivere bene.
Psicoterapia Cognitiva & Protocolli Mindfulness a confronto
Ansia & Mindfulness: Da oltre un decennio si assiste allo sviluppo di protocolli basati sulla minfulness per riduzione dello stress e sintomi d’ ansia.
Nel trattamento di diverse e molteplici forme d’ ansia, numerosi studi clinici e ricerche scientifiche attestano come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) risulti essere un trattamento d’elezione.
Tuttavia, da oltre un decennio si assiste allo sviluppo, in ambito clinico, dei protocolli basati sull’uso della minfulness (MBSR) per la riduzione dello stress in generale e di alcuni sintomi dell’ansia in particolare (come, ad esempio, il rimuginio).
Tali protocolli prevedono un lavoro finalizzato ad aumentare la consapevolezza di ciò che ci accade momento per momento e numerose sono ormai le prove della loro efficacia, evidenziate da studi che ne attestano l’efficacia clinica e la capacità di influenzare il funzionamento cerebrale (Aftanas e Golocheikine, 2005; Dunn, Hartigan e Mikulas, 1999; Holzen et al., 2007; Jha et al., 2007; Lazar et al., 2000).
Tanto la diffusione della pratica di consapevolezza, quanto la presenza dei numerosi dati a sostegno e a conferma della sua efficacia pongono il clinico di fronte ad alcuni interrogativi cruciali: quali le similitudini e le differenze tra MBSR e terapia cognitivo-comportamentale standard nel trattamento dell’ansia? I risultati a cui è possibile approdare mediante l’utilizzo di pratiche interne ai protocolli basati sull’uso della mindfulness sono ottenibili anche attraverso l’impiego di tecniche cognitive? E con quali differenze?
Un recentissimo studio (Arch et al., 2013) si pone l’obiettivo di fornire alcune risposte a queste domande. Nella ricerca riportata sono posti a confronto due gruppi di pazienti accomunati dalla presenza di una o più diagnosi di disturbo d’ansia e sottoposti ad un trattamento CBT o MBSR.
I risultati appaiono incoraggianti per entrambi i gruppi, infatti i pazienti mostrano una riduzione significativa della gravità della diagnosi d’ ansia. In altre parole, i sintomi ansiosi e l’effetto invalidante degli stessi nella vita dei pazienti sembrano ridursi in modo rilevante a seguito di entrambi i trattamenti.
Esistono, tuttavia, differenze negli esiti. Mentre, infatti, la CBT si dimostra maggiormente efficace nel ridurre l’attivazione fisiologica legata all’ ansia, il trattamento MBSR consente ai pazienti di diminuire in modo più rapido il rimuginio ansioso come anche le eventuali ed ulteriori problematiche emotive presenti.
Questo studio offre l’opportunità di riflettere sull’importanza dell’integrazione tra forme di trattamento differenti che consentano di raggiungere, nel minor tempo possibile e con il massimo livello di efficacia, i risultati in termini di remissione dei sintomi e miglioramento della qualità di vita.
Ma non solo. Esso evidenzia, infatti, come il clinico possa utilizzare le indicazioni fornite dalla ricerca per orientare la pratica terapeutica: è possibile, nelle diverse fasi di un percorso di psicoterapia, affrontare i sintomi e tendere al cambiamento mediante forme di trattamento specifiche, mirate e testate empiricamente.
Le persone divengono più compassionevoli attraverso la pratica meditativa.
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Una ricerca pubblicata su Psychological Science e condotta da un gruppo di ricercatori di Harvard e della Northeastern University ha messo in evidenza che la partecipazione a corsi di meditazione promuove la tendenza degli individui a comportarsi in modo più compassionevole.
Nello specifico i partecipanti hanno frequentato un training di pratica meditativa per circa 8 settimane.
Al termine del training, i soggetti sono stati sottoposti a un artificio sperimentale che ha consentito di valutare l’attuazione di comportamenti compassionevoli: in una stanza vi sono due attori, uno dei quali è in stampelle ed esprime un evidente affaticamento e dolore nello stare in piedi, un altro attore rimane invece tranquillamente seduto a leggersi il giornale.
Rispetto ai soggetti di controllo, i partecipanti al training meditativo erano più propensi a cedere il loro posto a sedere e a offrire aiuto all’attore sofferente.
Tra i soggetti di controllo non-meditatori, soltanto il 15% ha offerto aiuto alla persona in difficoltà, mentre nel gruppo dei meditatori il 65% dei soggetti si è prodigato in modo compassionevole.
La cosa interessante è che la meditazione sembra in questo caso superare l’effetto negativo della distribuzione di responsabilità nel caso di più persone presenti di fronte a qualcuno che chiede direttamente o indirettamente aiuto (by-stander effect), impattando in qualche modo (ancora da chiarire nei processi) sul funzionamento morale.
“Un guerriero della luce conosce il potere delle parole”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.118]
Nel corso di un colloquio psicologico lo psicoterapeuta deve dare molte risposte per poter stabilire una relazione terapeutica, per negoziare definizioni di problemi e obiettivi, per mostrare nuove prospettive e la propria capacità di accettazione e per stabilire un contratto con il paziente.
Si possono individuare alcuni modelli di risposta particolarmente utili a livello pratico dal momento che non sono intrusivi, non interferiscono con i processi di pensiero del paziente, non lo distraggono dagli stati d’animo che sta provando e non implicano giudizio di valore. Queste caratteristiche si possono definire proprie delle risposte che permettono allo psicoterapeuta di immedesimarsi nel comportamento e nei sentimenti altrui, giustificandoli ma, contemporaneamente, cercandone il motivo [Gladstein, 1983; Truax e Mitchell, 1971]. Esempi di questi modelli di risposte empatiche sono:
1) Risposte di incoraggiamento minimo a proseguire ed eco: che sono costituite da cenni di assenso del capo e da semplici frasi. Permettono di trasmettere al paziente un segnale che lo inviti a proseguire senza interrompere in alcun modo il flusso del discorso. È estremamente efficace nel corso del primo colloquio soprattutto per mostrare la disponibilità e l’interesse del terapeuta a raggiungere una conoscenza profonda del paziente.
Gli eco, in particolare, sono impliciti inviti a proseguire trasmes
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si attraverso la ripetizione delle ultime parole dette dal paziente con un tono interrogativo; essendo così semplici possono essere l’ancora di salvezza dello psicoterapeuta che non sa cosa aggiungere e comunque sono utili perché permettono di approfondire le informazioni sulla condizione del paziente. Alcuni esempi di questo modello di risposta possono essere: “e allora cos’è accaduto?”, “la prego, continui pure” o “e lei ne soffre?”.
2) La parafrasi: con questo tipo di risposte lo psicoterapeuta mira a ricapitolare i contenuti espressi dal paziente ripresentandoli con parole proprie. In tal modo ha la possibilità sia di far capire al paziente che ha ascoltato con attenzione tutto ciò che ha detto, sia di far correggere da lui le proprie percezioni sbagliate. Il paziente corregge il terapeuta e il terapeuta ringrazia, dopo di ché si riprende il dialogo, che non ha subito un’ interruzione ma una chiarificazione.
All’interno di queste parafrasi lo psicoterapeuta può introdurre alcune proprie associazioni tra le cose che ha detto il paziente. Per esempio se un genitore di due bambini (di tre e sette anni) si lamenta con il professionista per comportamento antisociale del primogenito emerso gradualmente da circa 3 anni, lo psicoterapeuta può dire: “quindi suo figlio assume comportamenti violentinonostante voi abbiate provato ormai qualsiasi tipo di punizione, e ciò va avanti più o meno da quando è nato il fratello piccolo”.
Con un affermazione di questo tipo viene presentata, mediante la parafrasi, un’associazione non espressa dai genitori, tra la nascita del fratello e l’inizio del disturbo. Questo potrebbe essere l’inizio di un esperienza di insight e di cambio di prospettiva per i genitori. La parafrasi permette, sia di chiarificare e riassumere i contenuti espressi nel colloquio sia di verificare le percezioni dello psicoterapeuta sulla base delle reazioni del paziente alla parafrasi stessa. Un altro esempio potrebbe essere: “Quindi da quando vi siete trasferiti in città sua moglie ha perduto la sua consueta vivacità, e questo la porta a sentire vuota la propria casa quando torna dal lavoro”.
3) Giustificazioni: per essere empatico nei confronti del proprio paziente è necessario un’elevata capacità di comprensione che si traduce, all’interno del colloquio psicologico, nelle risposte di giustificazione. Queste risposte hanno il compito di far sentire il paziente accettato dal professionista, compreso indipendentemente dagli errori commessi e dal giudizio di valore dato dalla società.
Le risposte di questo tipo servono, appunto, per giustificare le emozioni e i sentimenti trasmessi dall’altro ponendo l’attenzione più sulla carica emotiva che sui contenuti. Rappresentano la via attraverso la quale vengono trasmesse le informazioni con le quali il paziente può giungere a capire di più sé stesso e a scoprire nuove prospettive di osservazione delle sue emozioni e dei suoi sentimenti.
4) Riflessioni: costituiscono una delle tipologie di risposte più efficaci soprattutto all’interno del primo colloquio psicologico. Nelle riflessioni i sentimenti del paziente vengono ritrasmessi dallo psicoterapeuta, il quale agisce come uno specchio in grado di catturare non l’immagine della persona ma ciò che vi è dietro.
Mettere in atto una risposta riflessiva vuol dire esprimere non solo l’emozione ma anche l’intensità con cui è vissuta dal paziente, riuscendo a giungere ad un livello massimo di immedesimazione. Le riflessioni possono trasmettere che lo psicoterapeuta è in grado di comprendere e accettare i sentimenti provati dal paziente indipendentemente da quali essi siano, che non è spaventato o scosso e che si può parlare normalmente di questi sentimenti.
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Parlare normalmente dei sentimenti vuol dire non aver timore o vergogna di nominarli, e quindi iniziare ad assumere un controllo su di essi. È molto importante anche ciò che lo psicoterapeuta fa dopo aver risposto con una riflessione, solitamente occorre un po’ di tempo al paziente per rielaborare ciò che gli è stato restituito, in quei momenti il professionista deve mantenere uno stato di silenzio attento. Un esempio di riflessione è: “Immagino che ciò la renda molto triste” o “Deve aver provato un intensa rabbia in quel momento”.
In associazione a questi tipi di risposte empatiche possono quindi essere posti alcuni interventi significativi che emergono facilmente dall’ascolto di ciò che riferisce il paziente. Questi interventi, legati all’intuito dello psicoterapeuta possono condurre , se evitano di essere eccessivamente minacciosi o intrusivi, ad un piccolo insight.
Usare queste strategie consente di evidenziare: l’incongruenza tra sentimenti e comportamento, l’ambivalenza nelle parole del soggetto, le soluzioni possibili e alternative, i modelli di comportamento dietro le singole situazioni, determinare a chi appartiene il problema, quali ruoli ha il paziente all’interno del suo ambiente sociale, quali sono i sentimenti dietro i sentimenti, quali sono le convinzioni del paziente sulla natura umana.
Come esistono delle risposte empatiche consigliabili, così esistono anche delle risposte non empatiche che dovrebbero essere evitate. Queste non solo sono risposte che non funzionano, ma possono compromettere il lavoro svolto finora con il paziente. Già Rogers individuò almeno quattro tipi di risposte che devono essere fuggite attentamente dallo psicoterapeuta se si vuole stabilire un rapporto di fiducia:
1) Risposte banalizzanti: sono le risposte che rendono comune il problema e che fanno apparire il terapeuta come colui che ha la soluzione che, in pochi minuti, farà scomparire tutte le diffcoltà. Bisogna ricordare sempre che esiste un rapporto speciale e unico tra il paziente e il suo problema. La persona non accetta che ciò che l’ha fatta così tanto soffrire o arrabbiare possa essere umiliata e banalizzata dalle parole del terapeuta.
Ognuno considera il proprio caso come unico e deve essere trattato come tale. Non si può affermare di aver visto tanti casi e tutti uguali. Questa è la manifestazione di una forte carenza nella capacità empatica del professionista che alimenta il senso del paziente di non poter essere capito. Alcuni esempi possono essere: “a questa età questo è un comportamento normale” ma anche “non si preoccupi, ho capito benissimo”.
2) Risposte tecnicistiche: rappresentano tutte le risposte da esperto psicologo, tutte quelle che fanno uso di un linguaggio tecnico di cui il paziente può non conoscere il significato. Sono due i grandi svantaggi di questa abitudine. Prima di tutto si annulla qualsiasi possibilità di instaurare un rapporto di fiducia in quanto il paziente non si sente accettato e capito ma anzi avverte il disagio di trovarsi in un relazione non paritaria in cui lui occupa la parte subordinata.
Secondariamente l’uso di un linguaggio poco comprensibile rende difficile per il paziente poter cogliere prospettive diverse dalla propria. Per questi motivi l’uso di risposte tecnicistiche impedisce di seguire un percorso di negoziazione della definizione di problema e obiettivi ma porta alla negazione delle definizioni del paziente con tutti i danni che ne conseguono per il rapporto interpersonale tra lui e lo psicoterapeuta. Un possibile esempio di risposta tecnicistica può essere: “questo suo comportamento è aumentato di frequenza esclusivamente per l’azione di alcune variabili esterne che hanno agito come rinforzatori positivi”.
3) Risposte moralistiche: costituiscono tutte quelle risposte tese a incolpare il paziente per un comportamento che travalica i limiti della moralità del terapeuta. Non è difficile comprendere come in questo caso lo psicoterapeuta verrebbe meno a molti dei principi di base presentati nei capitoli precedenti, primo fra tutti quello che impone l’accettazione piuttosto che il giudizio.
In questo caso lo psicoterapeuta, che dovrebbe accettare i valori del paziente e non rimanere scioccato dalle sue rivelazioni compie esattamente l’opposto, umiliando ulteriormente il paziente, instillando sensi di colpa in aggiunta a quelli che potrebbero già esistere. Se una persona si comporta in modo sbagliato secondo i canoni dello psicologo e giunge da lui portando un problema, questi deve occuparsi del problema e non giudicare il suo comportamento, giusto o sbagliato che sia.
Un’eccezione ampiamente discussa riguarda il caso in cui il comportamento del paziente risulti dannoso per le persone che gli stanno intorno. In questo caso la legalità combatte contro sé stessa. Da un lato lo psicoterapeuta avrebbe il dovere (secondo alcuni) di informare le autorità o gli enti preposti al controllo del comportamento del paziente, dall’altro deve prima di tutto rispettare (secondo altri) l’etica professionale della riservatezza.
La discussione è così animata e combattuta che molti stati hanno optato per soluzioni differenti. In linea di massima è auspicabile che la rottura della riservatezza sia l’ultima soluzione ma è altrettanto indispensabile una sorta di intervento. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di responsabilizzare il paziente a ciò che sta facendo cercando di suggerire come agire e, se tutto ciò non va in porto, pensando di intervenire più direttamente. Alcuni esempi di risposta moralisitica possono essere: “Lei dovrebbe vergognarsi a fare così”o “Quello che fa è sbagliato”.
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4) Risposte interpretative: sono risposte in cui lo psicoterapeuta dà una spiegazione alle emozioni, sentimenti e comportamenti del paziente basandosi sulla propria intuizione più che sulla connessione con i dati reali ricevuti dalla comunicazione. Implicano quindi l’introduzione di un argomento che al momento non è dato dal colloquio psicologico.
Queste intuizioni dovrebbero rimanere tali e non essere subito trasmesse al paziente, solo al momento opportuno potrebbero essere usate come fonte di insight. Infatti l’intuizione può portare a comprendere su quale canale comunicativo (emotivo, cognitivo o comportamentale) sia l’ostacolo principale che la terapia dovrà rimuovere e che il paziente non vede. Per questo si può definire l’intuizione come il faro che illumina il percorso terapeutico.
Tuttavia esprimerla con un’interpretazione non basata sui dati o incomprensibile per il paziente può portare il focus della terapia su un altro problema, che non è quello per cui il paziente è venuto in terapia e che magari non esiste neppure (nel caso che l’intuizione sia scorretta). È sempre meglio prendere le proprie intuizioni come spunti che conducono a nuove domande e a nuove osservazioni; alcune di queste intuizioni evolveranno in ipotesi sperimentali che si procederà poi a verificare.
Rendendole subito esplicite si rischia sia di banalizzare che di tecnicizzare le emozioni, i sentimenti e i problemi riferiti dal paziente, infatti spesso le risposte interpretative sono anche banalizzanti o tecnicistiche. Alcuni esempi di risposte interpretative possono essere: “Lei è così ossessionato dalla pulizia perché il suo sviluppo è rimasto fissato alla fase anale” (interpretativa e tecnicistica), “non si preoccupi, è solo dovuto alla nascita del fratellino” (interpretativa e banalizzante).
Il “segreto” di Andrea Pirlo: Calcio & Funzioni Esecutive
Andrea Pirlo – fonte: Napolinetwork.it
Il “segreto” di Andrea Pirlo. Ultimamente numerose ricerche di psicologia dello sport si sono concentrate sullo studio delle abilità percettivo-cognitive.
Se pensiamo a un giocatore italiano di uno sport di squadra, che spicca per talento e capacità, vuoi per la grande popolarità di cui gode ancora il calcio nel nostro paese, vuoi per le residue tracce di memoria degli Europei della scorsa estate, a molti di noi potrebbe venire in mente il nome diAndrea Pirlo.
Per chi non lo conoscesse, Andrea Pirlo è uno dei calciatori in attività più vincenti e apprezzati degli ultimi dieci anni, vero e proprio regista e “cervello” del centrocampo prima del Milan, ora della Juventus, e della Nazionale italiana. Detto ciò, quali potrebbero essere le caratteristiche alla base del suo successo sportivo?! E più in generale quali sono le gli elementi che differenziano un buon giocatore, da un campione?!
La psicologia ha iniziato ad approcciarsi alle discipline sportive occupandosi tradizionalmente di capire come favorire e migliorare le performance degli atleti, focalizzandosi su aspetti come la motivazione, le dinamiche di gruppo, il training mentale. Una diversa linea di ricerche si è successivamente dedicata, senza troppo successo, all’ “identificazione di talenti”, ovvero a ricercare quali potessero essere i tratti e le caratteristiche di personalità che predicono il potenziale successo di un atleta, in modo da poter stilare un vero e proprio identikit psicologico del futuro campione.
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Negli ultimi vent’anni sempre più numerose ricerche di psicologia dello sport si sono concentrate sullo studio delle abilità di tipo percettivo-cognitivo, evidenziando come il successo negli sport di squadra, in particolare nei cosiddetti “ball-games” (sport dove si utilizzano palle e palloni) richieda, oltre a spiccate doti fisiche e di coordinazione motoria, anche una notevole abilità nell’elaborare le informazioni, a causa della complessità e del rapido cambiamento del contesto durante una gara.
Un giocatore di sport di squadra di successo deve essere in grado di tenere sott’occhio costantemente le situazioni di gioco, paragonarle a esperienze passate, creare nuove occasioni, prendere decisioni nel minor tempo possibile, ma anche inibire velocemente le scelte già pianificate che non sono più adatte al contesto presente. Il giocatore ideale, perciò, possiede specifiche qualità: un’eccellente attenzione spaziale e divisa, notevoli capacità di memoria a breve termine e di mentalizzazione, abilità nel rapido adattamento al contesto, nel cambio di strategie e nell’inibizione di risposte automatiche. Questo tipo di caratteristiche sono indicate nell’ambiente sportivo come “intelligenza di gioco”. Se ascoltiamo opinionisti e telecronisti delle trasmissioni calcistiche commentare le azioni di giocatori particolarmente brillanti, notiamo elogi al loro “senso tattico”, alla “visione di gioco” e più in generale alla loro ”intelligenza calcistica”.
Nel linguaggio neuropsicologico molte di queste abilità sono generalmente conosciute come “funzioni esecutive”.
Uno studio condotto da ricercatori svedesi, guidati da Predrag Petrovic, del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche del Karolinska Institute di Stoccolma, ha evidenziato l’importanza delle funzioni esecutive nella possibilità di prevedere future performance di successo di un calciatore.
In una prima parte dello studio sono stati sottoposti a una valutazione delle funzioni esecutive giocatori di “serie A” svedese (High Division, HD), calciatori di divisioni minori (Lower Division, LD) e un gruppo di controllo standardizzato per età e scolarità.
Nella seconda parte dello studio, due stagioni dopo, sono stati comparati i risultati ottenuti al test cognitivo dai giocatori, con delle statistiche calcistiche (ad esempio il numero di goal e di assist) in grado di misurare in maniera più oggettiva possibile il successo delle prestazioni di un calciatore.
Il test principalmente impiegato è stato il Design Fluency (DF), un compito non-verbale di fluenza grafica, che va a indagare capacità di creatività cognitiva, pianificazione, flessibilità, memoria di lavoro e inibizione, in cui è richiesto ai partecipanti di disegnare con una penna il maggior numero possibile di figure-combinazioni diverse tra loro, unendo con linee rette alcuni puntini contenuti in dei quadrati, in un limite di tempo prestabilito. Altri due test esecutivi (Stroop test e il Trail Making test) sono stati utilizzati come controllo del primo compito.
I risultati della prima parte di ricerca hanno evidenziato come i giocatori che militavano nel campionato più importante abbiano ottenuto nei test dei risultati significativamente migliori rispetto a quelli dei calciatori di divisioni inferiori e come entrambi i gruppi di sportivi abbiano collezionato delle prestazioni nettamente più elevate rispetto al gruppo di controllo della popolazione generale. Nella seconda parte dello studio i ricercatori hanno trovato una correlazione significativa tra il test di Design Fluency e i punteggi delle statistiche calcistiche delle due stagioni successive all’esecuzione del compito, risultato che, secondo il gruppo di ricerca, suggerisce un ruolo causale da parte delle funzioni esecutive nel successo dell’attività calcistica.
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Secondo gli autori l’idea che i cosiddetti “top-players” possiedano delle capacità esecutive superiori, potrebbe cambiare il modo di concettualizzare la relazione tra cognizione e successo sportivo. La ricerca di giovani talenti e futuri campioni, infatti, potrebbe avvalersi di valutazioni che tengano conto non solo delle caratteristiche fisiche o tecniche basate sulle performance attuali dell’atleta, ma anche delle misure delle funzioni esecutive tramite test neuropsicologici validati.
In attesa di vedere osservatori-talent scout e neuropsicologi impegnati in fruttuose collaborazioni per scoprire i campioni del futuro, sarebbe curioso e interessante vedere alla prova con i test esecutivi anche i fuoriclasse del presente, come il nostro Andrea Pirlo, per verificare se nell’unire i puntini con un tratto di penna c’è lo stesso talento e la stessa imprevedibile genialità che mostra con il pallone tra i piedi nel rettangolo verde di gioco.