Roberto Saviano, Zero Zero Zero, Feltrinelli (2013). Copertina
Ho fatto l’errore di leggere il primo capitolo di sera, prima di andare a letto, tra l’altro a stomaco vuoto.
Si intitola Coca # 1 e rivela come il consumo della polvere bianca sia epidemico anche nel nostro Paese, elencando una lunga lista di insospettabili consumatori, ognuno mosso da motivazioni diverse, che non risparmia psicologi, medici di base, oncologi, ginecologi, parroci, infermieri, ebanisti, istruttori di equitazione, amministratori di condominio, etc.
Circa due settimane fa ho comprato il nuovo libro di Saviano Zero Zero Zero (Feltrinelli, 2013), che ha come protagonista la cocaina e il suo mercato a livello internazionale.
Ho fatto l’errore di leggere il primo capitolo di sera, prima di andare a letto, tra l’altro a stomaco vuoto.
Si intitola Coca # 1 e rivela come il consumo della polvere bianca sia epidemico anche nel nostro Paese, elencando una lunga lista di insospettabili consumatori, ognuno mosso da motivazioni diverse, che non risparmia psicologi, medici di base, oncologi, ginecologi, parroci, infermieri, ebanisti, istruttori di equitazione, amministratori di condominio, etc.
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Partendo dal presupposto che cerco di non andare alle riunioni di condominio, usufruendo di quella grande conquista della democrazia che è la delega al caposcala, ho subito pensato che la categoria degli amministratori di condominio fosse senz’altro una di quelle più a rischio; una persona normale non può di certo trascorrere cinque sere a settimana facendo da parafulmine alle proiezioni e alle frustrazioni di decine di famiglie, senza assumere qualcosa di veramente forte. Non sarebbe umano. Cullato da questa riflessione sociologica, ma turbato dal dubbio rispetto agli ebanisti e agli istruttori di equitazione, mi sono addormentato.
La mattina successiva ho preso l’autobus per andare al lavoro e ho cominciato a fissare l’autista chidendomi: avrà riposato bene stanotte? Avrà fatto gli straordinari? Non è che per caso si è fatto una pippatina, per non sentire i crampi della cervicale? Spaventato da questa ipotesi, sono sceso alla prima fermata e ho chiamato un taxi.
Il taxista sembrava un tipo silenzioso, non di quelli che ti chiamano Dotto’ e iniziano a parlare di calcio e di politica. Buon segno, ho pensato, e mi sono rilassato immergendomi nella lettura di un quotidiano. Al primo incrocio una vecchietta è passata col rosso e il taxista è esploso in un’invettiva pazzesca, con parole davvero irripetibili, non solo contro la vecchietta, ma anche contro la categoria degli anziani in genere, che dovrebbero stare tutti chiusi nei pensionati e nelle case di riposo.
La reazione del tassinaro mi ha davvero colto di sorpresa, all’inizio sembrava così calmo! Ma non era finita lì. Un minuto dopo l’ha chiamato al cellulare un amico, che deve avergli raccontato una storiella molto divertente, perchè ha cominciato a ridere in modo sempre più sguaiato, arrivando a lacrimare e a dare delle botte tremende al volante, finchè non gli ho ordinato di fermarsi e sono sceso.
Vuoi vedere che Saviano aveva ragione? Questi stati emotivi amplificati non possono non nascondere un qualche candido segreto.
Sempre più insospettito, sono entrato in un bar e ho ordinato un caffè, domandandomi se non facesse parte di quei quintali di caffè trasportati sulle autostrade dai camionisti, che notoriamente usano la defaticante sostanza per tenersi svegli durante le interminabili notti in autostrada. Ho deciso di non mettere lo zucchero, perchè cominciavo ad avvertire una sorta di repulsione verso le sostanze bianche, anche se in forma di granelli. In quel momento la mia attenzione è caduta su un baffo del barista, che mi pareva leggermente impolverato. Potrebbe essere zucchero a velo, ho pensato.
Sono buoni i bomboloni? Ho chiesto per chiarire il dubbio.
Magari potessi mangiarli…sono diabetico. Ha risposto il barista.
Andiamo bene, cocainomane e pure diabetico. Sono andato un attimo alla toilette e, mentre mi lavavo le mani, mi sono specchiato. Ero più pallido del solito, con delle brutte occhiaie. Quando sono uscito per prendere la borsa, ho avuto l’impressione che si fosse leggermente spostata, rispetto a dove l’avevo lasciata. Vuoi vedere che un narcotrafficante ci ha infilato dentro un po’ di roba? Ho dato una rapida occhiata al bancone, dove due poliziotti sorseggiavano un cappuccino. Potrebbero essere stati loro, magari con la bamba recuperata nella retata di ieri notte. Probabilmente avevano bisogno di un pisquano come me da incastrare.
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Sono uscito rapidamente dal bar e mi sono incamminato verso la clinica dove lavoro. Il portinaio mi ha salutato con una voce insolitamente nasale, e non ho pensato che avesse il raffreddore o che fosse allergico ai pollini primaverili, vista la stagione, ma che ieri sera avesse tirato.
Davanti al mio studio mi aspettava il solito informatore farmaceutico, tutto ben vestito e pettinato e con un sorriso Durbans a trentasei denti (non gli avevano neanche tolto quelli del giudizio). Nonostante Saviano non parli degli informatori farmaceutici nel suo capitolo, mi è venuto spontaneo chiedermi come diavolo fosse possibile essere così di buon umore alle otto e venti del mattino, per giunta in tempi di crisi.
L’ho pregato di attendermi un attimo. Sono entrato in studio e ho telefonato all’infermiera in guardiola, tormentato dal dubbio che anche lei avesse fatto uso di coca, visto che aveva fatto la notte.
Buongiorno dottore, mi dica.
Ehm…buongiorno. Le dispiacerebbe portarmi un bicchiere d’acqua con dieci gocce di Serenase?
Il favoloso Mondo di Ameliè. Jean-Pierre Jeunett (2001). Locandina
La storia di vita di Amélie non l’ha facilitata nell’acquisire abilità sociali e l’evitamento delle relazioni diventa una strategia per non essere rifiutati.
Amélie cresce in una famiglia composta da un padre medico molto originale e una madre nevrotica che muore in giovane età per un incidente. Il clima familiare è freddo. Il padre scambia le sue manifestazioni affettive per anomalie cardiache, il suo batticuore nelle rare volte che gli si avvicina per tachicardia. La bambina vive isolata, non frequenta la scuola, con l’unica presenza della madre, finché viva. In questo contesto persino il pesce rosso tenta in continuazione il suicidio.
Amélie, diventata una ragazza, si trasferisce a Parigi dove lavora come cameriera. Il giorno della morte di Lady Diana ritrova una scatoletta, che contiene dei giocattoli, dei piccoli ninnoli e varie cianfrusaglie. Si mette così alla ricerca del proprietario, di chi molti anni prima aveva nascosto quella piccola scatola dietro una piastrella del muro.
Lo trova, gli restituisce il “ricordo” e rimane talmente colpita dalla reazione dell’uomo che decide di dedicare il suo tempo a “rimettere a posto le cose” che non vanno nelle vite delle persone che le stanno vicino.
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MOTIVI DI INTERESSE:
Amélie presenta un sé inadeguato, sollecita emozioni di pena e tenerezza. Procacci e Popolo (2003) illustrando la fenomenologia del disturbo evitante di personalità la descrivono così: “Questa ragazza è introversa, sensibile, attenta agli altri. Incapace di comunicare per imbarazzo e facilità alla vergogna, tende a fantasticare e a rimanere sola, limita i rapporti con gli altri allo stretto necessario”.
In effetti la ragazza ha difficoltà ad avvicinare i suoi interlocutori e molte scene del film rimandano un senso di inadeguatezza e il timore di essere esclusa con il quale la protagonista si confronta. La storia di vita di Amélie non l’ha facilitata nell’acquisire abilità sociali e l’evitamento delle relazioni diventa una strategia per non essere rifiutati. La scena del bistrot dove lavora da cameriera e dove dopo una serie di peripezie senza esporsi riesce ad incontrare un ragazzo di cui si è invaghita, è esemplificativa del ciclo disfunzionale degli evitanti. Amélie, in presenza del ragazzo, si trincera dietro la vetrina, nega di essere la ragazza che l’ha cercato, evita di svelarsi in un impaccio crescente.
L’attenzione in questi pazienti è centrata sugli stati interni che non vengono regolati, anzi temuti perché possono manifestare l’inadeguatezza e quindi attirare il giudizio negativo e il rifiuto. Naturalmente il deficit di monitoraggio e di decentramento generano il timore della perdita di controllo che aumenta la probabilità di suscitare negli altri reazioni negative.
INDICAZIONI PER L’USO:
Il meraviglioso mondo di Amélie è indicato sia in fase di assessment che in fase di trattamento del disturbo evitante di personalità. Ottimo a fini didattici.
Empatia: Le persone hanno attivazioni cerebrali simili nel momento in cui vedono atti di affetto o di violenza rivolti a robot e a persone in carne e ossa.
Un recente studio condotto dai ricercatori della University of Duisburg Essen in Germania ha scoperto che le persone hanno attivazioni cerebrali simili nel momento in cui vedono atti di affetto o di violenza rivolti a robot e a persone in carne e ossa.
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In un primo studio 40 partecipanti hanno guardato un video in cui un robot a forma di dinosauro veniva coccolato o maltrattato; in relazione a tali stimoli sono state misurate le attivazioni fisiologiche, indagando parimenti le emozioni soggettivamente percepite dai soggetti.
I soggetti hanno riportato emozioni negative e un maggior arousal nel vedere video in cui il robot veniva maltrattato.
Un secondo studio ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per indagare le attivazioni cerebrali dell’interazione uomo-robot. Ai soggetti sono state presentati video in cui un umano o un robot venivano trattati in modo affettivo oppure maltrattante.
Dai risultati è emerso che in entrambi i casi vi sarebbero pattern di attivazione cerebrale simili che coinvolgono il sistema limbico, anche se più intensi nella condizione di maltrattamento dell’umano.
Se gran parte delle ricerche nell’ambito dell’interazione uomo-macchina e dell’affective computing si focalizzano sull’implementazione di modelli emotivi all’interno di computer e robot, minor attenzione è invece posta sulla percezione soggettiva che gli umani hanno di oggetti inanimati robotici e sulla reazione emotiva degli individui nei confronti di questi dispositivi.
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I quotidiani, i telegiornali i fatti di cronaca ci riportano spesso tragedie, episodi violenti e macabri il cui motore apparente è la gelosia, l’estrema gelosia l’ossessione d’amore o di dis-amore.
Dalla semplice scenata di gelosia allo stalking all’ossessione fino all’omicidio passionale in un continuum di follia, in un escalation senza fine.
Il profilo del geloso compulsivo si traccia immaginando un soggetto che vive in una realtà propria, un mondo parallelo costruito interamente su una rete di dubbi sulla possibile infedeltà del partner che pian piano da semplici sospetti si tramutano in un’irremovibile certezza dell’infedeltà anche senza reali e oggettivi motivi e situazioni di cui sospettare nel mondo “reale”.
La gelosia è un sentimento complesso caratterizzato dalla percezione di una minaccia di perdita che include componenti affettive, comportamentali e cognitive. Tre sono le caratteristiche fondamentali del “geloso patologico”:
• Crede che la relazione con l’amato sia l’unica cosa che abbia importanza nella propria vita;
• Interpreta male l’innocenza dei comportamenti, dei pensieri e dei sentimenti dell’amato, leggendo tutto in una chiave di continua sospettosità;
• Percepisce la potenziale perdita dell’amato come un evento assolutamente catastrofico per la propria vita
La frequenza dei fatti di cronaca, l’importanza sul piano sociale ed antropologico dei delitti passionali ha portato il mondo delle neuroscienze a chiedersi se esistono particolari aree cerebrali che si attivano nei gelosi patologici.
I ricercatori dell’Università di Pisa hanno pubblicato sulla rivista Cns Spectrums i risultati di un loro studio in cui viene identificata una specifica area cerebrale responsabile dei comportamenti tipici dello stalker, e del “geloso patologico”: in particolare evidenziano come il cervello di chi fa della gelosia un’ ossessione sia programmato per assumere atteggiamenti impulsivi e fuori dal controllo razionale.
Sotto la guida di Donatella Marazziti, docente al Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Pisa, i ricercatori hanno condotto uno studio i cui risultati ci evidenziano che le “origini” neuronali della “Sindrome di Otello” si troverebbero nella corteccia frontale ventro-mediale, area del cervello che sovraintende complessi processi cognitivi e affettivi, area per cui passa l’idea della persona amata e la catastrofica idea del suo abbandono.
“Abbiamo elaborato un modello teorico– spiega Donatella Marazziti- basato sull’osservazione clinica dei pazienti affetti da schizofrenia,alcolismo e morbo di Parkinson nei quali sono molto comuni le manifestazioni di gelosia delirante. L’indagine empirica delle basi neurali della gelosia è solo all’inizio e ulteriori studi sono necessari per chiarirne le radici biologiche“.
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“Se infatti la gelosia è un sentimento del tutto naturale, il punto è individuare lo squilibrio biochimico che trasforma questo sentimento in un’ossessione pericolosa. Pensare che la relazione con la persona amata sia l’unica cosa importante della propria vita, interpretare erroneamente i comportamenti e i sentimenti del partner e percepire la sua perdita come una totale catastrofe sono ad esempio sintomi che alla fine possono portare a comportamenti aggressivi ed estremi. La speranza– conclude Donatella Marazziti- è che una maggiore conoscenza dei circuiti cerebrali e delle alterazioni biochimiche che sottendono i vari aspetti della gelosia delirante possa aiutare ad arrivare ad un’identificazione precoce dei soggetti potenzialmente a rischio”
“La gelosia – ha spiegato Marazziti – ha attirato a lungo sia l’interesse degli psichiatri, sia quello degli psicologi. E’ stata anche nascosta sotto classificazioni più ampie di problemi come la depressione, i disturbi ossessivo-compulsivi o la paranoia. La nostra ricerca dimostra che merita davvero di essere considerata una categoria a se stante – soprattutto nella sua forma estrema in cui provoca comportamenti terribili come lo stalking o porta le persone al suicidio o all’omicidio. Vorremmo essere in grado di comprenderla abbastanza bene per essere capaci di controllare le sue forme più estreme”.
Questo studio potrebbe aprire la strada a future ricerche, così da poter identificare precocemente soggetti a rischio, ma anche trovare una farmacoterapia possibile per il controllo di questi comportamenti impulsivi e drammatici.
È tutta colpa della luna,
quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti
I bambini dell’età di un anno che presentano minori livelli di sudorazione in risposta a situazioni ansiogene e spaventose mostrerebbero maggior aggressività verbale e fisica all’età di tre anni.
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In una ricerca pubblicata su Psychological Science è stato ipotizzato che i bambini aggressivi potrebbero esperire in modo meno intenso situazioni paurose rispetto ai loro pari meno aggressivi e dimostrare maggiori comportamenti aggressivi.
I ricercatori hanno misurando i livelli di conduttanza cutanea dei bambini all’età di un anno in diverse condizioni ansiogene e di controllo; in uno studio longitudinale hanno poi raccolto dati (basati su self-report delle madri) riguardo i loro comportamenti aggressivi all’età di tre anni.
I risultati dimostrano che i bambini di un anno con minori livelli di conduttanza cutanea nella condizione di controllo e nella condizione ansiogena erano poi più aggressivi fisicamente e verbalmente all’età di tre anni rispetto ai bambini con maggiori livelli di conduttanza cutanea.
Altre variabili tra qui la percezione materna di aspetti temperamentali dei bambini non sono risultate altrettanto predittive dei comportamenti aggressivi a tre anni quanto il livello di conduttanza cutanea nelle situazioni ansiogene.
Attenzione però a non sbilanciarsi su implicazioni eccessivamente speculative e deterministiche su interventi mirati alla prevenzione dell’aggressività in funzione dell’unico indice di conduttanza cutanea.
Realtà Virtuale: Nuove Frontiere della Terapia Cognitivo-Esperienziale
di Eugenia Andreoni, Giuseppe Acerra & Federica Rossi
La realtà virtuale in psicoterapia consente di partecipare attivamente al riconoscimento e alla consapevolezza di pensieri, emozioni e comportamenti propri.
É noto come un film, un racconto per immagini, una foto abbiano, a differenza della parola, un impatto immediato e maggiore sulla nostra sfera emotiva, quindi sull’apprendimento. Quando si parla di realtà virtuale (VR) ci troviamo davanti a qualcosa di più: “un ambiente tridimensionale generato dal computer, in cui i soggetti interagiscono tra loro e con l’ambiente, come se fossero realmente al suo interno” (Riva, 2007).
La realtà virtuale è considerata una sofisticata interfaccia comunicativa, in cui l’utente sperimenta il ‘senso di presenza’: “l’esserci, cioè la sensazione di essere all’interno del mondo sintetico generato dal pc” (Riva, 2009). Secondo Antinucci (1998) “la realtà virtuale permette di conoscere il mondo mediante un apprendimento di tipo senso motorio, più naturale nell’essere umano, rispetto all’apprendimento di tipo simbolico- ricostruttivo, mediato dal linguaggio e dalla scrittura“. La storia di questo strumento in ambito medico ha inizio quando, nel 1989, Jaron Lanier coniò il termine ‘Virtual Reality’ e fondò la Prima Compagnia di Ricerca sulla realtà virtuale, la VPL Research. Nel giro di un paio di anni, l’utilizzo di questo mezzo fu esteso al campo della psicologia, e furono pubblicati i primi articoli delle ricerche sull’utilizzo della realtà virtuale all’interno dell’assessment e di protocolli di trattamento psicologici (Rothbaum et al. 1995; North, North & Coble, 1997).
Una ricerca sulla banca dati EBSCO nella collezione ‘Psicologia e Scienze del Comportamento’ con la parola chiave ‘virtual reality’ riporta 2 articoli fino al 1990, 29 al 1995, 135 al 2000, 454 al 2005 e 859 a oggi.
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A proposito di concretezza, cosa intendiamo nello specifico parlando del mezzo realtà virtuale? La strumentazione base è costituita da un pc con software dedicato a scenari 3D al quale collegare:
un joy-pad;
un dispositivo di visualizzazione (casco o occhialini);
uno o più sensori di posizione e di movimento (tracker).
Grazie a questi strumenti si può parlare di realtà virtualeimmersiva, la quale permette al soggetto di provare un senso di assorbimento sensoriale nell’ambiente tridimensionale. La realtà virtuale consente pertanto di sperimentare un rilevante coinvolgimento grazie al ‘senso di presenza’ provato all’interno degli scenari virtuali, e costituito da:
proto presenza: possibilità di movimento corporeo e interazione;
presenza nucleare: percezione di un ambiente vivido;
presenza estesa: percezione di elementi significativi per il soggetto.
Le caratteristiche di funzionamento del mezzo possono essere assunte in tre punti:
Il soggetto immerso nello scenario virtuale osserva fenomeni e comportamenti;
Può intervenire con la propria azione all’interno della scena;
Può osservare in loco gli effetti dei propri comportamenti e modificarli nuovamente, considerando via via le diverse conseguenze.
Così facendo possono ripetersi cicli di percezione e azione, ciascuno operante sul risultato dell’altro. La conoscenza e il cambiamento si ottengono dal fare esperienza nel qui e ora.
La principale opportunità offerta dalla realtà virtuale all’interno di un percorso psicoterapico consiste, pertanto, nella possibilità di partecipare attivamente al riconoscimento e alla presa di consapevolezza di pensieri, emozioni e comportamenti propri, in situazione.
È questo uno dei vantaggi della realtà virtuale, ma anche il punto di condivisione con la terapia cognitivo-comportamentale: la visione del paziente come attivo costruttore della propria esperienza, e quindi del cambiamento. Posti a confronto con i tradizionali protocolli terapeutici, gli interventi con ambienti virtuali mostrano numerosi punti a favore.
I vantaggi possono essere identificati in tre principali possibilità innovative:
lo psicoterapeuta può realizzare l’assessment in situazione con il paziente, costruendo la gerarchia degli stimoli ansiosi all’interno degli scenari virtuali, per poi pianificare ed effettuare programmi di desensibilizzazione, esponendo il soggetto all’interno di ambienti virtuali protetti (Riva, 2007, 2008).
Le diverse componenti dell’ambiente virtuale sono suscettibili di un ampio controllo da parte del terapeuta, così da consentirgli di stabilire, di volta in volta, quale grado di difficoltà presentare al paziente, in relazione alla valutazione di tempi e progressi.
Lo svolgimento delle attività in ambienti virtuali permette al terapeuta di trattare nell’immediato il disputing sulle credenze disfunzionali, più accessibili e vivide durante l’esposizione piuttosto che in un colloquio classico.
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Un limite può consistere nei tempi di attuazione dell’intervento, più lunghi, ma a favore di un apprendimento in profondità e quindi più a lungo termine.
Differenti review e meta-analisi hanno considerato gli studi condotti su fobie specifiche, tra le quali, in particolare, la paura di volare, l’agorafobia, la pauradi guidare, la claustrofobia, la paura dei ragni. Vi sono inoltre evidenze circa l’efficacia di questa metodologia nel trattare differenti disturbi psicologici (Wiederhold & Wiederhold, 2001; Parson & Rizzo, 2008) in particolare il Disturbo da Attacco di Panico con o senza agorafobia (Vincelli e Riva, 2002, 2007) e Disturbi del Comportamento Alimentare (Molinari e Riva, 2004).
I protocolli sperimentali e clinici stessi non possono prescindere dall’orientamento teorico, dalla relazione terapeutica che si instaura con il paziente, e dalle necessità del paziente stesso. Allo stato dell’arte, la realtà virtuale in psicologia clinica non è quindi considerata una terapia a sé stante, ma uno strumento utile, capace di mediare tra lo studio del terapeuta e il mondo reale (Riva, 2007).
Wiederhold, B. K., & Wiederhold, M. D. (2001). Virtual reality technology in the treatment of anxiety disorders. In M. Akay & A. Marsh (Eds.), Information Technologies in Medicine, Volume II (Chapter 2). London: John Wiley & Sons
Curare le Ossessioni: Estasi di un Delitto (1955) – Recensione
Il film “Estasi di un delitto” (1955) del messicano Luis Bunuel è un intrigante viaggio nel mondo delle ossessioni e della fantasia, anzi di una fantasia in particolare, quella di commettere omicidi.
Il protagonista, prima bambino poi adulto all’interno della trama, è convinto di avere una vocazione omicida e si attribuisce la responsabilità della morte di numerose donne conosciute nel corso della vita, al punto da presentarsi davanti ad un commissario confessando i delitti.
Il corpo dell’opera è costituito dal flashback con cui Alessandro ripercorre la propria storia, le relazioni vissute e gli accadimenti che hanno condotto chi ha incrociato la sua strada ad incontrare una sorte tragica. La prima vittima è la sua balia, che dopo aver inventato una storia in cui attribuisce poteri malefici ad un carillon con cui Alessandro è impegnato a giocare, muore accidentalmente nel corso di una rivolta popolare.
Da quel momento il protagonista si persuade che il carillon determini una spirale di istinti violenti incontrollabili; le fantasie aggressive sembrano sistematicamente realizzarsi poiché le donne cui sono rivolte trovano la morte nei modi più diversi, mentre cercano di fuggire da Alessandro o poco dopo essersene separate. La deposizione si conclude con un nulla di fatto, Alessandro non è ovviamente incriminabile per gli omicidi che ha solo immaginato di compiere.
“Estasi di un delitto” tratta con vena estrema e surreale il tema di come affrontare fantasie apparentemente inaccettabili, e per questa ragione rappresenta un interessante spunto di riflessione nell’approccio con le più comuni problematiche ossessive.
Abbiamo davvero il potere di provocare ciò che immaginiamo oppure, più semplicemente, le cose accadono e dobbiamo gestirne le conseguenze? Un soggetto perseguitato dal dubbio di poter fare del male agli altri si troverebbe in grave difficoltà se le sue fantasie si traducessero in eventi reali a causa di trame accidentali, come avviene in “Estasi di un delitto“. Avrebbe la conferma di ciò che temeva.
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Tuttavia la nostra esperienza concreta è molto diversa; da un lato le probabilità che una situazione catastrofica si verifichi sono estremamente basse, dall’altro il tentativo della nostra mente di prevedere gli eventi per potersi meglio adattare ad essi si scontra con l’impossibilità di eliminare l’incertezza, l’imprevedibilità.
Su questo punto i pensieri ossessivi si trovano davanti alla scelta più importante: posso rinunciare al controllo e ai rituali accettando che esista una remota possibilità che l’evento temuto si verifichi, e dicendomi che quella possibilità non è comunque legata alle mie azioni?
Il contenuto delle paurepiù grandi – la malattia di una persona cara, un incidente in cui possiamo rimanere coinvolti – può tradursi in realtà ma non perché lo abbiamo immaginato, può prendere forma ma non come esito della nostra negligenza nel prevenirlo.
Il sentimento di responsabilità, così presente nelle credenze dei pazienti ossessivi, può ridursi attraverso il contatto con le proprie fantasie e allenandosi a immaginare qualunque genere di scenario, per poi verificare e percepire che quell’attività mentale non ha alcun potere deterministico.
Ispirandoci all’idea narrativa di “Estasi di un delitto“, la fantasia più catastrofica rimane nulla più di una fantasia, al pari di ogni altro esercizio di immaginazione che venga invece vissuto come più accettabile. Siamo tutti capaci di fare del male quando lasciamo scorrere liberamente i nostri pensieri angosciati, ma solo passando all’azione diventiamo colpevoli. Tra il pensiero e l’azione esiste la volontà, confine solido e strutturato che ci permette di orientare la nostra esperienza.
Il Perfezionismo e la Vergogna nella Società Post-Moderna
In questa dimensione della temporalità può crescere un uomo iperefficiente, autoreferenziale, forte, indipendente, pratico, centrato sul presente, sul fare tutto subito e sull’apparire invece che sull’essere e sentire emotivamente.
Questo uomo rischia di perdere la capacità di attendere, di godere del cambiamento e dell’inaspettato, di procrastinare il desiderio.
Identità individuale e ambiente sono in relazione diretta, essendo il soggetto un sistema aperto auto ed etero-organizzato. Dove cercare i legami di questa diretta relazione? Nelle storie soggettive ma oggi, più che in passato, anche nelle pagine di giornali, nei programmi televisivi, nei talk-show, nei social network. Questi sono spazi e contenitori dell’Io in cui si accresce l’identità e si disegnano scenari relazionali complessi.
I nuovi contenitori dell’Io della post-modernità sono plastici e malleabili, sempre pronti a metamorfosi e inconsistenti definizioni di sé e dell’altro. Sono specchi di se stessi, da cui tanto più ci cerchiamo di allontanare, tanto più veniamo catturati, come immobilizzati dall’allettante conferma di un nuovi possibili Sé.
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In questi spazi è concesso di citare emozioni solo apparentemente esperite o vissute senza una reale elaborazione delle stesse: colpa, rabbia, vergogna, paura, gioia vengono annebbiate, talvolta esibite, estremizzate fino a diventare desiderabili, mitizzate, o vissute in solitudine più che in una relazione reale con l’altro.
La narrativa e l’emotività vengono sostituite da slogan e immagini, che tendono a immobilizzare il soggetto nell’apparenza offerta, talvolta volutamente manipolata per mostrare di sé qualcosa che l’altro possa cogliere, spesso nell’ottica di un’immagine ideale e perfetta.
In questi comportamenti appaiono potenti meccanismi di stallo e rigidità: se da una parte c’è il desiderio di raccontarsi, d’altro canto risulta difficile, nel tempo, abbandonare i comportamenti che invece di favorire l’espressione reale di sé, allontanano il soggetto dalle relazioni vissute sulla pelle e con emotività e sensazioni. Questi spazi sono potenti contenitori di proiezione e idealizzazione, in cui l’Io si declina e cerca di muoversi in un eterno presente.
Sembra che la perfezione possa oggi essere cercata attraverso meccanismi e spazi in cui risulta potente il peso del giudizio (meglio se esterno che interno), della vergogna più che la colpa, del timore dell’umiliazione più che del danno.
Proprio la vergogna avrebbe lo scopo di proteggere il soggetto dallo sviluppo di un’identità grandiosa oltre che avere una funzione di auto-miglioramento e di protezione del sé (vergogna-pudore).
Ma dove è finito tutto questo? Sembra infatti che nel post-moderno neanche la vergogna abbia più lo stesso potere funzionale e che l’individuo tenda a ricercare una fuga dall’espressione di questa stessa. Che cosa accade in una società in cui neanche la vergogna ha più la stessa funzione e in cui spesso essa viene celata o negata? Viviamo forse in una società “s-vergognata”?
Nancy McWilliams affronta il problema dell’educazione dell’Io nella società moderna e le ricadute sullo sviluppo dei disturbi della personalità e delle psicopatologie caratterizzati da quadri di perfezionismo: “nelle famiglie vecchio stampo che generavano figli ossessivo-compulsiviil controllo si esprimeva in termini moralistici e colpevolizzanti…veniva così offerto attivamente un modello di moralizzazione. (…) l’autocontrollo e il differimento della gratificazione venivano idealizzati mentre(…) molte famiglie che oggi sono organizzate sul controllo favoriscono i modelli ossessivi attraverso il sentimento di vergogna e non inducendo sensi di colpa” (p. 312-313).
Secondo McWilliams sono queste le emozioni e le dinamiche che sovente si celano sotto patologie come DCA, tossicodipendenze, nuove sindromi di dipendenza, in cui l’emozione schiacciante è la vergogna coperta da identità grandiose di tipo perfezionistico e narcisista.
Queste sono anche dette “sindromi da vergogna” (Kaufman, 1989). Kimura Bin (1992) le definisce “patologie dell’immediatezza”. Stanghellini (2009, p.311-314) parla di “personalità liquida” rispetto ad alcune patologie, tra cui i DCA. Questi sono disturbi della coscienza di sé che rispondono ad una condizione esistenziale post-moderna in cui l’Io è “privo di organizzazione narrativa”; i vissuti “galleggiano nel mare della coscienza” senza organizzarsi attorno ad un Io-narrativo coerente.
Cosa ci dicono queste patologie rispetto alla cultura post-moderna e allo sviluppo dell’identità?
Società post-moderna e Crisi dell’identità
Bauman, con il concetto di “mondo liquido” e “identità liquida” espressi in varie opere tra cui Vita Liquida (2006), spiega come la “Vita Liquida” sia una vita che corre più del tempo, in cui sono persi i valori costituzionali che salvaguardano la relazionalità, l’identità, l’esperire emotivamente. È una vita che si spreme in una società del consumo e dell’incertezza, appunto “liquida” (Bauman, 2003).
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Vita liquida non solo per lo strutturarsi e muoversi attraverso logiche di instabilità e scambio anche nelle relazioni umane (“cosa mi dai tu in cambio di ciò che ti do io?”), ma anche per il veloce bruciarsi degli equilibri, degli obiettivi, della coerenza personale che dovrebbero rafforzarsi nelle esperienze quotidiane. Una società che è contenitore liquido ospita un Io altrettanto liquido, privo di salde colonne interne e flessibile alla malleabilità degli eventi.
E come rispondere a questo incalzare in cui il soggetto passa velocemente da attivo a passivo, da controllante a controllato, da agente a spettatore? In molti modi, in primo luogo con un controllo perfezionistico, con un continuo mettersi avanti agli eventi stessi, anticipando in modo competitivo e maniacale l’agito dell’altro, cercando di eludere l’instabilità che ci circonda, ovvero rafforzandosi in senso grandioso, fino, talvolta, a strutturarsi in senso patologico. Stanghellini (2011) parla di nuovi modelli di costituzione dell’identità: “Questa nuova forma di identità segna il passaggio dall’ identità sostanziale (io sono x) e progettuale (io sarò x), all’identità flessibile (io faccio x).”.
La soluzione del soggetto in questa società può anche essere quella di scegliere contenitori che possano dare sollievo al senso di smarrimento, in cui lo sguardo dell’altro, anche di sfuggita, possa compensare il bisogno di riconoscimento, di conferma, di rimando. Ne sono esempio i social network. Queste modalità comportamentali potrebbero consentire di esorcizzare il timore di essere s-vergognati da chi ci circonda, o di cedere a paura e sensazioni di inadeguatezza.
Il consumo, in ultimo, caratteristica anch’essa di questa post-modernità, diviene consumo di oggetto sintetico e meccanico, lenitivo contro la sensazione di “non poter godere appieno e immediatamente”.
Mai come ora l’oggetto è simbolo concreto di qualcosa che si è rotto all’interno del soggetto, nelle faglie di un’identità fragile e perennemente a rischio di frammentazione. E l’oggetto, non solo tossico e patologico ma anche consumistico (telefonini, pc, televisori, etc.), risponde oltre che alla logica della velocità a quella dell’ “instantaneità” che caratterizza la società contemporanea (Muscelli, Stanghellini, 2012), consumandosi in un “eterno presente”.
Anche sul piano relazionale la dipendenza dall’altro può essere così sostituita dalla dipendenza da un oggetto che possa favorire un veloce adattamento alle richieste della società.
In questa dimensione della temporalità può crescere un uomo iperefficiente, autoreferenziale, forte, indipendente, pratico, centrato sul presente, sul fare tutto subito e sull’apparire invece che sull’essere e sentire emotivamente. Questo uomo rischia di perdere la capacità di attendere, di godere del cambiamento e dell’inaspettato, di procrastinare il desiderio.
E tutti coloro che non riescono ad adeguarsi alla società e ai suoi meccanismi? Che non riescono a lenire la frustrazione e la vergogna con gli strumenti del mondo liquido e da questo stesso si sentono schiacciati? Questi rischiano di sentirsi outsiders perennemente in bilico, a contatto con sentimenti di profonda inadeguatezza e perdita di speranza, come raccontato dalla cronaca nera degli ultimi mesi e dalla crescente tendenza al suicidio in risposta a frustrazioni di vita.
Kaës parla della nostra cultura come “cultura del pericolo, ma anche della prodezza” in cui “Superarsi, darsi un gran da fare (nel lavoro, nell’aver successo o nella droga, ma anche nelle formazioni del narcisismo di morte) sono un valore negativo la cui base comune è l’eroicizzazione della morte” (Kaës, 2005).
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Stanghellini (2011) ci dice “In questa forma depressiva, dunque, si manifesta una diversa identificazione traumatica: l’identificazione può essere con la vittima: l’Altro è il colpevole. L’ago della colpa punta verso l’esterno. Non c’è assunzione di colpa. Piuttosto, prevalgono emozioni quali la rabbia e la vergogna, che sfociano, appunto, in un vissuto persecutorio. In alternativa, ci si sente come qualcuno che assiste impotente agli eventi, alla loro ineluttabile insensatezza. Ci si identifica con il ruolo dello spettatore il quale, disperatamente o cinicamente, osserva il caos del mondo. (…) Non c’è spazio per la speranza, o per la redenzione, o per il pentimento – che potrebbero orientare l’esistenza verso il futuro.”.
In questo processo di “eroicizzazione della morte” e di perdita “dell’esistenza verso il futuro” è possibile pensare si celi da una parte una potente difficoltà dell’uomo moderno a gestire la frustrazione e la vergogna, dall’altra la tensione verso un perfezionismo irraggiungibile e per questo doloroso a priori.
I soggetti che erano stati indotti a pensare che i volti ambigui esprimevano gioia e non rabbia riportavano in misura minore pensieri di aggressività, e nei giorni successivi una minore incidenza di comportamenti aggressivi.
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Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science ha indagato la relazione tra il riconoscimento emotivo in espressioni facciali ambigue e la presenza di pensieri e comportamenti aggressivi in un campione di adolescenti considerati ad alto rischio di atti aggressivi e in un campione di controllo.
Favorire il riconoscimento della gioia in espressioni ambigue (inducendolo a livello sperimentale) avrebbe portato ad una diminuzione dei punteggi self-report di rabbia percepita e aggressività in entrambi i gruppi coinvolti nello studio.
Lo stratagemma sperimentale usato per promuovere l’inferenza di emozioni positive è molto semplice: dopo avere chiesto di riconoscere espressioni volutamente ambigue scegliendo tra due possibili risposte, gli sperimentatori comunicavano ai soggetti sperimentali che in realtà i volti appena visti esprimevano gioia.
Dallo studio è emerso che i soggetti che erano stati indotti a pensare che i volti ambigui esprimevano gioia e non rabbia riportavano in misura minore pensieri di aggressività, e nei giorni successivi una minore incidenza di comportamenti aggressivi.
Secondo i ricercatori dunque i meccanismi di processamento ed elaborazione di stimoli emotigeni giocherebbero un ruolo chiave nell’insorgenza e nel mantenimento dei comportamenti aggressivi.
“Il Grande Capo” di Lars Von Trier (2006). Locandina Cinematografica.
Il film Il Grande Capo, di Lars Von Trier, si configura come una sintesi delle forme estreme (eccessive, caricaturali, grottesche) delle dinamiche di potere nella vita organizzativa illustrando, in particolare, le conformazioni collusive che si possono innescare quando gli elementi narcisistici prendono il sopravvento.
Proviamo a rileggere alcuni aspetti del film, sulla base di questa prima riflessione, con riferimento a tre nuclei tematici principali.
A differenza dei collaboratori di Ravn, gli spettatori scoprono subito, dalla trama, che in realtà il Grande Capo è Ravn stesso. Il nucleo drammatico di Ravn, nonché suo principale meccanismo di difesa, è la scissione di sé in una parte buona, che custodisce e ostenta, e una cattiva che nega e proietta sul Grande Capo, un personaggio di sua invenzione.
A essere proiettati all’esterno sono i desideri e sentimenti che generano emozioni insopportabilmente dolorose nel Sé, oppure quegli aspetti del Sé che non ci si autorizza ad esprimere. Nel caso di Ravn ad essere proiettati all’esterno sono principalmente i lati oscuri del potere.
Ciò che manca a Ravn è l’essenza della buona leadership che si fonda sull’equilibrio nel potere, inteso come capacità di bilanciare vulnerabilità e onnipotenza. Se l’espressione del primo aspetto (vulnerabilità) lo pone in una relazione di vicinanza con i sei anziani, gli garantisce la loro adesione e il loro “amore”, il secondo aspetto potrebbe comportare il rischio di far saltare la relazione: Ravn sceglie dunque di indulgere nella rappresentazione della vulnerabilità che arriva poi a condividere con i collaboratori nel momento in cui “crea” il Grande Capo, al quale affida la dimensione dell’onnipotenza, declinata come prevaricazione.
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Il Grande Capo è la quintessenza delle perversioni del potere: ne illustra la dimensione più prepotentemente se-duttiva (nelle relazioni con le collaboratrici); ne esprime la connotazione dispotica ed intransigente; ne declina anche la componente di imprevedibilità e irascibilità.
Sono tutti aspetti, questi, che Ravn considera al contempo inaccettabili (inesprimibili) e desiderabili: proiettandoli all’esterno, sul Grande Capo, li allontana da sé (gestendone così l’inaccettabilità) ma ne mantiene il controllo (nutrendo il desiderio), visto che il Grande Capo è una sua creazione. Sarà quando il controllo sul Grande Capo verrà meno che Ravn si troverà ad invidiare la sua stessa creatura.
Fuggendo dalla propria Ombra e proiettandola sul Grande Capo, Ravn può conservarsi nella posizione della vittima innocente; può giocare da masochista avendo trovato chi fa la parte del sadico; può riservarsi il ruolo de “l’orsacchiotto” a cui è “impossibile non voler bene”, avendo dirottato tutta l’aggressività dei follower sul Grande Capo.
Ravn oscilla tra la fantasia di essere un Dio e quella di essere un pupazzo, e ciò che in fin dei conti sembra essergli precluso è l’intersoggettività, l’incontro con se stesso e con l’altro come centri di esistenza equivalenti (Benjamin, 1995). Egli, dunque, è catturato nell’immagine infantile che coltiva di sé, come essere buono e perfetto: la sua vita affettiva, affogata in un sentimentalismo esasperato e vuoto, è pregna di narcisismo infantile (molti sono i richiami al mondo dell’infanzia, nel film).
Il bisogno di vicinanza (di adesione), da parte dei sei anziani, non può essere messo in discussione, deve essere protetto, poiché essi sono il “pubblico” di cui Ravn ha bisogno per compensare le sue insicurezze (Kets de Vries, 1993). Allo stesso modo non può essere messo in discussione il bisogno di guadagnare denaro alle spalle dei sei anziani stessi, incompatibile però con il primo e più viscerale bisogno: ecco dunque la necessità della messa in scena.
Ma la rappresentazione non potrebbe realizzarsi se ad essa non partecipassero attivamente anche i collaboratori: Ravn può simulare la virtù grazie alla complicità dei collaboratori, grazie al loro desiderio di trovare e vedere quella virtù, perché sono tutti conniventi nel riprodurre la convenzione di ciò che è “buono”.
Non c’è capo senza coda
E, infatti, la complicità di collaboratori (la loro collusione) mantiene in vita e dà forma al potere del capo. Nel momento in cui manovra i suoi collaboratori per compiacere i propri bisogni narcisistici, Ravn compiace i loro. Si tratta pur sempre di un gioco a due, come spiega Kets de Vries ne L’organizzazione irrazionale (1999, pp. 114-115): “è la collusione narcisistica […] la persona in posizione subordinata dice: ‘Non posso funzionare senza la tua assistenza. Non posso farlo da solo’”.
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I sei anziani si affidano totalmente a Ravn, al “grande orsacchiotto”, mentre si prestano ai soprusi del Grande Capo. La leadership di Ravn può dunque rappresentare la risposta adeguata allo stile di followership adottato dai sei anziani, perchè “gli individui che hanno bisogno di ammirazione e di plauso e che si trovano in posizione dominante saranno ben felici di ricambiare, facendo da controparte a questa attitudine servile. E gli inviti a seguirli – ‘tutte le preoccupazioni avranno fine se rimarrai accanto a me’ – sono accolte con entusiasmo dal dipendente” (ibidem).
È l’intonazione alla dipendenza a pervadere la vita organizzativa inscenata nel film, così come ritma la canzoncina: “Chi ci consolerà? Ravn. E chi ci abbraccerà? Ravn. Chi ci proteggerà? Ravn…”.
Ravn accudisce, sostiene e abbraccia è la reincarnazione “della madre di narcisismo primordiale, la madre che non conosce né limiti né condizioni, che sa soddisfare tutti i bisogni fondendoli in uno solo” (Gabriel, 1997, p. 246).
Ma pur essendo Ravn il dispensatore di coccole, i sei anziani si sono a lungo contesi l’amore del Grande Capo, il grande assente, che rispondeva a pieno alle fantasie di essere follower di un capo onnipotente (Gabriel e Hirshhorn, 1999), un “padreterno” che decide, impone e punisce ma anche protegge (Quaglino, 2004). E quando Kristoffer passa da recitare la parte del Grande Capo a immedesimarsi in esso, sperimenta come sia impossibile “impersonare” il ruolo senza essere risucchiati dal vortice del potere, senza venirne sedotti e voler sedurre.
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Essere cattivi è il desiderio e la paura sia di Ravn sia di Kristoffer; essere amati, allo stesso modo, è l’obiettivo che entrambi arrivano a condividere. Possiamo a questo punto ammettere l’affinità tra Kristoffer e Ravn, camuffata da quella strana combinazione di asprezze e finta-bonarietà di entrambi. Kristoffer è la perfetta controfigura di Ravn, non foss’altro perché ricorre, lui pure, alla “sostituzione”, alla creazione di un suo Grande Capo.
Il film illustra la complessità del controllo del potere: Kristoffer perde spesso il controllo del suo “personaggio”, ad esempio quando reagisce alle minacce dei collaboratori, svilendoli; ma anche Ravn perderà il controllo del Grande Capo, il quale non cederà la sua parte a comando, non smetterà di interpretare il ruolo quando gli verrà chiesto.
Soprattutto Ravn perderà il controllo del Grande Capo quando questi, trasformandosi in “superorsacchiotto”, prenderà il suo posto nel cuore dei collaboratori. Perché Kristoffer stesso, alla fine, sperimenterà il potere che dà alla testa, quello al quale non si riesce a rinunciare: il potere di “avere dei follower”, specchi sfaccettati capaci di amplificare l’immagine di sé, in una eco continua.
È così che, dopo la confessione di Ravn (e la punizione e il perdono), il film non si chiude con “e vissero felici e contenti”: Kristoffer infatti non è così propenso a cedere la parte del Grande Capo dopo averla a lungo interpretata. Una volta riguadagnata la scena tergiversa, decide di non firmare, ma è sufficiente una citazione del suo idolo, Gambini, da parte del Signor Finnur per fargli cambiare idea: l’attore vende la società e i sei anziani fanno le valige.
La conclusione recita, amaramente, come si resti imprigionati nello specchio di Narciso e come l’accesso a una vita autentica sia precluso, tanto a Ravn quanto a Kristoffer, e a tutti i sei anziani che, ancora una volta, sono rimasti fermi, in attesa, quasi certamente, di un altro Grande Capo.
Benjamin, J. (1995). Soggetti d’amore. Genere, identificazione, sviluppo erotico. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
Gabriel, Y. (1997). L’incontro con Dio. Tr.it. in Quaglino, G. P. (1999) (a cura di).
Gabriel, Y., Hirschhorn, L. (1999). Leaders and followers. In Y. Gabriel (1999), Organizations in Depht. Sage, London.
Kets de Vries, M.F.R. (1993). Leader, giullari e impostori.Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994.
Kets de Vries, M.F.R. (1999). L’organizzazione irrazionale. La dimensione nascosta dei comportamenti organizzativi. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
Quaglino, G.P. (2004). La vita organizzativa. Difese, collusioni e ostilità nelle relazioni di lavoro. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Integrare l’Esperienza nella Coscienza. Dal Congresso di Venezia
Report dal Congresso
Nuove frontiere nella cura del trauma
Approcci Integrativi e Centrati sul Corpo per la cura dei
Disturbi Traumatici Complessi
20-22 aprile 2013, Venezia
Coscienza: La seconda giornata del convegno di Venezia, si rivela densissima di riferimenti teorici, grazie agli interventi di Liotti, Tagliavini e Farina.
La seconda giornata del convegno di Venezia, si rivela densissima di riferimenti teorici sul modello di riferimento, grazie agli interventi di Gianni Liotti, Giovanni Tagliavini e Benedetto Farina.
Organizzatori del convegno e ferventi sostenitori della psicotraumatologia in Italia, introducono tre temi fondamentali che arricchiscono la cornice teorica che guida le giornate: il Dott. Liotti introduce il tema della dissociazione, come sintomo principale del cosiddetto “trauma complesso”, collocandolo in un modello di sviluppo psicopatologico dell’individuo in una prospettiva evoluzionista; segue il Dott. Tagliavini spiegandoci l’affascinante modello di Porges, la teoria Polivagale, e il concetto di neurocezione nell’ambito della fisiologia. Chiude, infine, Benedetto Farina, che raccoglie ricerche e riferimenti teorici a favore dell’ipotesi fondante il modello di riferimento: la dissociazione come effetto del fallimento dei processi “integrativi” della coscienza.
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Il modello proposto da Liotti, e già decritto in precedenti contributi sull’argomento, offre sempre sfumature interessanti e una chiave di lettura “omnicomprensiva” dei comportamenti umani. Nel modello evoluzionista il sistema difensivo umano, descritto nella prima giornata da Janina, viene collocato all’interno del più “evoluto” – presente solo nei mammiferi – sistema di attaccamento, necessario a garantire protezione e conforto a seguito di un’esperienza traumatica. Sarebbe proprio il fallimento di questo secondo sistema a determinare lo sviluppo di psicopatologia in età adulta. Il legame di attaccamento con una figura di riferimento costituisce per l’uomo un secondo e definitivo livello di elaborazione del concetto“pericolo scampato!”. Una figura di attaccamento immobile (still face), spaventata (frightened) o spaventante (frithening) a sua volta, determinerà nel bambino una sensazione di “paura senza sbocco”, lasciando il sistema difensivo per sempre attivo (trauma complesso).
Il sistema di difesa lavora però “scollegato” dalle funzioni mentali superiori della coscienza (Fonagy, 2008) e dunque i processi di integrazione della coscienza risultano inibiti: questo il principale meccanismo alla base dei sintomi dissociativi in pazienti traumatizzati.
I comportamenti contraddittori e apparentemente incongrui, derivanti da questa mancata integrazione, emergeranno soprattutto all’interno delle relazioni affettive, proprio perché queste sono state in passato contemporaneamente fonte di terrore e di protezione: qui si colloca l’idea di dissociazione come “dis-integrazione funzionale” descritto dal Dott. Farina nel suo intervento (Farina, Liotti, 2011).
Da Janet (1901) al più moderno Russel Meares (2005), l’idea dominante è che le funzione di integrazione tra diversi processi mentali sia costruita nel tempo, contemporaneamente alla crescita e allo sviluppo delle cortecce associative, nelle quali si va ad imprimere la memoria procedurale legata agli eventi. Se nel corso dello sviluppo si è esposti a particolari eventi traumatici o a situazioni di prolungato neglect affettivo, i circuiti neurali delle cortecce associative risulteranno alterati e non più in grado di controllare l’arousal.
Gli effetti principali di questa dis-integrazione sono riconducibili a due categorie principali di sintomi (Brown 2006; Holmes, 2005): sintomi di “distacco” (detachment) e sintomi di “compartimentalizzazione”. I primi implicano un distacco da sé e dalla realtà (depersonalizzazione, derealizzazione, déja vù, numbing), i secondi riguardano la separazione di funzioni mentali normalmente integrate tra loro (amnesie dissociative, disturbi somatoformi da conversione, dolori psicogeni acuti, dismorfofobie, personalità multiple).
La dis-integrazione è dunque l’effetto diretto del dolore emotivo e non un meccanismo di difesa dal dolore stesso!
La paura senza sbocco, così come tutti gli altri comportamenti difensivi descritti, ha precisi correlati viscerali che attivano la “modalità di funzionamento” adatta ad ogni situazione e Giovanni Tagliavini ci illumina a tal proposito descrivendo la meravigliosa Teoria Polivagale di Porges.
Studioso della fisiologia umana, Porges getta luce sui meccanismi primordiali delle nostre reazioni ad uno stimolo, interno o esterno, attraverso la descrizione delle due branche principali del nostro sistema nervoso autonomo (SNA): il SNA simpatico, attivato da adrenalina e noradrenalina, responsabile delle nostre risposte di attacco e fuga e quello parasimpatico, attivato da acetilcolina e responsabile delle risposte “rest and digest”, di calma cioè e mantenimento dell’energia corporea. Secondo il modello (Porges 2007), la componente parasimpatica sarebbe poi ulteriormente divisa in due parti: una attiva in condizioni di sufficiente “sicurezza” (branca del vago-ventrale) che produce uno stato di immobilità senza paura o risposte di interazione e ricerca di aiuto nell’ambiente (attaccamento), l’altra capace di rispondere al solo “pericolo di vita” (branca vago-dorsale), producendo un crollo del tono vagale, ipotonia muscolare (“morte apparente”) e catalessia. Quest’ultima reazione è la più evolutivamente antica e l’uomo lo condivide con i rettili.
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Il meccanismo che decide la pericolosità degli stimoli ambientali e dunque quali delle tre reazioni vada messa in campo si chiama neurocezione, un rilevamento cioè del pericolo senza percezione, né consapevolezza.
Dal punto di vista psicopatologico, è interessante osservare come queste reazioni avvengano soprattutto a fronte di stimoli interni – es: sensazione di essere in pericolo in una relazione – o di stimoli “trigger” che attivano delle memorie nel corpo di eventi traumatici passati, ma come sempre producano lo stesso lavoro del nostro SN autonomo: sicurezza (vago-ventrale), pericolo (simpatico), minaccia di vita (vago dorsale). Quest’ultima risposta è molto frequente nell’uomo di fronte a traumi gravi quali violenze, abusi fisici, incidenti, catastrofi, e sarebbe responsabile della sensazione di impotenza vissuta sul corpo durante l’evento traumatico: terrore e immobilità, impossibilità a reagire.
Ma cosa succede quando si vive una paura così intensa senza poter fare il benché minimo movimento?
A queste ultime reazioni fisiologiche sono riconducibili i più frequenti sintomi dissociativi.
Sebbene il nostro sistema autonomo funzioni appunto “in autonomia”, l’esperienza vissuta viene sottoposta successivamente ad una valutazione più consapevole e il risultato può essere emotivamente devastante. L’idea centrale della psicoterapia sensomotoria è appunto di osservare i segnali di attivazione o disattivazione del sistema nervoso autonomo, con l’obiettivo di monitorare il livello di sicurezza percepito nella relazione terapeutica e lavorare su una sempre maggiore attivazione del sistema vago ventrale, che è quello che permette di allargare la “finestra di tolleranza” di cui ci ha parlato Janina Fisher.
Importantissime le considerazioni di Porges sulla psicoterapia e sul ruolo del terapeuta:
“Le terapie spesso comunicano ai clienti che il loro corpo non si sta comportando adeguatamente. I clienti si sentono dire che devono essere diversi, che devono cambiare. In questo modo la terapia in se
stessa diventa qualcosa di estremamente giudicante per l’individuo, e quando ci sentiamo giudicati di base siamo in uno degli stati difensivi, quindi non in sicurezza. “
“[…] non esiste “la risposta cattiva”. Ci sono solo risposte adattive. Il punto fondamentale è che il nostro sistema nervoso sta cercando di fare la cosa giusta e dobbiamo rispettare ciò che fa.” (S.W. Porges)
Tagliavini, G. (2011). Modulazione dell’arousal, memoria procedurale ed elaborazione del trauma. Il contributo clinico del modello polivagale e della terapia sensomotoria. Cognitivismo clinico, 8(1): 60-72. (LEGGI L’ARTICOLO)
PFF – Psicologia Film Festival – Programma IV Edizione 2012-2013
Una nuova ricerca pubblicata su PLoS ONE ha identificato un legame significativo tra la costante pratica sportiva del ciclismo e un miglior funzionamento attentivo.
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Analizzando un campione di 28 giovani ciclisti è stato scoperto che coloro che praticavano regolarmente tale attività sportiva presentavano migliori performance cognitive e un aumento dello span di attenzione, in altre parole erano in grado di reagire più velocemente agli stimoli esterni durante uno specifico task attentivo.
Secondo i ricercatori almeno due ragioni potrebbero spiegare il fenomeno: primo, a livello fisiologico le persone più sportive godrebbero di un maggiore livello di ossigenazione cerebrale con il risultato di una maggiore capacità di rilevare stimoli rilevanti e in minor tempo rispetto ai non sportivi.
L’altra ragione che si colloca più a livello esperienziale e psicologico: i ciclisti sono abituati a mantenere alta la propria attenzione per un significativo periodo di tempo – anche diverse ore- come nel caso di una gara ciclistica allenando di conseguenza, oltre che le gambe anche questa funzione cognitiva. Un limite dello studio è il confronto tra ciclisti e persone non sportive, che non risponde alla domanda di quali differenze in termini di funzioni cognitive si possono rilevare tra praticanti di diverse discipline sportive.
Civitarese – Il sogno necessario (2013) – Franco Angeli Editore
Quante cose ci sono in Il sogno necessario di Giuseppe Civitarese? Tra tutte, la passione per Bion.
Se fossi più esperto di storia della psicoanalisi, una delle domande più intriganti sarebbe trovare una spiegazione della passione italiana per Wilfred Bion. Mi pare di aver compreso che Bion più in Italia che in Inghilterra è considerato una delle principali figure della psicoanalisi britannica.
Civitarese analizza il sogno da un punto di vista soprattutto bioniano: il sogno come funzione mentale conoscitiva, anzi cognitiva.
Ovvero come strumento della funzione alpha, che sarebbe la funzione del pensare, mettere in relazione, andare oltre l’osservazione bruta e non elaborata.
Questa idea che il sogno abbia funzione conoscitiva era già dello stesso Bion. Mentre il sogno per Freud era espressione del desiderio, per Bion è espressione della capacità cognitiva dell’uomo, della sua volontà di rappresentarsi il mondo in maniera veritiera, in qualche modo oggettiva. Ovvero, “senza memoria e desiderio” sempre secondo le parole di Bion. Il che è un bel rovesciamento della posizione di Freud, per il quale invece il sogno è desiderio.
LEGGI LA RECENSIONE: Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese – A cura di GIovanni M. Ruggiero
Per un terapeuta cognitivo come me la posizione che Bion da alla conoscenza e alla cognizione può essere affascinante. Mi viene in mente che il modello della mentalizzazione di Fonagy in fondo riprende la funzione alpha di Bion. Che la psicoanalisi italiana nutra questa passione per Bion sembra quasi un segnale di una segreta fascinazione per la cognizione stessa. Certo, in terapia cognitiva la conoscenza razionale è soprattutto un processo e un contenuto, mentre per Bion e come poi sarà per Fonagy, si tratta invece di un assetto, di una posizione della mente.
Gli altri due protagonisti del libro di Civitarese sono Melania Klein, altra passione italiana, e Antonino Ferro, un ottimo pensatore italiano. La Klein probabilmente è piaciuta agli italiani per il suo interesse per la psicologia delle figure affettive interiori, in termini tecnici “oggetti interni”, le immagini più o meno consce che abbiamo delle persone care, immagini intrise di odio e di amore. Meno sarà piaciuta, credo, agli italiani, la cupezza della concezione della Klein, intrisi di invidia e di odio e, in fondo, di ben poco amore.
Infine Antonino Ferro, che per Civitarese sembra essere un maestro. Ferro sviluppa Bion, concependo il sogno, e quindi la funzione del pensare, in maniera iperinclusiva. Si sogna sempre, dice Ferro, e quindi si pensa sempre. Ovvero, continuamente la mente, anche nello stato di veglia, trasforma in immagini tutte le sensazioni e gli stimoli da cui siamo bombardati, consentendoci una presa di distanza dalle “cose” che sono fonte di angoscia, perché ne restituiscono uno statuto di pensabilità, un senso.
La psicoanalisi, dice Ferro, è proprio il tentativo di ampliare ulteriormente questa pensabilità di ogni cosa. In psicoanalisi, ovvero nel campo analitico, dice Ferro, tutto ha senso e tutto è pensabile e nulla può rimanere allo stato grezzo, di non pensato.
Proprio in omaggio a questa ipotesi che tutto è sogno e che, in quanto sogno, tutto è pensabile, i sogni di Civitarese sono tutti, o quasi, cinematografici. I sogni che analizza Civitarese sono stati sognati, o raccontati, in film. Film famosi e meno famosi che sono commentati in lungo e in largo in questo libro. Che è quindi un libro di amanti del cinema, oltre che dei sogni.
“Il Grande Capo” di Lars Von Trier (2006). Locandina Cinematografica.
Recensione: Il Grande Capo. La ferocia con cui si demolisce ogni aspirazione dell’essere umano a scoprire le tracce di una sensibilità diversa dall’abuso morale.
In questo film del 2006 Lars von Trier si cimenta con la commedia, rimanendo però sempre…Lars von Trier. Lo sguardo del regista, spesso feroce nell’esplorare lo smarrimento morale della natura umana, si posa stavolta sulla parabola di una società di informatica danese che sta per essere ceduta ad un compratore islandese.
I dipendenti dell’azienda non hanno mai conosciuto il vero proprietario, che comunica le proprie decisioni attraverso un portavoce; la scena è ovviamente ingannevole: il portavoce, che fingendosi amico dei dipendenti e facendo intendere di essere dalla loro parte si appropria dei progetti informatici che creano, è in realtà il padrone dell’azienda e il grande capo di cui riferisce i pensieri non è mai esistito. Il compratore islandese vuole però conoscerlo, compare così un attore disoccupato che il finto portavoce assolda per recitare il ruolo del finto capo; la trama de Il Grande Capo assume uno sviluppo surreale e grottesco, il nuovo arrivato fatica a inserirsi nella realtà mistificata che deve interpretare e si scontra con un’umanità comicamente alla deriva, tra chi piange all’azionarsi di una fotocopiatrice e chi non controlla gli impulsi aggressivi trasmessi dalla campagna danese.
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Gradualmente però prende pieno possesso del proprio ruolo e va persino oltre, incastrando il finto portavoce nelle catene dell’amicizia interessata con cui si era avvicinato agli altri personaggi; il cattivo e il manichino si scambiano ruoli e potere, finendo per mescolare amoralità e impotenza corrotta. Lars von Trier entra con cinico sarcasmo negli intrecci più deteriori del mondo del lavoro e delle relazioni, denudando il rifiuto intenzionale di ogni etica che viene perseguito non solo dai vertici della piramide del potere ma anche da chi ne fa parte come sottoposto – emblematico l’immediato desiderio di una dipendente di concedersi sessualmente al finto capo appena conosciuto – e descrivendo logiche di sopraffazione tanto logore quanto capaci di riprodursi in un ciclo ininterrotto.
La ricerca cieca del profitto, la prospettiva secondo cui gli esseri umani non possiedono un valore intrinseco che va rispettato bensì fanno parte di un ingranaggio che nasce e si alimenta senza considerarli, sono tematiche che Il Grande Capo analizza con ironia spietata, entrando di forza nella rappresentazione soggettiva dei protagonisti e svolgendo una regia veloce, instabile, che rinuncia a sequenze narrative tradizionali per prediligere il flusso delle percezioni immediate. I dialoghi sono serrati, la voce fuori campo di Lars von Trier interviene come un’irruzione fugace, le relazioni tra i personaggi si giocano su due piani interscambiabili, finzione e realtà, senza che ad alcuno interessi definire la legittimità morale dell’una o dell’altra, interrogarsi sulla liceità delle proprie azioni oppure, più semplicemente, sul significato complessivo di ciò che sta accadendo.
Tutto viene sacrificato ad un’entità di cui non si colgono le fattezze bensì le conseguenze, quasi che il grande capo non fosse solo il padrone dell’azienda ma anche e soprattutto il principio ispiratore di ogni dinamica lavorativa e umana: l’assenza totale di princìpi. Lars von Trier e la commedia: un matrimonio riuscito, non per i suoi detrattori che da questo film ricavano una prova ulteriore e a tratti ancor più aspra della ferocia sfrontata con cui il regista danese demolisce ogni aspirazione dell’essere umano a scoprire in sé le tracce di una sensibilità diversa dall’abuso morale.
Eppure il male esiste e spesso gli uomini tentano di espellerlo dalla propria immagine desiderata affidandolo all’opera di narratori come Lars von Trier, che si assumono la responsabilità di immergersi in esso trasformandolo se necessario in un sofferto sforzo ironico: Il Grande Capo è anche questo.
Il regista Lars von Trier, messi da parte per un attimo i toni grevi della Trilogia o dei drammoni escatologici, si cimenta con “Il grande capo” in un’inaspettata commedia grottesca.
La trama già di per sé trasuda demenzialità: Ravn, proprietario di una ditta di informatica, decide di cederla licenziando tutti i dipendenti, i quali però non conoscono la sua vera identità e lo credono un dipendente come tutti gli altri. Per non catalizzare le maledizioni degli impiegati destinati a perdere il lavoro, egli decide quindi di assumere un attore affinché finga di essere lui il grande capo, e si prenda in toto la colpa della vendita e dei licenziamenti.
A primo impatto potrebbe sembrare una critica beffarda mossa contro l’alienazione dei rapporti interpersonali all’interno delle multinazionali (com’è possibile lavorare per qualcuno che non si sa nemmeno chi sia?), ma in realtà l’intento del regista non sembra essere quello di proporre l’ennesima riflessione moralista sui rischi della globalizzazione.
Piuttosto, suggerendo con ironia quanto possa essere versatile e relativo il concetto di identità, Von Trier sembra voler rappresentare un desiderio che nell’immaginario collettivo è, da sempre, potentissimo: sfuggire alla responsabilità delle proprie azioni e del proprio modo di essere, potendo disporre all’occorrenza di un capro espiatorio e di una maschera ad hoc per ogni situazione.
Quando Ravn ingaggia l’attore per sostituirlo, sappiamo infatti che il suo obiettivo è quello di non rovinare i rapporti coi suoi dipendenti; semplicemente, non vuole che questi se la prendano con lui.
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Ma in realtà, oltre all’idea geniale di appioppare la malefatta specifica a un capo fasullo, Ravn si dimostra in generale un vero e proprio prestigiatore del Sé, abilissimo nel pilotare le relazioni in modo da evitare qualunque conflitto: riesce a mantenere negli anni i suoi collaboratori all’oscuro del suo vero ruolo nell’azienda e ad accattivarsi la loro simpatia, approfittando dell’equivoco a suo vantaggio.
Non solo: quando entra in gioco il finto capo scopriamo, da come i dipendenti si relazionano con l’attore, che con ognuno di loro Ravn aveva assunto un’identità differente, assecondandone le esigenze e coccolando le inclinazioni e i bisogni individuali.
All’inizio l’attore è un po’ disorientato da questo caleidoscopio di ruoli da interpretare, ma poi anche lui ci prende gusto ad accontentare tutti e intuisce che neutralizzare gli attriti può essere molto vantaggioso (tant’è che rimedia anche un imprevisto, quanto demenziale, rapporto sessuale con una delle dipendenti).
Viene da chiedersi: perché Ravn si comporta così? Perché sceglie di rinunciare alla propria identità pur di scongiurare qualunque possibile tensione? La spiegazione che si dà lo spettatore è ovviamente quella più cinica, ossia che egli approfitti dell’ambiguità per sfruttare il lavoro dei dipendenti, godere dei profitti e del merito e poi sbarazzarsi di loro, possibilmente senza alcuna seccatura.
In realtà, durante un colloquio con la sua ex moglie, il finto presidente dichiara di aver intuito quale sia il reale motore del comportamento di Ravn, quello che noi psicologi definiremmo il suo core belief, peraltro neanche troppo originale: l’idea che se fosse banalmente sé stesso finirebbe per non essere amato.
Se Ravn non si fa scrupolo di recitare in continuazione è perché questo gli permette di sentirsi sempre apprezzato e benvoluto nonostante i suoi meschini progetti, e quindi il suo tentativo di sfuggire al rischio della non accettazione sembra essere la ragione (o una delle ragioni) di tante macchinazioni.
La responsabilità di ciò che si fa e di come si è (con tutto il corollario di possibili condanne, critiche e disprezzo che potrebbero derivarne) come luogo mentale intollerabile, insomma.
Del resto lo stesso Von Trier fa qualcosa di simile al suo protagonista utilizzando l’Automavision, un sistema che delega le modalità di ripresa (scelta delle inquadrature, delle luci e delle messe a fuoco) ad un computer.
Come a dire: se il film non vi è piaciuto non è che io sia un incapace come regista, perciò non mi seccate: prendetevela con la macchina.
Luisa di Biagio è un’etologa, una psicologa e un’autistica sana. Il suo impegno per far conoscere meglio la condizione autistica è costante e caratterizzato da professionalità e competenza. Le sono grata di aver dato a State of Mind la possibilità di dar voce a chi l’autismo non solo lo studia ma lo vive in prima persona.
SoM: Buongiorno dott.ssa Di Biagio, grazie per aver accettato l’invito di State Of Mind a rispondere a qualche domanda sull’autismo. Vorrei dare ai lettori la possibilità di conoscerla meglio. Lei è psicologa e autistica quindi chi meglio di Lei può affrontare questo tema?
LDB: Grazie a voi per la possibilità di contribuire alla diffusione di notizie corrette sull’autismo, nel faticoso tentativo di contrastare le moltissime informazioni scorrette di cui sono farciti articoli , libri e seminari , persino in contrasto con le direttive ufficiali accademiche .
Chi meglio di un autistico la cui formazione è basata proprio sullo studio della psicologia , del comportamento e dell’educazione umana e non umana, può affrontare l’argomento ? Nessuno. Peccato che gli autistici parlanti in genere “urlano nel deserto” , se mi concede il riferimento.
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SoM: Nei suo contributi al tema “autismo” insiste molto nel descrivere un autismo fisiologico, mentre è comune sentir parlare di autismo come di una condizione patologica che compromette la capacità dei soggetti di vivere una vita indipendente. Cosa intende quindi per autismo fisiologico?
LDB: La domanda dovrebbe essere “Cosa si intende per autismo fisiologico” ? E dovrebbe essere questa perchè non si tratta di una mia personale opinione ma di come stanno le cose .
Concepire come fisiologico (SANO) qualcosa di diverso dal neurotipico è difficile perchè non ci sono strumenti culturali tali da permettere di concepire questo, il (neuro)tipico centrismo è il fulcro della cultura sbilanciata di questo periodo storico . Sì, certo, è razzismo, senza dubbio. La stessa definizione della condizione con tratti misti (condizione subclinica dello spettro autistico) indica la misura di questa tendenza . Dal mio punto di vista (quello di un’autistica) ad esempio potrei affermare che la condizione con tratti sia tipici che autistici appartiene allo spettro tipico . Meglio sarebbe affermare che non esistono solo condizioni fisiologiche tipiche o autistiche , ma anche condizioni fisiologiche miste .
L’intero sistema di approccio all’autismo è mirato al cambiamento degli autistici, non esiste nessun programma che includa il cambiamento dei tipici e che sia mirato al compromesso culturale. L’unico sistema considerato accettabile di struttura comunicativa, percettiva e sociale è, di fatto, quello della cultura tipica. Questo crea una situazione talmente sbilanciata da creare disagio nella cultura tipica stessa.
L’autismo non è una disabilità , come non lo è l’omosessualità. La tiritera nasce proprio dal fatto che l’autismo , soprattutto quando non è in forma patologica (quando NON è autismo severo) non permette di individuare immediatamente la persona come neurodiversa e il modo di comunicare di quella persona , rispetto a quello medio , è tale da generare “imbarazzo” .. quello che si dimentica è che , se di imbarazzo si tratta , lo stesso imbarazzo lo prova la persona in riferimento al comportamento tipico, quindi direi di smetterla di parlare di “imbarazzo” e cominciare a lavorare per un compromesso culturale.
Le disabilità, gli adulti e i bambini disabili esistono, esistono adulti e bambini disabili Tipici (con organizzazione neurologica tipica ma in una forma severa o con problemi importanti associati) ed esistono adulti e bambini disabili Autistici (con organizzazione neurologica atipica ma in una forma severa o con problemi importanti associati) ma essere autistici NON vuol dire essere disabili .
La disabilità costituisce una minoranza in tutta la popolazione tipica così come costituisce una minoranza in tutta la popolazione autistica . Considerare TUTTI gli autistici disabili di default è come considerare TUTTI i tipici disabili di default .
In tanti anni ho sentito sempre parlare e scrivere di genitori che soffrivano per la diversità del figlio mai ( MAI ) nessuno che abbia pensato “chissà come vive mio figlio IMMERSO tra persone diverse ” oppure ho sentito e letto di persone “in imbarazzo” a causa di gesti e parole di autistici ma ( MAI ) nessuno che abbia detto o scritto “chissà quanto ho messo in imbarazzo questa persona ? chissà come mi percepisce strano e imbarazzante ?”
E’ un concetto talmente alieno da risultare non credibile . E infatti gli autistici che parlano , a meno che non siano talmente bizzarri da rivestire il ruolo di “orso ballerino” , non vengono proprio considerati .
C’è da dire che come professionista del settore ho incontrato più genitori desiderosi di interventi che mirassero al mascheramento tipico dei figli autistici piuttosto che al riconoscimento e valorizzazione della loro neurodiversità. Di chi è la responsabilità di tale scenario?
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Fino a dieci anni fa si poteva anche pensare che questo atteggiamento fosse il risultato di una buona fede . Oggi non trova giustificazione . Sono molti gli autistici nel mondo che raccontano l’autismo . Escludendo quelli che hanno problemi di equilibrio o culturali (essere squilibrati o ignoranti è una condizione democratica , che coinvolge sia tipici che autistici ) , gli autistici competenti descrivono l’autismo in modo piuttosto esaustivo .
C’è, di fatto, una enorme resistenza che, temo, dipenda da un fattore puramente economico. La dinamica di mantenere alta la soglia di allarmismo per proporre terapie salvifiche e, guarda caso, costosissime, è quella che sta mandando avanti un mercato terribile. Un mercato che pagano i bambini in prima persona, ma anche le famiglie coinvolte. L’autismo, insomma, è l’affare del secolo . E’ un terribile circolo vizioso che si nutre del panico di genitori spinti a non accogliere la condizione autistica.
I nostri bambini crescono continuamente disconfermati e arrivano a sviluppare patologie comportamentali secondarie molto serie . Questa la testimonianza di un addetto ai lavori: “è un affare lavorare con gli autistici perchè tanto o non parleranno mai o se parleranno li faremo passare per matti. Per quanto riguarda l’Asperger i maschi sono cavalli da sedare e le femmine cavalle da domare“.
SoM: Cosa consiglierebbe dunque a dei genitori che ricevono una diagnosi di autismo ad alto funzionamento o asperger? Quali obiettivi dovrebbe avere un trattamento rivolto a questo bambino, alla sua famiglia e al contesto sociale in cui è inserito?
LDB: Consiglierei di non farsi trascinare nel vortice dell’allarmismo . Di imparare l’autismo per insegnarlo ai figli . Prima di apprendere regole e parametri di una cultura diversa, i bambini autistici dovrebbero apprendere i criteri della propria cultura. Imparare ad essere buoni autistici prima che ad utilizzare alcuni strumenti della cultura tipica. Questo non accade . Al bambino viene negata un’ identità.
I bambini smettono di essere bambini dalla diagnosi in poi, e si trasformano in PROBLEMA e punto. Consiglierei ai genitori di seguire corsi per apprendere i criteri culturali dell’autismo e cercare un compromesso nella comunicazione con i figli. Consiglierei loro di usare i soldi per vivere serenamente e non per pagare ore e ore di addestramenti e torture . E ovviamente , in particolare se si tratta di diagnosi di autismo ad alto funzionamento e Asperger , consiglierei loro di farsi valutare , molto probabilmente sono autistici e non lo sanno , o hanno una condizione mista ( che è una cosa diversa e NON è autismo ). E ovviamente consiglierei loro di leggere i miei libri e articoli , che credo siano il materiale migliore disponibile in italiano al momento, o di contattarmi.
SoM:È ragionevole immaginare che anche gli autistici fisiologi, forse anche proprio in virtù dell’ambiente tipico in cui sono inseriti, possano aver bisogno di rivolgersi ad uno psicoterapeuta. Secondo lei che tipo di psicoterapia è più indicata per questi soggetti? Può uno psicoterapeuta “qualsiasi” aiutare un paziente autistico a risolvere per esempio un disturbo d’ansia?
LDB: Mi pare evidente che tutti , anche gli autistici fisiologici , possano avere bisogno di un aiuto psicologico . Un professionista che non sia PERMEATO di cultura autistica (sin dallo sviluppo possibilmente) non dovrebbe occuparsi di autismo se non accompagnato , supervisionato ecc . Esattamente come per il contrario : un professionista che non sia permeato di cultura tipica non dovrebbe occuparsi di persone tipiche .
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Il grande problema è che TUTTI gli autistici sono permeati di cultura tipica , quindi , potenzialmente , tutti i terapeuti autistici possono occuparsi di persone tipiche , mentre QUASI NESSUN terapeuta tipico è permeato di cultura autistica pur continuando a seguire persone autistiche … c’è da riflettere …
Per quanto riguarda l’approccio di scuola di pensiero , non è questa la sede per discutere sull’efficacia generale di alcune, ma di certo si può affermare che per l’autismo le dinamiche teoriche alla base di scuole come la freudiana sono assolutamente fuori luogo . Gli assunti di base di questi approcci sono quanto di più lontano ci possa essere dalla logica, dal processo di pensiero, dall’emotività e dalla percezione autistica.
SoM: Grazie dott.ssa Di Biagio, mi auguro che le sue parole arrivino a quanti più professionisti e genitori impegnati a vario titolo in una relazione con un autistico.