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Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #1

 

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 1

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

“Anche se hai già tirato con l’arco varie volte, continua a prestare attenzione al modo in cui sistemi la freccia, e a come tendi il filo.

Quando il principiante è consapevole delle sue necessità, finisce per essere più intelligente del saggio distratto.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.46]

 

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #1. - Immagine: © fabioberti.it - Fotolia.comNegli articoli che seguono si cercherà di entrare più nello specifico del “come”  possono essere realizzati gli obiettivi della terapia e del “come” deve comportarsi il terapeuta, nel rapporto comunicativo con il cliente, per raggiungerli.

Nell’affrontare questo argomento verranno sottointesi i principi di base del colloquio psicologico, i quali svolgono un ruolo al di là delle tecniche e immanente al modo di essere dello psicologo.

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Negli articoli precedenti sono stati definiti i principi di base che devono sostenere le azioni dello psicologo nel corso del colloquio psicologico e quali sono gli obiettivi da realizzare nel corso della prima sessione.

Negli articoli che seguono si cercherà di entrare più nello specifico del “come” tali obiettivi possono essere realizzati e del “come” deve comportarsi il terapeuta, nel rapporto comunicativo con il cliente, per raggiungerli. Nell’affrontare questo argomento verranno sottointesi i principi di base del colloquio psicologico, i quali svolgono un ruolo al di là delle tecniche e immanente al modo di essere dello psicologo.

Il Colloquio Psicologico:Cosa Fare nel Primo Colloquio #1. Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
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Queste tecniche, anche se apparentemente possono sembrare accorgimenti semplici o banali, sono estremamente importanti, esse rappresentano i mattoni con i quali si può costruire un rapporto di fiducia. Per questo motivo la loro rilevanza non deve essere sottovalutata e l’attenzione del psicologo deve essere sempre rivolta anche ai dettagli.

LA PREPARAZIONE DEL COLLOQUIO

“Sa che la preparazione è importante quanto l’azione

C’è sempre qualcosa che manca. E il guerriero approfitta dei momenti in cui il tempo si ferma per armarsi meglio.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.80]

 

Un buon colloquio si avvia attraverso la preparazione precedente all’incontro con il cliente.

Bisogna innanzitutto predisporre una corretta atmosfera in un ambiente con un clima interno confortevole. Il mobilio deve essere neutrale ma accogliente. E’ meglio eliminare qualsiasi fonte di distrazione come ad esempio documenti sparsi per la scrivania o elementi dell’arredo cosi particolari da poter raccogliere l’attenzione e l’interesse del cliente. Anche l’abbigliamento deve essere neutrale, in modo da poter essere accettato con maggior probabilità indipendentemente dalle caratteristiche culturali del cliente. In questo modo LO psicologo può divenire trasparente, uno specchio che riflette parole e sentimenti del cliente mostrandogli come appaiono, visti dall’esterno. Anche abitudini, gesti o tick devono essere evitati in quanto fonti di distrazione.

Prima di un colloquio il terapeuta ha un contatto preliminare con il paziente, solitamente telefonico. Già dalla telefonata si possono ottenere diverse informazioni sulla personalità del futuro paziente, informazioni alle quali, lo psicologo esperto, pone molta attenzione. Innanzitutto può direttamente telefonare il paziente oppure può chiamare una terza persona. Se telefona il futuro paziente si può avere un’idea su cosa ci si può aspettare nel corso del colloquio in base al tono di voce, al modo in cui parla e si presenta e, ovviamente, alle cose che dice.

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E’ sempre bene chiedere informazioni generali sul problema senza soffermarsi troppo tempo al telefono. Si deve fare capire che il telefono non sarà utilizzato come normale mezzo di comunicazione e che non potrà sfruttarlo per lunghi contatti. Se telefona una terza persona è importante capire in che rapporti è con il cliente, a meno che non si tratti di un ente o di un altro professionista, e tenere a mente in che modo presenta il problema. La comunicazione deve essere breve e deve terminare fissando un appuntamento ed accertandosi che sia chiara sia la data che l’ora del primo incontro.

Al momento dell’appuntamento, prima che il paziente entri, lo psicologo deve accertarsi di essere nelle condizioni migliori per accoglierlo ed ascoltarlo. Può essere utile a questo scopo prendere un momento di pausa prima della seduta successiva per liberare la mente da tutto ciò che non riguarda la sessione. Quando il cliente entra è bene che lo psicologo si alzi e si rechi ad accoglierlo, lo inviti ad entrare, gli indichi dove può lasciare la giacca e gli dica di accomodarsi dove desidera.

Tribolazioni. Di Roberto Lorenzini – No Conflict. -Immagine: © olly - Fotolia.com
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Lo psicologo si siederà nel posto rimasto libero senza frapporre la scrivania tra lui e il cliente, sistemandosi in posizione leggermente girata (non direttamente davanti al cliente) né troppo vicino né troppo. Nelle presentazioni lo psicologo può stringere la mano del cliente, ma può anche non farlo in relazione al tipo di persona che si trova davanti, dicendo il proprio nome e cognome omettendo il titolo di dottore. Dopo di ché si può avviare il colloquio.

Nei casi in cui il colloquio si tiene nel domicilio del cliente, lo psicologo può godere di alcuni  vantaggi ma deve anche controllare nuovi ostacoli. Se da un lato si possono ottenere molte informazioni sul suo stile di vita e sulla sua personalità, dall’altro può essere difficile trovare un luogo di intimità e privo di distrazioni. In ogni caso lo psicologo deve dare suggerimenti affinché si possa individuare tale luogo al sicuro da televisione, radio e da rumori di qualsiasi tipo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Shopping Compulsivo: I Love Shopping… Too Much!

di Francesca Soresi

Shopping Compulsivo: I Love Shopping… Too Much!. - Immagine: © elgusser - Fotolia.com  Un modello cognitivo-comportamentale del Compulsive Buying o Shopping Compulsivo

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In letteratura sono presenti pochi riferimenti relativi al disturbo dell’acquisto compulsivo (Compulsive Buying, CB) o shopping compulsivo e solo recentemente è diventato un tema di interesse per i ricercatori.

Stephen Kellett e Jessica V. Bolton (2009) hanno tentato di fornire un possibile modello cognitivo-comportamentale del disturbo dello shopping compulsivo al fine di stimolare una valutazione e un trattamento più adeguato dei pazienti che presentato le particolarità dello shopping compulsivo.

Gli autori hanno individuato in letteratura le principali caratteristiche, definendo quindi lo shopping compulsivo come essenzialmente caratterizzato da singoli comportamenti disadattivi ed estremi. L’atto dell’acquisto nello shopping compulsivo è sperimentato come un impulso incontrollabile e irresistibile, che comporta attività singole eccessive, costose e dispendiose in termini di tempo. Tipicamente è un comportamento messo in atto in risposta ad emozioni negative, dando origine così a difficoltà finanziarie, personali e/o sociali.

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EABCT 2011: Shopaholics! Fenomenologia dello Shopping Compulsivo
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In letteratura emerge che lo shopping compulsivo, a differenza di altri disturbi del controllo degli impulsi, come il gioco d’azzardo patologico o la tricotillomania (DSM-IV), sembra essere tollerato dalla società invece di essere seriamente considerato come possibile genesi di un disagio familiare, sociale ed individuale, significativo e potenzialmente cronico. Inoltre risulta che lo shopping compulsivo può essere facilmente mascherato come shopping, attività socialmente accettabile; inoltre non esistono segni fisici indicativi di un problema e comportamenti da shopping compulsivo isolati non risultano agli occhi degli altri immediatamente bizzarri o comunque evidenti.

Il modello presentato da Kellett e Bolton prevede quattro fasi distinte:

1. Fattori antecedenti: precoci esperienze di vita e ambiente familiare (abuso e/o maltrattamento, criticismo e/o perfezionismo genitoriale) che costituiscono fattori di vulnerabilità. Ad esempio genitori in difficoltà (ad esempio depressi o alcolizzati, solo per citare due casi) che ignorano i propri figli o che utilizzano soldi e regali come rinforzo positivo per elicitare comportamenti desiderati nei propri figli costituiscono le condizioni favorevole per porre le basi per un forte attaccamento al patrimonio, che in seguito potrebbe funzionare da strumento per creare e mantenere un senso di autodefinizione;

2. Trigger interni ed esterni: stati emotivi interni (depressione, ansia, senso di sé sgradevole) e stimoli esterni (pubblicità, interazioni con i negozi, utilizzo di carte di credito) che possono indurre a fare acquisti di impulso.

 3. Atto dell’acquisto: nel momento dell’acquisto i compratori compulsivi sperimentano un restringimento dei processi attentivi che sembra essere indicativo di uno stato mentale “assorbito” (stato alterato e dissociato della mente durante il quale l’elaborazione efficace delle informazioni è generalmente alterata) compromettendo qualsiasi processo cognitivo esecutivo/riflessivo, che facilita gli sforzi di autoregolazione efficace (ad esempio: “io sono consapevole di me stesso e delle mie vere motivazioni per l’acquisto di questo prodotto mentre sto considerando di comprarlo”). Durante uno stato dissociato/assorbito aumenta la responsività emotiva e si riduce il processo di elaborazione dell’informazione, favorendo così gli effetti positivi per il proprio umore dovuti all’acquisto. Si origina, quindi, un circuito di feedback positivo: “acquistare mi fa stare bene”. In questa fase si sperimentano stati emotivi come: sollievo, gratificazione, miglioramento dell’umore e dell’autostima, che risultano però temporanei.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Generalmente l’acquisto in questa fase viene fatto in solitudine poiché la presenza degli altri provoca irritazione e noia. Probabilmente perché, presupponendo che i compratori compulsivi ricerchino effettivamente uno stato di assorbimento, l’interazione con gli altri impedisce il raggiungimento di tale stato;

4. Post-acquisto: consapevolezza di un’incapacità di autoregolazione che determina emozioni come senso di colpa, vergogna, rimorso e disperazione, seguite da comportamenti specifici come nascondere l’acquisto o ignorarlo.

Il modello descrive lo shopping compulsivo come un circolo vizioso, in cui la fase finale, dove si sperimentano gli aspetti negativi dell’acquisto ed emerge lo schema disfunzionale che ha dato origine all’acquisto stesso “Sono sgradevole ed indesiderato”, pone le basi per i trigger emotivi e psicologici per l’inizio di un nuovo circolo, mantenendo così il disturbo. Lo shopping compulsivo può quindi auto-rinforzarsi nel corso del tempo.

La principale implicazione per il trattamento di questo disturbo è rappresentato dal fatto che lo shopping compulsivo potrebbe essere ri-concettualizzato come un fallimento cronico e ripetitivo nell’auto-regolazione, e quindi gli interventi psicologici possono regolare questo aspetto nel tentativo di favorire il cambiamento.

 

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SHOPPING COMPULSIVO – IMPULSIVITA’ – DIPENDENZE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Somministrazione Cronica di Antidepressivi SSRI & Estinzione della Paura

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Ruolo degli antidepressivi SSRI nell’estinzione della paura “appresa”: Uno studio mostra che il trattamento cronico con SSRI inficia l’estinzione nei topi.

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L’estinzione, in termini comportamentali, implica non la distruzione delle originarie memorie di paura, quanto l’apprendimento di nuove informazioni e la creazione di associazioni alternative rispetto al legame iniziale tra stimolo condizionato e stimolo incondizionato, solitamente attravero procedure espositive. I ricercatori hanno somministrato a dei topi (precedentemente “condizionati” alla paura) citalopram (antidepressivo SSRI) e una soluzione salina a un gruppo di controllo per 22 e 9 giorni consecutivi.

 Dallo studio è emerso che la sommistrazione cronica (22 giorni consecutivi nei topi), ma non subcronica (9 giorni) ha inficiato il funzionamento del meccanismo comportamentale dell’estinzione della paura a seguito di esposizione a nuove esperienze.

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In letteratura è ampiamente riconosciuta l’efficacia della combinazione di antidepressivi SSRI e terapie cognitivo-comportamentali nel trattamento della depressione maggiore; nel caso di disturbi d’ansia potrebbe d’altro canto presentare effetti controindicati. Ulteriori trials clinici sono necessari per approfondire i risultati anche in soggetti umani e per spiegare il processo sotteso a tale risultato.

 

Somministrazione Cronica di SSRI & Estinzione della Paura_fig.1
Fig. 1 – Antidepressivi SSRI bloccano l’estinzione della paura nei topi.

 

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ANTIDEPRESSIVI – PAURA 

 

BIBLIOGRAFIA:

Hurting to Heal: a Documentary on Self Harm

 

Self Harm: Hurting to Heal

A film that explores the reasons for people engaging in self-harm behaviours,

who may be affected by it and what we can do to help.

 Courtesy of: HarmLESS Psychotherapy

Hurting to Heal – Introduction

The film explores the reasons for people engaging in self-harm behaviours, who may be affected by it and what we can do to help.

Produced by HarmLESS Psychotherapy and funded by the British Psychological Society’s Public Engagement Grants Hurting to Heal was launched on the 1 March to coincide with International Self-injury Awareness Day.

Every year around 250,000 people attend Accident and Emergency Departments across the UK due to self-inflicted injuries and/or self-poisoning. We know this is only the tip of the iceberg as many people never seek medical attention. Self-harm is a taboo subject and people struggle with the idea. Particularly in the caring environment, where the lack of clear protocols and training leave staff feeling ill-prepared to support people who engage in self-harming behaviours. With this film we hope to remove some of the myths around self-harm and engage people at a personal and human level.

The Psychiatrist & the Rockstar: interview with Sinead O’Connor
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In Hurting to Heal Lora Coyle, a person with lived experience of self-harm takes the viewer on an exploratory journey through the reasons that lead people to engage in self- harming behaviours and how we can offer support.
Maria said: “This film is an introduction to the topic of self-harm and helps to open the conversation around effective support systems for people affected. We want to improve understanding that self-harm is a manifestation of psychological distress and not necessarily a precursor to suicide”.

Hurting to Heal was produced by HarmLESS Psychotherapy in collaboration with Choose Life, The University of Edinburgh, Scottish Mental Health Association, Shared Strengths and NHS Lothian with a 2011 BPS Public Engagement Grant. Copies of the film are available free via www.harmlesspsychotherapy.com

 

SOURCE:

HarmLESS Psychotherapy is a Social Enterprise Mental Health Educational Service founded in 2011.
For more information E: [email protected] TL: 07557056049, W: www.harmlesspsychotherapy.com

 

 

 

 

 

Autismo e Vaccinazioni: oltre le Teorie del Complotto e gli Allarmismi

 

Autismo e Vaccinazioni: oltre le Teorie del Complotto e gli Allarmismi. - Immagine:  © Spectral-Design - Fotolia.com

La tentazione di farsi seguaci di uno o dell’altro schieramento può voler dire per un genitore chiamato a decidere se vaccinare o meno il proprio figlio, regalarsi, più o meno consapevolmente, l’illusione di una scelta facile e giusta. I genitori di bambini autistici sono spesso alla ricerca di una causa che spieghi i sintomi del figlio e dare la colpa ai vaccini sembra essere diventata una moda sostenuta da un forte desiderio di condivisione.

TUTTI GLI ARTICOLI SUI DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

E’ passato un anno dalla sentenza del Tribunale di Rimini che ha disposto il risarcimento da parte del Ministero della Salute a favore della famiglia del piccolo B. V. Il bambino secondo i genitori avrebbe iniziato a manifestare i primi sintomi di autismo in seguito alla somministrazione del vaccino trivalente  MPR. La sentenza ha dato loro ragione: esiste un nesso di causalità tra la vaccinazione anti Morbillo-Parotite-Rosolia (MPR) e l’autismo, così come dimostrato dal dott. Andrew  Wakefield in uno studio pubblicato nel 1998 sulla rivista medica specialistica Lancet. Peccato che dopo due anni il medico in questione sia stato radiato dall’albo britannico dei medici e la stessa rivista abbia  ritirato ufficialmente lo studio.

Acido Folico in Gravidanza e Autismo nei Bambini: Correlazioni
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Dura anche  la reazione del Board Scientifico del  Calendario Vaccinale per la Vita che ha preso proprio  le mosse dal ritiro dello studio sulla correlazione fra vaccino MPR e autismo per giudicare la sentenza un pericoloso ostacolo alla campagna vaccinale nazionale.

Consiglio solo agli appassionati di romanzi gialli di approfondire la vicenda, che rappresenta  uno dei contenziosi più rilevanti nella storia della medicina contemporanea.

Abbandoniamo quindi l’oscura vicenda per concentrarci sulle poche informazioni limpide e facilmente accessibili sul tema autismo e vaccini:

– I vaccini hanno ostacolato la diffusione di malattie mortali. Dal 2000 al 2008 la mortalità per morbillo è scesa del 78%.

-I vaccini, come tutti i farmaci, possono produrre effetti collaterali. Tra i più gravi l’encefalopatia (o encefalite), un’infiammazione del cervello che può causare danni permanenti.

– La legge 210/92 prevede il risarcimento dei danni da vaccino. Il giudizio medico di un nesso di causalità tra vaccino e la menomazione psico-fisica o la morte del soggetto spetta alla commissione medico ospedaliera.

– L’autismo è una sindrome comportamentale, pertanto un soggetto che manifesta una serie di comportamenti viene definito “autistico”.

– l’eziopatogenesi dell’autismo non è nota. Diversi sono i fattori che potrebbero determinare l’insorgere dell’autismo.

– I bambini colpiti da encefalite possono manifestare un quadro clinico comportamentale descrivibile come autismo.

– L’autismo si manifesta in età diverse da soggetto a soggetto, comunque entro i primi 3 anni di vita.

– Non esiste  alcun esame medico obiettivo in grado di chiarire senz’ombra di dubbio se una certa patologia sia di fatto un danno da vaccino.

 

Date queste premesse credo che la difficoltà nel maturare un’opinione in merito al legame tra autismo e vaccini dipenda dalla natura complessa del tema stesso ma credo che il dibattito sia legittimo.

Come si può concludere con certezza che una patologia che  fa il suo esordio negli anni successivi alla  nascita e che può essere causata da diversi fattori, anche in combinazione,  sia riconducibile all’evento vaccino in assenza di esami medici obiettivi che possano stabilire un nesso di causalità  tra i due fenomeni in questione?

Non ho certo le competenze specifiche per azzardare ipotesi di risposta a questo interrogativo ma indubbiamente la diagnosi di danno da vaccino non sembra un affare di semplice gestione e c’è ragione di pensare che il numero di casi riconosciuti  dal Ministero della Salute possa non corrispondere al dato di realtà. Ecco allora che il quadro si complica ulteriormente se vogliamo delegare alla legge dei grandi numeri l’espressione di un giudizio di significativa pericolosità dei vaccini.

Con maggior competenza posso invece affermare che  per la mente umana, in particolar  modo quella di un genitore, tollerare l’incertezza riguardo la salute del proprio figlio non è cosa semplice. Ecco allora la tentazione di affidarsi a pareri autorevoli, come quello del pediatra che liquida con superficiali rassicurazioni le nostre preoccupazioni o di medici pronti a rifilarci diverse teorie sull’inutilità se non pericolosità dei vaccini nonchè il ricorso a varie teorie del complotto che trovano nella rete il loro terreno più fertile.

La tentazione di farsi seguaci di uno o dell’altro schieramento può voler dire per un genitore chiamato a decidere se vaccinare o meno il proprio figlio, regalarsi, più o meno consapevolmente, l’illusione di una scelta facile e giusta. I genitori di bambini autistici sono spesso alla ricerca di una causa che spieghi i sintomi del figlio e dare la colpa ai vaccini sembra essere diventata una moda sostenuta da un forte desiderio di condivisione.

Citiamo dall’articolo de Il Fatto Quotidiano (in bibliografia):

Consultato telefonicamente dal fattoquotidiano.it, il professor Gabriel Levi, direttore dell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile all’Università La Sapienza di Roma, conferma che “allo stato attuale delle conoscenze non esiste alcuna causa accertata, diretta, esclusiva e sufficiente per l’autismo. Esistono fattori di varia natura, che possono concorrere a determinare una vulnerabilità neurologica”. Anche per il professore accade che “spesso i tribunali intervengono in cose in cui c’è una competenza scientifica nulla” . E spiega così la confusione: “I casi in cui c’è un minimo sospetto ragionevole, sono i casi che avevano accertato già precedentemente al vaccino dei segni neurologici indicativi. Il vaccino può aumentare la vulnerabilità neurologica, che significa assolutamente che determina l’autismo, tanto meno in maniera esclusiva”. “Nel caso di Rimini – prosegue – bisognerebbe prima dimostrare con evidenza certa che c’è stato un danno neurologico, poi bisognerebbe ricercare le altre concause che hanno agito nel determinare lo sviluppo autistico”.

 

Ossitocina: Una Possibile Cura per l'Autismo?. - Immagine: © IKO - Fotolia.com
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Tuttavia in 10 anni di lavoro di psicologa con gli autistici e le loro famiglie ho conosciuto molti genitori convinti che siano stati i vaccini a innescare la sintomatologia autistica e fatico a credere che siano tutti in errore. Conosco però solo un bambino a cui sia stato riconosciuto il danno da vaccino e concesso un risarcimento.

Come genitore (da 5 anni ormai) sento di meritare informazioni più dettagliate rispetto ai rischi e benefici dei vaccini nonchè una concreta  valutazione dello stato di salute del bambino accompagnata da un’accurata anamnesi familiare al fine di determinare la predisposizione a fattori di rischio per la manifestazione di reazioni avverse al vaccino. In verità sono invece i genitori a doversi esprimere circa la buona salute del figlio prima di sottoporsi all’iniezione compilando una checklist che ci chiede, tra le altre cose, se il bimbo sta bene il giorno del vaccino e se è allergico a qualche alimento, farmaco o vaccino. Non si tratta certo di quesiti semplici se rivolti a genitori di bambini di soli 2 mesi ma la legge prevede che il personale sanitario sia adeguatamente formato per rispondere a ogni dubbio e gestire i necessari approfondimenti nel caso in cui le risposte date lascino sospettare una o più controindicazioni al vaccino.

Pretendere dai vaccinatori un’adesione letterale a quanto previsto per legge concederebbe a noi genitori un maggior senso di padronanza della situazione perchè vaccinare i propri figli non dovrebbe essere un atto di fede ma un gesto consapevole.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Storie di Terapie #24 – Salvatore Civis Romanus

 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

– LEGGI L’INTRODUZIONE – 

 

Storie di Terapie #24 - Salvatore Civis Romanus. - Immagine: © rangizzz - Fotolia.comStorie di Terapie #24 – da cinque anni con una coetanea era arrivato il momento della scelta: sposarsi trasferendosi o lasciarsi. Entrambe opzioni orribili.

A volte ritornano.

Salvatore non lo vedevo e sentivo ormai da almeno dodici anni ma, quando ho risposto al telefono alle ventuno di una tranquilla domenica sera di gennaio, il suono delle prime sillabe lo hanno materializzato davanti a me, come se ci fossimo salutati tre ore prima al mio studio. Era in preda ad una crisi d’ansia che definirei da temuto spaesamento (categoria diagnostica inesistente), ma che descrive lo stato d’animo del migrante coatto. Poco importa se ci si trovi sulle spiagge della Tunisia in fiamme, con di fronte le onde tumultuose del canale di Sicilia o cent’anni prima sulla banchina del porto di Napoli, con la valigia serrata dallo spago e lo sguardo alla progressista America. Salvatore, poi, non doveva traversare nessun oceano reale, solamente andare a Genova per iniziare la convivenza con la sua donna, ma ciò non era per lui meno spaventoso. Il migrante coatto ha davanti a sé un’idea di futuro migliore, che sia Lampedusa o New York, ma questa meraviglia è tanto desiderata quanto sconosciuta ed estranea. Ciò che resta alle spalle è invece certamente peggiore, ma conosciuto e familiare.

Sulla banchina si lascia, insieme agli affetti, parte della propria identità, come diceva una vecchia canzone “partire è un po’ morire”. Per telefono, quella domenica sera, Salvatore mi esprimeva appunto un’angoscia di dispersione del sé, di morte.

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Perchè un intervento telefonico breve possa essere efficace è un mistero. Il consiglio farmacologico, adattato malamente alle sostanze in possesso in quel momento di Salvatore (la più indicata delle quali era un Jack Daniels doppio malto) avrebbe fatto effetto solo molte ore dopo. Le rassicurazioni tentate del tipo “abbiamo ancora tempo per decidere e troveremo una soluzione soddisfacente” mi sembravano sciocche nel momento stesso in cui le formulavo.

Storie di Terapie #20 - Le diagnosi di Francesca. - Immagine: © Aarrttuurr - Fotolia.com
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Invece ebbero effetto e l’ansia, nominata e smascherata come tale, non precipitò nel panico che in passato Salvatore aveva conosciuto. Più avanti ci saremmo interrogati sul motivo dell’efficacia di tale superficiale rassicurazione, che non stava nel contenuto della frase, ma semplicemente nel soggetto. Quel “noi” sottinteso aveva strappato Salvatore alla solitudine del naufrago, non era più solo ed il ritrovarmi immediatamente al volo, dopo tanti anni, aveva compattato la sua identità sfrangiata di migrante coatto. Il sollievo era venuto dal mio fulmineo e inaspettato riconoscimento. Poichè non sempre mi capitano queste cose, soprattutto con l’avanzare dell’età, anche di fronte all’esplicita dichiarazione delle generalità, l’accaduto può catalogarsi come una botta di fortuna che, comunque, ben prometteva circa il successivo intervento.

Il senso dell’immediato ritrovarsi era stato nettamente più forte per telefono che al momento dell’incontro, di persona, al mio studio. Avevo lasciato Salvatore venticinquenne atletico e con i capelli già troppo lunghi per le consuetudini dell’epoca, forse non particolarmente bello per la statura contenuta ed il prevalere delle linee curve su quelle rette ma sprizzante energia, vitalità e una tendenza all’esplorazione curiosa della psiche, che lo faceva piuttosto unico tra i suoi colleghi ragionieri ed economisti. Appassionato di teatro, letteratura e mitologia sarebbe stato un paziente psicoanalitico ideale e, a volte, temevo di tarpargli le ali con le mie speculazioni cognitiviste.

Insomma, allora Salvatore si presentava come uno studente che si gode la vita mentre frequenta l’Università, ora mi trovavo di fronte un signore quarantenne, dirigente di banca, con la calvizie camuffata da destino a scelta, per mezzo di una radicale rasatura a zero. L’altezza appariva ancora più modesta, a motivo di un allargamento di tutti i diametri orizzontali, in particolare la testa sembrava essere diventata enorme. Il colorito rossiccio e l’aspetto sudaticcio da evidente ansia, la rendevano appetitosamente simile alle teste che i porchettari di Ariccia espongono guarnite di un limone tra i denti. Quindici anni non passano invano e, con eleganza, evitammo le frasi fatte tipo “ti trovo bene”, “sei sempre lo stesso”, e altre pietose menzogne simili. Era evidente che eravamo due persone diverse e, se ci fossimo incontrati per strada, non ci saremmo affatto riconosciuti. Ci trovavamo nel mio  studio ed era l’esserci ritrovati lì che garantiva che io fossi Roberto e lui Salvatore.

 Questa constatazione interiore riportava esattamente al centro del problema attuale: il fatto che l’ambiente è un sostegno decisivo per l’identità. Dopo gli scontati ringraziamenti, per averlo salvato da morte certa per angoscia la sera in cui mi aveva telefonato disperato mentre già meditava di uccidersi, ecco i fatti: da cinque anni era fidanzato con una coetanea di Genova ed ormai era arrivato il momento della scelta, o sposarsi trasferendosi a Genova (solo lui poteva ottenere un trasferimento) o lasciarsi.

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Entrambe le opzioni gli apparivano orribili.

Grazie ad una serie di espliciti riferimenti mi ricordai che, anni addietro, avevamo affrontato un tema analogo. Aveva perso quello che, allora, definiva l’amore della sua vita perché non si era sentito di seguirla negli Stati Uniti, dove lei aveva vinto una cattedra universitaria. I problemi di allora riguardavano disturbi sessuali mutevoli, oscillanti tra l’impotenza e l’eiaculazione precoce e paura  di stringere legami in cui avrebbe potuto provare emozioni troppo intense, sia negative che positive, che temeva devastanti.

Aveva inoltre un vago dubbio di omosessualità.  Circa  quest’ultimo tema, solo negli attuali incontri ne ha improvvisamente ritrovato l’origine, con un ricordo emblematico che farebbe la gioia di uno psicoanalista: è un tredicenne bruttino e sfigato che non riesce ad adattarsi nella scuola del paese dove si è trasferito per il lavoro del padre. E’ una assolata domenica pomeriggio di fine maggio, la radio racconta “tutto il calcio minuto per minuto”, è solo e si avvicina alla finestra per guardare fuori. Nel giardino a fianco su una sdraio sta prendendo il sole una quindicenne bionda con un vestito arancione che ha tutt’ora impressa nella mente. E’ una francese che sta lì in vacanza, le sembra un angelo, la cosa più bella che abbia mai vista.

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Storie di Terapie #16 – L’impalpabile Marisa. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.com
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Il naso appoggiato al vetro lascia un’impronta di grasso e il fiato appanna tutto fino a impedire la vista. Meno male. Meglio così, ha avuto paura. Da una ragazza così sente che potrebbe venirgli un piacere estatico, al solo contemplarla e un dolore infernale all’idea di perderla e lei tra qualche giorno tornerà in Francia. Ha netta la sensazione che non sopravvivrebbe nè a quell’estasi,  nè a quel dolore. Allora immagina di essere omosessuale, si convince di esserlo per evitare guai. Ma non è una scelta possibile.

Tutto ciò che riguarda il mondo delle donne è per lui troppo e può farlo impazzire. Allora, impara a stare sempre sull’orlo del burrone, vicino alle donne ma a distanza di sicurezza. Il potere enorme che la donna ha su Salvatore non è solo quello di concedersi o negarsi ma di definire in questo modo il suo valore: se  viene rifiutato non perde soltanto la possibilità del rapporto, ma se stesso, perché ciò vuol dire che lui non ha alcun valore, l’altro  gli conferisce esistenza o gliela nega. Così ha sempre fatto la madre, supremo giudice del valore del figlio ed unico erogatore di affetto, che andava spartito con un fratello gemello che ha trovato la sua identità nella continua ribellione ai dogmi familiari, mettendo il piacere sempre prima del dovere, al contrario di Salvatore.

Il padre, ufficiale dell’esercito, ha trascinato la famiglia in giro per l’Italia e non è presente nei ricordi infantili, se non come saltuario esecutore materiale delle pene che venivano comminate dal giudice unico materno.

Dobbiamo, tuttavia, occuparci soprattutto del disagio attuale, che ha anche una scadenza temporale nella pazienza di Rita ormai agli sgoccioli e dunque sinteticamente riassumiamo i temi delle puntate precedenti in pochi concetti.

Salvatore ha il terrore che forti emozioni siano intollerabili.

Salvatore pensa di valere poco ed ha continuo bisogno dell’approvazione e dell’accettazione degli altri come prova, seppure non duratura, del suo valore e del diritto ad esistere.

Salvatore si è creato un microcosmo rassicurante dove tutto ciò gli è garantito: il circolo del tennis che frequenta da venti anni e dove tutti sono conoscenti se non proprio amici, il lavoro nella direzione centrale della sua banca dove ormai è considerato un senior, il gruppo teatrale che frequenta da diciotto anni ed è la sua vera famiglia.

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E’ dunque ricchissimo di legami che gli impediscono di sentirsi solo e, contemporaneamente, è assolutamente solo e può ritirarsi nella sua casetta che è rimasta immutata, da quando i genitori gliela misero su, ormai venticinque anni fa, Non ha né cambiato né spostato un mobile, non ha mai rimbiancato le pareti, il tempo sembra essersi fermato.

Salvatore ricorda che la stessa angoscia l’aveva provata anni addietro quando, fidanzato con una ragazza romana, aveva avuto la proposta di andare a convivere in un altro quartiere di Roma, più bello del suo ed in una casa più grande. Afferma che, anche in quell’occasione, almeno consapevolmente, a spaventarlo non fosse tanto il consolidarsi del legame quanto, piuttosto, il perdere la familiarità con luoghi e oggetti entrati, ormai, a far parte della sua identità.

 All’idea di trasferirsi a Genova, città che conosce e apprezza, il vissuto è di esclusione in un doppio senso. Da un lato il fatto di essere a Roma lo fa sentire al centro del mondo. E’ quella che abbiamo chiamato, scherzando,  “la sindrome del civis romanus sum”, consistente nell’accrescere il proprio valore traballante identificandosi con la città eterna; si sente finalmente importante quando i telegiornali parlano di Roma o nei film riconosce squarci della sua città, è lì dove tutto accade, a suo avviso tutti vorrebbero vivere a Roma, vivendo nella capitale dell’impero ci si sente necessariamente un po’ imperatori.

L’altro senso in cui sperimenta l’esclusione è “la sindrome della mancata inaugurazione”: Salvatore è davvero angosciato al pensiero che non assisterà all’ampliamento della stazione Tiburtina e, quando essa soppianterà Termini come prima stazione della capitale, lui non sarà presente e dovrà leggere la notizia sui giornali  di Genova o l’apprenderà dal telegiornale, che inquadrerà una città che va avanti senza di lui.

Pensa con dolore a quando cambieranno i negozi della sua via senza che lui lo sappia, gli amici invecchieranno, cambieranno l’auto, avranno nuovi amori e lui non sarà presente.

Non desidera troppo starci in mezzo, ma vorrebbe rimanere dietro un vetro, come nel ricordo di quella domenica di maggio, a distanza di scurezza, a vedere il loro vivere, a testimoniarlo e certificarlo. La vita è troppo rischiosa e travolgente, il ruolo di testimone oculare gli si adatta meglio.

Nel giro di cinque incontri l’ansia è fortemente diminuita e riesce a vedere tutti i vantaggi del trasferimento a Genova proprio in termini di riduzione della solitudine. Lo aiuta molto pensare che, se avesse una colica renale a Roma dove si sente nel suo ambiente familiare, di fatto non ci sarebbe nessuno a soccorrerlo, mentre a Genova accanto a lui ci sarebbe Rita. Un altro pensiero che in parte lo sgomenta, ma poi lo rassicura in merito al trasferimento, è quantificare quanto tempo al giorno passano i suoi amici, i genitori, suo fratello ed io stesso a pensare a lui. Concordiamo che questo tempo si approssima allo zero e che ognuno pensa soprattutto a ciò che occupa il suo spazio percettivo immediato, mantenendo il ricordo in una labile memoria di lavoro per pochi istanti, per far poi spazio al nuovo. Lo sgomento nasce dall’idea di non essere costantemente rappresentato nella mente di qualcuno; la rassicurazione dall’idea che, pur essendo sempre stato così,  non è mai successo nulla di drammatico e che  l’unica mente che lo pensa in continuazione, ed è più che sufficiente a mantenerlo in vita, è proprio la sua. Essa è, in modo scientificamente non ben chiarito, ma certamente legata al cervello e quest’ultimo saldamente ancorato alla sua testa. Per questo, che sia a Roma o a Genova, quella macchina portatile di circa un chilo e mezzo, creatrice di significati e di scenari ai quali è tanto affezionato, sarà sempre con lui

Storie di Terapie. Le due Terapia di Nicoletta. - Immagine: © Paulius Brazauskas - Fotolia.com
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La sensazione dell’assoluta irrimediabile solitudine lascia il posto alla piacevole scoperta di bastare a se stesso.

A questo punto del nostro lavoro sollevo il dubbio che parte della resistenza al trasferimento non sia dovuta soltanto a ciò che lascia, ma anche a ciò cui va incontro, vale a dire al rapporto con Rita di cui parla molto poco.

Forse non è solo lasciare la banchina del porto di Napoli a trattenerlo dal salire sul transatlantico, ma anche l’intravedere Staten Island dietro il profilo della Statua della Libertà.

Subito, quasi a fugare ogni dubbio, mi mostra le foto di Rita a riprova della sua bellezza. Dopo poco, però, inizia a dirmi che un piccolo difettuccio effettivamente lo ha: a causa di un padre scapestrato e donnaiolo che ha sempre trascurato la famiglia prima di abbandonarla, è ossessivamente gelosa. Salvatore, per scelta, per carattere e, forse, anche per insicurezza è patologicamente fedele, ma ciò non conta nulla. Tale gelosia è stata già la causa del fallimento del primo matrimonio di Rita durato otto mesi e ha già causato una frattura del loro rapporto, durata un intero anno. E’ molto controllante, non permette che Salvatore abbia rapporti di qualsiasi genere con altre donne, gli impedisce di guardarsi intorno e di avere attività sociali cui partecipino anche donne. Lui, per quieto vivere, non affronta direttamente la questione e si barcamena con piccole bugie che, regolarmente scoperte giustificano un aumento del controllo poliziesco.

Salvatore mi racconta che il suo gemello è esattamente come il padre di Rita, corre appresso a tutte le donne e tradisce sistematicamente la moglie. Anche in questo campo sembra sia siano scelti ruoli opposti per distinguersi l’uno dall’altro: il fratello è un playboy coatto e impenitente, lui è un convinto assertore  della fedeltà, d’esempio per i cattolici più moralisti.

Penso, dentro di me, che mischiando i due se ne farebbe uno buono, ma tengo per me queste riflessioni, temendo di scandalizzarlo. Tuttavia un mio “diavoletto” interiore si scatena, poco convinto delle asserzioni moraliste del mio interlocutore: per  un paio di incontri mi sembra di mettere in scena una vecchia canzone popolare “le tentazioni di Sant’Antonio”, in cui l’asceta  isolato nel deserto resiste ad una serie crescente di tentazioni riguardanti tutti i piaceri dei sensi, proposte dal demone che vuole farlo cadere in peccato.

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La primavera che incalza mi facilita enormemente il compito, considerato che il focus del mio attacco è la bellezza muliebre.

Cerco di dare il meglio di me come tentatore, considerato il duplice fronte: da un lato il timore di Salvatore di essere giudicato male con la temuta conseguenza di essere abbandonato, dall’altro, più grave, di lasciarsi travolgere dalla passione e perdersi, un perdersi mal definito ma assoluto. Le immagini che si alternano nella sua mente sono tre. Lui che si copre di ridicolo, correndo appresso ad ogni donna, fino a che non viene ricoverato nel reparto agitati di un manicomio.

Lui che muore d’infarto nel letto dell’amata, avendo appena accennato la penetrazione (a mio avviso una citazione inconsapevole del “malato di cuore” di Faber).

Infine, il suo corpo ciondolante dal ramo traverso di un grande olivo, nelle campagne dove giocava da piccolo e che sceglierebbe per impiccarsi dopo essere stato abbandonato.

Il lavoro successivo è centrato su una “de-esagerizzazione”, proviamo a considerare gli innumerevoli e più normali esiti di una storia d’amore che non siano la follia, la morte per troppa gioia o per troppo dolore. Mi sembra persino brutto mettergli in discussione questa versione epica, tragica e definitiva dell’esperienza amorosa. Guardandosi intorno si accorge di quanto tutto sia più banale: ci si innamora, si convive, si gioisce, ci si annoia, soprattutto ci si sopporta, si fa qualche viaggio, qualche figlio, qualche casa, ci si tradisce un po’ e ci si pente un po’. Poi il tempo è praticamente finito e ci si accompagna al gran finale. Sipario. Dopo uno dei due continua.

Storie di terapia #12: La gelosia della bella Caterina. Immagine - © Antonio Gravante - Fotolia.com
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Mentre stiamo ragionando su queste cose improvvisamente salta una seduta senza avvisare.

Credo di aver forzato troppo la mano, sia con le tentazioni che con la desacralizzazione dell’esperienza amorosa e di essere stato classificato tra gli infrequentabili. Invece non è così.

Il motivo dell’improvvisa assenza è il passaggio del padre all’ultima parte del percorso di cui stavamo ragionando, con l’improvvisa assunzione della qualifica di vedovo. La morte di una madre non è faccenda che possa eludersi in una terapia, soprattutto se avviene durante. Per più di un mese tutte le altre donne si fanno da parte e il palco (queste metafore a sfondo teatrale credo siano indotte dalla passione di Salvatore per quest’arte) è totalmente dedicato ai saluti alla grande madre. Ma non tutto il male vien per nuocere. Infatti la morte dei genitori, in particolare della madre, è vissuto da Salvatore, sin dalla prima terapia, come l’evento impensabile, intollerabile, al quale certamente non sarebbe sopravvissuto. Ecco che invece i giorni passano, lui non muore ed anzi si meraviglia di quanto sappia affrontare con forza e serenità la perdita.

Un altro effetto della morte della madre è l’ulteriore investimento affettivo su Rita, ora finalmente l’unica donna della sua vita. Si decide e chiede il trasferimento per la sede di Genova che gli viene accordato per dopo l’estate.

Raggiunta la decisione e la riduzione dell’ansia la terapia si conclude, anche perché Salvatore è molto impegnato nella sistemazione della nuova casa di Genova e viaggia continuamente, per completare gli aspetti logistici del trasferimento. Inaspettatamente, tre settimane dopo il nostro formale saluto, mi richiama urgentemente e chiede di vedermi appena possibile.

Penso che l’avvicinarsi della scadenza abbia riattivato l’ansia e, già per telefono, gli consiglio di tamponare con il Tavor tre volte al giorno, fino a che il trasferimento non è completato.

Insiste per vedermi comunque. Arriva con dieci minuti di anticipo sull’appuntamento fissato ed ha un’ aria insolita tra l’imbarazzato e il soddisfatto. Inizia chiedendo uno sforzo di memoria per ricordarmi di Silvia. Naturalmente ho il vuoto più assoluto, il che lo meraviglia, perché dice di avermene lungamente parlato già durante la prima terapia. Si tratta della regista del suo gruppo teatrale, sette anni meno di lui, laureata in Lettere, di origini foggiane, alta un metro e settantacinque, occhiali da miope e erre moscia da aristocratica. Silvia sta da sempre nell’empireo dei desideri proibiti, delle intoccabili troppo belle per interessarsi a lui.

Quando ha saputo dell’imminenza della sua partenza per Genova ha insistito per una cena a casa di lei, per fare un consuntivo di tutti gli anni dell’esperienza teatrale. Un testo in prosa da recitare insieme come saluto e regalo a tutti gli altri, un collage di brani delle diverse rappresentazioni messe in scena dalla compagnia. Salvatore dà la responsabilità al vino che ha portato lui, sta di fatto che il testo rimane incompiuto.

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La resistenza di Salvatore ha la meglio finchè parla con sfoggio di cultura e grande capacità introspettiva: per difendersi, in qualche modo, racconta a Silvia della psicoterapia e dei suoi temi irrisolti. Più parla, rivelando le proprie debolezze, più sente da parte di Silvia un’accettazione incondizionata. Questo fiacca grandemente le sue resistenze e lei comprende che deve farlo tacere e smettere di pensare per tornare invece a sentire, come non è più abituato a fare. Cosa fare di meglio per azzittire qualcuno che tappargli la bocca? Silvia gli chiude la bocca con la sua. Salvatore ha, per un attimo, l’immagine di Sant’Antonio nel deserto che si avventa su un piatto di maccheroni fumante e poi più nulla. Non è uomo da mezze misure e, una volta varcato il Rubicone, nulla più lo trattiene. Si abbandona senza resistere all’onda di tsunami passionale che prima temeva lo avrebbe annientato, scoprendo che se non si fa resistenza l’onda ti solleva e galleggi su di essa.

Storie di Terapia #10 - Le bugie di Filippo. Immagine: © Stephen Coburn - Fotolia.com
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Nel mio intimo gioisco del racconto di Salvatore ma resto impassibile, chetando le “ola” da stadio che si agitano in me. Gli chiedo però quale sia il motivo della sua richiesta tanto urgente di vedermi e lui mi risponde che è stupito, ed un po’ spaventato, della sua reazione: infatti si sente tranquillo e determinato a trasferirsi a Genova. Gli chiedo di fare delle ipotesi sul perché e ne dà immediatamente due: da un lato ha scoperto che di passione non si muore, dall’altro ha l’impressione di non lasciare del tutto Roma e che, dunque, sarebbe rimasto un po’ civis romanus. Mi confessa, con aria sorniona, di non aver usato alcuna precauzione anticoncezionale e di aver deciso di non dire niente a Rita: è una questione sua anzi, accenna, con un tono tra la promessa e la minaccia, che forse è la prima cosa esclusivamente sua.

Passeggiando tra le chiese di Roma per tornare a casa dallo studio mi chiedo se il padreterno abbia disposto per gli psicoterapeuti un particolare girone infernale,  o se non ci sarà nessun trattamento di favore e staremo insieme agli altri.

Figli di qualsiasi età giungono da noi convinti di aver avuto i migliori genitori del mondo e dopo qualche mese li odiano come causa di tutti i loro mali rileggendo al contrario la loro storia. Lavoratori obbedienti e scrupolosi diventano ribelli e oppositivi ravvisando dovunque un sopruso.

Mogli e mariti, fedeli e timorati di Dio e del giudizio degli altri, si perdono appresso a innamoramenti adolescenziali cercando di negare l’inesorabile trascorrere del tempo, negazione che li rende ridicoli. Equilibri faticosamente raggiunti saltano in poco tempo, le tensioni aumentano e prima o poi qualcuno dice al paziente “a me sembra che da quando vai da quello stai peggio”. E noi, evidentemente posseduti dal demonio, interpretiamo ciò come segno che stiamo facendo un buon lavoro. Inoltre creiamo continuamente altro lavoro per la categoria. E’ infatti probabile che il marito di Silvia, inizialmente felice della gravidanza, dopo il suo soggiorno di lavoro di due mesi in America si porrà qualche problema per la mancata somiglianza di quel ragazzino per cui sgobba dalla mattina alla sera in giro per il mondo.

 

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ANSIA GENERALIZZATA – DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITA’ – ANSIA – RAPPORTI INTERPERSONALI – IN TERAPIA – RAPPORTI SENTIMENTALI

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E12 Alex

In Treatment – Psicoterapia in TV

DODICESIMA PUNTATA

Alex

LEGGI L’INTRODUZIONE – LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT

 

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E12 Alex

Paul, Laura e Alex cominciano a costruire una relazione a tre che ben presto si scatenerà in gelosie rivalitarie tra i due maschi.

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La dodicesima puntata è un tutt’uno con la precedente. Paul, Laura e Alex cominciano a costruire una relazione a tre che ben presto si scatenerà in gelosie rivalitarie tra i due maschi. Alex arriva con lo stesso scatolone che si era intravisto il giorno precedente, quando aveva incontrato Laura fuori dalla porta della stanza di analisi. Scopriamo finalmente cosa contiene questo enorme scatolone: è una macchina per il caffè che Alex perfidamente regala a Paul, alludendo alle pessime brodaglie che beve Paul.

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il silenzio in terapia. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Ho parlato di allusione? Se lo chiede anche Paul, che lo dice ad Alex: alludi a qualcosa? No, non è un’allusione, è un’affermazione, risponde Alex con la sua splendente arroganza. Un’affermazione che riguarda non solo il caffè di Paul, ma tutto Paul come persona. Insomma Alex dà dell’insipido a Paul, mentre lui si propone come maschio vitale ed energico, pieno di forza.

Dopo questo primo e incredibile acting out Paul abbozza, in qualche modo è costretto ad accettare la macchina del caffè, poi riprende la sua posizione analitica e segna qualche punto. Spara delle buone interpretazioni che inchiodano Alex. Il quale racconta come abbia appena lasciato la moglie. Poi Alex parla dei suoi genitori, e di come il padre tradisse sua madre frequentemente. Sembra quindi che Paul stia per riprendere le redini del gioco psicoterapeutico, quando Alex improvvisamente si imbizzarrisce e riprende l’iniziativa, uscendo ancora una volta dal terreno del racconto e della riflessione.

Così trasforma la seduta in un unico, enorme acting out. Come fa? Parlando esclusivamente di Laura e del suo incontro fortuito del giorno prima. E di come egli sia poi andato con Laura, fino all’allusione finale, carnale e volgarissima: Alex parla di un happy ending e poi raccomanda a Paul di preparare un caffè con molta schiuma bianca, perché a Laura piace così.

Che dire? La deriva relazionale continua, con un setting sempre più privo di argini, in cui le passioni tracimano come ondate incontenibili. La relazione è ormai addirittura triangolare. Forse è un paragone forte, ma tutto questo ricorda il modello lacaniano del triangolo rivalitario tra fratelli, in cui i fratelli sono naturalmente Paul e Alex. E il polo desiderato e amato è Laura, al tempo stesso moglie, madre e amante desiderata (e conquistata da Alex). È impressionante vedere l’espressione di pura gelosia, rabbia e sofferenza che assume Paul nell’ultimo scorcio di seduta, quando Alex si ostina a parlare di Laura, lasciando ostinatamente da parte il terreno rassicurante delle solite storie di mamma e papà.

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Lacan introdusse in un articolo scritto nel 1938 per l’Encyclopedie francaise: “I complessi familiari nella formazione dell’individuo” (pubblicato in Italia nel 2005) il complesso di intrusione,  chiamandolo anche complesso fraterno. Lacan si pone nel punto di vista del fratello maggiore (Paul?), per cui gli intrusi sono i fratelli minori (Alex?) che alimentano sentimenti di gelosia.

Per Lacan, con l’arrivo del fratello minore il primogenito si trova coinvolto nella gelosia, ma è anche obbligato a confrontarsi con un’alternativa. Può rimanere nella dimensione narcisistica rifiutando l’altro e la realtà o accetta di riconoscere l’altro incontrandosi e scontrandosi con questa realtà non gradita. Riuscirà Paul nell’impresa? O sarà inghiottito dalla gelosia verso Alex?

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PSICOANALISI – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – IN TERAPIA

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BIBLIOGRAFIA:

The Bipolar Blues – Disturbo Bipolare

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Disturbo Bipolare: Twink, patron della Bipolar Organisation inglese si racconta per come ha vissuto il suo disturbo bipolare negli ultimi vent’anni. 

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Il Disturbo Bipolare è un disturbo dell’umore caratterizzato da gravi interferenze nel tono dell’umore che rende – per le persone che ne sono affette- estremamente faticosa le gestione della quotidianità e delle relazioni.

 Nel video che vi proponiamo, ‘Twink’, il primo fotografo della band “The Jam”, e patron della Bipolar Organisation inglese si racconta per come ha vissuto il suo disturbo bipolare negli ultimi vent’anni. Nel video anche Nicholas Craddock professore della Cardiff University School of Medicine racconta qual è il senso della ricerca dei fattori genetici per la comprensione e il trattamento del disturbo bipolare.

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Al momento è a capo del Bipolar Disorder Research Network, uno tra i più vasti programmi di ricerca su genetica e disturbo bipolare.

 


 

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DISTURBO BIPOLARE – DISTURBI DELL’UMORE 

 

APPROFONDIMENTO:

  • Bipolar UK
  • Disturbi bipolari. Si può fare diagnosi di tali disturbi quando sono presenti nella storia clinica della persona episodi maniacali o ipomaniacali o misti. Gli episodi maniacali consistono in periodi di almeno una settimana in cui il tono dell’umore è elevato, espansivo e irritabile, oltre a questo ci devono essere almeno altri tre sintomi specifici (ad es.: diminuito bisogno di sonno, maggiore loquacità, distraibilità, eccessivo coinvolgimento in attività ludiche potenzialmente dannose, ecc.). L’episodio ipomaniacale è simile ma ha durata inferiore (almeno quattro giorni). Infine l’episodio misto è caratterizzato sia da episodi maniacali che da episodi di depressione maggiore. (fonte: SCUOLA COGNITIVA DI FIRENZE)

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Riconoscere le emozioni di Francesco Aquilar- Recensione

 Di Cristian Grassilli

 

Recensione del libro:

 “Riconoscere le emozioni. Esercizi di consapevolezza e Psicoterapia Cognitiva “

di Francesco Aquilar

Ed. Franco Angeli (seconda edizione 2012)

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Riconoscere Le emozioni. Esercizi di Consapevolezza e Psicoterapia Cognitiva. Ed. Franco Angeli

RICONOSCERE LE EMOZIONI – E’ un viaggio a trecentosessanta gradi quello che il lettore fa quando si imbarca in questo libro: la bussola è  l’esperienza, la passione e il desiderio dell’autore di incuriosire e di accompagnare il viaggiatore verso una maggiore consapevolezza del proprio funzionamento, attraverso il riconoscimento di pensieri, di emozioni, di schemi disfunzionali.

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La seconda edizione di questo libro differisce dalla prima del 2000 in quanto è più ampia, contiene un nuovo incipit e una nuova canzone, dedica più spazio alle fondamenta teoriche, contiene nuovi esercizi di consapevolezza e in generale il testo ha subito un aggiornamento.

E’ un viaggio a trecentosessanta gradi quello che il lettore fa quando si imbarca in questo libro: la bussola è  l’esperienza, la passione e il desiderio dell’autore di incuriosire e di accompagnare il viaggiatore verso una maggiore consapevolezza del proprio funzionamento, attraverso il riconoscimento di pensieri, di emozioni, di schemi disfunzionali.

Tutto ciò grazie all’utilizzo di esercizi per  migliorare la qualità della vita e il proprio grado di introspezione e con la complicità di canzoni psicoterapeutiche, di immediata comprensione.

Già Albert Ellis, uno dei padri fondatori della psicoterapia cognitiva, aveva ideato canzoni razionali per aiutare le persone a non prendersi troppo sul serio – scrive Aquilar –  facendone uno strumento per prendere più facilmente le distanze da alcuni processi mentali disfunzionali”.

La Psicantria: introduzione di Francesco Guccini
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L’intento di questo libro è quello di essere un “Cavallo di Troia” che a “insaputa” del lettore/ascoltatore, può espugnare o mettere alla luce aspetti rigidi e disfunzionali del proprio sè, e a predisporlo, in caso di bisogno, a chiedere una psicoterapia personale, senza paura o timore di essere etichettato.

Il primo capitolo del volume è dedicato alle emozioni: l’autore parte da esercizi sulle emozioni  in generale, per addentrarsi successivamente  all’interno di ogni emozione, guidando il lettore a esplorare per esempio la rabbia o la tristezza più da vicino. Una cornice teorica e clinica delle emozioni è necessaria per introdurre il concetto di intelligenza emotiva, così da affrontare la dimensione sociale delle emozioni, declinata all’interno delle negoziazioni interpersonali.

L’occasione di crescita, di conoscenza, di divertimento e di nuova comprensione di sé che il libro rappresenta, emerge distintamente dal secondo capitolo: qui il primo stimolo è rappresentato dalle canzoni psicoterapeutiche che affrontano in maniera trasversale alcune problematiche psicologiche della vita.

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Il discorso – come scrive Aquilar – si struttura a più livelli, dal superficiale al profondo e si conclude con una canzone senza parole”, testimonianza dell’ineffabilità di alcuni complessi stati emotivi. Il secondo stimolo sono gli esercizi di consapevolezza proposti dopo l’ascolto di ogni canzone , che hanno il compito di guidare il lettore in un’esplorazione di alcune caratteristiche di sé.

Le canzoni sono 17 e il paragrafo dedicato ad ognuna di esse è così strutturato: c’è il testo della canzone, il significato esplicito (una riflessione che parte dal testo per collegarsi alla tematica sottostante alla canzone), la psicologia della musica (la spiegazione da parte dell’autore dei motivi alla base della scelta di criteri stilistici musicali, di arrangiamento, specifici per ogni canzone), il significato nascosto (la tematica della canzone viene collegata a riferimenti teorici in campo psicologico), e infine gli esercizi (delle vere e proprie “istruzioni per l’uso” rivolte all’autoconoscenza).

La cornice di riferimento  è quella della psicoterapia cognitiva: gli esercizi sono proposti con uno stile di scrittura “caldo”, analogico, che rispetta il lettore che si avvicina al proprio mondo soggettivo per la prima volta incoraggiandolo, guidandolo e rassicurandolo.

Le canzoni sono composte e scritte da Francesco Aquilar, registrate con strumenti digitali e analogici (nella fattispecie il banco Roland lascia la sua impronta). Analizzando le tracce del cd si parte dall’inglese delle prima due canzoni Who is the first incentrata sul tema della competizione, i cui  protagonisti sono i padri fondatori della psicoterapia cognitiva (Beck, Ellis…) e  Psycoterapy in cui vi è una rassegna del percorso di formazione psicoterapico dell’autore, a canzoni in italiano, di più facile ed immediata comprensione.

I temi delle restanti 15 canzoni spaziano dalla depressione di Nessuno me l’ha mai detto, ai disturbi alimentari descritti in Bella chiattona e si incentrano sull’individuo, sulle difficoltà a negoziare con gli altri i propri bisogni ne Lega il ciuco dove vuole il padrone (cantata in dialetto napoletano), sulle emozioni di tristezza, di paura fino ad arrivare a Talismano,  in cui un pianoforte ed un violino prendono la scena, senza parole.

Recensione: Curare Ridendo di Bernhard Trenkle.
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Questa metafora musicale ha l’intento di costruire un posto caro, evocativo nella mente e nell’anima ascoltatore, che gli consenta di meditare e di sedimentare il percorso di ascolto e di consapevolezza frutto degli ascolti precedenti. La nuova canzone di questa edizione è infine la diciassettesima traccia Svegliati e cambia il tuo mondo dedicata alle emozioni sociali di affiliazione.

Il terzo capitolo del libro si intitola “Psicoterapia cognitiva in azione” e prende in esame più specificatamente la struttura della psicoterapia cognitivo-sociale, il modello di autosservazione guidata e il piano di intervento psicoterapeutico, partendo dal corpo e arrivando alle funzioni di significato personale e metacognitive, concludendo con una rassegna delle organizzazioni psicologiche in psicoterapia.

Dopo le conclusioni vi è l’appendice: coerentemente con lo schema circolare del libro-disco, si forniscono così strumenti per un ulteriore grado di approfondimento di sé, come un viaggio verso a un’autopsicoterapia permanente, per una maggiore consapevolezza.

Nell’appendice è presente il protocollo dell’Intervista Semi-Strutturata di apertura (ISA), in due versioni, una per adulti e una per  ragazzi; ISA è così un modo di iniziare una conversazione con un paziente (nel caso si sia dei professionisti), o, come suggerisce l’autore, può essere l’inizio di un’ulteriore lettura di sé, per chi volesse iniziare a conoscersi ancora meglio.

L’energico, instancabile e pragmatico stile di scrittura di Aquilar fornisce così al lettore strumenti, tecniche, esercizi, incoraggiandolo nel proprio viaggio alla scoperta di sé, come a volergli dire “cantando” si può conoscere sé stessi, le proprie emozioni e raggiungere passo a passo una consapevolezza sempre più chiara: è l’anticamera del vivere serenamente e autenticamente.

Il libro è rivolto a un pubblico eterogeneo tra cui pazienti e famigliari, interessati alla psicoterapia e al cambiamento individuale, ma anche psicoterapeuti professionisti che potranno prendere spunto da alcune tecniche proposte nel libro e esplorare l’uso di canzoni all’interno di una terapia.

LEGGI: 

MUSICA – MUSICOTERAPIA – PSICOTERAPIA COGNITIVA

Tribolazioni 03 – Ci Penso Io – Scenari Mentali, Astrazioni e Ipotesi

I Test Migliorano l’ Apprendimento più dello Studio

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Apprendimento: Gli anziani, come i giovani studenti universitari, imparano di più durante l’esecuzione di un test  piuttosto che rileggendo o studiando.

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Secondo una nuova ricerca pubblicata dalla American Psychological Association gli anziani, proprio come i giovani studenti universitari, imparano di più durante l’esecuzione di un test  piuttosto che rileggendo o studiando.

L’uso dei test come un modo per apprendere nuove informazioni è stato studiato nei giovani studenti. Questa ricerca parte da qui e suggerisce che gli insegnanti, o anche i datori di lavoro, possono utilizzare i test per aumentare l’ apprendimento negli adulti di tutte le età.

Dalla Riserva Cognitiva alla Riserva Comportamentale. -Immagine:© EnryPix - Fotolia.com
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Il campione dello studio è costituito da 60 studenti universitari (età 18-25), 60 giovani adulti (età 18-25), e 60 adulti più anziani (età dai 55 ai 65 anni), che frequentano la scuola o che vivono nella zona di Houston. A tutti i soggetti dello studio è stato somministrato un test di intelligenza prima di iniziare l’esperimento.

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I partecipanti hanno avuto 15 minuti per studiare e leggere i materiali su quattro temi diversi: tsunami, armadilli, il cuore dell’uomo e buchi neri. Dopo aver completato alcuni problemi di matematica, che servivano come distrazione da quello che avevano letto, i partecipanti hanno completato un test a scelta multipla su due dei temi precedentemente studiati. Hanno poi ricevuto dei feedback sulle loro prestazioni da parte dei ricercatori. Al completamento del test test a scelta multipla, i partecipanti hanno ristudiato gli altri due argomenti che non erano stati inclusi nel test.

 Dopo aver completato un’altra serie di problemi di matematica, alcuni partecipanti hanno subito fatto il test finale, mentre altri l’hanno effettuato due giorni dopo. Questo test finale ha coperto tutti e quattro i temi ed è stato più difficile in quanto ha richiesto ai partecipanti di scrivere le risposte, piuttosto che scegliere tra scelte multiple.

I risultati mostrano che entrambi i gruppi hanno beneficiato del test iniziale più che dello studio supplementare. Completare il test e e avere un feedback sugli errori commessi è stato sufficiente a migliorare la memoria del materiale, come mostrato nella prova finale, la più difficile. I partecipanti che hanno effettuato il test finale, il giorno stesso del periodo di studio hanno ottenuto risultati migliori dei partecipanti che l’hanno effettuato due giorni dopo. Tuttavia, gli adulti più anziani, la cui memoria presumibilmente non è buona come quella dei giovani studenti, mostravano un miglioramento della memoria per il materiale precedentemente testato rispetto al materiale ristudiato, anche due giorni dopo.

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Gli adulti, per svariati motivi, per esempio sul lavoro, possono avere la necessità di acquisire nuove competenze o conoscenze anche oltre il periodo degli studi e questa ricerca suggerisce che il test può essere uno strumento utile ed efficace a raggiungere questo obiettivo.

 

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TERZA ETA’ – INTELLIGENZA – MEMORIA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Recensione: Il Bambino Indaco – Un Caso di Maternità Impossibile

 

Recensione: Il Bambino Indaco - un caso di maternità impossibile
Franzoso M. (2012). Il Bambino Indaco. Milano: Einaudi – Copertina del Libro

Recensione de Il Bambino Indaco. Vicenda drammatica di una gravidanza che la futura madre investe di un significato particolare e un bambino indaco.

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Il Bambino Indaco, romanzo del 2012 di Marco Franzoso, si apre col ritrovamento del cadavere di una donna, la moglie del protagonista; nella stanza accanto, la madre dell’uomo in grave stato di shock. Inizia in questo modo la ricostruzione di una vicenda drammatica che nasce da un appuntamento al buio, le prime parole di una storia d’amore e una gravidanza che la futura madre investe di un significato particolare: verrà alla luce un bambino indaco, una di quelle creature che secondo la dottrina New Age possiedono qualità speciali e soprannaturali venendo inviate sulla Terra per portare nuova purezza.

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Isabel perde progressivamente il contatto con la realtà, rifiuta di mangiare cibi solidi perché potrebbero danneggiare la perfetta armonia del feto, dimagrisce a vista d’occhio e fa scivolare il marito in un’angoscia che lo rende inerme, incapace di agire.

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Arriva il giorno del parto, arrivano i primi mesi del neonato e la missione delirante di Isabel non accenna a modificarsi, nemmeno quando il bambino le viene tolto perché denutrito; in un crescendo di alienazione dal reale la mente della donna produce il più surreale dei gesti, far ingoiare terra al figlio per purgarlo dai cibi che il padre aveva reintrodotto nella sua nutrizione. Fino all’epilogo disperato.

David Foster Wallace. - Immagine: Licenza Creative Commons CC-BY-SA-2.0. Fonte: Wikipedia Italia
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Il Bambino Indaco esplora un tema complesso utilizzando un linguaggio asciutto, rapido, capace di rendere il crescente smarrimento del protagonista e l’inarrestabile spirale di follia che avvolge la maternità di Isabel; Il Bambino Indaco diventa forse meno incisivo nella parte finale, quando Franzoso descrive la vita che nasce dalla morte, gli anni successivi alla tragedia durante i quali il bambino riesce a raggiungere una faticosa normalità e il padre a mettersi alle spalle ciò che lo aveva cambiato per sempre.

In questi passaggi la narrazione privilegia una sintesi che assottiglia il percorso evolutivo dei personaggi, finendo per racchiudere le molteplici sfumature dell’intreccio in poche pagine scarne la cui funzione di chiusura è troppo definita.

E’ altresì vero che l’intento del libro è raccontare le emozioni oscure, paradossali che si accompagnano al diventare madre, i conflitti di una donna che non può accogliere il cambiamento poiché tormentata da angosce irrisolte, l’impossibilità di tollerare l’imperfezione e l’imprevedibile.

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 Non è raro nell’esperienza di terapeuti incontrare aspettative simili, sebbene meno esasperate, che impediscono ai genitori dei nostri pazienti di accettare i limiti del vissuto umano, l’ordinarietà della natura che tutti noi, venendo al mondo, incarniamo.

Il Bambino Indaco è una lettura interessante perché descrive con l’immediatezza di una buona prosa il nucleo centrale della genitorialità e si serve di una parabola drammatica che accentua le conseguenze del caso particolare stimolando la riflessione sul significato generale: quanto è difficile non controllare ciò che noi stessi abbiamo creato, fronteggiare l’ansia di sapere che nessuno, nemmeno un figlio che abbiamo voluto con forza per arricchire il nostro progetto esistenziale, possiede un colore speciale che lo preserva dai complessi accadimenti dell’esperienza umana?

Il pensiero conclusivo del protagonista, che non ha più attese per il futuro e sente che lo scopo ultimo della vita è non avere più attese, appare come la resa incondizionata all’inutilità del controllo, della previsione. Il disincanto, e insieme l’ascetismo, dopo la follia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Memoria: I Post su Facebook vincono sui Libri!

 

Dall’Indimenticabile chiacchierata su Facebook:

‘Love Clean Sheets’…

 

Memoria: I post su Facebook vincono sui Libri!. - Immagine: © venimo

Lo studio determinò che i post di Facebook rimanevano nella memoria circa 1 anno e mezzo in più rispetto alle frasi dei libri!

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Un giorno, nel 2011, un utente di Facebook ha professato l’amore per le lenzuola pulite, terminando l’aggiornamento del suo stato con una faccina sorridente. Poco a poco questa persona realizzò come il post avrebbe  illuminato la nostra conoscenza sulla memoria.

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Gli scienziati hanno scoperto che, quando si tratta di richiamare le informazioni alla memoria le persone sono più propense a ricordare il contenuto di interazioni online su piattaforme di social media come Facebook che le frasi dei libri.

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I ricercatori scoprirono questo dato per caso. La psicologa cognitiva Laura Mickes dell’università della California, San Diego, e sue colleghe stavano lavorando sull’effetto delle emozioni sulla memoria, e decisero di utilizzare i posts di Facebook per indurre emozioni diverse. Ma scoprirono che gli aggiornamenti di status erano memorabili già di per sé. Questo rappresentò una sorpresa in quanto non era l’ipotesi iniziale della ricerca.

I ricercatori hanno allora raccolto 200 posts dagli accounts di assistenti di ricercatori universitari. Hanno poi selezionato 200 frasi di libri recentemente pubblicati. Gli scienziati ne hanno poi selezionato 100 tra posts di Facebook e frasi di libri e chiesto a 32 studenti universitari di studiarli e memorizzarli; assegnarono 16 studenti ad ogni gruppo. Poi fecero sedere i volontari davanti al pc e chiesero loro di definire se le frasi presentate una alla volta erano nuove per loro o già note.

Lo studio determinò che i post di Facebook rimanevano nella memoria circa 1 anno e mezzo in più rispetto alle frasi dei libri!

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Perché la gente ricorda più i posts di FB? 

Mickes suggerisce che la risposta si riduce a come vengono filtrate le informazioni. La memoria va di pari passo con il linguaggio naturale, il cervello umano si è evoluto per poter ricordare anche quelle informazioni che non derivano dalle interazioni sociali. “Prima della macchina da scrivere, prima di usare la penna, prima di tutto, abbiamo parlato l’un l’altro”.

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 Lo psicologo cognitivo Suparna Rajaram della Stony Brook University di NY, che non è stato coinvolto nello studio, afferma che questo dimostra per la prima volta che la mancanza di editing fa ricordare più facilmente un testo, oltre alla rilevanza personale. “Più semplice è la scrittura, più facile è far arrivare  il messaggio. I social media giovano di questo.”

Uno psicologo evoluzionista come R. Dunbar dell’Università di Oxford sostiene che i social media abbiano introdotto la fluidità della conversazione di tutti i giorni in un testo scritto, in cui le persone sono notoriamente più aperte: spesso questo risulta pericoloso. Un sacco di persone non riescono a scrollarsi di dosso i commenti di Twitter e Facebook” dice Dunbar. Siete d’accordo?

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BIBLIOGRAFIA:

 

Felici o Tristi? Ce Lo Dice la Ipocretina

FLASH NEWS

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Per la prima volta negli esseri umani, uno studio della UCLA ha misurato la ipocretina che aumenta quando siamo felici e diminuisce quando siamo tristi.

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I cambiamenti neurochimici che sottendono le emozioni umane e il comportamento sociale sono in gran parte sconosciuti. Ora, però, per la prima volta negli esseri umani, gli scienziati della UCLA hanno misurato il rilascio di un peptide specifico, un neurotrasmettitore chiamato ipocretina, che aumenta notevolmente quando siamo felici e diminuisce quando siamo tristi.

La scoperta suggerisce che l’incremento di della ipocretina potrebbe elevare l’umore e la vigilanza negli esseri umani, gettando così le basi per possibili futuri trattamenti di disturbi psichiatrici come la depressione.

Questo studio ha anche misurato per la prima volta il rilascio di un altro peptide, l’MCH  (melanin-concentrating hormone) che i ricercatori ipotizzano possa avere un ruolo fondamentale nel sonno perché il suo rilascio è minimo nello stato di veglia, ma che aumenta notevolmente durante il sonno.

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Nel 2000, il team di Jerome Siegel, professore di psichiatria e direttore del Center for Sleep Research all’ UCLA’s Semel Institute for Neuroscience and Human Behavior, ha pubblicato i risultati di uno studio che mostra come chi soffre di narcolessia, un disturbo neurologico caratterizzato da periodi incontrollabili di sonno profondo, aveva nel cervello il 95% in meno di cellule nervose per l’ipocretina  rispetto a chi non aveva il disturbo. Lo studio è stato il primo a dimostrare una possibile causa biologica della narcolessia.

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Dal momento che la depressione è fortemente associata alla narcolessia, Siegel ha cominciato a studiare l’ ipocretina e il suo possibile collegamento con la depressione.

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La depressione è la principale causa di disabilità psichiatrica negli Stati Uniti, ha osservato Siegel. Più del 6 % della popolazione ne è affetto ogni anno. Tuttavia, l’uso di antidepressivi, quali gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), non si basa su prove di carenza o eccesso di qualsiasi neurotrasmettitore. Diversi studi recenti hanno messo in dubbio che gli SSRI, così come altri farmaci contro la depressione, siano più efficaci del placebo.

In questo studio, i ricercatori hanno raccolto i dati su ipocretina e MCH direttamente dal cervello di otto pazienti che venivano trattati al Ronald Reagan UCLA Medical Center per l’epilessia intrattabile e ai quali sono stati impiantati elettrodi di profondità intracranica. I pazienti sono stati monitorati mentre guardavano la televisione, mangiavano o erano impegnati in interazioni sociali, come parlare con i medici, il personale infermieristico o i familiari; sono stati anche indotti momenti di transizione sonno-veglia. Ogni 15 minuti veniva misurato il rilascio di ipoceretina e MCH.

 I soggetti hanno valutato i loro stati d’animo e atteggiamenti su un questionario che è stato somministrato ogni ora durante la veglia.

I ricercatori hanno scoperto che i livelli di ipocretina non erano collegati a un generico stato di attivazione, ma che ranno massimi in coincidenza di emozioni positive, della rabbia, durante le interazioni sociali e al risveglio. Al contrario, i livelli di MCH erano massimi durante il sonno e minimi durante le interazioni sociali.

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“Questi risultati suggeriscono una specificità emotiva, precedentemente sconosciuta, nell’attivazione di stati di veglia e di sonno negli esseri umani”, ha detto Siegel, “le anomalie nel pattern di attivazione di questi sistemi possono contribuire ad un certo numero di disturbi psichiatrici. L’ipocretina potrà essere usata per elevare sia l’umore che la vigilanza negli esseri umani”.

Gli antagonisti dell’ ipocretina, da utilizzare come sonniferi, sono ora in fase di sviluppo da parte di alcune aziende farmaceutiche.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Disturbi Specifici dell’Apprendimento – Intervista ad Elena Simonetta

Di Barbara Stefania Comerci

Andrea Bassanini

Disturbi Specifici dell'Apprendimento - Intervista ad Elena Simonetta. -Immagine:© elisabetta figus - Fotolia.com

La dott.ssa Simonetta promuove un nuovo modello teorico sui DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) che sembra far emergere interessanti spunti di riflessione sul piano diagnostico, riabilitativo e sulla reale possibilità di prevenzione di tali disturbi. Abbiamo provato ad approfondire, attraverso un’intervista, tale modello.

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Elena Simonetta (psicologa psicoterapeuta, psicomotricista neurofunzionale, psicotraumatologa, EMDR consultant) studia, cura e si occupa da molti anni delle problematiche relative ai disturbi dell’apprendimento. Autrice di numerosi volumi che trattano questa tematica, la dott.ssa Simonetta promuove un nuovo modello teorico sui DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) che sembra far emergere interessanti spunti di riflessione sul piano diagnostico, riabilitativo e sulla reale possibilità di prevenzione di tali disturbi. Grazie alla disponibilità della dott.ssa Simonetta abbiamo provato ad approfondire, attraverso un’intervista, tale modello.

Dott.ssa Simonetta, può spiegare brevemente ai lettori di State of Mind la sua teoria sui DSA?

Il modello a cui faccio riferimento nel mio lavoro con i bambini con DSA è un modello multifattoriale funzionale, che attinge per quanto riguarda gli aspetti affettivi, dalla teoria cognitivo-evoluzionista, dalla teoria dell’attaccamentodi Bolwby e dal pensiero psicanalitico di Winnicot.

Aumentare lo spazio tra le lettere aiuta i bambini dislessici. - Immagine: © Jacek Chabraszewski - Fotolia.com
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Questa teoria attribuisce a molti fattori, oltre che a una predisposizione genetica, l’origine dei disturbi dell’apprendimento; in particolare l’inadeguato o carente funzionamento del Sistema Nervoso Vestibolare diventa l’elemento responsabile del disfunzionamento delle aree corticali preposte alla realizzazione della transcodifica per la lettura e la scrittura.

Gli aspetti funzionali carenti che si individuano nelle persone con dislessia, disortografia, disgrafia e una parte di discalcolia, riguardano infatti difficoltà attenzionali, deficit a livello di decodifica fonetico-fonologica, mancata affermazione di una prevalenza motoria sottocorticale stabile e coerente, problematiche a livello di orientamento spaziale, di equilibrio posturale e carente organizzazione della motricità visiva.

In generale, il modello individua due tipi di DSA: uno legato ad aspetti funzionali, parliamo quindi di problemi di codifica e decodifica dei suoni in lettera e viceversa, cioè quelli che riguardano l’aspetto della transcodifica del codice sonoro; un secondo tipo di natura cognitiva, legato a difficoltà di percezione, di rappresentazione, astrazione, memorizzazione, logica.

Queste diverse tipologie di DSA non dovrebbero essere confuse come spesso avviene.  I disturbi specifici dell’apprendimento noti, cioè la dislessia, la disgrafia, la disortografia e gli aspetti spaziali della discalcolia appartengono al primo tipo di disturbi funzionali, mentre la meno nota, la disgnosia, individua le carenze di tipo cognitivo.  

La dislessia è un ostacolo che infastidisce l’apprendimento, ma non lo disturba al punto da impedirlo, come succede invece con la disgnosia. Prova di ciò sono l’infinità di persone affette da dislessia che si laureano in discipline anche impegnative in cui ci vuole uno studio rigoroso, mentre i soggetti che presentano una disgnosia, non solo non riescono a laurearsi, ma spesso vanno a far parte delle persone che abbandonano prematuramente gli studi e la scuola.

Spesso vengono in consultazione, per una diagnosi di DSA, soggetti che non hanno problemi nell’ambito delle modalità di transcodifica dei codici, ma che non comprendono nulla o molto poco di ciò che ascoltano a livello verbale. Allora ci si chiede: come può avere un disturbo di transcodifica un soggetto che legge in modo adeguato, ma che non comprende ciò che sente oralmente? Inoltre, i soggetti dislessici con difficoltà di transcodifica e di codifica sonora spesso non hanno problemi di apprendimento, ma solo una lettura lenta e poco fluida.

Parliamo proprio della disgnosia. Nel suo ultimo libro “Trauma e disturbi di apprendimento. La disgnosia quale adattamento al trauma” (2012) sembra avanzare l’ ipotesi dell’esistenza di un “disturbo generale dell’apprendere”. Ci può spiegare meglio in che cosa consiste?

Il termine disgnosia indica una difficoltà a conoscere o apprendere che può derivare da un’incompleta integrazione psiche-soma collegata a ritardo psicomotorio, ritardo delle funzioni psicolinguistiche, ritardo nella evoluzione della rappresentazione mentale, elemento che collega il linguaggio allo sviluppo psicomotorio; inoltre sono spesso carenti anche le modalità logiche e di astrazione.

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Altri aspetti che caratterizzano la difficoltà ad apprendere dei soggetti disgnosici sono la difficoltà di attenzione e concentrazione, labilità mnestica, scarsa autonomia, incoerenza e frammentazione nei processi di pensiero, comorbilità con disturbi somatici e della sfera emotivo relazionale. Dalle narrative dei genitori e degli insegnanti la sintomatologia che emerge è la difficoltà nell’apprendere i contenuti delle differenti materie scolastiche, parlano spesso di una sorta di atteggiamento ipoattivo nei confronti di stimoli esterni che viene spesso identificato dagli adulti come “pigrizia”.

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La disgnosia è proprio un esito, in ambito cognitivo, di quei traumi che vengono riconosciuti come traumi dell’attaccamentoe quindi inducono uno sviluppo traumatico infantile, che condiziona pesantemente l’evoluzione del soggetto direttamente a livello del comprendere e dell’apprendere.

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Quando la difficoltà a conoscere deriva da un carente sviluppo delle funzioni psicomotorie/rappresentative e psicolinguistiche, il punteggio del Quoziente Intellettivo è relativamente basso ma nella norma, oppure c’è una differenza significativa tra “verbale” e “performance”.

Inoltre il termine disgnosia vuole includere anche le difficoltà a conoscere di quei soggetti che hanno un buon punteggio nel Q.I. ma che, nonostante questo, non riescono ad apprendere, in quanto le funzioni cognitive sono inibite da esiti traumatici e dagli effetti ripetitivi legati alla mancata elaborazione di emozioni veementi o disfunzionali.

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Parlo di trauma cosiddetto a t piccolo cumulativo o a T grande. I traumi come la mancata affermazione della prevalenza motoria naturale, portano verso disturbi più funzionali come la dislessia. Invece traumi più profondi riguardanti l’identità, ma soprattutto l’attaccamento, portano verso la disgnosia. 

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In una ricerca del 2011, in attesa di publicazione, abbiamo evidenziato come l’attaccamento insicuro o disorganizzato sia l’elemento che rende un soggetto dislessico anche un soggetto disgnosico.

Che ruolo ha, nel suo modello, la storia di attaccamento di questi bambini?

Il possibile collegamento tra i traumi dell’attaccamento e i DSA, la disgnosia in particolare, va ricercato a livello di presenza precoce nel sangue di eccessive quantità di neurotrasmettitori quali l’adrenalina e la noradrenalina, presenza dovuta alla secrezione peritraumatica di queste sostanze, che quando il bambino è molto piccolo possono incidere negativamente sullo sviluppo delle altre aree del cervello deputate alle funzioni di base e a quelle superiori. Le funzioni di base sono collegate all’esperienza motoria del soggetto, parliamo di sensazione, percezione, rappresentazione mentale, attenzione; per le funzioni superiori ci riferiamo alle capacità di astrazione, simbolizzazione, memorizzazione e logica, che necessitano del supporto linguistico.

Infatti, gli esiti di esperienze traumatiche e emozioni violente come paura e ansia in tenera età, diciamo prima dei 6 anni, se collegate a fenomeni di abbandono precoce o di confusività eccessiva, si manifestano proprio a seguito della secrezione dei relativi neurotrasmettitori nel cervello. Gli effetti di una eccessiva presenza di neurotrasmettitori possono coinvolgere anche aree cerebrali quali il giro del cingolo, il fascio arcuato, l’area di Wernike, oltre alle aree preposte alla codifica e decodifica fonetica, organizzando i circuiti mnestici automatici base della memoria implicita in modo difettoso, in modo inefficace. Basta prendere gli ultimi libri di Schore e della Hart nei quali hanno accertato che in un bambino eccessive dosi di adrenalina e noradrenalina portano ad un disfunzionamento  del cervello.

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Liotti e Farina inoltre definiscono come strategie controllanti gli esiti traumatici a livello di comportamento dei soggetti in età infantile, per adattarsi e resistere agli effetti dolorosi di un attaccamento insicuro o disorganizzato. Altri autori come Fonagy, Siegel, Pat Ogden, Shapiro dimostrano come gli esiti dei traumi possono cambiare la vita delle persone; nella teoria multifattoriale dei DSA la disgnosia viene indicata proprio quale strategia controllante cognitiva, tramite la quale il soggetto riporta su di sé quelle cure genitoriali e quell’attenzione che gli sono mancati precocemente a livello relazionale. 

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Che cosa aggiunge la sua teoria sui DSA alle conoscenze attualmente presenti nella letteratura scientifica? 

Di sicuro si integrano alcuni aspetti nella diagnosi.  Anche stamattina ho visto una valutazione per DSA che comprendeva la WISC, prove MT, correttezza e velocità e basta. Io aggiungo un’esplorazione su altri aspetti; avere degli indicatori come quelli studiati sul piano cognitivo è utilissimo, ma è come fare una fotografia del bambino che dopo qualche mese può già essere cambiata. Questi altri indicatori che rientrano nella multifattorialità dei DSA danno un quadro che non cambia neanche dopo un anno se non si fa un intervento specifico.

Ci sono degli elementi, come la mancata affermazione della prevalenza motoria naturale, che danno informazioni importanti. La ricerca svolta insieme all’ospedale San Gerardo di Monza e l’ospedale Don Gnocchi di Milano ci ha fatto vedere come una percentuale altissima, si parla del 98% dei soggetti con DSA, non hanno affermato la prevalenza motoria naturale, cioè usano per scrivere la mano e l’occhio non geneticamente prevalenti. Allora da qui l’ipotesi che se una persona nasce con un livello tonico muscolare più forte da una parte rispetto all’altra e l’ambiente esterno contrasta con questo dato genetico facendo utilizzare al soggetto la parte meno forte, meno capace, ecco che compare una quantità enorme di soggetti con disturbo specifico dell’apprendimento. Tutto ciò ovviamente non riguarda la disgnosia, ma la dislessia, la disortografia e la disgrafia.

Cosa si può fare invece sul piano preventivo e riabilitativo con questo dato?   

E’ utile a livello preventivo individuare, nei bambini che frequentano la scuola materna, l’emisoma prevalente, cioè quale dovrebbe essere l’occhio e la mano con i quali farlo accedere al mondo del grafismo, della scrittura. Inoltre, grazie ad un lavoro di Carlo Aleci, medico oculista presso l’Ospedale Gradenigo di Torino, sulla “visione” del soggetto dislessico, si teorizza che il soggetto tende a perdere l’orizzontalità della spaziatura della scrittura per vedere alcune lettere totalmente in verticale e che scompaiono quindi dalla vista dell’occhio.

Allora, c’è una grossa componente di motricità visiva e percezione visiva nella dislessia, che la rende più come un disturbo di matrice motoria oculare che non di matrice linguistica, anche se è vero che al disfunzionamento della motricità oculare si accompagna  una dispercezione di tipo fonetico/fonologico; ma, i muscoli tonici che risultano scoordinare la motricità oculare trovano corrispondenza in una disorganizzazione tonica dei muscoli che si trovano all’interno dell’orecchio che organizzano l’attività del sistema vestibolare e quindi il filtro fonetico.  

Un inquadramento tale dei DSA permette di ipotizzare percorsi riabilitativi specifici per ogni problematica, quella relativa agli aspetti sonori vestibolari, quella relativa agli aspetti di motricità visiva, ecc. In sostanza si può preparare un reale programma di prevenzione prima dell’ingresso nella scuola primaria, si può intervenire con percorsi che favoriscano il funzionamento del sistema vestibolare, e l’arricchimento percettivo…prevenzione che fino adesso non è stata fatta perché si parla solo dell’aspetto genetico.

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Parlando invece del percorso di cura e riabilitazione esso diventa particolare per i soggetti con DSA perché è diversificato a seconda che si tratti di un disturbo di tipo funzionale o di tipo cognitivo. La metodologia che si può utilizzare è la metodologia psicocinetica del TEP-RED (Trattamento Elettivo Psicocinetico Riabilitativo Efficace DSA), che consente di ridurre gli effetti del disfunzionamento vestibolare e consente al soggetto di compensare o eliminare le difficoltà di codifica e decodifica fonetica.

I soggetti con disgnosia hanno bisogno invece di una psicoterapia detraumatizzante, come l’EMDR o la Sensorimotor Therapy, per affrontare in seguito un percorso di riabilitazione cognitiva tramite il TEP-RED nei suoi aspetti cognitivi oppure la metodologia di Feurstein per il miglioramento del potenziale cognitivo. 

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In generale, quindi, quali sono le implicazioni sul piano clinico?

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Per prima cosa, la possibilità di realizzare delle diagnosi precise e corrette sul rapporto causa-effetto rispetto alla molteplicità dei fattori coinvolti. Il clinico così può differenziare un disturbo funzionale, collegato ad aspetti di transcodifica, nella lettura, scrittura e calcolo, da un disturbo di matrice prevalentemente cognitiva; inoltre può riconoscere quando questi disturbi si presentano isolatamente, oppure associati e in questo caso determinando la forma più grave del problema.

Secondo, si possono orientare i soggetti a percorsi riabilitativi mirati al recupero delle differenti specificità che concorrono nel determinare lo specifico disturbo di apprendimento.

Il terzo contributo è rappresentato dalla possibilità di organizzare una reale prevenzione nella scuola dell’infanzia e nei primi anni di quella primaria di cui abbiamo già parlato.

Ovviamente anche per i genitori dei soggetti con disgnosia è necessario affrontare un percorso psicoterapeutico per riconoscere gli effetti e ridurre quelle che sono le implicazioni transgenerazionali relative alla mancata risoluzione di eventi traumatici o stressanti che hanno accompagnato la loro genitorialità e le modalità di attaccamento con i figli. 

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Cosa può fare la scuola nella cornice del modello di multifattorialità dei DSA?

La distinzione dei DSA funzionali e cognitivi consente di capire quali soggetti possono beneficiare solamente di piccoli accorgimenti sui tempi di esecuzione e accedere ad un programma preciso e regolare rispetto alla classe, e quali sono i soggetti che hanno un disturbo cognitivo per i quali è necessario che la scuola pensi e provveda a percorsi cognitivi individualizzati ma soprattutto a lavorare sul recupero delle funzioni e contenuti carenti…e questa funzione di recupero oggi non è offerta dalla scuola. Il bambino disgnosico arriva ad esempio in quinta elementare… magari è anche dislessico e quant’altro, ma ha delle lacune nell’apprendimento del programma di prima, di seconda, di terza e di quarta.

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Come fa a svolgere il programma di quinta? Dove ha le basi per costruire gli apprendimenti precedenti? Allora, per un soggetto di questo tipo, la scuola può essere aiutata a riflettere su programmi di recupero dei contenuti persi. A volte il programma ridotto individualizzato non è sufficiente perché i soggetti disgnosici non hanno delle conoscenze perché bloccate da lacune pregresse, cioè non hanno gli strumenti per costruire l’apprendimento. Questi bambini spesso hanno la diagnosi di dislessia ma il motivo per cui non apprendono non è la dislessia ma la disgnosia.

Vi sono i casi in cui i bambini emergono per la dislessia; in alcuni casi non emergono i bambini dislessici perché hanno solo la dislessia, e a volte si vedono i disgnosici che non avendo la diagnosi di dislessia, vengono inquadrati nei disturbi aspecifici, o addirittura non vengono inquadrati, ma hanno problemi di apprendimento più gravi dei disturbi specifici di apprendimento. E tutte queste persone di cui stiamo parlando hanno, in genere, un Quoziente Intellettivo nella norma, a volte basso , ma nella norma.

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BIBLIOGRAFIA:

Il Silenzio In Psicoterapia: Segnale di che cosa?

 

il silenzio in terapia. - Immagine: © olly - Fotolia.comDal punto di vista cognitivo il silenzio può essere proprio il segnale che finalmente il paziente non riesce più a usare come risposta i suoi automatismi e le sue convinzioni. In questo vuoto il paziente sta sperimentando una frustrazione che forse non è così terribile, sta sperimentando che forse non è sempre necessario sapere come andrà a finire e trovare una risposta.

Quando Luisa mi racconta degli abusi e delle violenze che subiva da ragazzina erano passati già diversi mesi dall’inizio della psicoterapia. Stavamo ripercorrendo alcune tappe significative della sua infanzia e io, sprovvista di registratore, ero impegnata a scrivere tutto quello che mi raccontava.

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A un certo punto la sento abbassare il tono della voce e sussurrare l’inizio di quegli abusi. Istantaneamente la mia mano smette di scrivere. Con un filo di voce inizia a raccontare con particolari raccapriccianti le violenze subite. Le lacrime le contornano tutto il viso. Non mi guarda.

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Io vengo rapita dal racconto e man mano che prosegue sento le mie guance accaldate e le mani sudate. Penso per un istante che sia meglio che Luisa stia parlando con la testa bassa, così da non vedere la mia evidentissima attivazione emotiva. Lei va avanti a raccontare senza fermarsi. Quando mi calmo inizio a provare una profondissima tristezza nei suoi confronti, sento un nodo allo stomaco. Quando Luisa finisce di parlare si asciuga le lacrime e riporta lo sguardo su di me. Rimango in silenzio, rimaniamo insieme in silenzio forse per un minuto o per un tempo che a me è sembrato lunghissimo. Mentre sono lì con lei e il nodo allo stomaco stringe sempre più forte, affiora alla mia mente quella domanda che, da giovane psicoterapeuta, spesso mi mette in difficoltà: “E adesso che cosa le dico?”.

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L’importanza del silenzio in psicoterapia, anche se storicamente associato alle correnti di stampo psicoanalitico, è riconosciuta oramai dai diversi orientamenti teorici e non vi è clinico che non concordi sul fatto che a volte il silenzio in seduta può essere terapeutico tanto quanto lo sono le parole. Esistono diversi tipi di silenzi, da quello empatico a quello in cui il paziente sta mettendo in discussione le sue credenze e dobbiamo lasciarlo sforzare da solo, senza i nostri suggerimenti. La fretta di riempire quello spazio riflette spesso, infatti, la nostra incapacità di tenere quel silenzio.

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Dal punto di vista cognitivo il silenzio può essere proprio il segnale che finalmente il paziente non riesce più a usare come risposta i suoi automatismi e le sue convinzioni. In questo vuoto il paziente sta sperimentando una frustrazione che forse non è così terribile, sta sperimentando che forse non è sempre necessario sapere come andrà a finire e trovare una risposta.

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Solo con il tempo e prestandovi molta attenzione ho iniziato a usare il silenzio consapevolmente e non semplicemente a reagirvi quando mi ci capitavo dentro. Da psicoterapeuta alle prime armi la domanda “che cosa faccio adesso?” mi segue, a volte ripetendosi anche dopo che il paziente se ne è andato, spesso invece andando via da sola così come è arrivata.

Quel giorno a Luisa non dissi niente, nonostante la mia testa cercasse freneticamente una risposta. Non avevo più scritto neanche una parola. Decisi di chiudere la seduta così, in silenzio. E infatti, fu lei a parlare per prima, ringraziandomi di essersi sentita capita. Uscendo, mi disse che sarebbe andata a prendere una boccata d’aria, doveva sbloccare quella stretta allo stomaco.

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BIBLIOGRAFIA:

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Il Colloquio Psicologico:

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IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

Colloquio Psicologico- Cosa Fare nel Primo Colloquio. -Immagine: © Reicher - Fotolia.comDEFINIZIONE DELLA PROGNOSI

“ Ogni guerriero della luce ha avuto paura di affrontare un combattimento.

Ogni guerriero della luce ha tradito e mentito in passato.

Ogni guerriero della luce ha imboccato un cammino che non era il suo.

[…]

Perciò è un guerriero della luce: perché ha passato queste esperienze e non ha perduto la speranza di essere migliore.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.41]

Un altro aspetto importante che lo psicologo deve prendere in considerazione riguarda la prognosi, e cioè la previsione, in base ai dati raccolti nel primo colloquio, sul decorso e sull’esito del tentativo di risoluzione del problema. Oltre a definire il problema e il modo in cui affrontarlo lo psicologo deve raccogliere dati, anche dalla sua intuizione e dalla sua esperienza, sulla speranza di ottenere dei risultati attraverso specifici strumenti.

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Questa valutazione deve fare i conti innanzitutto con l’efficacia e l’efficienza degli strumenti offerti e con la speranza e il senso di inutilità del cliente.Per efficacia di uno strumento si intende quanto questo è in grado di condurre i clienti al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Per efficienza, invece, si intende quanto il servizio che lo psicologo, in base alle conoscenze e alle tecniche che possiede, può fornire in relazione al costo più basso possibile per il cliente.

Il Colloquio Psicologico - Il Colloquio di Motivazione. - Immagine: © Ivelin Radkov Fotolia.com
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Il senso di speranza e di inutilità del cliente deve essere attentamente soppesato poiché esso rappresenta anche il livello di motivazione con il quale il soggetto affronta la terapia e quest’ultimo costituisce un fattore di primo piano per il successo finale. Se il cliente ha fiducia, è speranzoso e motivato tutto risulta più semplice e la prognosi nettamente positiva rispetto al caso contrario, e questo indipendentemente dal problema.

Valutare la prognosi, in questo senso, permette al psicologo di: avere un idea di quali siano obiettivi realisticamente raggiungibili con una spesa di tempo e di impegno accettabili (il che influenza il processo di negoziazione degli obiettivi stessi), capire su quali livelli intervenire (se solo sui problemi o anche sulla motivazione del cliente), capire quali reazioni può aspettarsi dal cliente e prepararsi ad affrontarle nel modo corretto.

 

STIPULAZIONE DI UN CONTRATTO

 

Il contratto è un accordo di lavoro tra il cliente e l’operatore riguardante quello che si vuole ottenere e come ottenerlo” [Fine e Glasser, 1996]. Questo rappresenta il passaggio riassuntivo di tutte le definizioni, le negoziazioni e le valutazioni precedenti. Attraverso un accordo, prettamente verbale, psicologo e paziente definiscono un impegno reciproco a muoversi insieme nell’affrontare specifici problemi verso il raggiungimento di specifici obiettivi attraverso l’uso di specifici strumenti.

Questi ultimi devono essere esposti al cliente (per mantenere e mostrare la propria onestà), prima della stipulazione del contratto e, se non vi è verso che questi li accetti, è necessario presentare alternative ed iniziare un ulteriore negoziazione. Per fare in modo che gli obiettivi che si vogliono perseguire e gli strumenti che si vogliono utilizzare siano compresi  da tutte le persone coinvolte, è necessario che il contratto sia formulato in termini chiari e con un linguaggio facilmente comprensibile [Croxton, 1988; Seabury, 1976].

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Normalmente la strutturazione di un contratto si realizza dopo la definizione degli obiettivi e alla fine del colloquio. Spesso, però, situazioni particolarmente complesse rendono difficile poter stabilire un contratto in un’unica sessione. Così, mentre è importante che al termine del primo colloquio il cliente abbandoni la sessione con un’idea piuttosto chiara degli obiettivi, la vera strutturazione del contratto può richiedere più di una sessione.

Il contratto è anche un momento per fare il punto della situazione, per esprimere in modo chiaro tutto ciò che è risultato dal colloquio, per ripercorrere, assieme al cliente, la definizione data al problema e agli obiettivi e per affrontare eventuali dubbi e ripensamenti dell’ultimo momento. è importante essere più chiari possibile perché le condizioni del contratto e di come esso può essere rotto, appartengano al cliente.Questo momento ha un importanza molto elevata poiché su di esso si baserà ogni intervento terapeutico successivo.

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Un alternativa al contratto è la stipulazione di un precontratto. Questo viene usato con clienti che non si mostrano decisi a voler proseguire la terapia o il counseling. In tal caso la proposta potrebbe essere quella di raggiungere un accordo tra psicologo e paziente attraverso il quale quest’ultimo si impegna a collaborare per un numero limitato di incontri, da tre a cinque, dopo i quali potrà decidere se continuare o meno.

Anche questa versione dell’accordo finale tra professionista e cliente mantiene tutte le caratteristiche del contratto normale con l’unica eccezione per il fatto di essere limitato nel tempo, un limite ben definito. Per questo motivo al suo interno contiene sempre il sunto di ciò che si è ottenuto nel primo colloquio, una definizione del problema, la definizione degli obiettivi e degli strumenti e, anche in questo caso, deve essere esplicitamente comprensibile al cliente.

Il precontratto ha principalmente due vantaggi: concede al cliente l’opportunità di avere un opinione più chiara degli strumenti utilizzati dal terapeuta e conferisce al psicologo la possibilità di guadagnare la sua fiducia e valutare le sue reali possibilità di cambiamento [Fine e Glasser, 1996].

L’uso del precontratto è particolarmente utile quando il psicologo ha a che fare con clienti involontari, clienti che sono stati inviati dallo psicologo contro la loro volontà, in base ad un altro contratto stipulato con un altro ente o istituzione, soprattutto se sono poco collaborativi. In tal caso un precontratto può essere un modo per il cliente di risolvere in fretta lo scomodo impegno e per il professionista una via per riuscire ad ottenere una collaborazione comunicando che se questa non ci fosse l’accordo verrebbe rotto.

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Un ultima caratteristica che è bene non dimenticare, riguarda la possibilità per il cliente di scegliere e definire assieme al psicologo le caratteristiche del contratto in modo da costruire insieme il percorso verso gli obiettivi accordati. Un contratto non imposto ma costruito e proprio del cliente, incentiva la sua motivazione e il suo impegno a realizzarlo.

PRECISAZIONI SUL COLLOQUIO SUCCESSIVO

Una volta che tutte queste informazioni sono state raccolte non rimane altro che stabilire assieme al cliente tutto ciò che riguarda il colloquio successivo mantenendosi più chiari ed espliciti possibile. È necessario definire chi deve essere presente, fissare la data e l’ora del prossimo incontro, chiarire cosa dovranno affrontare, a quale scopo e con quali strumenti.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Happy Family – Gabriele Salvatores (2010) – Recensione

 

Happy Family

Un film di Gabriele Salvatores (2010)

RECENSIONE

 

Happy-Family - Gabriele Salvatores (2010) - Recensione
Locandina – Happy-Family – Gabriele Salvatores (2010)

Happy Family: Poesia Leggera vs. Ansia del Cambiamento.

Andiamo a fare un giro in città?” propone lei, “e se piove?” suggerisce la timidezza di lui, “ci bagniamo“, “però poi potrebbe venire caldo…“, “ci asciughiamo“. Addio ansia, benvenuta felicità.

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Una piacevole scoperta, questo film di Salvatores del 2010. Una commedia italiana semplice ma anche finemente sofisticata, che riunisce a cena una famiglia di personaggi creati da un autore in cerca di ispirazione. Salvatores gioca, come in “Nirvana”, con la commistione fra mezzi comunicativi diversi, figure narrative che escono da uno schermo facendosi reali, capaci di autodeterminarsi, e ne ricava una storia delicata, a tratti sussurrata, che non manca però di ricercare il cambiamento e coglierlo con forza.

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La cena è la presentazione ufficiale tra le famiglie di due sedicenni che hanno intenzione di sposarsi, e il confronto si sviluppa tra stili personali apparentemente in contrasto e ugualmente tormentati, atteggiamenti bizzarri e tentativi di comunicare unendo il sarcasmo e la prudenza, l’accelerazione e la conservazione espressiva.

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Una Famiglia Perfetta-Locandina
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Il disagio dei commensali affiora a tratti e si incastra in ciò che diventa presto un intreccio di sguardi, significati spesso comici ma mai banali, intenzioni abbozzate e gesti che diventano più complici col passare dei minuti. Il cambiamento travolge la coppia di sedicenni, che si rompe nella serata più importante quando la ragazza esplode la propria insofferenza per i formalismi mortalmente noiosi del fidanzato, e crea un nuovo legame tra la sorella del ragazzo e un invitato giunto quasi per caso, dopo un piccolo incidente stradale con la padrona di casa; i due si incontrano in ascensore, si osservano, assaporano il reciproco desiderio di un sentimento spontaneo e poco alla volta consentono alle proprie anime di sfiorarsi dolcemente, di toccarsi senza perdere un solo attimo di quella magia.

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Il film è anche l’amicizia fra due uomini che conoscono dapprima la distanza che li separa – quasi inconciliabile si direbbe – nella storia personale, nelle soggettive inclinazioni, per poi sentire che qualcosa li accomuna a un livello estremamente profondo, la voglia di condividere uno spazio dove i rumori della vita ripetuta fino a quel momento vengano sospesi, allontanati da un’esperienza silenziosa e intima.

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Sarà il mare aperto a renderlo possibile. “Happy family” non racconta una famiglia felice, bensì tanti modi differenti di essere felici attraverso il cambiamento – non ultimo, quello che nella parte finale conduce il timido sedicenne ad esplorare una dimensione affettiva finalmente libera – e mostra allo spettatore un modo antico di fare cinema, attraverso citazioni di altri registi e della stessa filmografia di Salvatores, un viaggio musicale caldo e poetico affrescato da Simon e Garfunkel, un contatto intimo con gli oggetti particolari che tracciano la parabola privata di ogni persona.

“Happy family” è un film contro il rimuginio, nella leggerezza dei dialoghi e delle passioni, nella scena finale tra il protagonista-autore, sollevato per aver portato a termine il proprio racconto, e la vicina di casa sorprendentemente simile a uno dei suoi personaggi. “Andiamo a fare un giro in città?” propone lei, “e se piove?” suggerisce la timidezza di lui, “ci bagniamo“, “però poi potrebbe venire caldo…“, “ci asciughiamo“. Addio ansia, benvenuta felicità.

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