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Recensione: Caporale & Roberti (2013). Percorsi di Psicodiagnostica Clinica Integrata.

 

State of Mind Presenta:

R.Caporale, L. Roberti (2013).

Percorsi di psicodiagnostica clinica integrata. Manuale pratico per psicologi.

Milano: FrancoAngeli

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Recensione: Percorsi di Psicodiagnostica clinica integrata.
Caporeale & Roberti (2013). Percorsi di Psicodiagnostica clinica integrata. Milano: Franco Angeli.

Il manuale di Caporale e Roberti (2013) è composto da 245 pagine volte a delucidare una domanda principale, come evidenziato nella prefazione del Prof. Tonino Cantelmi: “quali test per quale diagnosi”? Si propone, dunque, l’introduzione di una metodologia clinica di somministrazione ed interpretazione di una batteria di test. Con sinergia pratica gli autori puntano ad identificare le diverse aree di funzionamento della personalità. Inoltre, utilizzando il materiale testistico si mira ad un processo di cambiamento terapeutico orientato a migliorare la salute mentale dell’individuo.

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Il testo si offre come una agile guida alla valutazione psicodiagnostica clinica per psicologi e psichiatri. Dopo una concisa prefazione e un’introduzione ai concetti che verranno esposti, nel primo capitolo si definiscono le nuove linee guida di somministrazione ed interpretazione con una particolare attenzione al principio di integrazione metodica tra i diversi strumenti clinici fruibili. A riguardo, viene presentata una batteria testologica” ideale” di cui avvalersi nei poliedrici campi di applicazione professionale.

Nel secondo capitolo viene approfondito il test di Rorschach, dai fondamenti alle fasi di attuazione, l’analisi del funzionamento psichico e la valutazione del livello di organizzazione della personalità; la siglatura proposta è il metodo di Rizzo, oggi ereditato dalla Scuola Romana Rorschach.

Il terzo capitolo, invece, rivede il Thematic Apperception Test (TAT) attraverso una nuova modalità di scoring ed interpretazione dei risultati: quella del gruppo di Drew Westen. Egli ha introdotto una analisi quantitativa e qualitativa chiamata SCORS (Social Cognition and Object Relations Scales) che fonda le sue radici sull’integrazione tra la social cognition e la psicoanalisi contemporanea. Viene qui spiegato lo strumento e le modalità di interpretazione con alcuni  esempi clinici che aiutano a capire meglio i criteri  esposti.

Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea - Monografia a cura del Dott. Paolo Azzone. - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com
Monografia: Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea.

Il quarto capitolo esamina le prove grafiche: il test della figura umana, della famiglia e dell’albero. Queste sono considerate validi ausili per la valutazione degli aspetti della personalità. Ognuno di questi viene esplicitato nella sua somministrazione, inchiesta ed interpretazione.

Nel quinto capitolo è trattato il Minnesota Multiphasic Personality Inventory( MMPI-II) proposto come un inventario di personalità di ampio spettro che traccia profili la cui valenza si esprime peculiarmente dal punto di vista psicopatologico. Gli autori considerano anche gli elementi di continuità con l’MMPI-II Restructured Form; la nuova versione pubblicata con l’adattamento italiano nel 2012.

Il sesto capitolo, invece, descrive il questionario clinico multiassiale di Millon (MCMI) il self- report più utilizzato nell’individuare i disturbi di personalità. Considerato come uno tra i migliori reattivi  per fare diagnosi sull’Asse II del DSM-IV è trattato nella sua struttura, nei suoi contesti applicativi e nell’interpretazione dei profili.

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Il settimo capitolo verte sulla Wechler Adult Intelligence Scale-Revised (WAIS-R), il test di intelligenza più utilizzato e conosciuto al mondo. Dopo una presentazione generale del concetto di intelligenza e delle scale di Wechsler, Caporale e Roberti spiegano le singole prove ed espongono le modalità di applicazione e di analisi dei singoli subtest.

 Nell’ottavo capitolo, infine, si propone l’utilizzo dei test come strumento terapeutico, concetto sviluppato da Finn e Tonsager (1992). Attraverso una serie di esempi clinici è evidenziato come la consegna della testistica si rilevi molto utile per produrre cambiamenti importanti nella visione di sé da parte del paziente. Il capitolo si conclude con un caso a cui viene somministrata la batteria di test proposta e mostra la modalità di lavoro delucidando come essa permetta la comprensione del “funzionamento globale” dell’individuo durante l’intervento psicologico. Si dimostra così il percorso psicodiagnostico clinico e come viene garantita la sua validità.

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La nuova integrazione psicodiagnostica può portare ad una sicura valutazione psicologica e con pratica ed esperienza può arricchire il clinico nella sua pratica professionale. Quel che si acquista con questo manuale è un ottimo strumento sistematico da sfruttare in ambito clinico, giuridico- peritale o addirittura di selezione del personale.

L’approccio alla diagnosi non può non passare per una valutazione clinica e lo sviluppo della scienza psicologica non può fare a meno di una solida base diagnostica che solo una sinergica batteria di test psicologici può darle.

Una ricerca ed un lavoro così orientato dà la speranza di raccogliere risultati su cui lavorare e confrontarsi per sviluppare sempre più una scienza di cui tutti noi facciamo parte: la psicologia.

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RECENSIONI – PERSONALITA’ – DSM – ALLEANZA TERAPEUTICA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Crisi di Terza Età: Riguarda il 30% degli Anziani

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La crisi di terza età è sempre trasformativa, ma il cambiamento porta a crescita o a declino, e il fattore determinante è il numero di eventi stressanti.

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Un ultra 60enne su 3 sperimenta un periodo di crisi di terza età, in questa fase avanzata dell’esistenza.

La scoperta è avvenuta grazie a un nuovo studio dell’Università di Greenwich condotto dal dr. Oliver Robinson, che ha spiegato che la crisi può avere sia effetti positivi che negativi sul benessere individuale.

"Amour", Storia d'Amore e Distruzione - RECENSIONE
Articolo Consigliato: “Amour”, Storia d’Amore e Distruzione – RECENSIONE

Un totale di 282 volontari tra i 60 e i 70 anni sono stati coinvolti nella prima fase dello studio, durante la quale hanno compilato on-line un questionario di valutazione sull’impatto della crisi.

Il 32% dei maschi e il 33% delle femmine hanno riferito di aver avuto una crisi.

La caratteristica maggiormente comune a tutte le situazioni di crisi di terza età era l’aver sperimentato un lutto, secondariamente una malattia e infine lesioni a se stessi o agli altri e il prendersi cura di una persona amata malata o disabile.

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Nella seconda fase, i ricercatori hanno intervistato un gruppo di 20 soggetti. I ricercatori hanno scoperto che episodi di crisi di terza età coincidevano con l’essere stati coinvolti in almeno due eventi stressanti – ad esempio una grave malattia o problema di salute che ha colpito l’individuo stesso o un familiare significativo, – o la perdita del partner o di un parente stretto.

L’evento di vita stressante rende l’individuo consapevole della propria fragilità e della morte. Desideri e valori individuali vengono rivalutati nel corso di una crisi di vita, e l’esito di tale rivalutazione può assumere diverse forme. Alcune persone sono riuscite ad affrontare la crisi positivamente e hanno reagito riuscendo a ridefinire nuovi obiettivi da realizzare; altri ancora si sono concentrati sul presente, sentendo gratitudine per ogni giorno di vita e cercando di goderne più di quanto facessero prima.

 Altri invece, per evitare delusioni, hanno evitato di fare qualsiasi progetto o di fissare obiettivi a lungo e medio termine, ritirandosi dal mondo e isolandosi progressivamente.

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La crisi di terza età è sempre trasformativa, dice Robinson, ma il cambiamento può portare alla crescita o al declino, e il fattore determinante rispetto alla direzione presa dall’individuo sembra essere il numero di eventi stressanti e la prossimità con cui si susseguono; in alcuni casi lo stress derivante dalla concomitanza o dalla rapida successione di più eventi stressanti soverchia le risorse individuali e minimizza le possibilità di far fronte alla crisi in termini di crescita e rinnovamento.

Secondo Robinson una migliore comprensione degli episodi di crisi nella terza età sarebbe preziosa per tutti i professionisti che si occupano del benessere delle persone in questa fascia di età, sopratutto per riuscire a intervenire in modo da rendere la crisi un esperienza di crescita e non una di declino.

 

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TERZA ETA’ – ESPERIENZE TRAUMATICHE – STRESS 

 

BIBLIOGRAFIA:

Imparare a lasciare i pensieri da soli: il Controllo Metacognitivo – Manchester 2013

 

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva

02 – IL CONTROLLO METACOGNITIVO (dalla Keynote di Adrian Wells)

 

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva - Manchester 2013

IMPARARE LASCIARE I PENSIERI DA SOLI CON IL CONTROLLO METACOGNITIVO

LEGGI L’INTRODUZIONE AL CONGRESSO

Il congresso di terapia metacognitiva non poteva che aprirsi con la lettura magistrale di Adrian Wells, padrone di casa e fondatore di questo nuovo approccio terapeutico.

Sono passati due anni dalla prima conferenza e ora é importante ritornare a domandarsi quale é il cuore della terapia metacognitiva. Il punto centrale é considerare la psicopatologia come una questione di selezione e controllo del pensiero e del pensare che dipende dalle metacognizioni. Il problema in particolare é che i pensieri, in particolar modo se negativi, sono percepiti come importanti.

Cosa da importanza ai pensieri?

Wells: Terapia Metacognitiva dei disturbi d'Ansia e della Depressione. Recensione a cura di Gabriele Caselli. - Immagine: Eclipsi Editore
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)

(1) Il modo in cui ne facciamo esperienza, possiamo cioé riconoscerli come semplici formule verbali o immagini, come oggetti quindi, oppure (e purtroppo) essere fusi con essi e percepirli come dati di realtà.
(2) Quanto riteniamo sia importante stare a pensare alle cose che non vanno, con l’esito di produrre narrazioni ancora piú ingabbianti. (3) Le strategie che usiamo per regolare i brutti pensieri che possono essere controproducenti (rimuginio e ruminazione).

Quindi la terapia metacognitiva é un percorso teso a imparare a pensare di meno,  a lasciare i pensieri (ma anche le emozioni) da sole senza rispondervi, a fare esperienza dei pensieri intesi come oggetti e non come aspetti della realtà e ridimensionarne l’importanza. A raggiungere e migliorare un controllo metacognitivo piú flessibile.

E da qui nasce la sferzata alla Terapia Cognitivo-Comportamentale classica: nella Terapia Cognitiva viene data molta importanza ai pensieri. Ergo, terapia metacognitiva e CBT non sono necessariamente compatibili. Aumenta quindi il grado di separazione, come sempre avviene quando si costruisce una nuova entitá la scelta ricade sempre su tracciarne i confini in modo netto affinché non sia inglobata e uccisa. Ci sono alcune ricerche in corso tese a confrontare i due approcci e una loro integrazione. Ne vedremo presto i risultati.

L’impressione generale é che ora per la terapia metacognitiva sia venuto il tempo di scendere dall’altare della ricerca e trovare espressioni semplici e chiare per essere piú fruibile nel mondo della pratica psicoterapeutica quotidiana.

E questo sembra essere lo sforzo anche di Adrian Wells che ci lascia con un pensiero interessante: La terapia metacognitiva aiuta i pazienti a capire che si può imparare ad essere completamente indipendenti dai propri pensieri.

 LEGGI L’INTRODUZIONE AL SECONDO CONGRESSO DI MANCHESTER

LEGGI ANCHE: IL PRIMO CONGRESSO DI TERAPIA METACOGNITIVA – MANCHESTER 2011

RISORSE:

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva – Manchester 24-27 Aprile 2013

 

 

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva 

01 – INTRODUZIONE

Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva - Manchester 2013

 

Un viaggio richiede molte attese. E il viaggio di partenza per un congresso non si esime. In quelle attese il tempo trascorre osservando il programma previsto, spulciando simposi e letture magistrali per cominciare a costruire quel che sarà il proprio percorso dentro al congresso.

ARTICOLI ARCHIVIATI IN: CONGRESSI

Così io scorro il programma del secondo congresso internazionale di Terapia Metacognitiva che inizierá a Manchester domani.

Sono trascorsi due anni dal primo scisma e dalla nascita di un circuito separato da quello ortodosso delle terapie cognitivo comportamentali, EABCT. Una scelta di separazione che forse non ha premiato il dialogo scientifico, ma ha permesso al pargolo di crescere, vista l’espansione di ricerche e gruppi di ricerca indipendenti che stanno nascendo in tutto il mondo sulla terapia metacognitiva con un conseguente proliferarsi di studi pubblicati. Il pargolo sta crescendo.

La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.

Ora Adrian Wells e Hans Nordahl possono permettersi di mettere sul piatto una considerevole mole di evidenze a supporto sia della teoria che della terapia metacognitiva, soprattutto per ansia e depressione, ma che inizia a esplorare le frontiere delle dipendenze patologiche e disturbo borderline di personalità. E intanto la terapia metacognitiva del Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD) é in via di inserimento nelle linee guida nazionali inglesi.

Il pargolo sta crescendo e comincia a camminare da solo. Tanto che nello stesso programma del congresso si apre il confronto con altri approcci invitati a confrontarsi con i temi caldi del mondo clinico e sulle future evoluzioni della psicoterapia.

 

 

Rappresentanti della CBT (Hollon), dell’ACT (Zettle) e dell’Emotional Schema Therapy (Leahy) hanno uno spazio di presentazione magistrale che culminerà in una tavola rotonda con tutti riuniti che si prospetta davvero interessante, nella speranza che non diventi un gentile scambio di diplomatiche cordialità.

Il pargolo sta crescendo in un mondo frammentato.

Quello che ci aspettiamo? Novità, chiarezza, confronto. A due anni di distanza saremo ancora qui a raccontarvi la nostra prospettiva.

 

LEGGI ANCHE: IL PRIMO CONGRESSO DI TERAPIA METACOGNITIVA – MANCHESTER 2011

RISORSE:

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E15 Gina

In Treatment – Psicoterapia in TV

QUINDICESIMA PUNTATA

Gina

 

 – LEGGI L’INTRODUZIONE

LEGGI: In Treatment: la Versione Italiana

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E15 - Gina. - Immagine: HBO
In Treatment S01E15 – Gina. Immagine: © HBO

In Treatment S01E15 – Gina. Non si tratta più di un incontro tra vecchi amici come nella prima puntata. È una supervisione, o forse qualcosa in più.

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT

Terzo incontro con Gina, terza settimana con il dottor Paul Weston e i suoi pazienti. Ne approfitto per far sapere ai lettori che, dalla settimana prossima, non seguiremo più Gina e Paul puntata per puntata, ma passeremo a commentare cicli di cinque puntate alla volta, ovvero l’intero giro settimanale delle quattro sedute e della supervisione di Paul. Perché? Per evitare il rischio della monotonia e della pedanteria, inevitabili nel commentare tutte le puntate. Inoltre, alternerò settimane con Paul Weston e settimane con Giovanni Mari, il terapista della serie italiana di In Treatment, in modo da dare varietà a questo percorso.

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Dicevo che Paul torna da Gina per la terza volta. Non si tratta più di un incontro tra vecchi amici come nella prima puntata. È una supervisione, o forse qualcosa in più. Paul sembra ormai in terapia con Gina. La quale si conferma terapeuta robusta e, a tratti, feroce.

Paul ha problemi con lei, la svaluta. Ne critica la tecnica, alla perenne ricerca di analogie, rimandi e somiglianze col passato.

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E05 Gina. - Immagine: © HBO
In Treatment S01E05 – Immagine: © HBO
Articolo Consigliato: In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E05 Gina

Per Gina, qualunque cosa faccia Paul ha una radice in un comportamento passato, che Paul è condannato a ripetere, meccanicamente e inconsciamente. Se Laura ha dovuto accudire i suoi genitori, questo è in rapporto con il fatto che anche Paul ha dovuto accudire i suoi. Se Laura esce con Alex e non ne può più del suo convivente, questo è in rapporto col fatto che anche Paul non ne può più di sua moglie. Il tutto è bombardato sul povero Paul con impressionante frequenza e intensità. E ferocia.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ALLEANZA TERAPEUTICA

Non sono, né pretendo di essere, un esperto di tecnica psicoanalitica, ma questo modo di operare mi pare tendenzialmente kleiniano: interpretazioni precoci, frequenti, intense, con un certo sapore aggressivo verso il paziente, un retrogusto di “ti ho beccato!”-  Non lo dico solo io, lo dice anche Paul, che rimprovera a Gina la sua passione per la rivelazione degli schemi interpersonali come ripetizione di un eterno transfert irrisolto e, in qualche modo, irrisolvibile. È vero che Paul non dice a Gina. “sei un’insopportabile kleiniana!”.

 È anche vero che in USA la psicoanalisi ortodossa tendeva a essere soprattutto annafreudiana, ovvero focalizzata sulle difese più che sulla ripetizione degli schemi transferali. E Gina è molto ortodossa. Tuttavia il sospetto c’è.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: PSICOANALISI

Paul sembra una sorta di sviluppo imprevisto di Gina, e per questo Gina a sua volta sembra avercela con lui. Così come la psicoanalisi relazionale, di cui Paul è esplicitamente adepto, è uno sviluppo dolce e imprevisto dell’attenzione per i temi interpersonali cari alla Klein. Certo, per la Klein questi schemi interpersonali erano sempre completamente interiori, completamente inconsci e profondamente negativi (l’emozione dominante è l’invidia). Invece per Mitchell gli schemi interpersonali sono anche vissuti nel qui e ora delle relazioni presenti, non sono completamente inconsci e soprattutto non hanno la colorazione cupa del kleinismo. Anzi, per Mitchell la relazione è una forza positiva, un’energia di amore. Che poi sembra la differenza tra Paul, che crede nell’amore per Laura, e Gina, che invece predica la diffidenza verso ogni trasporto sentimentale e lo valuta come ripetizione inconscia di rancori infantili.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

IN TERAPIA – ALLEANZA TERAPEUTICA – PSICOANALISI

 

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT – LEGGI L’INTRODUZIONE

APPROFONDIMENTO: SCHEDA DI IN TREATMENT SU WIKIPEDIA

Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Recensione

 

– Recensione –

Le Sorgenti del Male

Zygmunt Bauman (2013)

 

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Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Recensione
Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Ericskon (immagine di copertina)

L’atteggiamento dell’uomo che sceglie, e non di colui che viene scelto dal contesto, segna il vero discrimine tra l’uomo privo della parola, e quello dotato di decisa loquacità.

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Riflettere. Riflettere è esigenza. Ed è proprio una coerente riflessione, quella cui induce ogni passo delle 108 pagine del nuovo romanzo, carico di travolgenti e vigorosi messaggi, scritto dal sociologo polacco della modernità liquida, Zygmunt Bauman. L’autore, apprezzato come uno dei più accreditati pensatori viventi, aveva già parlato ai suoi lettori, di un male che “non è distinguibile, in mezzo alla folla”, che “non ha segni particolari né usa carta d’identità”, ammonendoli come “chiunque potrebbe trovarsi a essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o potenzialmente arruolabile” (Paura Liquida, 2008, Laterza).

Ebbene, con il saggio sociale pubblicato dalla Erickson Edizioni, a cura di Young-June Park, il filosofo torna a pungolare, quasi solleticandola, la parte più pigra della coscienza umana: quella che fatica a rallentare, a fermarsi, a scartare il plico che custodisce la risposta ai più intimi quesiti, e che, ancor di più, annaspa nel tentativo di dialogare con dubbi e perplessità, per poi raccoglierne un senso… il senso di domanda che, in nuce, contiene già la risposta.

Un’istigazione al pensiero, dunque, di cui il Bauman si rese “complice”, tempo fa, nell’osservare che “essere morali” non significa necessariamente “essere buoni”. Occorre sapere, annota, che “cose e azioni possono essere buone o cattive. Ebbene, per saperlo gli uomini hanno bisogno di un’altra consapevolezza preliminare: cose e azioni possono essere diverse da quelle che sono”.

Dopo tutto, e forse prima di tutto, ricorda il sociologo, la “moralità riguarda la scelta. Niente scelta, niente moralità.

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Articolo consigliato: Recensione: Il Bambino Indaco – Un Caso di Maternità Impossibile

Come dice Aharon Appelfeld, uno dei grandi narratori morali del nostro tempo: “La montagna è fredda ma non è malvagia. I venti abbattono gli alberi ma non sono cattivi” (Società, etica, politica, 2002, Raffaello Cortina). Elemento distintivo, quindi, sarebbe proprio la peculiare capacità di taluni soggetti di mettere in moto ed usare – come ricorda Riccardo Mazzeo, nella pregiata prefazione all’opera – la “particella no”, intesa come l’elemento in grado di “trasformare l’esistenza nell’esperienza”.

La scelta, dunque. O meglio, la capacità e la forza di scegliere, legata a doppio filo alla tematica della moralità. Così, nel quotidiano vivere, la preferenza accordata all’una, piuttosto che all’altra opzione che ciascun essere umano intravede dinanzi a sé, consentirebbe all’individuo di tracciare un proprio sentiero, mai o di rado calpestato dalla società (politica, professionale o religiosa) di riferimento.

Rilievo, che ha suscitato in chi scrive l’odierna recensione, un pensiero, del tutto personale: l’atteggiamento dell’uomo che sceglie, e non di colui che viene scelto dal contesto, segna, ritengo, il vero discrimine tra l’uomo privo della parola, e quello dotato di decisa loquacità.

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Sarebbe lui, mi preme annotarlo, l’unico tassello, incastrato nel gruppo sociale, in grado di far sentire davvero il proprio io, e di distinguersi in un universo reso sordo dall’appiattimento delle idee. Considerazione, che si ricollega alla meditazione sulla “normalità” di Bauman, proteso a spiegare come chi si distingue dalla maggioranza, non solo per un di meno, ma altresì per un di più, è comunque un soggetto anomalo.

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 È come dire – mi si consenta, ancora, una nota personale – che normalità e anormalità non viaggino su binari paralleli, ma vivano di flussi, incontrandosi, scontrandosi e abbracciandosi più volte, di guisa che persino la più usuale delle normalità, si colorerebbe di stravaganza in un contesto di parametri ordinariamente eccezionali e sopra le righe.

In fondo, tutto è relativo, e se l’anormalità è un qualcosa che si distanzia dalla norma, non potrebbe essere altrimenti, laddove la norma varia con il variare di tempi, culture, religioni e politiche.

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Ebbene, Bauman, ragionando sulle “sorgenti del male”, ovvero sull’unde malum – domanda travolta, come afferma, dal totalitarismo del ventesimo secolo, e dalle “rivelazioni relative all’Olocausto” – regala al lettore, una metodica interpretazione di tre espressioni di pensiero, trattenutesi al riguardo. Il viaggio dell’autore, inizia dagli studi di Theodor Adorno, sulla “personalità autoritaria”, avvalorante l’idea dell’autoselezione dei malfattori, alla stregua della quale, detta autoselezione resterebbe determinata da predisposizioni naturali, più che culturali, del carattere individuale.

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Aimee Bender, L’inconfondibile tristezza della torta al limone. Recensione. - Immagine: © minimum fax
Articolo Consigliato: Aimee Bender. L’inconfondibile tristezza della torta al limone. – Recensione

L’itinerario di Bauman, poi, cambia direzione e posa lo sguardo sulla pista del condizionamento comportamentale, teso alla valorizzazione, non già del dato psichico, ma delle peculiarità del singolo, e del fattore contestuale, atti a generare il male, risvegliando latenti predisposizioni malvagie.

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Atmosfera morale, ascritta da Hannah Arendt, alle predisposizioni prototalitarie della borghesia (Arendt, Le origini del totalitarismo, 2004, Torino, Einaudi). La logica del sociologo, di li a breve passo, percorre poi il ragionamento di Kant, per il quale rispetto e benevolenza per il prossimo sarebbero un imperativo della ragione. Ragione che però, marca il filosofo polacco, spiega tempo ed energie nel “disarmare le richieste e le pressioni del sedicente imperativo categorico” (pag. 34), assurgendo a fabbrica di potenza che consentirebbe all’uomo di rifornirsi, come ad un distributore, della capacità di superare lo scoglio dell’inerzia.

Il pensiero, allora, torna alla questione della probabilità che le risposte comportamentali di diverse persone esposte alla pressione di commettere il male, assuma la forma di una “curva gaussiana” laddove (pag. 73) i risultati dipendono dalla “vicendevole interferenza di un gran numero di fattori indipendenti”. Altra tappa del cammino, magistralmente raccontato da Bauman, è lo studio dello psicologo sociale Zimbardo, il cui esito avrebbe dimostrato come persone normali, amabili, dalle occupazioni più responsabili, anime sensibili, dunque brava gente, possano trasformarsi in “mostri” se innestati in determinati contesti, anche territoriali (Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? 2008, Milano, Raffaello Cortina).

Un male banale, quello su cui l’autore si concentra nel quinto capitolo del libro. Un male che, proprio dalla banalità, trae la sua insita pericolosità. Un male insospettabile, che sa cogliere in contropiede, che sorprende, e si fa scudo nell’imprevedibilità del suo scatenarsi. Un male, quello descritto da Bauman, che vive e dorme, nell’uomo “non solo normale” ma nel “più desiderabile” (pag. 56), sulla falsariga del “dormiente” evocato da Steiner, e della sua non rivelata inclinazione a delinquere, sapientemente eletta a titolo del settimo capitolo del saggio.

 Di qui, un interessante “colloquio” con le tesi di Littell e di Anders, padre del pensiero per cui il “potere umano di produrre” è stato emancipato “dal potere meno espandibile degli umani di immaginare, rappresentare e rendere intellegibile”. Intensamente auspicata, dunque, l’esigenza di restituire nuova reattività ad una mente sociale, anestetizzata dall’abituazione desensibilizzante (Roth, Juden auf Wandershaft, 2001). Non si dimentichi, che il pensatore polacco definì il tempo di oggi come “puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate”. Il senso era palese: i particolari della realtà – come accade ammirando un quadro dipinto con la tecnica del puntinismo – si notano solo se osservati a distanza, prospettiva dalla quale è più agevole orientarsi (Vite di corsa – Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, 2009, Il Mulino).

E forse è proprio da una tale prospettiva, che il filosofo, indagando sulle effettive origini del male, parrebbe estirparlo dall’io dell’essere umano, per imputarlo a dati ad esso esterni, all’inarrestabile progresso della tecnica, che ha reso l’individuo straordinariamente potente, ma, probabilmente cieco di immaginazione e fantasia, ed incapace, nel mio pensiero, di percepire i segnali del mondo. Si chiude, così, il riuscito lavoro di Bauman di osservare in controluce i percorsi tracciati sulle fonti del male, prenderne le distanze e – per usare un’espressione del Kundera, presa in prestito dallo stesso autore (pag. 25) – “strappare il sipario delle preinterpretazioni”, questa volta sulle sorgenti del maligno, calando il lettore nell’universo dei perché. E si sa, che da ogni perché nasce un nuovo perché, e forse una risposta. E nel mentre, ci si scava dentro.. ridefinendo i contorni di quelle identità, a mio parere, ormai svendute nel discount delle idee, uniformate, e senza colore.

 

LEGGI:

LETTERATURA – SOCIETA’ E ANTROPOLOGIA –  PSICOLOGIA COMPORTAMENTALE – COMPORTAMENTISMO – ETICA E MORALE

TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND  

APPROFONDIMENTO: Scheda di Bauman Zygmunt su Wikipedia

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

 

 

Il Sesso ci rende felici? Farne più degli altri ancora di più!

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il sesso come il reddito: le persone sono felici quando si sentono nella media con gli altri, ma lo sono ancora di più se si sentono sopra la media.

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Tim Wadsworth, professore associato di sociologia alla University of Colorado a Boulder, ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio secondo il quale la frequenza dei rapporti sessuali coincide con la felicità.

Come è stato ben documentato a proposito del reddito, sostiene Wadsworth, la felicità in relazione alla propria vita sessuale può aumentare o diminuire a seconda di come gli individui si percepiscono paragonandosi ai loro coetanei.

Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta. - Immagine: © mipan - Fotolia.com
Articolo consigliato: Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta.

Utilizzando i dati del General Social Survey e l’analisi statistica, Wadsworth ha scoperto che la correlazione tra felicità e frequenza del sesso elevata è costante in tutte le persone. Ma ha anche scoperto che chi crede di avere una vita sessuale meno soddisfacente in termini di frequenza rispetto ai coetanei è meno felice di chi invece è convinto di avere una vita sessuale come quella degli altri, o migliore.

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L’indagine ha incluso domande sulla frequenza del sesso dal 1989. Il campione ha incluso 15.386 persone che sono state intervistate tra il 1993 e il 2006.

Chi ha riferito di aver fatto sesso almeno due o tre volte al mese ha avuto il ​​33% in più di probabilità di riportare un livello di felicità elevato di coloro che hanno riferito di non aver avuto rapporti sessuali negli ultimi 12 mesi.

La probabilità di essere felici aumenta all’aumentare della frequenza del sesso: una volta alla settimana produce un ​​44% in più di probabilità di riportare un più alto livello di felicità e con una frequenza di due o tre volte alla settimana si arriva a 55% .

C’è quindi un aumento complessivo nel senso di benessere dato dalla frequenza con cui si hanno rapporti sessuali, ma se fare più sesso ci rende felici, farne più degli altri ci rende ancora più felici.

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 Anche se il sesso è un fatto privato, i mezzi di comunicazione di massa e altre fonti di informazione forniscono indizi. Il risultato di questa raccolta, spesso involontaria, di informazioni è che se i membri di un gruppo di pari fanno sesso due o tre volte al mese, ma credono che i loro coetanei lo facciano una volta alla settimana, la loro probabilità di riportare un più alto livello di felicità scende di circa il 14%.

Le persone sono creature sociali, dice Wadsworth, e il loro senso di sé o di identità è dipendente dagli altri. Nelle sue lezioni di sociologia, Wadsworth chiede agli studenti di scrivere tre aggettivi per descrivere se stessi e poi chiede loro se quegli stessi aggettivi avrebbero lo stesso significato se si trovassero su un’isola deserta e non avessero nessuno con cui confrontarsi. “Indipendentemente dagli aggettivi usati – attraente, intelligente, divertente, povero – questi sono significativi solo se c’è la consapevolezza di come sono gli altri che ci circondano. Per questo motivo”, conclude, “non possiamo che essere ricchi se gli altri sono poveri, e sessualmente attivi se gli altri non lo sono”.

 

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SESSO & SESSUALITA’ – RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICOLOGIA SOCIALE 

 

BIBLIOGRAFIA:

Open di Andre Agassi: un Match tra Nuclei Patologici – Recensione

Di Camilla Freccioni e Luca Calzolari

 

RECENSIONE DEL LIBRO:

OPEN

LA MIA STORIA

Di Andre Agassi

Einaudi 2011

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

 

Open Andre Agassi - Recensione
Open – La Mia Vita, Di Andre Agassi, Einaudi (2011) – Copertina

Il tennis era l’unica strategia che padroneggiava, e che nel tempo aveva funzionato per tenere lontano da sé quel pezzetto di sofferenza. Le sconfitte erano diventate così le dolorosissime dimostrazioni di aver fallito, di più: di essere un fallimento.

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Qualsiasi psicologo non può che essere profondamente colpito da questo libro. Ci s’immagina il racconto di una serie di match points, di colpi sbagliati o azzeccati, di vittorie e sconfitte e invece… il lettore si trova di fronte a un vero e proprio testo di psicopatologia, calato nel racconto di una vita famosa con narrazioni di episodi, di emozioni e di pensieri.

Con molta facilità uno psicogo può rintracciare ABC, nuclei patologici tipici di alcuni disturbi, sistemi motivazionali interpersonali, credenze, scopi, cicli interpersonali ecc., insomma un autentico godimento, soprattutto per un Cognitivista!

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Ogni pagina del libro è uno spunto di riflessione, un ragionamento sulle cause e sulle conseguenze, una domanda sulle modalità relazionali. In pratica una concettualizzazione del caso, narrata da un non addetto ai lavori. Proprio per ciò densa di contenuti, ma disorganizzata. Infatti lo psicologo, oltre a godersi il volume, si sentirà come costretto a conferire un ordine a questa immensa mole di informazioni tremendamente interessanti da un punto di vista psicologico. E pagina dopo pagina trarrà un immenso piacere nel concettualizzare il caso.

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Ma andiamo per ordine. La prima parte del libro è senza dubbio la più interessante, proprio perché, come in ogni storia di vita che si rispetti, del protagonista Agassi viene narrata l’infanzia. Tutto ha inizio in questa fase della vita, e molto di quanto accade nelle età successive del protagonista, in queste pagine trova una spiegazione e un senso proprio in relazione alla sua età infantile. Ogni episodio e ogni emozione vengono raccontati col giusto trasporto ma al contempo con un elaborato distacco, proprio come se l’Agassi, che adesso rievoca, avesse trovato un senso a quegli eventi passati.

Pennac "Storia di Un Corpo".
Articolo Consigliato: Recensione: Daniel Pennac, “Storia di un corpo”. Diario di un viaggio tra i sentieri delle emozioni.

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Al proposito, certamente al Cognitivista che ci sta leggendo sta venendo in mente un termine… ebbene, anche al lettore succede lo stesso pagina dopo pagina: ipotesi dopo ipotesi da verificare durante la lettura del volume, proprio come le ipotesi formulate durante un assessment, da verificare in seguito nel corso della terapia. Ed eccoci alla prima ipotesi da formulare: il rapporto di Agassi col padre. Un «narcisista», definito così dallo stesso figlio, non appena apprenderà il significato della parola. Appunto da bravo narcisista, il padre non riesce a decentrare per comprendere la mente degli altri, e ritiene che anche la vita del figlio sia di sua proprietà. Cosa piaccia o interessi al figlio, per lui non è importante: è lui padre a decidere.

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Agassi non ha mai messo in dubbio l’amore da parte del padre, l’avrebbe soltanto voluto meno duro, meno rabbioso e più disposto ad ascoltarlo. È completamente terrorizzato da lui, la sola idea di ribellarsi alle sue decisioni gli fa tremare le gambe. E fa bene a temere il padre: ogni volta che pensa di ribellarsi alle sue decisioni, gli torna in mente l’immagine del camionista lasciato esanime sulla strada proprio dal genitore, dopo averlo cazzottato a morte (o quasi, non lo sapremo mai) poiché quello aveva avuto l’ardire di protestare per un mancato inserimento della freccia di direzione.

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Ma perché il padre si comporta così? Esiste una spiegazione a tutto ciò? Emigrato dall’Iran, vive costantemente un senso di non-appartenenza che cerca di gestire attraverso un forte bisogno di rivalsa, di cui il figlio è lo strumento: il successo di quest’ultimo nel tennis per il padre equivale a una vendetta nei confronti di un mondo sempre vissuto come ostile. Egli infatti desidera unicamente che Agassi diventi un campione, e non importa che il futuro eventuale campione odi con tutto se stesso il tennis.

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E chissà se lo odia fin dall’inizio o se l’odio è soltanto la fisiologica conseguenza di un letterale martellamento, di un nemmeno troppo sofisticato lavaggio del cervello, di una quotidiana tortura subita a suon di milioni di palline sparate da un lanciapalle a forma di drago appositamente costruito, sempre dal padre, per incutere terrore ad Agassi, con la scusa di allenarlo.

Una volta pure diventato campione, Agassi non riuscirà mai a godersi appieno una vittoria, non saprà mai se è diventato un tennista in quanto obbligato a diventarlo, o perché lo voleva in prima persona, o forse – ancor peggio – perché non avrebbe saputo cos’altro fare nella vita.

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I momenti di euforia sono passeggeri, poco gratificanti in confronto alla sofferenza che segue a ogni sconfitta («Vincere non cambia niente. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente»). Il dilemma tra amore e odio riguardo al tennis ci accompagna per tutto il libro. Di continuo si avverte il desiderio di abbandonare l’agonismo da parte di Agassi, di pagina in pagina si percepisce l’insofferenza per le critiche dei giornalisti, per i riflettori perennemente puntati su di lui e sulle sue azioni, l’intolleranza verso le sconfitte e la già citata insoddisfazione per le vittorie.

Agassi paragona il tennis al pugilato, nei termini in cui «il tennis è boxe senza contatto… solo che nel tennis le batoste sono più sottopelle». È vero che il dilemma amore/odio per il tennis occuperà l’intero volume, ma di sicuro il lettore alla fine può agevolmente darsi una risposta. Infatti una cosa è certa: Agassi, fra i tennisti della sua generazione, sarà quello che si ritirerà per ultimo, sebbene in molti glielo consiglino da tempo. Il libro, inoltre, termina con una piena dimostrazione di amore per il tennis: un improvvisato match con sua moglie, Steffi Graf, grande tennista a sua volta. Ma allora l’affermazione di odio verso quello sport non maschera piuttosto un tentativo di ribellione verso il padre?

Del resto Agassi, con un padre così, cosa poteva fare? Sembra proprio raccontarci di aver avuto due sole strade da seguire: o ribellarvisi o compiacerlo. La ribellione senza dubbio è sempre stata presente in Agassi, ma sopita, attuata limitatamente a questioni di poco conto (per esempio, l’ostentazione degli orecchini, vietati alla scuola di tennis e detestati dal padre come segno di omosessualità), mai urlata.

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La compiacenza, invece, non si è sostanziata solo nell’assecondare le decisioni prese dal padre relativamente al suo futuro professionale, ma anche nel far propria la spasmodica ricerca del perfezionismo, eredità a sua volta di una caratteristica paterna. Agassi, infatti, non pensa di aver sviluppato negli anni tale mania perfezionistica, ma che essa sia una parte innata di sé, al pari della sua calvizie o della sua colonna vertebrale ispessita. Ha esclusivamente questa strada per potersi sentire vicino al padre: non, dunque, tramite l’affetto, terreno sconosciuto al padre, ma tramite la performance, che è l’unica strategia che nella vita al figlio abbia dispensato una seppur minima sensazione di essere amato.

Lance Armstrong, la prepotenza del perfezionismo - Immagine: Creative commons License © DonkeyHotey
Articolo Consigliato: Lance Armstrong, la prepotenza del perfezionismo.

Nel tempo questa modalità si è generalizzata, diventando un vero e proprio pattern: è divenuta non la sua unica modalità per costruire una relazione col padre, ma l’unica per leggere il mondo, gli altri e soprattutto se stesso. Così, quando incontrerà un nuovo coach, il quale gli farà capire quanto sia faticoso e terribilmente dannoso ricercare di continuo la perfezione, Agassi avrà come una rivelazione: «La sua tesi che il perfezionismo è facoltativo mi dà serenità. Il perfezionismo è qualcosa che ho scelto, e mi sta rovinando, e posso scegliere qualcos’altro. Devo scegliere qualcos’altro».

Egli, a quel punto, non dovrà cercare di essere sempre il migliore del mondo, non dovrà inseguire primati e perfezione in ogni partita, in ogni colpo tirato, contro ogni avversario, ogni giorno. Capirà che può bastargli essere migliore di una sola persona alla volta, mentre gioca una partita di tennis, e che invece di essere costretto a cercare sempre di far bene lui, può anche indurre l’altro a sbagliare, o lasciare che sbagli di sua iniziativa.

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Questo ci dice qualcosa sulla sua antica componente di odio per lo sport praticato. Il tennis, fino appunto all’avvento del nuovo allenatore e della sua alternativa filosofia agonistica, non era per lui un piacere ma un dovere, forse qualcosa di più, l’unica strategia che padroneggiava, e che nel tempo aveva funzionato per tenere lontano da sé quel pezzetto di sofferenza. Le sconfitte erano diventate così le dolorosissime dimostrazioni di aver fallito, di più: di essere un fallimento.

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Solo un cambio di relazione poteva aiutarlo, e non più la strategia della prestazione – in cui egli peraltro aveva sempre eccelso, ma che tuttavia si era rivelata “il problema” – bensì l’aprirsi proprio a un altro tipo di relazione, che riuscisse a disconfermargli quelle credenze disfunzionali.

Infatti, come abbiamo accennato, saranno proprio le relazioni “sane” a salvarlo, prima col suo neo-allenatore Gil (parlando con lui del suo primo figlio, Agassi dice: «Se diventa anche solo la metà dell’uomo che sei tu, avrà un successo fenomenale, e se io riesco a essere anche solo la metà del padre che tu sei stato per me, avrò superato i miei stessi standard»), poi con sua moglie Steffi Graf.

LEGGI: 

PERFEZIONISMO – DOVERIZZAZIONE – DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’ – NARCISISMO 

APPROFONDIMENTO: Scheda su Wikipedia di Andre Agassi e Steffi Graf

 

Cinematerapia & Fondamenti Psicoanalitici

 

 

Cinematerapia & Fondamenti Psicoanalitici. - Immagine: © Yahia LOUKKAL - Fotolia.comCinematerapia & Fondamenti Psicoanalitici. Il cinema costituisce un regno tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: CINEMA

Grazie a  Freud e a suoi studi sul significato dell’arte possiamo affermare che il cinema costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga, un dominio in cui sono ancora sopravvissute le aspirazioni all’onnipotenza dell’umanità primitiva.

Freud non vede nell’arte del cinema, proprio per il suo valore innovatore, una soluzione di compromesso, che invece riscontra nel sogno e nel sintomo nevrotico. Egli non approfondisce la natura di questa particolare attività dello spirito umano, ma grazie alla sua elaborazione degli istinti di vita e di morte, pone le basi per un sua validità terapeutica.

Il fatto che l’arte e in particolare il cinema, inteso come atto di vita, abbia uno stretto rapporto con la morte e con l’esperienza del lutto è un’ipotesi antica, evidenziata dalle origini funerarie e apotropaiche dell’arte. Partendo da questa premessa è, a mio avviso, decisivo l’apporto di  Melanie Klein. Parafrasando la Klein possiamo sostenere  che il mondo del cinema, mondo di “finzione”, si presta alla ricostruzione dell’oggetto perduto estrinsecando un’onnipotenza creativa, insieme illusoria e realistica, proprio perché, attraverso esso, si passa dalla realtà naturale della perdita alla realtà culturale del processo di simbolizzazione.

Recensione "I Territori dell'Incontro" di Coratti Lorenzini Scarinci Sagre.
Articolo Consigliato: Film e Psicoterapia. Recensione de “I Territori dell’Incontro”.

La creazione filmica può far rivivere ciò che è morto di una vita del tutto singolare. I singoli fotogrammi, senza struttura formale, sono come lettera morta, ma inseriti nel contesto della struttura filmica diventano creazione, oggetto d’amore privilegiato, e si tramandano da cultura a cultura, da generazione a generazione come trionfo sulla morte.

Il passaggio dal caos al cosmos, tipico di ogni film, contiene in sé una connotazione creativa, cioè il passaggio dalla morte alla vita. Il cinema avrebbe, in modo specifico, la prerogativa di prestarsi ad elaborare la pulsione di morte, proprio perché dà al regista la possibilità di esprimere, in una particolare area di realtà, che è insieme illusoria e reale, la sua creatività.

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Per comprendere, esprimere e superare la sua depressione, elaborarla in un atto creativo, il regista deve, non solo riconoscere, ma anche sopportare l’istinto di morte nei suoi aspetti aggressivi ed autodistruttivi, mostrandosi capace di accettare la realtà della morte, per il suo mondo e per gli oggetti esterni. Prendendo a prestito i contributi di Kris (Kris, 1967; Kris & Kurz, 1980) possiamo sostenere inoltre che il regista  pone, nell’atto della creazione, se stesso al posto del suo pubblico, e si identifica col suo Io e Super-Io.

Il regista non rappresenta la natura, né la imita, ma la crea di nuovo. Con il suo film egli domina la realtà. Rivolgendosi alla situazione che egli intende creare, la fruga con lo sguardo, finché non ne è in pieno possesso; il significato inconscio di questo processo è il bisogno di dominare le cose, a costo di distruggerle. La distruzione della realtà si fonda sulla costruzione della sua immagine: indipendentemente dal grado di somiglianza, la natura è ricreata.

 Come nel regista, anche nel pubblico, si attuano spostamenti di livelli psichici. Lo spostamento procede dalla coscienza, dalla percezione del film, verso l’elaborazione preconscia e le risonanze dell’Es. In una prima fase, l’Io diminuisce il controllo, vale a dire: apre la strada ad un’integrazione dell’Es. Questa fase è principalmente passiva: il film domina il pubblico. Nella risposta del pubblico, c’è inizialmente lo stadio più semplice e meno ambiguo, che può essere chiamato riconoscimento. La situazione ci è nota e la mettiamo in relazione con una traccia mnestica, sia pure leggera; può accadere che si cerchi, prima in modo impercettibile e poi consapevole, di reagire col proprio corpo; oppure può anche accadere che la reazione rimanga inconscia.

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In uno stadio successivo, il pubblico passa da una fase passiva ad una attiva, l’Io afferma la sua posizione nell’atto della ricreazione, il film viene ricreato e la possibilità di rendere consapevoli conflitti inconsci del pubblico è di per se curativa.

Grazie alla rielaborazione dei contributi degli psicoanalisti, da me citati in questo articolo, possiamo attribuire alla cinematerapia una valenza terapeutica. Attraverso l’immaginario filmico gli spettatori entrano in contatto profondo con le proprie emozioni e rielaborano positivamente conflitti interiori.

Consolidano il proprio Io e rendono meno rigido il proprio Super-Io, ottenendo benefici che spaziano dalla sfera affettiva alla sfera individuale ed esistenziale.

 

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CINEMA – PSICOANALISI – ARTETERAPIA   

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Prevenire il Declino Cognitivo: No Farmaci & No Esercizio Fisico!

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Esercizi cognitivi aiutano a prevenire il declino cognitivo negli anziani sani, al contrario i benefici di farmaci e dell’esercizio fisico sarebbero scarsi.

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Lo rivela una review apparsa sul Canadian Medical Association Journal, in cui gli autori hanno esaminato 32 studi randomizzati e controllati in cui sono state testate diverse forme di prevenzione del declino cognitivo.

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it! - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com
Articolo consigliato: Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it!

Il declino cognitivo lieve (più che normale per una persona di una certa età) colpisce il 10% -25% delle persone oltre i 70 anni. Il tasso annuale di declino in demenza (che è il declino cognitivo in diverse aree con una certa capacità funzionale) è di circa il 10%. Si stima che circa 18 milioni di persone nel mondo siano affette da demenza, di cui circa 1 milione in Italia.

L’analisi dei dati evidenzia che non ci sono prove forti per i trattamenti farmacologici come il ginkgo, il deidroepiandrosterone (DHEA), le vitamine e altre sostanze. Maggior parte degli studi di efficacia non mostrano alcun effetto mentre la terapia estrogenica ha mostrato un aumento del declino cognitivo e della demenza; anche i dati a favore dell’esercizio fisico sono deboli.

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 L’esercizio mentale, tuttavia, ha mostrato benefici nei tre studi clinici inclusi nella review. Ciò ha comportato programmi di formazione computerizzati o una formazione cognitiva intensiva per la memoria, il ragionamento o la velocità di elaborazione. In uno studio, i partecipanti hanno migliorato significativamente la memoria che è rimasta stabile in un follow-up a 5 anni. Un altro studio ha dimostrato un miglioramento nella memoria uditiva e dell’attenzione in un gruppo di anziani che hanno partecipato a un programma di training cognitivo computerizzato.

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Questa revew fornisce alcune indicazioni che possono aiutare i medici ad indirizzare i pazienti verso le migliori strategie per prevenire il declino cognitivo. Studi futuri dovrebbero inoltre affrontare l’impatto della formazione cognitiva sulla prevenzione del declino cognitivo e incoraggiare i ricercatori a prendere in considerazione strumenti facilmente accessibili, come i cruciverba e il sudoku, ma che non sono ancora stati studiati in modo rigoroso.

 

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ATTIVITA’ FISICA – DEMENZA – TERZA ETA’

BIBLIOGRAFIA:

Tribolazioni 05 – Gli Antigoal

Monografia ACT – Parte Finale – Inattività o Impegno all’Azione?

 

Monografia ACT – Parte Finale –

Inattività o Impegno dell’Azione?

PARTE 7 di 7

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5 – PARTE 6

Monografia ACT - Parte finale - Immagine:  © benchart - Fotolia.comMonografia Acceptance and Commitment Therapy: Parte Finale. Mi concentrerò sulla mancanza di attività e impegno per perseguire i valori personali.

 LEGGI LA MONOGRAFIA SULL’ ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

In quest’ultima parte della monografia mi concentrerò sull’ultimo dei processi inseriti nel modello dell’ Acceptance and Commitment Therapy: la mancanza di attività e impegno per perseguire un valore personale. 

Cosa significa? anche quando riusciamo a diventare consapevoli dei nostri meccanismi dannosi, delle nostre fusioni, delle maschere che indossiamo e dei momenti di mindlessness, in cui ci comportiamo con il pilota automatico acceso, resta un passo importante da fare: Impegnarsi per l’azione! e perseguire i propri valori! 

Gli ostacoli più dannosi a tale impegno possono essere riassunti in due categorie di comportamenti: l’impulsività e l’evitamento persistente. 

ARTICOLI SULLA PROCRASTINAZIONE

Entrambi tali comportamenti portano a vivere una vita caratterizzata da restrizione delle attività e rigidità del repertorio comportamentale. Fare sempre le stesso cose, evitare sempre le stesse situazioni equivale a non fare!

Monografia ACT – parte 5 - Quale maschera indossiamo?. -Immagine: © olly - Fotolia.com
Monografia ACT – Parte 5 – Quale Maschera Indossiamo?

L’effetto maggiormente disfunzionale della inflessibilità comportamentale è che tale scelta (perchè in fondo, di scelta si tratta…) rende difficile adattare i propri  obiettivi e i propri scopi personali alle esigenze del contesto e ciò porta l’individuo ad un continuo confronto con i propri ostacoli, che spesso ha esito negativo.

Ciò che L’Acceptance and Commitment Therapy persegue è favorire la consapevolezza dell’individuo su tali meccanismi e il riconoscimento di come perseguire mantenersi all’interno di un panorama di impulsività e evitamenti lo porti ad agire contro i propri valori.

SCOPI ESISTENZIALI

L’azione impegnata, termine usato in Acceptance and Commitment Therapy per definire l’azione personale guidata dai propri valori, prevedere che l’individuo “faccia i conti” con le proprie difficoltà e fragilità.

Accogliendo e prendendo contatto con le proprie fragilità e guidando le proprie azioni partendo dai propri valori personali permette di perseguire una vita significativa e ricca, non senza sofferenze, ma soddisfacente e SCELTA!

Un tema molto caro all’ Acceptance and Commitment Therapy è il concetto della workability, della “fattibilità“. Un’azione impegnata e guidata dai propri scopi deve essere anche fattibile, perseguibile. Ad esempio, se io vado in terapia con l’obiettivo di “non provare mai l’ansia“, posso anche impegnarmi a cercare di evitare il meno possibile le situazioni ansiogene, posso impegnarmi nelle esperienze proposte dal percorso psicoterapeutico, ma se il mio obiettivo rimane quello di non provare mai ansia l’esito sarà fallimentare, perché non è fattibile! 

IN TERAPIA

Perchè allora l’impulsività e l’evitamento sono azioni poco funzionali? Perchè entrambe non sono perseguibili per un lungo periodo di tempo. Sia l’agire in modo impulsivo nella maggior parte delle situazioni sia evitare tutto ciò che mi fa paura non può portare a risultati soddisfacenti, in termini di benessere personale e relazionale.

 

 La proposta dell’ Acceptance and Commitment Therapy è ciò che viene chiamata “committed action”, l’azione impegnata.

Che cos’è l’azione impegnata? 

– Scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il percorso

– Impegnarsi nelle azioni importanti per se stessi e nel momento di difficoltà ancorarsi al respiro, in modo quanto possibile gentile, grazie alle pratiche di mindfulness

– Godersi anche il viaggio, non concentrarsi sempre e solo sui piccoli obiettivi (un piccolo fallimento può essere un passo importante e diretto verso i propri valori personali)

– Persistere e mantenere tale impegno, mettendo in conto ostacoli e difficoltà (ad esempio, paura di a sbagliare, ricordi dolorosi, sensi di colpa, vergogna etc…)

– Do what it takes! fa quel che serve per vivere secondo i propri valori.

 ALLEANZA TERAPEUTICA

A parere di chi scrive, l’azione impegnata rappresenta una delle parti più difficili dei percorsi di vita di ognuno di noi. Talvolta, noi sappiamo bene cosa sarebbe utile e significativo per noi e passare all’azione spesso risulta comunque difficile, soprattutto se oltre alle normali paure umane ci mettiamo ad ascoltare la radio della nostra mente (metafora molto usata nell’ Acceptance and Commitment Therapy), con le sue storie catastrofiche e giudicanti di come siamo, di come ci vedranno gli altri e di cosa siamo e non siamo in grado di fare.

E talvolta, farlo da soli può risultare molto difficile… E per fare il “balzo in avanti” a volte è utile un percorso di psicoterapia.

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5 – PARTE 6

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MONOGRAFIA ACT – SCOPI ESISTENZIALI –  IN TERAPIA – ALLEANZA TERAPEUTICA

Sentire una Canzone per la prima volta: Musica & Neuroscienze.

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Musica & Neuroscienze: Un nuovo studio rivela che cosa accade nel nostro cervello quando sentiamo per la prima volta una canzone e decidiamo di acquistarla.

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Lo studio, condotto presso il Montreal Neurological Institute and Hospital – The Neuro, McGill University e pubblicato su Science, ha individuato una specifica attivazione cerebrale che rende gratificante l’ascolto di un nuovo canzone e predice la decisione di acquistarlo.

I partecipanti allo studio, mentre venivano sottoposti a risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno ascoltato 60 brani musicali mai sentiti prima e valutato quanto sarebbero stati disposti a spendere per l’acquisto di ogni brano.  Un aspetto innovativo di questo studio è l’aver imitato l’ascolto musicale nella vita reale. I ricercatori hanno utilizzato una interfaccia e dei prezzi simili a quelli di iTunes. Il valore di ricompensa di ogni canzone era indicato dalla disponibilità a comprarla per poterla riascoltare. Dal momento che le preferenze musicali sono influenzate dalle associazioni passate, sono stati selezionati solo canzoni nuove (per ridurre al minimo le previsioni esplicite) utilizzando software di music recommendation (come Pandora, Last.fm) per riflettere le preferenze individuali.

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Articolo Consigliato: Volitional Reconsumption: ancora la stessa canzone?

La regione del cervello che reagisce alla piacevolezza dell’ascolto di un canzone mai udito prima è il nucleo accumbens, che è coinvolto nella formazione di aspettative che possono venire soddisfatte. L’attività nel nucleo accumbens è un indicatore che le aspettative sono state soddisfatte o addirittura superate, dice Valorie Salimpoor, uno dei ricercatori, e questo studio ha permesso di scoprire che quando, durante l’ascolto di una nuova canzone, si verifica l’attivazione in questa zona del cervello, le persone sono anche disposte a spendere di più per averla e poterla riascoltare.

Il secondo dato importante è che il nucleo accumbens non lavora da solo, ma interagisce con la corteccia uditiva, una zona del cervello che memorizza le informazioni sui suoni e la musica. Più  l’ascolto di una canzone è soddisfacente, maggiore è la comunicazione tra queste regioni. Interazioni simili sono state osservate anche tra il nucleo accumbens e altre aree cerebrali, coinvolte nel sequenziamento ad alto livello, nel riconoscimento di forme complesse e nell’assegnazione di un valore emotivo e di ricompensa agli stimoli.

In altre parole, il cervello assegna valore alla musica attraverso l’interazione tra un antico circuito della ricompensa dopaminergico – coinvolto nel rafforzare comportamenti che sono necessari per la nostra sopravvivenza, come alimentarsi e la sessualità – con alcune delle regioni più evolute del cervello, coinvolte invece in processi cognitivi avanzati, unici nell’essere umano.

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 “Questo è interessante perché la musica è costituita da una serie di suoni che presi singolarmente non hanno alcun valore intrinseco, ma che quando si fondono insieme in modelli prevedibili possono agire come una ricompensa”, dice Zatorre, ricercatore presso The Neuro e co-direttore del International Laboratory for Brain, Music and Sound Research, “l’attività integrata di circuiti cerebrali coinvolti nel riconoscimento di pattern, la previsione e l’emozione ci permettono di vivere la musica come una ricompensa estetica o intellettuale. Questi risultati ci aiutano anche a capire perché alla gente piace musica diversa: ogni persona ha la propria corteccia uditiva dalla forma unica, che si forma sulla base di tutti i suoni e di tutta la musica ascoltata nel corso dell’intera vita. Inoltre i modelli sonori memorizzati possono avere creato precedenti associazioni emotive”.

Le interazioni tra il nucleo accumbens e la corteccia uditiva suggeriscono che ci creiamo delle aspettative di come i suoni musicali dovrebbero essere sulla base di quanto appreso e immagazzinato nella nostra corteccia uditiva, e le nostre emozioni derivano dalla violazione o dall’adempimento di queste aspettative.

 

 

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MUSICA – NEUROSCIENZE 

 

APPROFONDIMENTO:

 

BIBLIOGRAFIA:

Family History and Anxiety #2

 

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Family History Anxiety #2. - Immagine: © altanaka - Fotolia.comFamily History and Anxiety – In addition to anxiety in general, studies have examined the familial history if individuals with social phobia.

READ ON ANXIETY DISORDERS

Family studies have shown specificity in familial aggregation of social phobia. Reich and Yates (1988) examined the family histories of three groups of individuals: 1) panic disorder; 2) healthy controls; 3) social phobia. The family histories revealed those with social phobia had more relatives with social phobia than both panic disorder and control relatives.

Using DSM – III diagnostic criteria, Fyer, and colleagues (1993) interviewed first-degree relatives of 83 individuals with social phobia and 231 healthy controls.

Family History and Anxiety. - Immagine: © altanaka - Fotolia.com
Recommended: Family History and Anxiety #1

The results revealed a 16% risk of developing social phobia for individuals with a family member who had a social phobia diagnosis, compared to 5% for those with no history of a mental illness. Importantly for transmission specificity, this increase in risk was only associated with social phobia and not associated with any other anxiety disorder.

READ ATTACHMENT SERIES

Stein, and colleagues (1998) used DSM-IV diagnostic criteria and examined the family aggregation of social phobia. Interviews were conducted with 106 first-degree relatives of 23 patients with social phobia and 74 first-degree relatives of 24 participants without social phobia. This study aimed to examine the family history of the two social phobia subtypes: 1) performance; 2) generalized. The results demonstrated that 26.4% of the 106 first-degree relatives of the social phobia sample had generalized social phobia themselves, compared to 2.7% of the 74 first-degree relatives without social phobia.

In regard to the familial aggregation of performance social phobia, 14.2% of the 106 first-degree relatives of the social phobia sample had performance social phobia themselves, compared to 14.9% of 74 first-degree relatives of probands without social phobia.

Although conclusions from family history studies are to be interpreted with caution because they are retrospective, these studies (Reich et al. 1988; Fyer et al. 1993; Stein et al. 1998) demonstrate the familial aggregation of anxiety and specificity of social phobia. However, further evidence of intergenerational aggregations is needed using both top-down and bottom-up methodology.

 

READ ENGLISH ARTICLES

ATTACHMENT SERIES – ANXIETY DISORDERS

 

 

REFERENCES:

Il Malato Immaginario – Cinema & Psicoterapia #2

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #2

Il Malato Immaginario

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

Il Malato Immaginario. DVD Cover
Il Malato Immaginario. DVD Cover

Il Malato Immaginario – Cinema & Psicoterapia #2 – Argante è attento alle variazioni fisiologiche del suo organismo alla ricerca della certezza assoluta.

LEGGI LA RUBRICA: CINEMA & PSICOTERAPIA

Il Malato Immaginario è un film di Tonino Cervi,  con Ettore Manni, Christian De Sica, Alberto Sordi, Vittorio Caprioli. Italia 1979. Commedia. Tratto dall’omonima commedia di Molière.

 

TRAMA:

Don Argante, padre di una bella figlia, marito di una donna opportunista e fedifraga e vittima di uno sciame di dottori, nonostante sia sano come un pesce è convinto di essere malato. I medici vanno e vengono in continuazione dalla sua casa. Medicine, pozioni, clisteri sono placebo che rassicurano temporaneamente il ricco signore. Naturalmente la sua malattia lo tiene al ripario dai problemi della vita: I guai cominciano quando Argante promette la figlia in moglie ad un giovane dottore per potersi garantire un gratuito futuro di consulti e ricette. La figlia, però, è segretamente innamorata di Cléante e, con l’aiuto interessato e truffaldino della madre, architetta un piano che spinge il povero Argante in una fitta trama di inganni, equivoci, e finzioni. Sarà la sua fedele serva a salvarlo e a restituirlo ad una vita felice e senza malattie.

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Qualcosa è cambiato. (1997) - As good as it gets - Locandina
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MOTIVI DI INTERESSE

Ipocondriaco sino a rasentare la follia, Argante vive di medici e medicine, spiando ossessivamente in se stesso i sintomi di tutte le possibili malattie.

Il film rappresenta gli elementi del disturbo con modalità espressive che consentono di familiarizzare con la patologia e normalizzarla. Gli ingredienti essenziali sono costituiti da idee disfunzionali su salute, malattia, morte, da eventi attivanti (segni di malattia, conoscenza di nuove malattie, malattia o morte di conoscenti, parenti, amici) e infine dall’interpretazione erronea di sensazioni corporee e pensieri automatici negativi. Argante è attento a tutte le minime variazioni fisiologiche del suo organismo e ai paroloni in “latinorum” dei medici che definiscono malattie improbabili alla ricerca della certezza assoluta che possa escludere il peggio. Naturalmente i controlli devono essere ripetuti anche se esauriscono la loro funzione rassicurante in un batter d’occhio. L’ansia conferma l’idea di essere malato e chiude il circolo vizioso del povero paziente che naturalmente evita di preoccuparsi e di impegnarsi negli affanni della vita, troppo rischiosi per il suo malsano stato di salute.

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 La descrizione, la chiarificazione e la stimolazione al cambiamento sono proposti con immagini tematiche ironiche, capaci di sdrammatizzare e accelerare la comprensione dei meccanismi della patologia.

Le strane patologie elencate dai dottori, i clisteri che provocano le deflagranti flatulenze del malato immaginario, la realtà farsesca e ironica che circonda Argante possono portare il paziente che visiona il film ad un’evoluzione funzionale del sistema cognitivo in quanto sdrammatizzanti e stimolanti la messa in discussione del processo pseudo diagnostico privo di interpretazioni alternative.

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INDICAZIONI PER L’UTILIZZO:

In fase di restituzione dell’assessment, può facilitare i compiti specifici di questa fase della terapia: chiarificazione, descrizione, motivazione. Può consentire di familiarizzare con la patologia, normalizzarla e soprattutto sdrammatizzarla. Offre un’ottima base di discussione per far sì che il paziente si distanzi criticamente dai contenuti che propone e che ostacolano il miglioramento mantenendo la patologia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Meditazione G-Tummo e Temperatura Corporea

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Meditazione G-TUMMO: la temperatura corporea può essere regolata dalla mente e dal cervello.

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Un gruppo di ricercatori del dipartimento di psicologia della National University of Singapore (NUS) hanno dimostrato per la prima volta che la temperatura corporea può essere regolata dalla mente e dal cervello.

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La meditazione Tong Len e il paziente oncologico. - Immagine: © Rido - Fotolia.com
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Lo studio ha evidenziato che l’aumento della temperatura corporea può essere raggiunto attraverso una specifica pratica meditativa (G-Tummo).

Pubblicato sulla rivista PLOS ONE lo studio documenta l’effetto in un campione di monache tibetane praticanti la meditazione g-tummo, una delle tradizioni meditative più antiche e mantenuta per lo più nelle remote regioni orientali del Tibet.

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I ricercatori hanno curiosamente raccolto i loro dati in un setting ad elevata validità ecologica, addirittura durante l’esclusiva cerimonia in Tibet durante la quale le monache sono solite innalzare la loro temperatura corporea al punto da asciugare stracci bagnati avvolti sui loro corpi nel mezzo del freddo Himalayano (-25 gradi Celsius!) mentre meditano.Utilizzando misure di elettroencefalografia (EEG) e della temperatura corporea sono state rilevate temeperature anche superiori a 38.3 gradi Celsius.

 

Un secondo studio è stato effettuato con partecipanti occidentali che praticavano esercizi di respirazione secondo la pratica g-tummo, ed entro certi limiti si è comunque osservato un aumento della temperatura corporea. I ricercatori hanno identificato due aspetti della meditazione G-Tummo che possono avere impattato sul fenomeno di innalzamento della temperatura corporea: la “respirazione del vaso”, una specifica modalità di respirazione che porta alla termogenesi e alla produzione di calore, e la visualizzazione mentale in modalità immaginativa di fiamme lungo la colonna vertebrale. 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 04 – Portafoglio Stretto

 

Tribolazioni 04

Portafoglio Stretto

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Tribolazioni #4 - Il Portafoglio Stretto. - Immagine: © koya979 - Fotolia.com

Tribolazioni: perché un individuo prende sul serio l’educazione ricevuta? Ottimizzare l’uso delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi

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Quando si cercano le cause di un malfunzionamento o di una sofferenza  nell’educazione ricevuta si va alla ricerca della storia di apprendimento delle credenze che risultano attualmente disfunzionali.

Credo, invece, che ci si dovrebbe porre una domanda diversa del tipo: perché il soggetto in questione ha preso così sul serio quell’insegnamento che più o meno tutti quelli della sua generazione hanno ricevuto, dandogli tuttavia una importanza molto relativa o addirittura nessuna?.

Certamente quasi tutti hanno ricevuto l’esortazione a concentrarsi, a fare bene una cosa per volta e a “non mettere troppa carne al fuoco”. A tal proposito,  possiamo ipotizzare che gli umani siano regolati da uno pseudo-scopo (intendo con ciò uno scopo non esplicitamente rappresentato ma che regoli il funzionamento del sistema, Castelfranchi, Mancini, Miceli 2002) di “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”.

Ipotizzo altresì che tale pseudo-scopo comporti la selezione di priorità di perseguimento sia in termini di risorse da investire che di un vero e proprio timing.  Sin qui tutto sembra banale e di buon senso. Essendo sia le risorse che il tempo limitati, occorre necessariamente scegliere per quali scopi, investirli.

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Tribolazioni. Di Roberto Lorenzini – No Conflict. -Immagine: © olly - Fotolia.com
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Questa tendenza comporta un evidente  vantaggio evolutivo, in termini di successo di sopravvivenza e procreativo. Non è però altrettanto pagante in termini di realtà interna che, come già detto, è l’unica rilevante per il benessere. Conduce infatti verso una riduzione degli scopi da perseguire e verso una specializzazione delle strategie per farlo che si riducono a quelle dimostratesi più efficienti. Potremmo dire, mutuando un termine biologico, che riduce la biodiversità.

Il sistema in sostanza taglia i rami secchi:

– sia per quanto riguarda gli scopi terminali.

– sia per quelli strumentali (le strategie di perseguimento dei primi).

Un tale sistema aumenta progressivamente la sua efficienza ma contemporaneamente la sua rigidità, l’inadattabilità ai cambiamenti e, in una parola, la fragilità.

Immaginiamo, del tutto ipoteticamente, due sistemi cognitivi a confronto: il primo dotato di due soli scopi terminali ed un secondo, invece con dieci scopi terminali. Immaginiamo, inoltre, che sia il primo che il secondo vadano incontro ad un fallimento definitivo e irrevocabile di uno scopo, avremo due situazioni molto diverse. Il secondo avrà fallito per il 10% dei suoi investimenti, una perdita grave e dolorosa ma non una bancarotta. Il primo, invece, avrà perduto il 50% dei suoi investimenti. Si aggiunga che forse il primo dovrà fare i conti anche con il fallimento dello pseudo-scopo di “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”. Il che agirà dunque come moltiplicatore del vissuto di fallimento. Al contrario il secondo constatando che nonostante le circostanze avverse lo abbiano privato del 10% del suo patrimonio, il 90% resta saldamente in suo possesso potrà essere soddisfatto per il buon perseguimento dello pseudo-scopo in questione.

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 Al contrario degli educatori che esortano alla concentrazione e alle scelte, gli economisti suggeriscono l’opposto. Consapevoli di dover fronteggiare un mercato in cui, come nella vita reale, il controllo è un’illusione o tutt’al più una aspirazione, invitano a differenziare gli investimenti in modo che ciò che regge sostenga ciò che  frana e si possa poi ricostruire partendo da lì.

Tutto questo è vero a due diversi livelli:

a livello degli scopi terminali che è meglio siano molteplici e non strettamente interconnessi tra loro (come ad esempio avere un partner e fare dei figli) in modo che il fallimento di uno non ne inneschi altri in una sorta di  domino perverso.

a livello degli scopi strumentali (d’ora in avanti le strategie). E’ ovvio che le strategie che si sono dimostrate efficaci vengano mantenute e ulteriormente sofisticate con un vero e proprio processo di selezione naturale, ma tale specializzazione va a discapito della ricchezza di alternative.

Come, per dirla con un paragone biologico, il successo schiacciante di una specie riduce la biodiversità. Tale riduzione ininfluente agli occhi della specie dominante e in periodi di stabilità può diventare, a seguito di drastici cambiamenti ambientali, un vulnus intollerabile per la sopravvivenza della vita nel suo insieme. Uscendo di metafora la specializzazione è un vantaggio economico finchè le condizioni ambientali si mantengono stabili ma costituisce un fattore di rigidità e di fragilità che espone a  possibili fallimenti irrecuperabili di fronte ai cambiamenti.

Le condizioni ambientali in cui si gioca la partita dell’ esistenza sono mutevoli non foss’altro per il processo unidirezionale dell’invecchiamento. Scopi che erano adattivi nella prima infanzia (ad es.:essere amati da tutti) non lo sono più nella piena maturità e se ancora ostinatamente perseguiti portano a tribolazioni certe.

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Lorenzini_Triboloazioni_02_Esami_non_finiscono_mai - Immagine: Costanza Prinetti 2013
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Strategie efficaci a vent’anni diventano grottesche e fallimentari mezzo secolo dopo. Molti soffrono e chiedono aiuto disorientati perché non funziona più ciò che aveva funzionato in passato, alla frustrazione si aggiunge smarrimento e confusione. Infine va detto che quanto più una strategia è antica e tanto più è stata di successo tanto più sarà difficile  metterla in discussione e intravederne delle alternative: non ci si è mai pensato perché non ce ne è stato alcun bisogno.

In sintesi la naturale tendenza  a concentrarsi su pochi obiettivi ed a perseguirli con strategie efficaci ma  sempre identiche costituisce un elemento di grande fragilità quando il cambiamento dell’ambiente rende inefficace il vecchio funzionamento.

Detto in altri termini lo pseudo-scopo  dell’ “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”, rende efficienti ed economici i sistemi in condizioni di stabilità ambientale ma pericolosamente rigidi e dunque fragili in situazioni di cambiamento.

In questi casi alla sofferenza per il mancato raggiungimento di uno scopo si aggiunge quella derivata dall’avvertire che il proprio sistema non funziona bene, non riesce  a trovare nuove soluzioni e ripropone incessantemente vecchie modalità che, seppure dimostratesi fallaci, non hanno alternative.( Girotto 1994; Girotto, Legrenzi 1999; Mancini, Semerari 1985,1990;Lorenzini, Sassaroli 2000)

Riepilogando:

– fallisce lo scopo S’

– falliscono le strategie di perseguimento di S’ cioè St’

– falliscono gli scopi S’’, S’’’ S(n) strettamente connessi a S’

– tale fallimento riguarda una parte cospicua dell’intero sistema di scopi

– fallisce dunque anche  lo pseudo scopo PS’

Per dirlo in parole povere.

Restringere il portafoglio in cui si investe piuttosto che ampliarlo è una manovra difensiva che comporta molti rischi. Poiché il possibile fallimento in un settore è sempre in agguato e mai escludibile con certezza è chiaro che maggiori saranno gli ambiti cui si  da importanza e minore sarà il riverbero di un singolo insuccesso sull’assetto generale. Chi  punta solo sull’amore rischia di affondare insieme al suo matrimonio che naufraga.

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 Chi si identifica con il  lavoro può fallire insieme alla sua attività. Quando la posta in palio è puntata tutta su un solo cavallo ci sarà costantemente ansia nel timore del possibile insuccesso e disperazione dopo che sarà avvenuto. La regola base degli economisti che suggerisce di differenziare gli investimenti dovrebbe essere sempre seguita ma talvolta gli uomini sembrano presi  dal brivido del gioco d’azzardo. Amano rischiare. Si sentono più vivi  se sanno di poter perdere tutto e ciò poi non avviene.

Naturalmente non c’è un numero giusto di scopi su cui investire e spesso essi sono embricati e in riferimento reciproco.

Numerosi psicologi (Beck 1988, Guidano 1988,1992,1996;Hall Lindzey 1957; James 1890; Liotti 1994,1995; Weiner 1992)) si sono cimentati nella classificazione delle motivazioni fondamentali degli esseri umani: bisogni fisici legati alla sopravvivenza come mangiare, bere, dormire e proteggersi dagli agenti atmosferici o sociali legati alla consuetudine di vivere in branchi e tra questi: avere un ruolo riconosciuto e rispettato, collaborare con gli altri, accudire i piccoli e accoppiarsi felicemente e ripetutamente per diffondere i propri geni nel mondo. Spesso un singolo obiettivo è al servizio di scopi diversi, ha un carattere, per così dire,  pluristrumentale.

Tribolazioni 03 - Ci Penso Io - Scenari Mentali, Astrazioni e Ipotesi - Immagine: © 2011-2013 Costanza Prinetti
Tribolazioni 03 – Ci Penso Io.

L’insieme del portafoglio di  obiettivi organizza la quotidianeità. Faccio l’esempio di un giovane ingegnere al primo impiego.  Guardandosi allo specchio la mattina, fruga mentalmente nell’elenco e  decide. Oggi mi dedicherò  a conquistare la Livia Arcuati, una quasi coetanea riccioluta evidentemente insoddisfatta. Sia per rilanciare con il suo sostegno i miei geni sul mercato, sia per aumentare il mio prestigio tra amici e conoscenti e, non ultimo, per vedere di ottenere il posto di direttore nella Arcuati s.r.l. e magari subentrare come amministratore delegato alla scomparsa del padre di lei.

Il saggio tenta sempre di prendere più piccioni con una fava. Riproduzione, prestigio sociale, ricchezza e risorse sono tutti concentrati per il giovane ingegnere nella deliziosa figurina esile e neroricciuta di Livia Arcuati. Ella una specie di imbuto, la via finale comune dove tutti gli scopi convergono. Lei è l’enorme fava che attira e cattura tutti i piccioni. Conquistare Livia da un senso di unitarietà che compatta l’identità e bandisce ogni dubbio e incertezza.

 

 

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Recensione: Il Lato Positivo … di una tragicommedia psichiatrica

 

Il Lato Positivo - Locandina Cinematografica
Il Lato Positivo – Locandina Cinematografica

Recensione: Il Lato Positivo – potrebbe essere definito commedia nevrotica all’americana, per l’alta densità di contenuti da DSM-IV, o oramai da DSM-V.

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Il Lato Positivo (che sarebbe stato meglio chiamare “Il risvolto positivo”, secondo il titolo originale The Silver Lining Playbook), diretto da David O. Russell è un film che ha destato molto clamore alla recente notte degli Oscar (8 candidature) e che potrebbe essere definito commedia nevrotica all’americana, per l’alta densità di contenuti da DSM-IV, o oramai da DSM-V.

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Si parte dal protagonista Pat (un bravissimo Bradley Cooper), che esce da un istituto psichiatrico forense (tipo OPG), dove era stato ricoverato per aver malmenato l’amante dell’amatissima moglie, dopo averli colti in flagrante. Nell’occasione gli viene diagnosticato un disturbo affettivo bipolare, che prima dell’evento aveva dato segni di sé solo attraverso occasionali sbotti d’ira e lievi sbalzi d’umore. Lo scoprire la moglie sotto la doccia con l’amante rappresenta l’evento traumatico che slatentizza la malattia, in accordo con recenti teorie che sottolineano l’importanza dei life events nell’insorgenza del disturbo bipolare (Kauer-Sant’Anna et al, 2007). L’evento aveva come colonna sonora una canzone di Stevie Wonder, che rappresenterà, in occasione di ascolti successivi, un potente trigger per esplosioni di rabbia.

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Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata
Psicopedia: Disturbo Bipolare

Ne Il Lato Positivo, Pat affronta tutte le consuete difficoltà di un paziente psichiatrico che prova a reinserirsi in un contesto sociale, dopo un lungo ricovero, per di più con una misura restrittiva, che gli impedisce di tornare a casa con la moglie fedifraga e che lo costringe a regredire a casa dei genitori. Nel ritratto del personaggio emergono aspetti di evidente disforia, che a tratti sfociano nella sintomatologia ipomaniacale, anche causati dall’iniziale rifiuto della terapia farmacologica, considerata troppo sedativa. Il problema della compliance farmacologica per i pazienti bipolari è di assoluta importanza, se si pensa che certi studi sottolineano come la mancata aderenza alle medicine raggiunga il 60% in certi gruppi (Vieta et al., 2012). D’altra parte è anche abbastanza comprensibile che un individuo preferisca trovarsi in uno stato di eccitazione, rispetto a uno stato di profonda malinconia.

Ne Il Lato Positivo, l’assunzione del farmaco pare comunque sortire un effetto benefico, di controllo degli stati mentali più clamorosi e distruttivi. Restano inalterati invece gli altri aspetti della personalità del personaggio, caratterizzata da una candida ingenuità un po’ infantile e che a tratti sfocia in un vero e proprio pensiero magico, soprattutto rispetto all’impresa di ripresentarsi alla moglie completamente cambiato. Pat è guidato in ogni sua azione da una sorta di pensiero positivo («Excelsior!»), che lo porta a concentrarsi solo sui risvolti rosei delle situazioni. Non si capisce quanto questa attitudine sia connaturata agli aspetti ipomaniacali del disturbo o quanto sia una strategia di primo livello appresa in qualche percorso psicologico.

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 Il pensiero magico caratterizza in modo evidente anche il padre del protagonista (Robert De Niro), che imprigionato nell’idea prevalente della vittoria della squadra del cuore, i Philadelphia Eagles, vive la realtà che lo circonda con continui rituali ossessivi e procedure scaramantiche. Si tratta di un ossessivo “caldo” che in un paio di situazioni riesce ad essere molto empatico e contenitivo con Pat. La provenienza statunitense della pellicola impone la presenza di uno sceriffo, ed ecco apparire il poliziotto addetto al controllo della misura restrittiva, che sottolinea come in America l’idea della pericolosità sociale dei pazienti psichiatrici sia tutt’altro che superata (ma in compenso si possono comprare le pistole nei supermercati…).

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La parata dei nevrotici si arricchisce della madre di Pat, vera martire della casa, del fratello avvocato, mostro di insensibilità, dello psicoterapeuta indiano che al sabato si trasforma in un hooligan dei Philadelphia Eagles, del migliore amico di Pat che si chiude in garage a ascoltare heavy metal per scaricare la rabbia verso il perfezionismo coercitivo della moglie borghese.

Sinead O'Connor
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La figura femminile di spicco della pellicola è Tiffany (la vincitrice dell’Oscar Jennifer Lawrence), giovane vedova disinibita e promiscua (ma solo come modalità di elaborazione del lutto…) che si innamora di Pat e riesce, tramite un concorso di ballo (danzaterapia?), a farsi ricambiare e a fargli abbandonare l’idea di riconquistare la moglie.

Tiffany e Pat si incontrano soprattutto sul terreno delle rispettive fragilità ed è ben riuscito uno dei primi loro dialoghi, dove si scambiano pareri sugli psicofarmaci sperimentati (Abilify, Seroquel, Trazodone…), come fossero ricette di cucina.

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Nonostante qualche caduta in certi luoghi comuni («forse perché riusciamo a vedere cose che a voi altri sfuggono»), il regista cerca di evidenziare come chi riceve l’etichetta di malato psichiatrico sia più libero e meno bloccato emotivamente dei cosiddetti “normali”, con un lieto fine stars and stripes all’insegna (ovviamente) della positività.

Sono uscito dal cinema con il sorriso sulle labbra e quel vago senso di speranza che fa tanto bene e non ha effetti collaterali.

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