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Anosmia e Relazioni Intime: Correlazioni?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Anosmia isolata congenita (ICA): assenza delll’olfatto. Gli individui con anosmia dimostrano maggiore insicurezza nelle relazioni intime.

 

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Memorie Olfattive: una Base Scientifica al Fenomeno di Proust. - Immagine: © Igor Yaruta - Fotolia.com
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Circa una persona su 7500 nasce senza il senso dell’olfatto, una condizione anche conosciuta come anosmia isolata congenita (ICA). Secondo uno studio pubblicato da poco su Biological Psychiatry gli individui con anosmia dimostrano maggiore insicurezza nelle relazioni intime rispetto a un campione di controllo.

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Inoltre sembra che un deficit del senso dell’olfatto influenzerebbe proprio le relazioni sessuali.

 

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Nello specifico, nel caso degli uomini si è riscontrata la presenza di un minore numero di partner sessuali nel corso della vita, mentre nel caso delle donne è stato rilevato un maggiore grado di percezione di insicurezza relazionale nei confronti del proprio partner sessuale rispetto a soggetti sani.

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L’olfatto, uno tra i cinque sensi che di primo acchito può sembrare trascurabile, è in realtà il più antico a livello filogenetico, collettore di indizi importanti per rilevare l’ansia nei propri consimili, importante veicolo di riconoscimento del caregiver da parte del neonato (Leggi anche Articoli su: Attaccamento), e così via.

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In generale, i ricercatori suppongono che deficit nella sensorialità olfattiva possano ridurre il comportamento esplorativo sessuale  nelle relazioni intime; allo stesso tempo raccomandano cautela vista la limitata numerosità del campione clinico coinvolto nello studio.

LEGGI:

RAPPORTI INTERPERSONALI – GENDER STUDIES – SESSO – SESSUALITA’ – AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI

BIBLIOGRAFIA:

 

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E14 Amy & Jake

In Treatment – Psicoterapia in TV

QUATTORDICESIMA PUNTATA

Amy & Jake

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT – LEGGI L’INTRODUZIONE

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In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E14 Amy & JakeUn pessimismo violento e plumbeo ormai domina le puntate, una diffusa sfiducia nella possibilità di nutrire relazioni sane e soddisfacenti con il prossimo. 

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Dopo l’intermezzo speranzoso di Sophie (Leggi l’ultima seduta di Sophie), ricomincia la discesa all’inferno di Paul, stavolta in compagnia della terribile coppia di Amy e Jake.  È chiara ormai la struttura delle puntate settimanali, quasi una grande pala dai colori prevalentemente scuri, in cui i quattro tenebrosi pannelli laterali circondano il più luminoso ritratto centrale di Sophie. E oggi tocca ai protagonisti più tenebrosi di tutti, la coppia in crisi.

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La catastrofe preannunciata nel finale della seduta precedente si realizza definitivamente. Amy ha abortito e si presenta da sola in seduta (Leggi anche articoli su: Gravidanza & Genitorialita’) .  Sembra un animale soddisfatto di sé e sensuale e, similmente a Laura, flirta con il povero Paul, ormai oggetto delle attenzioni fameliche di tutti i suoi pazienti (l’unico che lo rispetta è Sophie). Il tema della difficoltà di governare le relazioni e di mantenere i confini terapeutici è sempre più presente in questa serie.

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Un pessimismo violento e plumbeo ormai domina le puntate, una diffusa sfiducia nella possibilità di nutrire relazioni sane e soddisfacenti con il prossimo.  Simbolicamente il nome della ragazza, l’unica messaggera di una speranza, è Sophie: sapienza.

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Ma non è il caso di Amy e Jake, che di sapienza paiono possederne ben poca. Arriva anche Jake e la coppia litiga duramente e tristemente in presenza di Paul. Jake intuisce che la moglie ha flirtato col terapeuta, e gli ingiuriosi epiteti che gli uomini violenti rivolgono alle donne in queste situazioni sgorgano dalla sua bocca amareggiata. La seduta termina in un’atmosfera di sconfitta e risentimento.

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Ma non è finita. Un’altra coppia in disfacimento occupa il finale: Paul e Kate, sua moglie. Asciuttamente Kate riferisce che se ne va, per un giorno, anzi, per due, anzi per una settimana. Dove? Con l’uomo con cui si vede. E va a Roma. È davvero uno schiaffo in faccia a Paul, se pensiamo che a Roma i due trascorsero il loro viaggio di nozze. La puntata termina con Paul simbolicamente disteso sul divano dei suoi pazienti, moralmente umiliato e schiaffeggiato. Le relazioni umane sono piene di dolore. Decisamente una triste verità per un analista relazionale.

LEGGI:

IN TERAPIA –  ALLEANZA TERAPEUTICA – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – TERAPIA DI COPPIA – 

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT – LEGGI L’INTRODUZIONE

APPROFONDIMENTO: SCHEDA DI IN TREATMENT SU WIKIPEDIA

 

L’Intervento dello Psicologo Penitenziario

Lo Psicologo Penitenziario – Ci si dimentica facilmente di quel luogo lontano dalla nostra esperienza, il carcere, collocato ai margini di una città.

L’Intervento dello Psicologo Penitenziario. - Immagine: © fergregory - Fotolia.com

di Monica Salvi, Psicologa

Poco si parla e si sa di carcere. Entra nei discorsi della gente quando lo impongono i mass media: il sovraffollamento, i suicidi, i delitti trasformati in eventi mediatici. Ci si dimentica facilmente di quel luogo lontano dalla nostra esperienza quotidiana, spesso collocato ai margini di una città, ritenendo forse che i problemi che affliggono quel tipo di istituzione non ci riguardano direttamente. Quel tipo di istituzione è un’istituzione totale, un microcosmo dove si percepisce un taglio netto tra il “dentro” e il “fuori”, dove chi vi è recluso è considerato a priori colpevole nel vissuto collettivo e quasi mai ci si sofferma a riflettere su come sia davvero la vita, dentro.

Poco si sa della figura dello psicologo penitenziario, di come operi all’interno dell’istituzione e delle molte situazioni, non di rado contraddittorie, che si trova a dover far fronte.

La figura dello psicologo penitenziario nasce con la Legge di Riforma dell’Ordinamento Penitenziario del Luglio ’75. La legge n° 354 sancisce il passaggio da un modello meramente retribuzionista della pena a un modello rieducativo-trattamentale, che ha come finalità la rieducazione e il reinserimento sociale del reo. L’articolo 80, nello specifico, sostiene che per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica.

La psicologia, per la prima volta, opera formalmente nell’istituzione penitenziaria e si rivolge primariamente ai detenuti.

Nel 1979 gli Esperti Psicologi iniziano a far parte dell’equipe multidisciplinare interna, definita Gruppo Osservazione e Trattamento e composta da Direzione, Polizia Penitenziaria, Educatori ma anche figure non istituzionali, con la finalità di costituire congiuntamente un progetto individualizzato per il recupero del soggetto deviante. L’Esperto Psicologo è chiamato a dare il suo contributo specifico all’osservazione scientifica della personalità (valutazione della pericolosità sociale e della possibilità di recidiva) e all’elaborazione del programma di trattamento, intra o extra-murario; trattamento che consiste in un progetto individualizzato finalizzato a far si che il tempo della detenzione sia un’occasione esistenziale di assunzione di responsabilità e autocritica circa le proprie condotte antigiuridiche, nonché di rieducazione attraverso attività lavorative, d’istruzione scolastica e professionale, ricreative, culturali e di risocializzazione mediante benefici e misure alternative alla detenzione .

 Nel dicembre 1987 la circolare Amato n. 3233/5683 istituisce il “Servizio Nuovi Giunti”, volto primariamente a prevenire gesti suicidari e autolesivi. Nel colloquio di ingresso lo psicologo è chiamato a valutare e individuare i casi a rischio per una successiva presa in carico nonché a dare indicazioni sull’ubicazione del detenuto e sul tipo di sorveglianza da applicare.

Il 2008 è l’anno della riforma della sanità penitenziaria. L’emanazione del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° aprile 2008 segna il passaggio delle funzioni in materia di Sanità Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. Da quella data si sono lentamente costituiti, all’interno degli Istituti Penitenziari, i primi Presidi di Psicologia composti da personale afferente all’Azienda Ospedaliera, e non più al Ministero di Giustizia, con mandato di valutare e monitorare il rischio suicidario attraverso l’individuazione dei fattori di rischio, esteso non solo ai nuovi giunti ma a tutta la popolazione carceraria; e la presa in carico tempestiva delle situazione di disagio o di malattia psichiatrica necessitanti di sostegno psicologico. Si assiste all’epilogo di un lungo percorso di riforme che vede, in ultimo, sottolineare il diritto della tutela della salute e l’utilizzo di strumenti di intervento non più solo custodiali (es. Grande Sorveglianza e Sorveglianza a Vista).

Da queste brevi riflessioni si intuisce come l’intervento dello psicologo in ambito penitenziario sia di grande complessità e responsabilità, e tuttavia poco conosciuto e soprattutto valorizzato. Risale infatti a pochi mesi fa l’allarme lanciato dal Presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, Luigi Palma, sulla condizione preoccupante degli istituti penitenziari, per via del sovraffollamento e dell’aumento dei suicidi, in cui chiede di riqualificare la figura dello psicologo, svilita dal precariato e dalla continua riduzione delle ore dedicate al rapporto con i detenuti, che non permette di garantire realmente il diritto alla salute della popolazione carceraria.

 

PSICOLOGIA GIURIDICA E PERITALE

Paura: Interazione tra Cuore, Cervello e Mente

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La fase del ciclo cardiaco di una persona può influenzare il modo in cui viene elaborata a livello mentale e cerebrale la paura. 

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Secondo uno studio presentato presso il British Neuroscience Association Festival of Neuroscience (BNA2013) di Londra da alcuni ricercatori della Brighton and Sussex Medical School (Brighton, UK) la fase del ciclo cardiaco di una persona può influenzare il modo in cui viene elaborata a livello mentale e cerebrale la paura

Il trattamento EMDR e i Pazienti Cardiopatici. - Immagine: © iadams - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Il trattamento EMDR e i Pazienti Cardiopatici.

I ricercatori hanno sottoposto 20 volontari sani a elettrocardiogramma; la rilevazione dell’attività cardiaca mediante ECG è stata sincronizzata e collegata a un pc che proiettava ai soggetti espressioni facciali inducenti paura, in modo da presentare gli stimoli emotigeni in relazione a specifiche fasi del ciclo cardiaco.

 

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I risultati hanno rivelato che se si vede lo stesso volto spaventoso durante la fase di sistole (quando il cuore sta pompando) si valuta questo stimolo come più terribile – riportando quindi un’emozione di paura più intensa- rispetto al vederlo in una fase cardiaca di diastole (quando il cuore è rilassato).

Effettuando questo esperimento in risonanza magnetica funzionale è emerso che se lo stimolo pauroso viene presentato nella fase cardiaca di sistole, a livello cerebrale  si ha un’attivazione più intensa dell’amigdala, area chiave del sistema limbico deputato alla regolazione emotiva.

 

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In un secondo esperimento, è stato dimostrato che anche la nostra esperienza cosciente è influenzata dalla fase del ciclo cardiaco in cui ci troviamo: i volti spaventosi sono soggettivamente percepiti come più terrificanti nella fase cardiaca di sistole rispetto alla diastole. 

Viene cosi identificato a livello empirico un meccansimo importante relativo alle interazioni tra corpo e mente (Leggi Anche: Vasi Comunicanti: il Dialogo tra Mente e Corpo) nell’elaborazione e nella regolazione delle emozioni.

LEGGI: 

PAURA – NEUROPSICOLOGIA –  ESPRESSIONI FACCIALI

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Family History and Anxiety #1

 

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Family History and Anxiety. - Immagine: © altanaka - Fotolia.comFamily History and Anxiety #1 – A series of studies have been conducted examining the rate of anxiety in relatives of anxious probands.

READ ON ANXIETY DISORDERS

In an early study, Noyes and colleagues (1978) compared the family history of 112 anxious participants to 110 controls that recently had surgery. First-degree relatives of those with anxiety showed an 18% morbidity risk for anxiety, compared to first-degree relatives of controls, which showed a 3% morbidity risk. Further, in families in which both parents were anxious, anxiety in offspring was more common.

Noyes and colleagues (1987) conducted a family study investigating the frequency of several anxiety disorders in the relatives of probands with different anxiety disorders. The results demonstrated higher rates of GAD among relatives of probands with GAD (n = 20) than in relatives of healthy control participants (n = 20). Rates of GAD were not higher among relatives of probands with panic disorder (n = 40) or of probands with agoraphobia (n = 40). The frequency of panic disorder was, however, higher among relatives of probands with panic disorder than control relatives, but not for GAD.

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Thus, this study demonstrates specificity in the transmission of GAD and panic disorder.

Parents' words and anxiety disorders
Recommended: Parents’ words and Anxiety Disorders.

Skre and colleagues (1994) conducted a family study investigating the familiar transmission of anxiety disorders and their relationship to mood and psychoactive substance use disorders. The study examined 33 individuals with an anxiety disorder and 76 first-degree relatives, 20 individuals with a mood disorder and 45 first-degree relatives, and six individuals with psychoactive substance use disorder and 12 first-degree relatives. Overall, more first degree relatives of those with an anxiety disorder had panic disorder and GAD, compared to relatives of those with mood disorders, and compared to relatives of those with psychoactive substance use disorders. Thus, while numbers of relatives for some disorders were quite small, the study suggests the specific transmission of anxiety disorders independent of mood and psychoactive substance use disorders.

Last and colleagues (1991) investigated the family history of first and second-degree relatives of children with anxiety disorders, child attention deficit-hyperactivity disorder (ADHD) and a healthy control group. Diagnostic interviews demonstrated an increase in the prevalence of anxiety disorders in first degree relatives of anxiety disordered children compared to relatives of ADHD children and of healthy control children. This study demonstrates familiarity of anxiety disorders, in comparison to behavioral (ADHD) and healthy control groups.

Kendler and colleagues (1997), in the National Comorbidity Survey, examined the family history of 5,877 respondents. Individuals were questioned about the history of five psychiatric disorders in their parents. These disorders included: 1) major depression; 2) generalized anxiety disorder; 3) antisocial personality disorder; 4) alcohol abuse/dependence; 5) drug abuse/dependence. The results demonstrated significant familial aggregation for each of the five disorders. When the presence of other disorders in the probands and the parent were controlled for, specific familial aggregation was still observed in major depression, generalized anxiety disorder and alcohol abuse/dependence, thus demonstrating independence in specificity compared to the other disorders (i.e. antisocial personality disorder, drug abuse/dependence).

 

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REFERENCES:

Diffamazione su Facebook & Sfogo Emozionale – Psicologia & Legge

Martina Rinaudo, Dottoressa in Giurisprudenza abilitata al patrocinio (Ordine degli Avvocati di Milano)

Andrea Bassanini

 

 

Diffamazione su Facebook & Sfogo Emozionale. - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.comDiffamazione su Facebook: I commenti nei confronti di datori di lavoro, ex fidanzati e presunti amici postati sulla vostra bacheca potrebbero costarvi cari.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SOCIAL NETWORK

L’utilizzo compulsivo di Facebook ha quasi fatto assumere al social network la funzione di diario giornaliero, in cui registrare minuziosamente stati d’animo e ogni attività compiuta, fosse anche la più comune. Talvolta, come abbiamo già scritto su State of Mind, tale uso assume la forma clinica della internet addiction.

Di conseguenza, perché non sfogare pubblicamente le proprie frustrazioni, magari alla ricerca di sostegno e conforto da parte delle proprie liste di amici?

Ultimamente però, i commenti negativi nei confronti di datori di lavoro, ex fidanzati e presunti amici postati sulla vostra bacheca, nella convinzione che quel piccolo e confortevole angolo della rete permetta una assoluta libertà di espressione, potrebbero costarvi cari.

Quindi, attenzione alla diffamazione su facebook! 

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Social Network - © eve - Fotolia.com
Articolo consigliato: “Clicca su “condividi” su Facebook: sì, ma solo se mi fa agitare, arrabbiare o divertire!”

La Giurisprudenza ha, infatti, iniziato ad occuparsi dei messaggi denigratori e delle loro conseguenze in capo ai soggetti colpiti, dato il numero di querele e di azioni risarcitorie in costante aumento nei Tribunali di tutta Italia: nella provincia di Siena, una bidella di una scuola superiore ha chiesto la condanna di alcuni studenti, rei di aver aperto un gruppo contro di lei, al pagamento di un risarcimento ammontante a svariate migliaia di euro; a Molfetta, l’aver apostrofato il proprio ex datore di lavoro con l’epiteto “bastardo” è costato una querela a un di lui collaboratore; a Torino, uno studente è stato denunciato dal proprio professore, a cui aveva aperto un falso profilo su facebook, nel quale gli erano state attribuite bizzarre perversioni.

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Una recente sentenza del Tribunale di Livorno (n. 38912 del 31 dicembre 2012) ci aiuta a comprendere i termini della problematica.

Questi i fatti. Nel maggio 2011, una ex dipendente, licenziata dal centro estetico in cui lavorava, aveva pubblicato, sulla bacheca del proprio profilo, un messaggio “…dal contenuto volgare e tenore chiaramente denigratorio a proposito dell’aspetto della professionalità del centro estetico *** (“sono persone che non lavorano seriamente” … “fa onco ai bai” – espressione dialettale traducibile come “fa schifo”, N.d.A.) sconsigliando a chiunque di frequentarlo. La ***, inoltre, nel conversare con altri “amici” sempre su facebook si esprimeva con epiteti offensivi con riferimento al gestore del centro estetico (“sei proprio un a……..e di m….” … “sono dei pezzi di m…”)”.

Seguiva querela da parte del citato centro estetico, il quale lamentava di essere stato oggetto di diffamazione su facebook e chiedeva altresì un risarcimento per i danni inflitti alla propria reputazione.

LEGGI LA RUBRICA: PSICHE & LEGGE

 Il Tribunale accoglieva la tesi del querelante, rilevando correttamente come sussistessero tutti i caratteri della diffamazione, nella forma della diffamazione su facebook, quali la precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose, dato che veniva espressamente fatto riferimento al centro estetico presso cui l’imputata era alle dipendenze; la consapevolezza del carattere “pubblico” dello spazio virtuale in cui si diffonde la manifestazione del pensiero dell’agente, il quale non solo accetta, ma addirittura vuole che un numero potenzialmente indeterminato di persone possano avere accesso al contenuto dei messaggi “postati”; la coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, all’onore e alla reputazione del profilo professionale del centro estetico nominato.

Non solo. Il GIP ha ritenuto che l’aver commesso il reato di diffamazione mediante l’utilizzo di internet, integrasse l’aggravante di cui al comma terzo del’art. 595 c.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità) “…poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale”.

La pena veniva così quantificata in €1.000,00 di multa (già diminuita di un terzo, in virtù della scelta del rito abbreviato), oltre alla condanna a risarcire il centro estetico, costituitosi parte civile all’interno del procedimento, con la somma di €3.000,00 e alla refusione delle spese legali sostenute per il procedimento penale.

Insomma, cari lettori, sfogate pubblicamente le vostre frustrazioni, se vi è utile, però scegliete bene liste di amici a cui far leggere i vostri sfoghi! Pena il reato di diffamazione su facebook! 

 

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SOCIAL NETWORK – INTERNET ADDICTION – RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICHE & LEGGE 

 

APPROFONDIMENTO:

Comportamenti Etici & Status Socio Economico

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Comportamenti Etici & Status Socio Economico – Esiste una Correlazione tra Ricchezza e Comportamenti Etici scorretti?

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Quale classe sociale mostra maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti etici scorretti? La risposta non è cosi ovvia come potrebbe sembrare. Molti di noi sarebbero forse più propensi ad associare uno stato sociale più basso a comportamenti scorretti: vivere in un ambiente caratterizzato da un minor numero di risorse, da incertezza economica e da un (più o meno sottile) senso di minaccia alla propria sopravvivenza potrebbe spingere gli individui di classe sociale più bassa a mettere in atto comportamenti poco etici per migliorare la propria situazione (Adler, Epel, Castellazzo & Ickovics, 2000; Kraus, Piff & Keltner, 2011).

Le Basi Psicologiche dell’Etica #1: Le Ricerche di Jonathan Haidt
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Ma funziona davvero sempre così? Paul Piff (Università di Berkeley, California) e colleghi hanno condotto uno studio nel 2012 partendo dall’ipotesi opposta, e cioè che sarebbero proprio gli individui più “ricchi” a mettere in atto le azioni più immorali (per “ricchezza” si intende qui uno stato socio-economico alto, in termini non solo di benessere economico, ma anche di posizione lavorativa e livello educativo). Secondo gli autori, le maggiori risorse disponibili, il senso di libertà e di indipendenza sfocerebbero per questi soggetti in comportamenti focalizzati sul sé, attuati senza riguardo per gli altri. Partendo da risultati di studi precedenti, che avevano elicitato come i soggetti benestanti avessero la tendenza a considerare il proprio benessere come più importante di quello altrui, gli autori hanno supposto che tali soggetti, motivati dall’avarizia, potessero con maggiore facilità abbandonare i principi morali al fine di raggiungere scopi personali (Steinel & Dreu, 2004).

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La ricerca di Piff e colleghi si è focalizzata su sette esperimenti, in cui il comportamento dei soggetti analizzati è stato osservato sia in un contesto naturale (tipo di guida in auto) sia in un contesto sperimentale (è stato chiesto ai soggetti di valutare diverse situazioni “etiche” e di dire come si sarebbero comportati loro in situazioni analoghe, ed è stata successivamente analizzata la propensione all’avarizia come possibile mediatrice della tendenza a comportarsi in modo immorale).

 È stato così confermato che il comportamento dei soggetti di stato sociale più alto risultava meno etico in entrambi i contesti, confermando le ipotesi iniziali. Tali individui non solo mostravano uno stile di guida più spericolato, irresponsabile e irrispettoso del codice della strada, ma davano anche risposte alle situazioni “etiche” che mostravano una certa noncuranza o svalutazione di principi morali (come la tendenza a mentire o a barare per raggiungere il proprio obiettivo).

LEGGI GLI ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

I motivi per tali comportamenti etici o scelte potrebbero essere diversi, come sostenuto dai ricercatori: è possibile (ma non dimostrato) che questi soggetti abbiano una minore percezione dei rischi e un minor senso di dovere morale nei confronti del prossimo, dovuti alla consapevolezza di possedere maggiori risorse per far fronte alle conseguenze dei loro atti. È probabile che anche la tendenza all’avarizia come fattore di mediazione tra alto status e comportamenti etici scorretti sia determinata da fattori diversi: un senso di minore dipendenza dagli altri e le credenze socio-cognitive focalizzate sul sé che sono state riscontrate negli individui di tale gruppo potrebbero essere alla base della propensione a considerare l’avarizia come un valore positivo (Kraus, Piff & Keltner, 2011).

Nel (lecito) dubbio che questa generalizzazione sia effettivamente attuabile, non ci resta che attendere ulteriori studi che confermino o smentiscano la presenza di tali tendenze comportamentali e cognitive, magari anche approfondendo quelle caratteristiche di classi sociali più basse.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

ETICA & MORALE – PSICOLOGIA SOCIALE – RAPPORTI INTERPERSONALI  

 

BIBLIOGRAFIA:

L’Idealizzazione dell’Analista: Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #5

 

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: 

La quarta piaga: l’idealizzazione del ruolo dell’analista

LEGGI L’INTRODUZIONE – LEGGI LA PRIMA PARTE – LEGGI LA SECONDA PARTE – LEGGI LA TERZA PARTE 

 

L'Idealizzazione dell'Analista. Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #5. - Immagine: © rukanoga - Fotolia.comCrisi Psicoanalisi: l’idealizzazione dell’analista. Si è consapevoli di come il mondo interno dell’analista contribuisce a plasmare la coppia analitica.

In una seduta psicoanalitica si incontrano due persone. Le regole della psicoanalisi creano un’indubbia asimmetria.

Al paziente viene chiesto di parlare liberamente, di sé, degli oggetti del proprio mondo affettivo e relazionale, dell’analista. L’analista è invece invitato a rispondere, dopo approfondita riflessione, in modo significativo ed utile al paziente.

LEGGI LA MONOGRAFIA SULLA CRISI DELLA PSICOANALISI

Già nella prospettiva tradizionale freudiana, all’analista chiediamo molto: conoscenza della mente umana, ed in particolare del funzionamento dell’inconscio, capacità tecniche, ed in particolare la capacità di interpretare e padroneggiare il transfert, e un’etica professionale altamente ascetica. Con lo sviluppo della psicoanalisi le aspettative e la conseguente rappresentazione dell’analista non hanno fatto che crescere.

Nella prospettiva della scuola Kleiniana, il contributo dell’analista al processo psicoanalitico è concettualizzato nei termini di un oggetto vicariante. Egli si offrirebbe al paziente come oggetto capace di amare, prendersi cura, pensare. Sostituirebbe così l’oggetto primario consentendo al paziente di rivivere nuovamente il proprio processo evolutivo, distorto e doloroso: questo processo è stato chiamato esperienza emotiva correttiva.

Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea - Monografia a cura del Dott. Paolo Azzone. - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com
Monografia: Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea.

Nella teoria psicoanalitica del pensiero di Bion il contributo dell’analista al processo psicoanalitico viene paragonato a un contenitore dei frammenti non elaborati di esperienze percettive. In questa prospettiva, la capacità dell’analista di sperimentare – in modo parzialmente inconscio – pensare, digerire e restituire al paziente i contenuti proiettati, che possono ora essere tollerati, sognati e pensati, rappresenta il fattore essenziale che muove il processo psicoanalitico ed il conseguente sviluppo della personalità del paziente.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: PSICOANALISI

Grandi sono dunque le aspettative nei confronti dell’analista. Gli chiediamo di fungere da padre, modello di etica e di tolleranza al contempo, saggio conoscitore dell’uomo e della vita. Gli chiediamo di fungere da madre: dolce, amorevole, o almeno sufficientemente buona e capace di pensiero.

Mi chiedo davvero se un essere umano in carne ossa, che respira, cammina, mangia, ama, odia e si ammala possa essere in grado di soddisfare aspettative così elevate. Dopo la II Guerra Mondiale la letteratura sul controtransfert ha avuto un grande sviluppo. I pericoli che eventuali distorsioni della personalità dell’analista possono rappresentare per il processo di trattamento sono stati riconosciuti in modo via via più ampio.

 Dobbiamo a Merton Gill (1992) un modello particolarmente illuminante dello specifico contributo di ciascun analista alla strutturazione del transfert. Nell’ambito della scuola Kleiniana, Paula Heimann ha introdotto una concettualizzazione onnicomprensiva dei fenomeni controtrasferali, indicata come controtransfert totale. Sulla base della teoria kleiniana dell’identificazione proiettiva, la Heimann era convinta che il controtransfert potesse rappresentare uno strumento essenziale per acquisire preziosi insight sul mondo interno del paziente. Sviluppando la teoria dei processi mentali di Wilfred Bion, Willy and Madeleine Baranger hanno proposto di concettualizzare la situazione psicoanalitica come campo bipersonale. In questa prospettiva, la mente dell’analista contribuirebbe alla strutturazione della fantasia inconscia condivisa che domina ciascuna seduta.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: TRANSFERT

La psicoanalisi contemporanea è sempre più consapevole di come il mondo interno dell’analista contribuisca in modo sostanziale a plasmare la dialettica di transfert e controtransfert che caratterizza ogni coppia analitica. Tuttavia, la letteratura tace rispetto alle forze motivazionali di fondo che sostengono la scelta di stabilire relazioni psicoanalitiche con altri esseri umani.

La scelta di guadagnarsi da vivere praticando la psicoanalisi, di stabilire relazioni oggettuali molto intense e prolungate con persone esterne al proprio nucleo familiare ed affettivo, di assumersi la responsabilità dello sviluppo emotivo di individui fragili. La dimensione di tali scelte professionali ed esistenziali non dovrebbe essere sottovalutata, perché il loro impatto quantitativo e qualitativo sulla vita emotiva dello psicoanalista è enorme. Un riferimento implicito e generico al desiderio di conoscere la realtà umana o all’identificazione con un ruolo genitoriale sono evidentemente insufficienti a spiegare ed a comprendere come mai abbiamo deciso di dare alla nostra rete di relazioni interpersonali un carattere così nettamente originale rispetto agli stili che la maggior parte degli umani scelgono per la propria vita.

In Treatment - La versione Italiana
Articolo Consigliato: In Treatment – La Versione Italiana.

L’atteggiamento psicoanalitico ci vincola alla ricerca della verità. Un’autentica comprensione del processo psicoanalitico presuppone una rappresentazione realistica di entrambi i partecipanti alla situazione psicoanalitica. E deve includere una valutazione esauriente delle motivazioni inconsce dell’analista sia rispetto alla sua scelta professionale di fondo, sia rispetto ad alla decisione di intraprendere ogni specifico trattamento.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ALLEANZA TERAPEUTICA

Come ogni essere umano, anche noi abbiamo bisogno di calore e affidabilità, amiamo occuparci dei piccoli e dei deboli, desideriamo essere preferiti nelle relazioni triangolari, ed essere amati e ammirati, controllare e padroneggiare le relazioni oggettuali. Per ciascuno di noi, nella relazione con i nostri pazienti queste varie forze motivazionali giocano un ruolo differente e presumibilmente variabile in ciascun caso.

La teoria e la pratica della psicoanalisi non è fino ad oggi riuscita a dar conto in modo approfondito e sistematico dei desideri di attaccamento, libidici, narcisistici che motivano l’analista ad impegnarsi nel lavoro psicoanalitico accanto a individui sofferenti.

Dobbiamo riconoscere che la nostra rappresentazione delle componenti inconsce del controtransfert è attualmente molto inadeguata.

 

 

MONOGRAFIA SULLA CRISI DELLA PSICOANALISI: 

LEGGI LA PRIMA PARTE – LEGGI LA SECONDA PARTE – LEGGI LA TERZA PARTE – LEGGI LA QUARTA PARTE

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

PSICOANALISI – TRANSFERT – ALLEANZA TERAPEUTICA 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Autoefficacia: Quanto Conta nello Sport? (Partecipa alla Ricerca!)

Di Sergio Costa

 “Lo sport non forma il carattere, lo rivela”

Heywood Broun

 

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Autoefficacia: Quanto Conta nello Sport?. - Immagine: © ~lonely~ - Fotolia.com

Gli atleti più sicuri della propria efficacia mostrano una maggiore capacità di concentrazione, soprattutto attraverso il controllo di pensieri intrusivi e una gestione adeguata dei fattori di stress; tendono ad accettare maggiormente i rischi della competizione, mostrandosi pronti anche a fronteggiare gli inevitabili momenti di crisi.

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Che la mente possa influire significativamente su ogni attività umana e, quindi, anche su quella sportiva è stato certamente chiaro fin dai primi Giochi Olimpici, in cui il destino di una competizione sportiva non dipendeva solo dalla prestanza fisico-atletica, ma anche dall’astuzia, dalla strategia, dal coraggio, dallo stato d’animo, caratteristiche, queste ultime, strettamente legate all’attività mentale dell’atleta.

Gli Sportivi La Prendono Sportivamente?. -Immagine: © fidelio - Fotolia.com
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Avere talento nello sport è certamente un dono, ma questo può andare sprecato se non si è in grado di sfruttarlo al meglio. Molte squadre sono estremamente buone “sulla carta”, ma non riescono a funzionare come gruppo e a raggiungere traguardi elevati, così come anche singoli atleti che hanno problemi di stress e di ansia da prestazione possono non dare il massimo durante le gare importanti.

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Le buone potenzialità fisiche possono non essere sufficienti per il successo agonistico, dal momento che queste non si traducono automaticamente in elevate prestazioni, ma necessitano di programmi specifici per il potenziamento delle competenze emotive, cognitive e relazionali degli atleti (Steca et al. 2010).

È importante, infatti, che si arrivi ad accettare fino in fondo che l’atleta per rendere al massimo non deve essere ben allenato solo nei suoi muscoli, ma che anche la sua mente deve essere in grado di dare il massimo nel momento della competizione” (Fredda, 2004).

Numerose ricerche hanno evidenziato che le convinzioni di efficacia personale risultano essere elementi decisivi del successo in una varietà di contesti di vita e di sfere del funzionamento umano, influenzando fortemente le decisioni sui tipi di attività da intraprendere e sulla natura degli ambienti da frequentare.

Gli individui che più di altri riusciranno a trarre consapevolezza dall’esperienza, che sapranno regolarsi, dirigersi, motivarsi, e scegliere tra percorsi di azione alternativi, che riusciranno a interpretare, anticipare e generare eventi e situazioni, ed allo stesso tempo a controllare i propri processi di pensiero e i propri stati emotivi, potranno realizzare scenari futuri desiderati e prevenire il verificarsi di quelli indesiderati, saranno inoltre in grado di far fronte ad ostacoli e insuccessi quando gli si presenteranno davanti.

 L’ambito sportivo è uno dei tanti contesti in cui appare significativo il contributo delle credenze di efficacia personale per la spiegazione, la previsione e il cambiamento del comportamento, rivestendo quindi un ruolo critico nella regolazione dello sviluppo e del miglioramento delle competenze atletiche e nel consolidamento della prestazione di eccellenza e non solo.

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Il senso di efficacia personale, infatti, risulta determinante sia in fase di preparazione e di allenamento, dove promuove la costruzione e il perfezionamento della prestazione d’alto livello, sia in fase di gara, in quanto ottimizza la scelta delle strategie, l’erogazione degli sforzi, e l’esecuzione e l’orchestrazione nelle diverse attività (Militello, 2005).

Vari sono i meccanismi attraverso i quali le convinzioni di autoefficacia influenzano positivamente l’autoregolazione e il successo dell’atleta (Bandura, 1997; Feltz, Short, e Sullivan, 2007). Elevate convinzioni favoriscono la scelta di obiettivi stimolanti e sostengono l’impegno e lo sforzo anche quando i successi non si raggiungono facilmente o i fallimenti minacciano pericolosamente le aspettative di riuscita.

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Gli atleti più sicuri della propria efficacia mostrano una maggiore capacità di concentrazione, soprattutto attraverso il controllo di pensieri intrusivi e una gestione adeguata dei fattori di stress; tendono ad accettare maggiormente i rischi della competizione, mostrandosi pronti anche a fronteggiare gli inevitabili momenti di crisi.

Elevate convinzioni di autoefficacia, inoltre, favoriscono la tolleranza alla fatica ed il controllo del dolore, così come un più rapido recupero dagli infortuni.

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La valutazione delle convinzioni di efficacia personale innesca un processo di riflessione sulle proprie capacità in grado di stimolare il giocatore a prendere consapevolezza, ad elaborare o rivedere i giudizi relativi ad aspetti centrali della pratica del proprio sport, i quali possono non essere oggetto di riflessione e valutazione abituale e costante.
La capacità di monitorare le proprie prestazioni è decisiva per ottimizzare l’impiego delle risorse personali; la convinzione di essere in grado di fare quanto necessario per esprimere al meglio le proprie potenzialità rappresenta un importante elemento che accelera l’apprendimento e rende più tenaci i novizi e gli esperti nel perseguimento del successo.

La maggior parte degli atleti crede, però, che le abilità atletiche dipendano prevalentemente da doti innate; tuttavia, l’attitudine si trasforma in competenza attraverso un impegno assiduo piuttosto che per un programma innato. Ricerche dimostrano che considerare tale capacità come acquisibile ha promosso la crescita della convinzione della propria efficacia fisica e un progressivo miglioramento della capacità stessa.

La convinzione che lo sviluppo della capacità fosse soggetto al controllo personale, inoltre, ha aumentato la soddisfazione per la propria prestazione e ha reso interessante l’attività. Viceversa, il fatto di considerare la prestazione fisica come indicativa di un’attitudine intrinseca non ha prodotto aumenti di autoefficacia, anzi ha addirittura lasciato i soggetti insoddisfatti delle loro prestazioni (Bandura, 2000).

Due sono le caratteristiche principali delle convinzioni di efficacia:

– l’elevata specificità: le convinzioni di efficacia, infatti, si riferiscono sempre ad ambiti ed attività altamente specifici, riflettono particolari abilità e sono ancorate a specifiche sfere di esperienza. Non sempre le convinzioni relative ad un ambito di attività, inoltre, concordano con quelle relative ad altri ambiti; ci si può, ad esempio, sentire molto capaci come giocatori di singolo e, allo stesso tempo, molto poco capaci come giocatori di doppio;
– la possibilità di cambiamento: le convinzioni di efficacia, tanto preziose per  il successo e il benessere dell’atleta, non corrispondono a convinzioni stabili e immutabili, ma possono cambiare ed essere sviluppate con opportune metodologie e tecniche di potenziamento. Per essere sviluppate, le convinzioni di efficacia devono naturalmente essere conosciute, ovvero adeguatamente misurate; è, infatti, indispensabile sapere in che misura il singolo atleta si ritiene capace (o incapace) di gestire con successo situazioni e attività caratterizzanti lo specifico sport praticato.

 Valutare le convinzioni di efficacia consente di elaborare profili individuali costituiti dai “punti di forza” e dai “punti di debolezza” soggettivamente definiti, che riflettono le aree in cui i giocatori si ritengono e ritengono la propria squadra capace o incapace di agire efficacemente.

I profili possono fornire numerosi spunti e materiali di confronto tra i giocatori e i tecnici, sul cui giudizio viene spesso esclusivamente fondato il piano dell’allenamento, consentendo una programmazione che sia il frutto di opinioni condivise e consapevoli da parte di entrambi. I profili di autoefficacia percepita possono costituire degli adeguati punti di partenza per pianificare e implementare programmi di allenamento altamente personalizzati e finalizzati a potenziare soprattutto le aree in cui i giocatori o gli atleti sperimentano maggiori difficoltà e si sentono particolarmente inadeguati e inefficaci.

Quindi, il poter disporre di strumenti specifici per la valutazione di ciò che gli atleti e i giocatori ritengono di saper fare, come singoli e come squadra, costituisce un notevole vantaggio nell’ottica della preparazione sportiva, in quanto in grado di fornire informazioni utili per impiantare una pratica di allenamento fondata sull’individuazione di “aree forti” e “aree deboli”, che promuova esperienze di reale padronanza, attraverso la pianificazione di obiettivi specifici e personali, e che sostenga l’aspirazione individuale e collettiva a raggiungere risultati ottimali e sempre più ambiziosi.

Proprio per questo motivo ho deciso di approfondire il concetto di efficacia personale all’interno del tennis, costruendo un questionario che andasse a valutare le convinzioni di autoefficacia, e che potesse essere di facile ed immediata applicazione anche per tutti quegli atleti privi di un maestro.

La Terapia Cognitiva ha Bisogno della Ricerca. -Immagine: © Steve Young - Fotolia.com
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Sto promuovendo questa mia ricerca in oltre 20 circoli tennistici romani, e su altri sparsi per l’Italia, così da avere un campione rappresentativo ed un adeguato numero di dati da analizzare; il test è per ogni categoria o fascia d’età. Questo strumento è stato creato avvalendosi della consulenza e della collaborazione di atleti e allenatori, oltre che di uno psicologo dello sport Diego Polani, e consente di elaborare profili individuali di punti di forza e di debolezza soggettivamente definiti dal singolo atleta.

Quindi, chiunque sia interessato a comprendere alcuni aspetti psicologici legati al tennis, a confrontarsi con se stesso, e a valutare i suoi limiti e punti di forza, può collaborare al progetto, visitando la seguente pagina:

 

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e compilando il questionario in tutte le sue voci. Se avrete difficoltà nella compilazione via web, potrete tranquillamente richiedermi il test in formato word, in cui non dovrete far altro che evidenziare le vostre risposte e poi rinviarlo alla mia mail.

Il test vi fornirà informazioni utili su alcuni aspetti da migliorare del vostro tennis, non soltanto dal punto di vista tecnico-tattico ma anche e soprattutto da quello mentale, infatti, a fine ricerca, ognuno verrà contattato personalmente dal sottoscritto, con i propri e rispettivi risultati, il tutto ovviamente nel pieno rispetto della privacy, tenendo pur sempre in considerazione che si tratta di una ricerca, con i suoi pregi e difetti.

“Se posso darvi un mio pensiero, può darsi che ve ne ricordiate o meno. Ma se riesco a farvi pensare per conto vostro, ho contribuito notevolmente ad accrescere la vostra personalità.”

Elbert Hubbard 

LEGGI:

ATTIVITA’ FISICA – CREDENZE – BELIEFS – ANSIA – PSICOLOGIA DELLO SPORT

 

BIBLIOGRAFIA:

Decision Making Immediato vs. Ponderato – Quando Siamo Cooperativi?

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Velocità del Decision Making: perché siamo intuitivamente predisposti a cooperare? Non vi è una sola spiegazione

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Siamo solitamente propensi a giudicare gli altri come persone prevalentemente “cooperative” (inclini ad aiutare gli altri) piuttosto che prevalentemente “egoiste” (inclini a fare i propri interessi) sulla base dei loro comportamenti o delle loro scelte. Ma se non si trattasse semplicemente di una questione di carattere o di tratti di personalità? In un recente studio, condotto nel 2012 da Rand e colleghi, sono state analizzate le condizioni in cui una stessa persona può prendere decisioni – decision making – più cooperative piuttosto che più “egoiste”. Sappiamo tutti che la cooperazione è un fattore cruciale nelle interazioni umane, così come sappiamo che, d’altra parte, scegliere di cooperare spesso implica rinunciare a qualcosa di personale per un bene comune (Trivers, 1971).

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Gli autori hanno voluto esplorare i meccanismi cognitivi sottostanti al comportamento cooperativo utilizzando un “modello a doppio processo”, basato sulla supposizione che l’intuizione e la riflessione contribuiscano entrambe al processo decisionale. Uno dei modi per separare i due processi è calcolare la velocità decisionale, laddove le decisioni intuitive rifletterebbero meccanismi più veloci, automatici ed emotivamente influenzati, mentre quelle ponderate meccanismi più lenti, accompagnati da un insight attivo (Solman, 1996). In un primo esperimento i ricercatori hanno pagato i partecipanti prima della sessione sperimentale (0.40 $ ciascuno). È stato poi chiesto ai soggetti di donare una parte della somma ricevuta ad una cassa comune (la somma totale donata sarebbe poi stata divisa tra tutti i partecipanti). È stato così osservato che i soggetti che riflettevano meno sulla decisione da prendere (meno di 10 secondi) donavano somme maggiori, dimostrando comportamento cooperativo. Chi rifletteva per più tempo, al contrario, tendeva a tenere per sé gran parte del denaro: questo ha suggerito che il decision making più intuitivo fosse anche quello di natura più cooperativa.

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In ulteriori sessioni sperimentali gli autori hanno sottoposto i soggetti ad una sorta di “pressione psicologica”, forzandoli in un primo momento a decision making affrettati, ed in un secondo momento a prendersi del tempo per riflettere su quanto donare. In questo caso è stato visto come nella prima condizione (decisione intuitiva forzata) i soggetti donavano somme maggiori non solo rispetto alla seconda (decisione ponderata forzata), ma anche rispetto a quanto avevano fatto nel primo esperimento, in una situazione “naturale”, senza pressioni da parte degli sperimentatori.

 Anche in esperimenti di priming, in cui ai soggetti veniva chiesto inizialmente di scrivere un breve tema su situazioni in cui l’intuizione (o, al contrario, la riflessione) li aveva portati a decision making corretto, si ottenevano gli stessi risultati: intuizione cooperativa e riflessione “egoista”.

Ma perché siamo intuitivamente predisposti a cooperare? Non vi è una sola spiegazione. Gli autori hanno ipotizzato che le persone sviluppino le proprie intuizioni nelle situazioni quotidiane, dove la cooperazione porta vantaggi, dal momento che le relazioni più importanti sono anche quelle che avvengono più frequentemente. Nella vita di tutti i giorni, inoltre, mantenere una certa reputazione viene considerato un fattore importante, così come vengono applicate sanzioni per i comportamenti scorretti (Fudenberg, Rand, & Dreber 2012).

Siamo così spontaneamente cooperativi, e ci occorre riflettere per capire sia quando ci conviene rinunciare a questo istinto sia quali siano le situazioni in cui cooperare non è conveniente. Sicuramente studi futuri contribuiranno a fare maggiore luce su questo fenomeno: sarebbe interessante osservare la relazione tra intuizione e riflessione nei bambini, o indagare le differenze culturali nel decision making.

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DECISION MAKING – RAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Manutenzione della Coppia di Gabriele Achilli – Recensione

 

Recensione del Libro:

Manutenzione della Coppia.

Come Creare Intimità e Aumentare la Comunicazione per Rendere Saldo e Duraturo il Legame Affettivo.

di Gabriele Achilli

Bruno Editori

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Manutenzione della Coppia.Come è possibile riuscire ad avere una buona relazione di coppia senza arrivare all’extrema ratio? La risposta è possibile trovarla all’interno dell’e-book “Manutenzione della coppia”, scritto da Gabriele Achilli ed edito da Bruno Editore.

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“Aiuto, sono in crisi con mio marito?”. “Mia moglie mi controlla troppo, mi sta sempre col fiato sul collo!!!”. “Lui non mi capisce, mette sempre sé stesso in primo piano, mi trascura!”. “Lei mi accusa sempre  di non occuparmi abbastanza della casa, mi dice che non ci sono mai!”. Etc. etc. etc.

Si potrebbe andare avanti per ore con frasette dette e ridete all’interno della coppia, ma come è possibile riuscire ad avare una buona relazione di coppia senza arrivare all’extrema ratio? La risposta è possibile trovarla all’interno dell’e-book “MANUTENZIONE DELLA COPPIA”, scritto da Gabriele Achilli ed edito da Bruno Editore.

“Come Creare Intimità e Aumentare la Comunicazione per Rendere Saldo e Duraturo il Legame Affettivo”, sembra uno slogan chimerico, eppure l’autore ha fornito concrete risposte fino a proporre pratici esercizi che portano alla soluzione dei conflitti che quotidianamente si possono verificare nella coppia.

Recensione: Jan Philipp Sendker - I Battiti del Cuore. - Immagine: © Neri Pozza Editore
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Snyder, con il suo approccio innovativo sul potenziamento dei legami di coppia: Hope-Focused Marital Enrichment, e Gottman, con le sue teorie su come trasformare il matrimonio, fungono da cornice a questo per-corso, ossia un vero e proprio corso (cammino) scandito da esercizi comportamentali e test aventi lo scopo di far “crescere le coppie (sposate e non), soprattutto le più giovani, di rafforzare il loro legame e farlo maturare nel tempo”, scrive l’autore. Si tratta proprio di un corso, come lo definisce l’autore, atto alla fortificazione e al consolidamento del legame attraverso semplici e preziose regole, talmente tanto preziose che sono definite segreti.

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Ogni regola, infatti,  è presentata come un segreto, un qualcosa di pregiato non solo da scoprire, ma da modificare o maneggiare. In quattro capitoli sono divisi i 17 segreti che manterrebbero salda e duratura la relazione di coppia nel tempo e nei tempi. Passo dopo passo i segreti diventano esplicitati ed elicitati in una serie di postulati con tanto di dimostrazione/esercizio in allegato da mettere in pratica per modificare quel comportamento insalubre per la vita di coppia.

Si parte dalla banca dell’ “amore” per calcolare i depositi o i prelievi accumulati negli anni, per poi passare alle aspettative verso il partner che influenzano le dinamiche di coppia a nostra insaputa. E poi? Si parla di progettualità emotiva, comunicazione dei propri bisogni, di “zone di confort” (aree in cui la coppia funziona al meglio), e di una cosa molto importante, fondamentale: la comunicazione.

 Comunicare nel giusto modo con l’altro, tramite efficaci strategie, permette di spegnere gli incendi emotivi e di creare una repentina riconciliazione. Infine, ecco apparire l’intimità che permette di costruire congiuntamente la piacevolezza della relazione.

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Concludo svelandovi l’ultimo segreto e lascio a voi il piacere di scoprire gli altri: “Chi attacca l’altro compie un gesto che produce un vantaggio immediato per se stesso, ma che non tiene conto degli svantaggi complessivi per la coppia che ne deriveranno in seguito. Essere cooperativi è più efficace perché consente all’altro di sapere cosa è possibile fare per il bene comune”.

Quindi, quale sarà il piano d’azione, ossia la messa in atto di strategie e buoni propositi che potreste attuare per far funzionare la vostra coppia? .  Scopritelo insieme al vostro partner leggendo il libro!

LEGGI: 

AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – RECENSIONI – TERAPIA DI COPPIA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il Pregiudizio Sociale Nasce con Noi – Psicologia Sociale

di Giuseppina Epifanio

Il Pregiudizio Sociale Nasce con Noi. - Immagine: © oksun70 - Fotolia.comPregiudizio Sociale: Secondo lo studio pubblicato su Psychological Science, i neonati di appena 9 mesi mostrano una preferenza solo per individui simili.

La ricerca – condotta attraverso esperimenti ingegnosi con marionette conigli, marionette cani, palle, crackers e fagiolini – rivela le possibili radici cognitive del pregiudizio sociale e gli atteggiamenti alla base della violenza nei confronti di persone percepite come diverse da noi. Nella nostra vita sociale, tendiamo ad avere rapporti con persone che hanno qualcosa in comune con noi, come crescere nella stessa città, preferire gli stessi cibi, avere gli stessi hobby, ecc. La ricerca suggerisce che i bambini facciano la stessa cosa, preferendo le persone che amano gli stessi cibi, vestiti e giocattoli.

Stereotipi, Pregiudizi ed Euristiche. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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Le preferenze aiutano a formare i contatti sociali, tutto ciò può avere però un lato oscuro come, ad esempio, maltrattare il soggetto diverso o, nei casi estremi, felicitarsi verso qualcuno che tratta male chi è diverso da noi.

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Per scoprire se le radici di queste tendenze sono presenti sin dall’infanzia, la psicologa scienziata Kiley Hamlin, professore presso la University of British Columbia, ha condotto due esperimenti.

Nel primo, i ricercatori hanno individuato il cibo preferito di due gruppi di bambini, uno di 9 e l’altro di 14 mesi: la scelta era tra crackers e fagiolini. Dopo, i bambini hanno visto uno spettacolo di burattini, in cui una marionetta preferiva i crackers mentre l’altra sceglieva i fagiolini. Quindi un fantoccio ha dimostrato che la sua preferenza era la stessa del neonato e un altro fantoccio ha manifestato gusti opposti.

Successivamente i bambini hanno visto un altro spettacolo di burattini, in cui sia il burattino coniglio simile (cioè quello che aveva scelto lo stesso cibo) che quello dissimile (quello che aveva scelto il cibo diverso da quello del bambino), hanno perso la palla e la volevano indietro. La palla cadendo, rimbalzava verso uno dei due pupazzi cane. Alternativamente, i bambini hanno visto che un pupazzo cane aiutava sempre il fantoccio coniglio per riavere la palla (pupazzo Helper), mentre un altro pupazzo cane ostacolava il fantoccio coniglio senza palla, cercando di rubargliela (Harmer).

 Non sorprende che quasi tutti i bambini (sia di 9 che di 14 mesi) abbiano preferito il personaggio che ha aiutato il fantoccio simile, piuttosto che quello che l’ha danneggiato. La cosa davvero sorprendente consiste nel fatto che quasi tutti i bambini abbiano preferito il personaggio che ha ostacolato il fantoccio diverso da loro, piuttosto che il personaggio che l’ha aiutato.

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Secondo Hamlin, questi risultati suggeriscono che i bambini, così come gli adulti, incorporano informazioni non solo su quello che fanno le persone (azioni buone o azioni cattive), ma che riescano a crearsi anche delle valutazioni sociali.

I ricercatori hanno confermato questi risultati in un secondo esperimento, che comprendeva un fantoccio neutrale che non aveva mostrato alcuna preferenza alimentare e nessun comportamento utile o dannoso.

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Questa volta, solo il gruppo di 14 mesi di età ha fornito dati significativi: questi bambini hanno preferito il personaggio che danneggiava il burattino dissimile piuttosto che quello neutro, e il burattino neutro piuttosto che quello che aiutava il burattino dissimile. Questi risultati suggeriscono che, a partire dai 14 mesi di età, si generano sentimenti positivi verso coloro che fanno del male agli individui diversi da loro e sentimenti negativi verso coloro che invece li aiutano. I ricercatori deducono che, tra i 9 ei 14 mesi, i bambini sviluppano la capacità di ragionamento che portano a valutazioni di tipo sociale.

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Questi risultati evidenziano i meccanismi fondamentali che sono alla base delle nostre interazioni con persone simili e diverse da noi.

“Il fatto che i bambini mostrano questi pregiudizi sociali, prima ancora di poter parlare, suggerisce che i pregiudizi non sono solo il risultato della sperimentazione di un mondo sociale diviso, ma si basano in parte su aspetti fondamentali della valutazione sociale umana”, dice Hamlin.

Le ragioni esatte che possano spiegare le valutazioni polarizzate dei neonati sono ancora sconosciute. Le ipotesi parlano di un possibile effetto “Schadenfreude” (termine tedesco che significa “piacere provocato dalla sfortuna”) verso individui che non piacciono, oppure tale atteggiamento potrebbe semplicemente riconoscersi nelle alleanze che sono implicite nelle interazioni sociali.

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BAMBINI – RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICOLOGIA SOCIALE   

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Amy Cuddy: come il Linguaggio Corporeo definisce te stesso (TED Talk)

FLASH NEWS

 

Amy Cuddy: come il tuo Linguaggio Corporeo definisce te stesso (TED Talk)

LEGGI GLI ARTICOLI SU: EMBODIED COGNITION

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: POSTURA

Di seguito, la trascrizione del testo del video:

Voglio cominciare offrendovi una tattica di vita gratuita senza tecnologica, e tutto quello che richiede è questo: che possiate cambiare la vostra postura per due minuti. Ma prima di offrirvela voglio chiedervi di fare ora un piccolo controllo del vostro corpo e di quello che fate col vostro corpo. Quanti di voi in qualche modo si rendono più piccoli? Magari vi rannicchiate, incrociate le gambe, magari incrociate le caviglie. Qualche volta incrociamo le braccia così. Qualche volta ci apriamo. (Risate) Vi vedo. (Risate) Voglio che prestiate attenzione a quello che state facendo. Ci torneremo tra qualche minuto, e spero che se imparate ad aggiustare un po’ questa postura possiate cambiare in maniera significativa la vostra vita.

Siamo veramente affascinati dal linguaggio del corpo e siamo particolarmente interessati al linguaggio corporeo di altre persone. Sapete, siamo incuriositi da — (Risate) un’interazione impacciata, o un sorriso, o uno sorriso sprezzante, o magari un goffo ammiccamento, o magari una cosa come una stretta di mano.

Enclothed Cognition. Dimmi come ti vesti e ti dirò cosa pensi! - Immagine: © Monika 3 Steps Ahead - Fotolia.com
Articolo consigliato: Enclothed Cognition. Dimmi come ti vesti e ti dirò cosa pensi!

Narratore: Qui arrivano al numero 10 e guardate questo fortunato poliziotto che stringe la mano al Presidente degli Stati Uniti. Oh, ed ecco che arriva il Primo Ministro del — ? No. (Risate) (Applausi) (Risate) (Applausi)

Amy Cuddy: Quindi una stretta di mano, o l’assenza di una stretta di mano possono farci parlare per settimane e settimane. Anche la BBC e il The New York Times. Quindi ovviamente quando pensiamo al comportamento non verbale, o linguaggio del corpo — ma noi scienziati sociali lo chiamiamo non verbale — è un linguaggio, quindi pensiamo alla comunicazione. Quando pensiamo alla comunicazione, pensiamo alle interazioni. Quindi cosa comunica il vostro linguaggio del corpo? Cosa vi comunica il mio?

E ci sono molte ragioni di credere che questo sia un corretto modo di vedere. Gli scienziati sociali hanno passato molto tempo ad osservare gli effetti del nostro linguaggio corporeo, o il linguaggio corporeo di altre persone, sui giudizi. Formuliamo giudizi affrettati e deduzioni dal linguaggio corporeo. E quei giudizi possono prevedere risultati veramente significativi come chi assumiamo o chi sosteniamo, a chi chiediamo di uscire. Per esempio, Nalini Ambady, un ricercatore alla Tufts University, mostra che quando le persone guardano un video senza audio di 30 secondi di reali interazioni tra paziente e medico, il loro giudizio sulla gentilezza del medico predice se il medico verrà citato in giudizio oppure no. Non ha molto a che vedere col fatto che il medico sia o meno incompetente, ma se quella persona ci piace e come interagisce. Ancora più radicale, Alex Todorov a Princeton ci ha mostrato che i giudizi sui visi dei candidati politici in solo un secondo predice il 70% del Senato americano e i risultati delle elezioni a governatore, perfino — andiamo sul digitale — gli emoticon utilizzati bene nelle negoziazioni online possono portare a raggiungere maggiori risultati da quella negoziazione. Se usati male, sono una cattiva idea. Giusto? Quindi, riguardo al linguaggio non verbale, pensiamo a come giudichiamo gli altri, come loro giudicano noi e quali sono i risultati. Eppure, abbiamo tendenza a dimenticare l’altro pubblico che viene influenzato dal linguaggio non verbale, ossia noi stessi.

 Siamo anche noi influenzati dal linguaggio non verbale, i nostri pensieri e i nostri sentimenti e la nostra fisiologia. Di quale linguaggio non verbale sto parlando? Sono una psicologa sociale. Studio i pregiudizi e insegno in una business school competitiva, era quindi inevitabile che mi interessassi alle dinamiche di potere. Mi sono particolarmente interessata alle espressioni non verbali di forza e dominio.

E quali sono le espressioni non verbali di forza e dominio? Beh, ecco quali sono. Nel regno animale, sono quelle relative all’espansione. Ci si rende più grandi, ci si allunga, si prende spazio, in sostanza ci si apre. Parliamo di apertura. E questo vale nel regno animale. Non è limitato ai primati. E gli esseri umani fanno la stessa cosa. (Risate) Lo fanno sia quando hanno una forza consolidato, sia quando si sentono forti in un quel momento. E questo è particolarmente interessante perché ci mostra veramente quanto antiche e universali siano queste espressioni di forza. Questa espressione, nota come orgoglio, è stata studiata da Jessica Tracy. Mostra come le persone nate con la vista e quelle non vedenti dalla nascita lo fanno quando vincono una competizione fisica. Quando attraversano la linea di arrivo e hanno vinto, non importa se non hanno mai visto nessuno farlo. Fanno così. Braccia in alto a forma di V, il mento leggermente rialzato. Cosa facciamo quando ci sentiamo impotenti? Facciamo esattamente l’opposto. Ci chiudiamo. Ci richiudiamo. Ci facciamo piccoli. Non vogliamo entrare in contatto con le persone attorno a noi. Quindi ancora una volta, sia gli animali che gli umani fanno la stessa cosa. E questo è quello che accade quando mettete insieme la forza e l’impotenza. Quello che abbiamo tendenza a fare quando parliamo di forza è essere complementari al linguaggio non verbale degli altri. Se qualcuno è veramente forte nei nostri confronti, tendiamo a farci piccoli. Non lo rispecchiamo. Facciamo l’opposto di quello che fa.

Osservo questo comportamento in classe, e cosa noto? Noto che gli studenti MBA mostrano veramente un’ampia serie di atteggiamenti di forza non verbali. Ci sono persone che sono delle caricature di individui alfa, che entrano in una stanza, si dirigono al centro prima che la lezioni cominci, come se volessero veramente occupare lo spazio. Quando si siedono, si allargano. Alzano la mano in questo modo. Ci sono altre persone che si ripiegano virtualmente quando entrano. Non appena entrano, lo vedete. Lo vedete nei loro visi e nei loro corpi, si siedono sulla sedia e si fanno piccoli e fanno così quando alzano la mano. Noto un paio di cose sull’argomento. Uno, non vi sorprenderò. Sembra sia collegato al sesso. Le donne hanno tendenza a fare così molto più degli uomini. Le donne si sentono cronicamente meno forti degli uomini, quindi non sorprende. Ma l’altra cosa che ho notato è che sembra che sia anche collegato al livello di coinvolgimento degli studenti e al livello di partecipazione. Ed è veramente importante in una classe di MBA, perché la partecipazione conta per metà del voto finale.

Le business school si confrontano con questa differenza di valutazione a seconda del sesso. Ci sono queste donne e questi uomini ugualmente qualificati e si ottengono poi queste differenze di valutazioni, e sembra che sia in parte attribuibile alla partecipazione. Ho cominciato a chiedermi — ok, ci sono qui queste persone che partecipano. È possibile spingere queste persone a fingere e portarle a partecipare di più?

Con la mia principale collaboratrice Dana Carney, a Berkeley, volevo veramente sapere se si poteva fingere pur di riuscire. Per esempio farlo per un po’ di tempo sperimentare un risultato comportamentale che vi faccia sembrare più forti? Sappiamo che il linguaggio non verbale determina cosa gli altri pensano e provano nei nostri confronti. Ci sono molte prove. Ma la nostra domanda era: il linguaggio non verbale guida il nostro modo di pensare e sentire noi stessi?

Ci sono prove che sia così. Quindi, per esempio, sorridiamo quando siamo felici, ma anche, quando siamo costretti a sorridere tenendo una penna tra i denti in questo modo, ci fa sentire più felici. Funziona in entrambi i sensi. Quando si tratta di forza, anche lì funziona in entrambi i sensi. Quando vi sentite forti, è più probabile che facciate così, ma è anche possibile che quando fingete di essere forti, è più probabile che vi sentiate effettivamente forti.

La seconda domanda era — sappiamo che le nostre menti cambiano i nostri corpi, ma è anche vero che i nostri corpi cambiano le nostre menti? E quando dico menti, nel caso dei forti, di cosa sto parlando? Sto parlando di pensieri e sentimenti e quelle cose fisiologiche che creano i nostri pensieri e i nostri sentimenti, e nel mio caso, sono gli ormoni. Guardo gli ormoni. Quindi, come sono le menti dei forti rispetto ai deboli? Non sorprende che le menti dei forti tendano ad essere più assertive, più sicure e più ottimiste. Sentono veramente di poter vincere anche in giochi di fortuna. Tendono anche ad essere capaci di pensare in modo più astratto. Ci sono tante differenze. Corrono più rischi. Ci sono tante differenze tra i forti e i deboli. Fisiologicamente ci sono differenze anche su due ormoni chiave: il testosterone, che è l’ormone dominante, e il cortisolo, che è l’ormone dello stress. Quello che scopriamo è che i maschi alfa più forti nelle gerarchie di primati hanno testosterone alto e cortisolo basso, e i leader forti ed efficaci hanno anche loro testosterone alto e cortisolo basso. Questo cosa significa? Pensando alla forza, la gente tende a pensare solo al testosterone, perché è collegato al dominio. Ma in realtà, la forza ha anche a che vedere con la reazione allo stress. Volete un leader con molta forza, dominante, con testosterone alto, ma molto reattivo allo stress? Probabilmente no, giusto? Volete una persona che sia forte, assertiva e dominante, ma non molto reattiva allo stress, una persona distesa.

Sappiamo che nelle gerarchie di primati, se un maschio alfa deve subentrare, se un individuo deve assumere improvvisamente il ruolo di maschio alfa, nel giro di pochi giorni, il testosterone di quell’individuo sale in maniera significativa e il suo cortisolo scende in maniera significativa. Abbiamo questa prova, che il corpo può dare forma alla mente, almeno a livello di viso, e anche che il cambio di ruolo influenza la mente. Cosa succede se assumete un ruolo? Cosa succede se lo fate in maniera discreta, come questa piccola manipolazione, questo piccolo intervento? “Per due minuti”, dite, “Voglio stare così” e vi farà sentire più forti.

Questo è quello che abbiamo fatto. Abbiamo deciso di portare le persone in laboratorio e condurre un piccolo esperimento e queste persone adottano per due minuti una postura di forza elevata o una postura di forza limitata e vi mostrerò cinque posture, anche se ne hanno assunte solo due. Eccone una. Un altro paio. Questa è stata soprannominato “Wonder Woman” dai media. Eccone un altro paio. Potete stare in piedi o seduti. E questi sono le posture di forza limitata. Vi ripiegate, vi fate piccoli. Questo è una postura di forza molto bassa. Quando vi toccate il collo, vi proteggete veramente. Questo è quello che accade. Arrivano, sputano in una provetta, per due minuti diciamo, “Devi fare questo o questo.” Non guardano le immagini delle posture. Non vogliamo che sappiano del concetto di forza. Vogliamo che abbiano la sensazione di forza, giusto? Per due minuti fanno questo. Poi chiediamo loro, “Quanto forte ti senti?” su una serie di elementi, poi diamo loro l’opportunità di scommettere, e poi teniamo un altro campione di saliva. Tutto qui. Questo è tutto l’esperimento.

Questo è quello che scopriamo. Nella tolleranza del rischio, ossia la scommessa, quello che scopriamo è che nella postura di forza elevata, l’86% di voi scommette. In postura di forza limitata solo il 60% ed è una differenza abbastanza significativa. Questi sono i risultati in termini di testosterone. Dalla situazione di partenza quando arrivano, nelle persone con molta forza aumenta di circa il 20% e nelle persone con poca forza si riduce di circa il 10%. Di nuovo, in due minuti si ottengono questi cambiamenti. Ecco i dati del cortisolo. Nelle persone con forza elevata subisce una riduzione del 25% circa e nelle persone con forza limitata aumenta di circa il 15%. Due minuti portano a questo cambio ormonale che configura il vostro cervello ad essere assertivo, fiducioso e a proprio agio, o molto reattivo allo stress e con la sensazione di essere spento. Abbiamo avuto tutti quella sensazione, giusto? Sembra che il linguaggio non verbale determini davvero il modo di pensare e sentire noi stessi, non sono solo gli altri, siamo anche noi. Il nostro corpo cambia la nostra mente.

La domanda successiva è se può una determinata postura di pochi minuti cambiare veramente la vostra vita. Questo avviene in laboratorio. È un piccolo esperimento di un paio di minuti. Dove si può veramente applicare tutto questo? E ce ne siamo preoccupati, ovviamente. Pensiamo veramente che quello che conta è dove vogliamo utilizzare queste situazioni di valutazione come situazioni di minaccia sociale. Dove venite valutati dai vostri amici? Gli adolescenti vengono valutati a tavola. Per qualcuno parlando ad un consiglio di classe. Potrebbe essere durante una presentazione o durante una conferenza come questa o durante un colloquio di lavoro. Abbiamo deciso che quello in cui la maggior parte della gente si poteva riconoscere perché l’ha vissuto fosse il colloquio di lavoro.

Abbiamo pubblicato queste scoperte e i media ci si sono buttati e dicono, ok, questo è quello che fate ad un colloquio di lavoro, giusto? (Risate) Siamo inorriditi e abbiamo detto, mio Dio, no, no, no non è quello che intendevamo. Per diverse ragioni, no, no, no, non lo fate. Non si tratta di voi che parlate ad altre persone. Si tratta di voi che parlate a voi stessi. Cosa fate prima di andare ad un colloquio di lavoro? Fate questo. Giusto? Siete seduti. Guardate il vostro iPhone — o il vostro Android, non voglio fare un torto a nessuno. Guardate i vostri appunti, vi rannicchiate, vi fate piccoli, quando in realtà quello che dovreste fare forse è questo, in bagno per esempio, giusto? Fate questo. Trovate due minuti. Questo è quello che vogliamo testare. Ok? Portiamo le persone in laboratorio e assumono posture di forza elevata o limitata, affrontano un colloquio di lavoro molto stressante. Dura 5 minuti. Vengono registrati. Vengono anche giudicati e i giudici sono formati per non dare riscontri non verbali, e sembrano così. Immaginate che questa sia la persona che vi intervista. Per cinque minuti, niente, ed è peggio che essere interrotti. La gente lo odia. È quello che Marianne LaFrance chiama “stare nelle sabbie mobili sociali.” Questo fa veramente schizzare il vostro cortisolo. Questo è il colloquio di lavoro che abbiamo fatto loro provare, perché volevamo veramente vedere cosa succedeva. Abbiamo poi questi programmatori che guardano i video, ce ne sono quattro. Sono all’oscuro delle ipotesi. Sono all’oscuro delle condizioni. Non hanno idea di chi assume quale postura, e finiscono per guardare questa serie di filmati, e dicono, “Oh, vogliamo assumere queste persone” — tutte le persone con posture di forza — “non vogliamo assumere queste persone. Valutiamo anche queste persone più positivamente in maniera complessiva.” Ma cosa li guida? Non si tratta del contenuto del discorso. Si tratta della presenza che portano al discorso. Anche noi, perché li valutiamo su tutte queste variabili collegandole alle competenze, come per esempio: Quanto è strutturato il discorso? È buono? Quali sono le sue competenze? Nessun effetto su queste cose. Questo è ciò che viene influenzato. Questo tipo di cose. In sostanza le persone portano se stesse. Portano se stesse. Portano le loro idee, ma come se stesse, senza residui. Questo è quello che guida l’effetto o che media l’effetto.

Quando racconto queste cose alla gente, che i nostri corpi cambiano la nostra mente e la nostra mente può cambiare il nostro comportamento e il nostro comportamento può cambiare i nostri risultati, mi dicono, “Mi sento falso”. Giusto? Così ho detto, sii falso finché ce la fai. No — non sono io. Non voglio arrivare lì e sentire di essere falso. Non voglio sentirmi un impostore. Non voglio arrivare lì e avere la sensazione di non doverci essere. E tutto questo mi suonava familiare, perché voglio raccontarvi una breve storia sull’essere un impostore e sentire di non dover essere qui.

A 19 anni sono stata coinvolta in un brutto incidente d’auto. Sono stata catapultata fuori dall’auto, sono rotolata diverse volte. Sono stata catapultata dall’auto. E mi sono risvegliata con un trauma cranico in riabilitazione, sono stata espulsa dall’università, e ho saputo che il mio Q.I. era precipitato di due deviazioni standard, il che è stato molto traumatico. Conoscevo il mio Q.I. perché ero stata valutata come intelligente, ed ero stata etichettata come bambina prodigio. Quindi lascio l’università, continuo a cercare di tornarci. Dicono, “Non finirai l’università. Puoi fare altre cose, ma per te non funzionerà.” Combattevo veramente con questa cosa e devo dire che farsi portare via un’identità, la vostra identità principale, che nel mio caso era l’essere intelligente, farsela portare via, non c’è niente che vi lasci più impotenti. Mi sentivo completamente impotente. Mi sforzavo di continuo, e sono stata fortunata, e mi sforzavo, e sono stata fortunata e mi sforzavo.

Finalmente mi sono laureata. Mi ci sono voluti 4 anni in più dei miei compagni, e ho convinto qualcuno, la mia consulente e angelo, Susan Fiske, di prendermi, e così sono finita a Princeton, ed avevo la sensazione di non dover essere lì. Sono un impostore. E la sera prima del discorso del primo anno — il discorso del primo anno a Princeton è un discorso di 20 minuti a 20 persone, tutto qui — ero così spaventata di farmi scoprire il giorno dopo che l’ho chiamata e le ho detto, “Rinuncio.” E lei, “Tu non rinunci, perché ho scommesso su di te, e tu rimani. Tu rimani e farai in questo modo. Farai finta. Farai qualunque discorso ti si chiederà di fare. Semplicemente lo farai ancora e ancora, anche se sei terrorizzata e paralizzata e avrai un’esperienza extra-corporea, finché non arriverai a quel momento in cui dirai, “Oh mio Dio, ce la sto facendo. Tipo, sono diventata questo. Ce la sto veramente facendo.” Ed è quello che ho fatto. Cinque anni di scuola di specializzazione, un po’ di anni, prima alla Northwestern, poi mi sono trasferita ad Harvard, sono passata ad Harvard, non ci penso più molto, ma per molto tempo ci ho pensato, “Non dovrei essere qui. Non dovrei essere qui.”

Alla fine del mio primo anno ad Harvard, una studentessa che non aveva mai parlato in classe per un semestre intero, a cui avevo detto, “Guarda, devi partecipare altrimenti fallirai”, è venuto nel mio ufficio. Non la conoscevo per niente. E mi ha detto — è arrivata completamente sconfitta e mi ha detto: “Non dovrei essere qui.” E quello è stato il mio momento. Perché sono successe due cose. Primo, mi sono resa conto, oh mio Dio, non mi sento più così. Capite? Non lo risento più, invece lei sì, e capisco quella sensazione. E secondo, lei deve essere qui! Può fare finta, può diventarlo. Quindi ho detto, “Sì che devi! Devi essere qui! E domani farai finta, ti farai forte e, sapete, farai –” (Applausi) (Applausi) “E entrerai in classe e farai il miglior commento in assoluto.” Capite? E ha fatto il miglior commento in assoluto, e la gente si è girata con quell’espressione, oh mio Dio, non avevo neanche notato che fosse seduta lì. (Risate)

È tornata da me mesi dopo e mi sono resa conto che non solo aveva finto fino a farcela, aveva finto fino a diventarlo. Era cambiata. Quindi voglio dirvi, non fingete fino a farcela. Fingete fino a diventarlo. Sapete? Non è — Fatelo abbastanza finché lo diventate e lo interiorizzate.

L’ultima cosa con cui vi voglio lasciare è questa. Minuscole modifiche possono portare a grandi cambiamenti. Quindi in due minuti. Due minuti, due minuti, due minuti. Prima che affrontiate la prossima situazione stressante di valutazione, per due minuti, provate a fare questo, nell’ascensore, in bagno, alla scrivania a porte chiuse. Questo è quello che volete fare. Configurate il vostro cervello per essere all’altezza della situazione. Fate aumentare il testosterone. Fate scendere il cortisolo. Non uscite da quella situazione con la sensazione di non aver mostrato chi siete. Uscite da quella situazione con la sensazione di aver detto chi siete e di aver mostrato chi siete.

Voglio prima chiedervi, di assumere la postura di forza, ma voglio anche chiedervi di condividere la scienza, perché è semplice. Non è una question di ego. (Risate) Mettetelo da parte. Condividetelo con la gente, perché le persone che possono usarlo di più sono quelle senza risorse e senza tecnologia, senza status e senza potere. Datelo a loro perché lo possano fare in privato. Hanno bisogno del loro corpo, della loro privacy per due minuti, e può cambiare in maniera significativa i risultati della loro vita. Grazie. (Applausi) (Applausi)

 

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REFERENCES:

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #3

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 3

LEGGI: PARTE 1PARTE 2

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

Colloquio Psicologico: Come Agire Nel Primo Colloquio #3. - Immagine:© pressmaster - Fotolia.comPRENDERE APPUNTI

Molto spesso nel corso della terapia è necessario raccogliere informazioni su cui riflettere successivamente per valutare i progressi, segnare i punti su cui concentrarsi nelle sessioni seguenti e i problemi comparsi e per programmare una strategia di intervento.

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Queste informazioni possono essere necessarie, sia per lo psicologo, sia per l’ente che ha inviato il paziente, per semplificare l’opera di monitoraggio sulla terapia.

Esistono modi diversi di registrare le informazioni sui pazienti. Alcuni terapeuti fanno compilare un questionario prima dell’inizio della sessione. In questo modo si evita il rischio di interrompere il flusso della comunicazione ma non si approfondiscono tali informazioni nel diretto colloquio con il paziente. A contrario di ciò, coloro che ricostruiscono l’anamnesi parlando direttamente con il paziente possono indagare nello specifico le situazioni che sembrano più significative e possono avvalersi di tutte le informazioni trasmesse dal paziente attraverso il canale della comunicazione non verbale.

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In questo modo però è importante porre attenzione a limitare il tempo dell’anamnesi all’interno del colloquio per evitare di interrompere il dialogo sul problema e di togliere la guida della comunicazione al paziente. Per evitare in parte questi problemi è consigliabile occuparsi di queste informazioni verso la fine del colloquio, non in mezzo per non interrompere il flusso comunicativo e non all’inizio per concentrarsi subito sul problema che sta a cuore al paziente.

Attento a Come Parli! Il Nocebo Effect. - Immagine: © T. L. Furrer - Fotolia.com
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Molte informazioni emergono in modo naturale dal colloquio psicologico. Alcune di queste informazioni devono essere tenute a mente e registrate. Alcuni terapeuti registrano ogni colloquio in modo da poter riascoltare ogni parola detta e ciò può essere fatto solo dopo aver ricevuto il consenso informato da parte del paziente.

Altri prendono appunti nel corso del colloquio con carta e penna. In tal caso devono prestare attenzione a riferire al paziente cosa stanno facendo e a cosa serve, a non interrompere il flusso del discorso e, soprattutto a non apparire distratti, il che può realizzarsi solo riuscendo a mantenere il contatto oculare con il paziente.

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Molti, infine, raccolgono appunti e riordinano idee al termine del colloquio. Costoro hanno il vantaggio di potersi dedicare completamente al paziente senza alcuna forma di distrazione o rischio di interruzione della comunicazione ma possono perdere alcune informazioni non fissate bene nella memoria, spesso perché non ritenute sufficientemente significative. Riguardo questo problema Fine e Glasser ricordano che argomenti o spunti significativi anche se persi riappariranno più volte nel corso della terapia.

COME RICONOSCERE SEGNALI DI ALLERTA

 

“Il guerriero della luce presta attenzione alle piccole cose, perché esse possono risultare ostacoli difficili.

[…]

<Il diavolo si nasconde nei dettagli>, dice un vecchio proverbio della Tradizione.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.69]

 

Per poter raggiungere gli scopi del primo colloquio è necessario possedere l’abilità o la dote di riconoscere segnali di allerta all’interno della comunicazione del paziente. Per fare ciò è necessaria una grande capacità di ascolto e, per questo motivo, l’ascolto è il cuore della terapia. Questi segnali possono essere argomenti, parole, associazioni, gesti, pensieri, emozioni manifestati dal paziente che accendono la luce della nostra attenzione richiedendo una risposta adeguata. L’elenco dei potenziali segnali di allarme è infinito e solo minimamente scoperto dalle ricerche psicologiche che si sono susseguite nel corso dei decenni, molto spesso lo stesso segnale d’allerta può valere per un paziente e non per un altro in relazione al contesto problematico che lo circonda.

Con questi presupposti, caratterizzati da poche certezze e molte ipotesi, diventa piuttosto arduo poter dire come riconoscere questi segnali o poter scrivere un “Manuale di istruzioni per il riconoscimento dei segnali di allerta”. Si possono solo dare suggerimenti sulle condizioni che possono condurre lo psicologo a migliorare questa sua capacità. I fattori da cui questa dipende sono fondamentalmente tre: la sensibilità (la dote di cogliere attraverso un rapporto empatico la rilevanza di certi segnali per il paziente), l’esperienza e la cultura (poiché come è già stato detto “il colloquio è figlio della cultura psicologica del terapeuta”).

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Queste sono le tre caratteristiche su cui lo psicologo può intervenire direttamente per aumentare la sua capacità di riconoscere questi segnali e di intervenire con tempestività.

Per chiarire ulteriormente il concetto di “segnali di allerta” si possono qui riportare alcuni esempi tratti da Fine e Glasser [1996]: 

–    Il paziente sembra presentare sé stesso secondo un copione preparato: il psicologo deve cercare di interrompere questo schema portandolo lontano dalla storia ripetuta a memoria.

–    La presentazione appare come un dramma di cui il paziente è il protagonista: il psicologo deve far capire che le persone, nel colloquio psicologico, vengono trattate come sono veramente e cercare di non diventare spettatore di un racconto. È possibile fare ciò se lo psicologo riesce a far concentrare il paziente più sui suoi sentimenti che sui suoi comportamenti.

–    Il paziente mantiene un comportamento infantile: lo psicologo può chiedere se le esperienze narrate lo fanno sentire come un bambino.

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–    Il paziente chiede cosa dovrebbe fare: il terapeuta deve rimanere sul vago, il suo compito è dare informazioni e non consigli, deve fare in modo che il paziente si assuma le proprie responsabilità senza affidarsi ad una figura autoritaria esterna.

–    Il paziente presenta contraddizioni tra ciò che dice e ciò che rivela attraverso la comunicazione non verbale: lo psicologo deve porre in rilievo questa differenza e discuterne con il paziente.

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–    Il paziente attribuisce ad altri la responsabilità della sua sofferenza: Fine e Glasser [1996] suggeriscono in proposito di non discutere di questo problema nel primo colloquio ma di ricordarsene in momenti successivi della terapia.

–    Il paziente pensa che il fato, il destino o Dio siano i principali responsabili degli eventi della sua vita: nel primo colloquio il psicologo cerca di raccogliere il maggior numero di informazioni sulle conclusioni tratte dal paziente su molti aspetti della sua vita. Successivamente lo aiuta a capire come ha fatto a raggiungere tali conclusioni e a ristrutturare il suo pensiero per rivalutarle.

–    Il paziente crede che nella sua vita nulla valga più la pena di essere vissuto: lo psicologo non deve cercare di mostrare il contrario discutendo sulla bellezza della vita perché vincerebbe il paziente. Nel primo colloquio è meglio che ascolti e riconosca la profondità delle sensazioni dell’altro. Successivamente si può agire in diversi modi indiretti, ad esempio chiedendo al paziente di elencare le sue doti e le sue esperienza positive.

–    Il paziente sta cercando di giustificare le sue azioni e i suoi sentimenti attraverso la razionalizzazione: anche questo non è un punto che si possa risolvere portando argomenti contrari. È necessario ascoltare e accettare il paziente senza intervenire prima di essersi assicurati che il paziente sia in grado di affrontare la questione e cioè prima di aver instaurato un saldo rapporto di fiducia e stabilito un contratto.

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–    Il paziente mostra sensi di rabbia inespressa e disperazione: in questi casi il psicologo non deve né minimizzare, né esagerare le sensazioni e fare attenzione a come il paziente le presenta, deve ascoltare e permettere che il paziente esprima con chiarezza ciò che sta cercando di comunicare, deve evitare di usare un linguaggio tecnicistico.

–    Il paziente riferisce di aver adottato dei meccanismi particolari per poter affrontare la sua situazione: è importante riconoscerlo come merito del paziente e incoraggiarlo a provare nuove possibili soluzioni.

–    Il paziente mostra di conoscere la materia perché ha già affrontato una terapia: la soluzione migliore è quella di rispondere cercando di riformulare il gergo tecnicistico del paziente in linguaggio comune.

–    Emerge un conflitto tra psicologo e paziente: se dovesse capitare è importante che lo psicologo cerchi di capire il motivo, provi a parlare con un supervisore o un collega e, se la situazione non accenna a migliorare, pensi seriamente ad un invio.

LEGGI: 

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – EMPATIA – IN TERAPIA –  ALLEANZA TERAPEUTICA – COLLOQUIO PSICOLOGICO

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La Migliore Offerta: Mistificazione versus Reale – Recensione

 

Recensione del Film:

La Migliore Offerta

Giuseppe Tornatore

(2013)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

 

La-migliore-offerta_di Tornatore- Gennaio 2103 - Locandina

Il film sembra propendere verso  la fuga dalla realtà sociale e dalle persone in quanto “minacciose”ma ciò che, a mio avviso, è degno di rilevanza è il potere relazionale esercitato dal contesto.

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Trama: Un banditore d’asta, veterano del mestiere e super-esperto d’arte e di antiquariato, sa il fatto suo come nessuno: a parte l’assoluta professionalità, organizza per conto suo piccoli grandi intrighi con un amico dalla lunga barba candida che partecipa alle aste per suo conto e interesse, e se da una parte fa ottimi affari, non esattamente leciti, dall’altra si è organizzato in un caveau super-segreto un’inestimabile collezione soprattutto di ritratti femminili “d’autore”.

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Sono le tue donne” – dice infatti l’amico Donald Sutherland  al banditore d’asta.
Perché di donne vere il nostro banditore Virgil non ne ha o preferisce non averne. Vagamente misantropo, preferisce cenare solo al solito ristorante anche la sera del suo presunto compleanno (ma i camerieri hanno anche sbagliato data). Solitario, brusco e refrattario all’amore, ai sentimenti, anche al sesso, è invecchiato accumulando soldi, opere d’arte e fama su scala mondiale per le sue impeccabili perizie su quadri e oggetti d’antiquariato. Nulla sembra poter cambiare la sua situazione.

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Happy-Family - Gabriele Salvatores (2010) - Recensione
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Il destino ha però in serbo la sorpresa della sua vita. Gli telefona un personaggio misterioso, la giovane ereditiera Claire, che gli rivela che i genitori le hanno lasciato una villa enorme, bellissima ma diroccata e hanno stabilito l’obbligo che a fare la perizia all’intera illustre dimora sia proprio lui, Virgil Oldman. Lui ne è lusingato e accetta ma l’ereditiera si rivela un personaggio impossibile, diserta gli appuntamenti adducendo mille scuse e alla fine gli rivela di essere affetta da agorafobia, per cui vive nella villa da reclusa e non vuol essere vista da nessuno, pur essendo bellissima.   

 

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Questo film, al di là dell’effetto sorpresa del cambio di scenario del regista il quale, nei suoi precedenti film (ex: Malena e Baarìa), sembrava detenere  il “mandato” di rappresentare la realtà siciliana,  appare avvolto in una atmosfera per certi versi affascinante (non a caso forse l’arte ne è protagonista indiscussa) e, per altri, misteriosa (vedi l’ incontro con Claire).

Questo connubio ha, a mio avviso, una matrice comune: la mistificazione. Infatti Virgil ha creato un mondo apparentemente perfetto dal punto di vista estetico, depauperato dagli affetti e dalle emozioni, retto da un codice deontologico rigido e apparentemente rispettato (in realtà lui è d’accordo con un amico al fine di prendere i ritratti di donne durante le aste), privo di qualsivoglia contatto umano con “il genere femminile reale”.

Claire (insieme ad altri) ha creato una storia e una identità non corrispondente al vero, non si mostra al mondo e trascorre la sua vita nascosta in casa in quanto “spaventata dall’esterno”. L’incontro di queste due realtà (potremo anche dire sintomi), nonostante la mistificazione di fondo (Claire finge di essere quella che non è ai danni di Virgil e Virgil finge di essere leale come battitore di aste a discapito dei potenziali acquirenti di quadri) rappresenta per Virgil l’occasione di avere un contatto reale con un altro significativo femminile che fungerà da contatto con sè stesso ma che, d’altro canto, costituirà la sua condanna.

Paradossalmente il film sembra propendere verso  la fuga dalla realtà sociale e dalle persone in quanto “minacciose” (Virgil finirà in un casa di cura perché avrà problemi dopo la scoperta della truffa di Claire e di quelli che lui credeva amici) ma ciò che, a mio avviso, è degno di rilevanza è il potere relazionale esercitato dal contesto, mistificatorio in questo caso (Virgil apparente misantropo e leale negli affari e Claire apparente agorafobica e “innamorata” di Virgil)  che ha sorpreso, affascinato, angosciato lo spettatore lasciando quesiti in merito come: “meglio un contesto mistificatorio ma matrice di emozioni (la storia tra Virgil e Claire, occasione per il primo per sperimentare una reale passione) o un contesto reale ma inanimato (Virgil e il suo harem di donne)?”

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LEGGI: 

CINEMA – ANSIA –  RAPPORTI INTERPERSONALI 

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Effetti a Lungo Termine dello Stress sulla Salute Mentale

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Stress: Effetti a Lungo Termine. Ma quali sono gli effetti dello stress quotidiano e soprattutto del nostro modo di reagirvi, sulla nostra salute mentale?

LEGGI GLI ARTICOLI SU: STRESS

Piccoli disguidi quotidiani e leggere avversità si oppongono spesso allo scorrere tranquillo delle nostre giornate: dalle ramanzine in ufficio, agli scontri con figli ribelli o ai battibecchi col partner, spesso si reagisce negativamente a questi episodi di stress. Ma quali sono gli effetti dello stress quotidiano e soprattutto del nostro modo di reagirvi, sulla nostra salute mentale?

In una recente ricerca, pubblicata sulla rivista Psychological Science, si è cercato di rispondere a una particolare domanda: le esperienze emotive negative di ogni giorno si accumulano fino a raggiungere quella goccia che farà poi traboccare il vaso o, al contrario, ci rendono più forti quasi fossero un vaccino contro le future angosce?

Psicoeducazione emotiva- quando la paura diventa uno stress a lungo termine. - Immagine:© lassedesignen - Fotolia.com
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La ricerca in questione ci suggerisce che in realtà le nostre risposte emotive agli stress della vita quotidiana possono predire la nostra salute mentale a lungo termine.

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Utilizzando i dati di due indagini a livello nazionale, i ricercatori hanno esaminato la relazione tra le emozioni negative quotidiane e il quadro di salute mentale dieci anni dopo.

I dati sono stati ottenuti da un campione di 711 partecipanti, uomini e donne, di età compresa tra i 25 e i 74 anni. Entrambi gli studi nazionali analizzati sono di tipo longitudinale: il Midlife Development  degli Stati Uniti (MIDUS) e lo Studio Nazionale delle esperienze quotidiane (NSDE).

I ricercatori, in particolare, hanno studiato le risposte emotive dei partecipanti a periodi densi di  stressors  quotidiani (come ad esempio un problema sul posto di lavoro o a casa) e il loro effetto sulla salute mentale a distanza di dieci anni.

Dall’analisi degli studi è emerso che il livello generale di emozioni negative provate in passato dai partecipanti risulta positivamente correlato ad un futuro disagio psicologico degli stessi, sia autoriferito che diagnosticato da professionisti. In particolare i partecipanti, dieci anni dopo un periodo intenso di stress, sperimentano depressioni e problemi legati all’ansia.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ANSIA & DEPRESSIONE

 Emerge così, a distanza di anni, un vissuto negativo psicologico comune ai soggetti sottoposti a stress anni addietro: la maggior parte di essi riferisce infatti di sentirsi inutile, senza speranza e in uno stato continuo di agitazione.

I ricercatori sostengono che un punto di forza dello studio è stata la possibilità di analizzare dati raccolti su di un vasto campione, composto da partecipanti di ogni età.

Secondo i ricercatori, questi risultati mostrano che gli effetti sulla salute mentale di un individuo non vanno ricollegati ai soli eventi importanti di vita, anche l’impatto delle esperienze emotive apparentemente minori ha infatti i suoi effetti negativi.

Lo studio dunque, nonostante i suoi limiti, suggerisce comunque che la natura cronica di queste emozioni negative in risposta a fattori di stress quotidiano potrebbe avere un suo peso sulla salute mentale a lungo termine degli individui.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

STRESS – PSICOLOGIA POSITIVA – ANSIA – DEPRESSIONE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E13 Sophie

 

In Treatment – Psicoterapia in TV

TREDICESIMA PUNTATA

SOPHIE

LEGGI L’INTRODUZIONE – LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT

In Treatment - Psicoterapia in TV. S01E13 SophieIn Treatment S01E13. Dopo le tempeste di Laura e Alex l’incontro con Sophie è un sollievo, un tempo lento dopo i drammatici scontri del lunedì e del martedì

LEGGI L’INTRODUZIONE – LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT

Tuttavia, anche questa seduta inizia con strani venti pre-terapeutici, in cui ancora una volta i confini subiscono violazioni più o meno gravi. È vero che tra Paul e Sophie non c’è ancora terapia. È una consulenza tecnica. Le violazioni, in questo caso, sembrano essere gestite con mano abbastanza sicura da Paul. Egli agisce in una zona grigia e riesce a incoraggiare Sophie a intraprendere un percorso terapeutico. Inizialmente c’è una schermaglia sul numero di incontri previsti (solo tre? O di più?) e Paul è in grado di far sentire Sophie bisognosa di altri incontri.

In Treatment - La versione Italiana
Articolo Consigliato: In Treatment – La Versione Italiana

Poi c’è uno scambio di posizioni, con Paul che si siede sul divano dei pazienti e lascia a Sophie la poltrona del terapeuta. Rassicurata, Sophie si lascia andare e racconta tre episodi di abbandono e separazione. Dapprima tra il padre e la madre (Sophie racconta la mattina in cui i genitori decisero di divorziare) poi tra il padre e la sua seconda moglie e infine tra il suo allenatore e sua moglie. In tutti i casi Sophie si assume la colpa. Ma non è finita. Segue un quarto episodio, in cui Sophie racconta di un rapporto sessuale con il suo allenatore. Rapporto vissuto in stato dissociativo, come se stesse guardando se stessa in TV. Quest’ultimo episodio illumina la tendenza di Sophie ad assumersi la colpa per le separazioni altrui e anche lo strano incidente per il quale Sophie è venuta da Paul a chiedere un parere. Non proprio un consapevole tentativo di suicidio, e però quasi un confuso modo di punirsi e farsi del male.

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 Il fenomeno dell’assunzione di colpa in persone abusate sessualmente è stato dimostrato da tempo (Mayers, Heller, Heller, 2003). Cognitivamente questi auto-rimproveri in persone abusate si possono descrivere come un tentativo di dare un senso a un episodio in sé inspiegabile, assumendosene la colpa. Nei bambini può diventare una strategia di sopravvivenza e di adattamento alla convivenza con la figura abusante, che al tempo stesso è anche la figura che fornisce accudimento (Summitt, 1983). Altrettanto provato è lo stato dissociativo legato a queste esperienze traumatiche (Kessler e Bieschke, 1999), stato dissociativo che spiega l’incidente di Sophie.

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BIBLIOGRAFIA:

Monografia ACT #6 – Valori: so cosa per me è importante?

Monografia ACT – parte 6 –

I Valori: So Cosa Per Me E’ Importante?

PARTE 6 di 7

 

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Monografia ACT #6: I Valori: So cosa per me è importante?. - Immagine: © Sergey-Nivens - Fotolia.comMonografia ACT #6 – Un processo fondamentale dell’ Acceptance and Commitment Therapy è ciò che viene chiamata la Mancanza di contatto con i propri valori.

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In breve, con tale mancanza si intende l’insieme di difficoltà legate all’individuazione di ciò che per il singolo individuo è importante e rende(rebbe) la propria vita significativa e ricca. Si può manifestare in varie forme e modalità, ma il punto centrale che si può osservare è la confusione e la vacuità degli scopi personali e delle mete individuali. In sostanza, le persone che presentano difficoltà nel processo Mancanza di chiarezza/contatto con i propri valori hanno difficoltà a rispondere alla domanda: “cosa voglio dalla vita?” oppure “cosa è importante per me?” oppure “quali sono i miei valori?”.

Monografia ACT #1 - Introduzione. - Immagine: © Sergey Nivens - Fotolia.com
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A questo punto è necessaria una piccola specificazione: con il termine valori nell’ ACT si intende qualcosa di diverso dagli obiettivi personali, dalle aspirazioni concrete e dalla morale. Potremmo definire i valori come “long-term desired qualities of life” (qualità della vita desiderate a lungo termine; Hayes et al., 2006). I valori sono ciò che motiva le persone al cambiamento, ad affrontare momenti difficili. Potremmo pensare “Questo è per me importante, e lo porterò avanti nonostante le emozioni difficili che sto provando”.

Le scelte difficili della nostra vita, spesso vengono fatte proprio facendoci guidare dai nostri valori.

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Chi non si muove secondo i propri valori, si trova spesso a preferire una gratificazione a breve termine che, seppure dannosa, ci dà la illusoria impressione di “gestire” le emozioni difficili.  Altra caratteristica dei valori è che vengono scelti liberamente dal singolo individuo.

Utilizzando le parole di Steven Hayes: “Values are chosen qualities of purposive action that can never be obtained as an object but can be instantiated moment by moment. ACT uses a variety of exercises to help a client choose life directions in various domains (e.g., family, career, spirituality) while undermining verbal processes that might lead to choices based on avoidance, social compliance, or fusion (e.g., ‘‘I should value X ’’ or ‘‘A good person would value Y ’’ or ‘‘My mother wants me to value Z ’’). In ACT, acceptance, defusion, being present, and so on are not ends in themselves; rather they clear the path for a more vital, values consistent life” (Hayes et al., 2006, p.9)

Spesso i valori sono mete finali, che guidano l’azione impegnata nella vita. Possiamo avvicinarci ai nostri valori tramite insiemi di obiettivi, concreti, fattibili (workable, una delle parole chiave dell’ ACT) e praticabili.

Facciamo alcuni esempi. Ad un valore come quello di “prendersi cura della propria relazione”, un individuo potrebbe scegliere diversi obiettivi come “ascoltare il proprio partner”, “essere sincero con lui/lei” etc. Se una persona ha come valore “mangiare sano” potrebbe perseguire azioni e darsi obiettivi legati alla dieta, al come farla, a cosa mangiare. Se il valore è “prendersi cura del proprio fisico”, potrebbe sviluppare obiettivi come “andare in palestra”, “camminare” etc.

I valori spesso entrano in terapia. Alcune persone potrebbero richiedere una psicoterapia per un problema d’ansia. Per questa persona, “agire più coraggiosamente e fare esperienza” potrebbe essere un valore. Un obiettivo che ci si potrebbe porre nel percorso con questo paziente potrebbe essere quello di “lasciare spazio all’ansia e gestirla in modo più utile”.

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Monografia ACT. - Immagine: © electriceye - Fotolia.com
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Nella riflessione con i pazienti sui valori, dobbiamo stare attenti a una piccola/grande trappola: Gli obiettivi da uomo morto (dead person’s goal). Sono quelle aspettative e obiettivi personali (e spesso di terapia) che focalizzano l’attenzione su ciò che non si vuole ottenere, che non si vuole provare, che vogliamo che non accada. Insomma, quando i pazienti ci portano obiettivi formulati al negativo, come ad esempio, “non voglio avere l’ansia, “non voglio più sentirmi triste”, “voglio che mia moglie non mi lasci”).

Come possiamo osservare la mancanza di contatto con i propri valori? 

Secondo il modello dell’ ACT, potremmo trovarci di fronte a diverse situazioni. La prima, a mio personale parere la più frequente, si manifesta con una sensazione di forte confusione, rispetto a ciò che la persona ritiene importante e significativo per sé, che si può concretizzare in frasi come : “non so proprio cosa voglio, cosa mi importa in questo momento” . Una seconda situazione si trova nel momento in cui l’individuo manifesta una completa (o quasi) assenza apparente di aree della vita che considera importanti, di valore appunto (ad es. lavoro, prendersi cura di sé, relazioni, famiglia etc…). Una frase tipica può risuonare con un “per me nulla è importante, ormai”.

Esistono anche situazioni opposte, in cui tutte o quasi tutte le aree di valore sono considerate di grande importanza per l’individuo ma allo stesso tempo non c’è un investimento coerente con il valore.  Qui ci possiamo trovare di fronte a persone bloccate da un ideale di perfezionismo eccessivo che causa l’effetto opposto dell’impegno secondo i propri valori (“tanto non sono mai contento, per cui non mi ci metto neanche”).

Secondo l’ ACT, un lavoro importante da fare con questi pazienti è quello di riflettere insieme sui valori, sugli obiettivi per raggiungerli e chiarire la fattibilità e l’utilità di impegnarsi per i propri valori, mettendo in conto e lasciando spazio alle difficoltà, che nel breve termine si potrebbero incontrare.

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Metafore molto utilizzate nell’ ACT per discutere insieme al paziente dei propri valori e obiettivi sono quella della bussola, del faro e del viaggio.

Essendo una forma di psicoterapia che trae molte riflessioni dalla componente esperienziale/immaginativa, il consiglio è di provare prima su di sé a riflettere sui propri valori e sulle proprie azioni impegnate, chiedendoci, ad esempio: “Cosa per me è importante?”

 

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