Sergio Castellitto interpreta lo psicoanalista Giovanni Mari nell’adattamento italiano della serie televisiva In Treatment.
Da alcuni giorni va in onda la versione italiana di In Treament, la serie televisiva israeliana dedicata all’attività di uno psicoanalista e al suo rapporto con i pazienti. La fama mondiale di questa serie è arrivata grazie alla versione americana, interpretata da Gabriel Byrne che recita nei panni dell’analista Paul Weston.
Eppure non bisogna dimenticare che la versione originale è israeliana e si chiama “Be Tipul” (ovvero “in terapia” in ebraico) mentre il terapeuta si chiama Reuven Dagan ed è interpretato dall’attore Assi Dayan. Su questo format sono state costruite le versioni degli altri paesi: Romania, Serbia, Olanda, Argentina, Stati Uniti e molti altri paesi.
Attenzione: la versione israeliana esporta non solo il format, ma l’intera sceneggiatura quasi parola per parola. Guardando le varie versioni nei diversi paesi i dialoghi sono sempre pressoché identici, con adattamenti davvero minori. Per esempio, il paziente del martedì della prima serie, il pilota militare attanagliato da sensi di colpa per avere lanciato una bomba su una scuola uccidendo dei bambini, sia nella versione americana che in quella israeliana ha cercato “il migliore” psicoanalista per fare terapia.
Ma nella serie americana il paziente raccoglie le informazioni da fonti impersonali e professionali: curriculum, internet, altri professionisti. Nella serie israeliana ha ricevuto l’informazione attraverso ex pazienti e parenti del terapeuta. Potrebbe trattarsi di una differenza culturale tra informazione impersonale e razionale “nordica” e informazione relazionale ed emotiva “mediterranea”? Secondo Gal Szekely, psicoterapeuta e conferenziere appassionato di “In treatment” è possibile.
Nella serie italiana il terapeuta è Sergio Castellitto. Ho potuto assistere alla prima puntata, e la sceneggiatura segue fedelmente l’originale israeliano. La scena si apre con la paziente del lunedì (Sara, nella serie italiana) piangente che racconta
!!! ATTENZIONE SPOILER !!! VENGONO RIVELATE PARTI DELLA TRAMA
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la crisi della sua relazione per poi dichiarare il suo amore al terapeuta (Giovanni Mari, nella serie italiana). Identica la sceneggiatura, mentre ci sono delle modifiche di ambientazione: lo studio americano e quello italiano sono ingombri di mobili e di modellini di barche; spoglio e spartano invece lo studio del terapeuta israeliano.
Gli attori però sulla stessa sceneggiatura costruiscono personaggi differenti.
Giovanni Mari, almeno in questa prima puntata, sembra un tipo più sicuro di sé e più sereno del plumbeo Paul Weston. Gli sfuggono espressioni ironiche e distaccate mentre ascolta i racconti istrionici di Sara.
Sara, a sua volta, non sembra la belva vorace che è Laura e che sovrasta Paul fin dall’inizio. L’americana Laura, ora me ne rendo conto meglio, è davvero una persona molto dura, molto “working class”, se posso dirlo. Schiaccia con la sua sensualità violenta e feroce il funereo e depresso Paul fin dall’inizio.
L’italiana Sara è altrettanto popolare (usa un linguaggio infarcito di “cazzo!”) ma appare priva della brutalità che a tratti esprime Laura. L’effetto finale è, per ora, più realistico. In che senso? Nel senso che Sara davvero sembra una paziente fragile, come molti pazienti. Una paziente che ha idealizzato il terapeuta ed esprime, un po’ goffamente, desiderio sessuale. Un vero transfert? E Giovanni Mari, almeno per ora, non sembra eccessivamente scosso dalle avance della paziente.
Tutto il contrario nella versione americana: Laura sembra una che ha deciso di portarsi a letto l’inerme Paul e che, quando vorrà, lo farà. Paul è scosso, forse addirittura terrorizzato fin dall’inizio. Non ha il controllo della terapia ed è tentatissimo, nel suo grigiore, dalla sensualità di Laura.
Vero è che, al termine della puntata, anche Giovanni Mari inizia a slittare pericolosamente verso luoghi prossimi alla violazione delle regole. La violazione più impressionante? Cede di schianto e troppo facilmente alla richiesta di Sara di passare al tu.
D’altro canto questo è lo spirito di In Treatment, che sia israeliano, americano o italiano: un terapeuta fragile, schiacciato da ondate di relazioni terapeutiche che lo sommergono.
Dalla Soggezione del Familiare alla Violenza Psicologica.
Psiche & Legge #7: Alienazione Mentale: Nelle precedenti rubriche mi sono soffermata sul reo. Con l’appuntamento odierno l’attenzione è rivolta alla vittima.
Nelle precedenti rubriche, mi sono soffermata sulle caratteristiche del reo, esaminandone le tematiche inerenti la normalità psichica, la pericolosità sociale, e, persino, il corredo genetico, ove correlato alla vulnerabilità caratteriale, quale fattore scatenante l’atto criminale.
Con l’appuntamento odierno, si cambia rotta. L’attenzione, oggi, sarà rivolta alla vittima.
Ma non ad una vittima qualsiasi. Tratterò, difatti, della vittima della cosiddetta violenza psicologica. Il pensiero, inevitabilmente, corre ai ben noti fenomeni dello stalking, purtroppo sempre più frequenti, sui quali, tuttavia, si tornerà più avanti. La questione che mi preme affrontare in queste righe, è quella dell’aggressione mentale.
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Tema che richiama, senza ombra di dubbio, il fenomeno del plagio. È noto, che il reato di plagio è stato dichiarato incostituzionale molti anni fa (Corte Costituzionale, n. 96 /81), per via delle difficoltà pratiche connesse alla prova del delitto. Si pensi che, ai giudici – chiamati ad emettere una sentenza di condanna, o di assoluzione, ai sensi dell’abrogato art. 603 c.p. – veniva chiesto, in pratica, di affermare (al di là di ogni ragionevole dubbio, e dati scientifici alla mano), se l’imputato avesse effettivamente plasmato la vittima, inducendola a porre in essere un determinato comportamento, da questi preordinato. Ma come potevano tracciarsi, con certezza, i confini tra azioni influenzate da altri (pur sempre volute dal soggetto agente) e azioni “comandate” dal reo (e, dunque, prive di qualsivoglia partecipazione psicologica da parte della vittima)?
Queste le perplessità dei giudici, che testualmente affermarono: “è estremamente arduo, se non impossibile, individuare sul piano pratico” e distinguere “l’attività psichica di persuasione da quella anch’essa psichica di suggestione. Non vi sono criteri sicuri per separare e qualificare l’una e l’altra attività e per accertare l’esatto confine fra esse”. Non poteva più accogliersi, pertanto, un sistema normativo che delineava una figura, come quella del plagio – dal latino plagium e dal greco plágion, sotterfugio – appositamente tesa a sanzionare penalmente, una sorta di schiavitù mentale della vittima al suo “aguzzino psichico”, alla stregua di una soggiogazione meramente fisica (tanto che il reato in parola, era collocato, si badi, tra i delitti contro la personalità individuale, al pari della riduzione in schiavitù).
Non doveva dimenticarsi, in sostanza, secondo la Corte Costituzionale, che l’uomo è per natura influenzabile, e che non sempre può individuarsi una linea netta tra la condotta della vittima, frutto di una lecita ed umana suggestione, e quella conseguente esclusivamente all’altrui premeditata manipolazione. Ebbene, venendo a mancare una norma specifica tesa a punire i descritti comportamenti, forte era l’esigenza di offrire adeguata risposta punitiva ai fenomeni prima ricondotti nell’alveo del plagio. L’aver cancellato il reato di plagio dal Codice Penale, in effetti, se da un lato aveva reso onore ai principi di certezza probatoria – che, giustamente, va fondata su basi certe, e non su mere illazioni – non aveva, dall’altro, risolto la questione. Anzi, la dichiarazione di incostituzionalità, aveva lasciato un vuoto di tutela, costringendo l’operatore di diritto a frugare tra le norme, al fine di comprendere come, ed a che titolo, sanzionare tutte quelle condotte precipuamente volte a condizionare taluno, per i propri personali interessi. Del resto, la Costituzione italiana garantisce ampia tutela alla personalità individuale, protetta, a mezzo dell’art. 13, anche sotto il profilo della violazione della sfera psichica.
Tanto è vero, che l’art. 32 Cost. – nel dotare la salute di un ampio ombrello di tutela – ne intende garantire non solo l’integrità fisica, ma altresì quella mentale. Occorreva (ed occorre), dunque, colmare la lacuna normativa. Ma come? Sfogliando le pagine del Codice Penale, scoviamo diverse norme che potrebbero tornarci utili per “inchiodare” di fronte alla giustizia, chi – intenzionalmente – abbia mirato a manipolare una persona, per trarne un personale vantaggio, solitamente di natura patrimoniale. Tra queste disposizioni, ad esempio, potrebbe annoverarsi l’art. 613 c.p., che punisce chi “mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo” ponga taluno, senza il suo consenso “in stato di incapacità di intendere o di volere”. In detta ipotesi, alla vittima – capace d’intendere e volere – viene indotto uno stato d’incapacità. Si tratta, è evidente, di una condizione di incapacità provvisoria, posto che, se le si procurasse uno stato di incapacità permanente, si sconfinerebbe nel più grave reato di lesioni personali. Ancora, prendendo spunto dalla normativa americana – che, con riferimento al termine adottato dallo studioso Borowitz, associa tal genere di condotta ad un sequestro psicologico, noto come psychological kidnapping – si potrebbe mettere in correlazione il buon esito di una manipolazione psichica, ad una materiale limitazione della libertà di muoversi della vittima (è curioso pensare che, quando il plagio era ancora contemplato dal nostro codice, le accuse, formulate a tal titolo, si tramutavano, di sovente, in condanne per sequestro di persona).
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Al di là dei rilievi appena estesi, preme comunque annotare come la figura delittuosa che più risponde alle nostre esigenze, è quella della circonvenzione di incapaci, delineata dall’art. 643 c.p. Tale norma punisce chi “per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso”. Per “effetto giuridico dannoso”, si intende, lo si noti, una lesione del patrimonio della vittima, con conseguente arricchimento di quello del reo. Si spiega così, difatti, la collocazione della norma tra i reati “contro il patrimonio”. Vi sarà circonvenzione di incapace, dunque, in presenza di: a) un’attività d’induzione posta in essere dal reo; 2) l’incapacità della vittima; c) l’abuso di tale incapacità, da parte del criminale. Potranno essere puniti, pertanto – a titolo di circonvenzione di incapace – alcuni comportamenti, un tempo ricondotti al plagio.
Ne potrebbe rispondere, ad esempio, chi abbia approfittato dell’altrui incapacità (fragilità psichica, sofferenza di disturbo paranoide, o altra ragione di menomazione psichica) per farsi rilasciare una delega ad operare sul suo conto corrente. Parimenti, potrebbe rischiare la condanna per circonvenzione di incapace, chi abbia fatto forza sulla particolare vulnerabilità di un anziano (da potersi ritenere, anche solo transitoriamente, incapace, per via dell’isolamento affettivo in cui vive, che lo rende maggiormente fragile e timoroso, o in ragione di un’insorgente demenza senile) per farsi donare soldi o immobili. Va precisato, inoltre, che il reato in parola è ravvisabile anche nell’ipotesi in cui – a manipolare taluno – sia stata una persona a questi vicina, quale un parente, un coniuge, o un compagno di vita. Certo, in tali evenienze, sarà più complicato, da punto di vista probatorio, distinguere tra i condizionamenti (leciti) inevitabilmente connessi al rapportarsi tra amanti, amici, familiari, e le manipolazioni (illecite), perpetrate allo specifico scopo di assoggettare a sé l’incapace, e trarne beneficio economico. Ancor più grave, infine, sarà l’attività di induzione posta in essere, non già nei confronti di un singolo individuo, bensì diretta ad una comunità di persone, intesa come “folla”, definita dal noto Le Bon, nell’opera “Psicologia delle folle” del 1895, come “un agglomeramento di uomini” che “possiede caratteri nuovi, molto diversi da quelli degli individui di cui esso si compone”, dove “la personalità cosciente svanisce” e si forma “un’anima collettiva”, una “folla psicologica” che “invade il campo dell’intelligenza e paralizza ogni facoltà critica”. E appare superfluo marcare la pericolosità delle conseguenze connesse ad una sorta di manipolazione di massa. Del resto, Friedrich Nietzsche affermò che “la follia è nei singoli qualcosa di raro − ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola”. Si approda, così, sul delicatissimo terreno della manipolazione mentale propria dei fenomeni settari, sui quali tornerò con apposita trattazione.
Lusa, V., Pascasi, S., & Borrini, M. (2012). Sanity and Insanity in a Criminal Trial: The European Experience Seeks the American Experience, in Proceedings 64rd Annual Meeting of American Academy of forensic Sciences, Atlanta.
Vi ritrovate a fantasticare sulla collega del quarto piano o sul giovane panettiere che vi imbusta lo sfilatino nonostante siate sentimentalmente impegnati? State tranquilli, il desiderio sessuale per più partner è assolutamente naturale. La monogamia, invece, no.
Questo è quanto affermano Barash e Lipton nell’interessantissimo e divertente libro Il mito della monogamia(2002), in cui fanno letteralmente a pezzi l’ideale della monogamia portando prove a supporto dell’ipotesi che la poligamia sia la regola (e non l’eccezione) non solo nel regno animale, ma anche, e soprattutto, fra gli esseri umani.
Tra curiosità alla “Incredibile, ma vero!”, ricerche di zoologia comparata e psicologia, studi dai titoli esilaranti sulla vita sessuale libertina degli uccelli, in aggiunta ad una nutrita rassegna bibliografica, gli autori illustrano come siamo biologicamente programmati per il tradimento.
Dal punto di vista evolutivo il discorso è molto semplice: nella gara per la riproduzione i maschi hanno un netto vantaggio rispetto alle femmine. Infatti mentre una femmina nasce con un numero limitato di ovuli, costosi da produrre e con impressa una data di scadenza, i maschi possono sfornare milioni di spermatozoi in pochissimo tempo con un piccolo dispendio di energia e hanno quindi un vasto potenziale riproduttivo. Se aggiungiamo a ciò una bassa soglia di eccitazione sessuale ed una forte attrazione per la varietà tipicamente maschili, non stupisce che i maschi tendano più facilmente alla poliginia o, in caso di monogamia, abbiano una maggiore suscettibilità a ricercare rapporti extra-coppia. In un’ottica evolutiva, quindi, il tradimento ha per il maschio lo scopo di aumentare la possibilità di trasmettere i propri geni.
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Che cosa spinge invece una femmina a tradire il proprio compagno? Innanzitutto avere rapporti con partner diversi aumenta la probabilità di essere fertilizzate, in secondo luogo permette di scegliere ed ottenere geni migliori per la propria prole; infatti difficilmente si tradisce con il primo che si incontra, ma si sceglie un partner che sia in qualche modo superiore al proprio compagno: si tiene il maschio affidabile che cura la prole, ma non si disdegna un giro col maschio alfa!
Il tradimento, però, può essere pericoloso! Il maschio, per esempio, lasciando la propria compagna da sola per andare a caccia di una scappatella potrebbe a sua volta ritrovarsi “cervo a primavera” (quale ironia!) oppure rischiare di prenderle dal partner dell’amante o, ancora, andare in bianco o trovare una femmina non fertile. Per le femmine i rischi sono addirittura maggiori, soprattutto nel caso in cui venga scoperto il tradimento: oltre alla possibilità di ricevere una punizione fisica dal proprio partner, rischiano di essere abbandonate o che la propria prole riceva meno cure dal compagno che sospetti di non esserne il vero padre (senza contare la perdita della reputazione sociale).
Sebbene la tendenza ad avere più partner sia naturale, a nessuno piace ritrovarsi con un paio di corna in testa; così nel regno animale si osserva la messa in atto di comportamenti di stretto controllo nei confronti del partner (soprattutto femmina), con maschi che si ritrovano a fare la guardia alla propria compagna soprattutto nei periodi di fertilità … un po’ l’equivalente del controllare i messaggi sul cellulare o l’account di Facebook, dei pedinamenti e del divieto di uscire da sole con le amiche in discoteca!
Quindi la prossima volta che il nostro partner ci troverà tra le braccia di un altro potremo giustificarci dando la colpa alla biologia? Sì, ma solo se saremo in grado di dimostrare di non possedere il libero arbitrio! Infatti l’essere umano ha la possibilità di scegliere se fare o meno qualcosa, e quindi può decidere se tradire o meno. Pertanto la monogamia sembra essere più che altro una scelta per noi umani, per di più non facile visto che, in quanto animali sociali, siamo continuamente immersi nelle relazioni ed esposti alle tentazioni della carne.
Cinicamente si potrebbe condividere quanto sostengono Barash e Lipton: “La maggior stabilità [di una coppia] presumibilmente deriverebbe da una situazione in cui ogni partner è davvero – o pensa di essere – un po’ meno desiderabile dell’altro! In questo caso, ognuno penserebbe probabilmente di avere fatto un buon affare (cioè di avere un partner ‘migliore’ del previsto) e probabilmente non cambierebbe per tentare di conseguire una superiore eccellenza”.
Ma, riconoscono gli autori, se negli animali la monogamia è solo una questione biologica, negli umani è anche qualcosa in più: “è anche una questione di psicologia, sociologia, antropologia, economia, diritto, etica, teologia […]” dove concorrono altri fattori come l’amore, la fiducia, l’impegno, la paura, la rabbia, la prole, la lealtà, il denaro, la malattia, ecc.
E forse ci piace pensare che con la persona giusta la monogamia sia una scelta … naturale. Il problema è solo trovarla tra 7 miliardi di persone. Buona caccia!
I ricercatori dell’University of Warwick e della Università della Svizzera Italiana di Lugano hanno messo a punto un gioco per analizzare come il processo decisionale – decision making – viene influenzato da un alto numero di numero di scelte possibili.
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Hanno scoperto che una distorsione nel modo di raccogliere informazioni induce a ad assumere maggiori rischi quando ci si trova di fronte ad un ampio set di opzioni, un fenomeno che i ricercatori hanno definito ”search-amplified risk”.
Ciò significa che, di fronte ad un gran numero di possibilità – ciascuna associata a diverse probabilità di verificarsi – le persone sono più propense a decision making che sopravvaluta le probabilità di alcuni degli eventi più rari.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Psychonomic Bulletin and Review, ha evidenziato che in presenza di ampi set di possibilità, le persone corrono più rischi sulla base di una stima errata delle grandi vincite, rimanendo in realtà spesso a mani vuote.
Il dottor Thomas Hills del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Warwick sostiene che il problema non sia il fatto che le persone prendono decisioni – decision making – casuali quando sono di fronte a un gran numero di opzioni, ma che prendono decisioni razionali, utilizzando però strategie difettose di raccolta delle informazioni. La gente insomma raccoglie più informazioni quando ha più possibilità di scelta, ma il problema sta nel fatto che ogni opzione non viene saggiata abbastanza da capire le sue probabilità di base, aumentando così la probabilità di andare incontro ad eventi rari e rischiosi.
La Dismorfia Muscolare o Vigoressia : lo Specchio deforme di Adone
Di Massimo Amabili
La dismorfia muscolare: “preoccupazione cronica di non essere sufficientemente muscolati“.
Gli individui con dismorfia muscolare vivono un senso di inadeguatezza che li induce ad evitare contatti sociali, a fallire frequentemente nelle relazioni interpersonali.
La dismorfia muscolare, secondo Pope, Gruber, Choi, Olivardia and Phillips (1997, p. 550) è una “preoccupazione cronica di non essere sufficientemente muscolati” (o a volte, specialmente in caso di donne, muscolati e magri). Gli individui affetti da dismorfia muscolare sviluppano una marcata dipendenza dall’esercizio fisico (protratto per molte ore al giorno), unita ad un’attenzione eccessiva alla loro dieta.
Inoltre, presentano compromissioni in aree importanti del loro funzionamento (sociale, occupazionale, relazionale): i soggetti affetti da tale disturbo possono allenarsi per più di due ore al giorno, talvolta sacrificando importanti impegni sociali, e compromettendo la loro salute fisica.
Gli studi di Olivardia et al. (2001, pagg. 254–259) hanno confermato ad esempio la rinuncia da parte di alcuni soggetti anche a ruoli di rilievo in affari, in ambito legale o medico, pur di perseguire lo scopo di allenarsi il maggior tempo possibile in palestra. Altri hanno perfino compromesso le relazioni familiari, divorziando dalle mogli perché il bisogno di allenarsi aveva la priorità su ogni altra cosa.
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La necessità di sviluppare sempre più massa muscolare conduce la maggior parte di loro a fare uso di sostanze illegali, in particolare steroidi anabolizzanti. Queste sostanze aiutano i muscoli a raggiungere livelli di sviluppo non ottenibili con il semplice esercizio fisico e possono provocare conseguenze negative sia di natura fisica che psichica come aumento dell’aggressività, acne, impotenza. Nonostante i soggetti siano consapevoli di tali effetti collaterali diversi studi dimostrano che l’uso di steroidi è fortemente diffuso (Pope et al. 1997; Blovin & Goldfield 1995).
I soggetti con tale disturbo, inseguendo un ideale corporeo “ipermesomorfico”, ipertrofico (Lantz et al. 2002), utilizzano queste sostanze illegali per poter andare oltre i limiti fisici posti dalla natura umana.
Per ottenere il corpo desiderato non si limitano solo a sottoporsi ad estenuanti esercizi fisici o all’uso di sostanze illegali dannose, ma si sottopongono anche a meticolose diete in cui sono ammessi solo alimenti iperproteici, importanti per lo sviluppo muscolare, mentre sono categoricamente esclusi cibi ad alto contenuto di grassi e carboidrati.
Gonfiano i loro fisici, eseguendo con grande concentrazione i loro esercizi, affinché il muscolo “straripi” da sotto la pelle, ignari di mostrare il simbolo della loro debolezza psicologica, legata ad una profonda insicurezza dell’identità di genere. I muscoli, infatti rappresenterebbero per loro un mezzo di compensazione per un senso di inadeguatezza circa la propria mascolinità. Infatti, attualmente è ampiamente accettato che la dismorfia muscolare sia più frequente nei maschi, sebbene siano stati documentati anche casi di donne con severa dismorfia muscolare. (Leone JE. Muscle dysmorphia symptomatology and extreme drive for muscularity in a 23-year old woman: A case study. J Strength Conditioning Res 2009;23:988–995 ).
Vigoressia ed anoressia sono concettualmente molto simili differendo solamente in funzione dell’ideale corporeo stabilito culturalmente: questo potrebbe indicare alla futura ricerca, che per trarre delle conclusioni più significative nelle differenze tra maschi e femmine nell’aree dell’immagine corporea e dell’alimentazione, dovrà probabilmente costruire strumenti di valutazione più sensibili alla presentazione sintomatica dei maschi con preoccupazioni legate a queste aree (10,39-40). Questo potrebbe aiutare a differenziare sottocategorie significative di disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati, che sono una categoria rilevante tra i disturbi dell’alimentazione e meglio comprendere l’esperienza dei disturbi nell’alimentazione, nel peso e nella forma del corpo nei maschi.
Pope (2000) sottolinea che più di una distorsione relativa all’immagine dei loro corpi, nei soggetti con dismorfia muscolare, vi è una distorta immagine di se stessi come uomini. L’insoddisfazione nei confronti di se stessi, viene trasferita sul corpo, come debole maschera che cela un vuoto incolmabile. Gli individui con dismorfia muscolare vivono un senso di inadeguatezza che li induce ad evitare contatti sociali, a fallire frequentemente nelle relazioni interpersonali.
Entrambi dispongono di un’autostima, estremamente fragile. Uno degli aspetti più volte sottolineato è la marcata correlazione esistente, per i soggetti affetti da dismorfia muscolare, tra taglia muscolare e autostima. Sembra che quest’ultima dipenda in modo esclusivo da quanto grossi i soggetti sentono di essere. Questo fenomeno spiegherebbe l’esigenza di richiedere costantemente rassicurazioni dagli altri, concernenti lo sviluppo ulteriore della loro muscolatura.
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Tale disturbo colpisce in maniera silente la popolazione sportiva soprattutto maschile, “mimetizzandosi” nell’equazione di genere muscolarità=forza. Whitson (1990) argomenta che per i maschi adolescenti l’apparenza e l’immagine del corpo suggeriscono forza e potere. Ciò può aiutare a spiegare anche l’esca del bodybuilding per i teenagers che hanno paura di non possedere i requisiti della mascolinità egemonica: tuttavia pochi sono gli studi condotti circa la diffusione di questa patologia sia sul territorio italiano che internazionale (Olivardia, 2001); si assume però che il 5% dei maschi che praticano il sollevamento pesi, i power lifters, e i weightlifters ne soffrano (come dagli studi di Choi, Pope, & Olivardia, 2002; Hildebrandt, Schlundt, Langenbucher, & Chung, 2006; Kuennen & Waldron, 2007; Lantz et al., 2002; Maida & Armstrong, 2005; Olivardia, Pope, & Hudson, 2000).
Uno studio italiano condotto su una popolazione di soggetti culturisti maschi (Cella, Buonaiuto, Miraglies, Cotrufo, 2005), con lo scopo di rilevare, in una popolazione di soggetti culturisti maschi, la presenza di quei caratteri psicologici indicati in letteratura (Pope et al., 2000; Olivardia, 2001), e proposti come criteri diagnostici di una Reverse Anorexia (Cella et al., 2005, pagg. 339-341), ha rilevato la presenza di una insoddisfazione per il corpo e una dipendenza dall’esercizio in soggetti che praticano il culturismo in modo agonistico. Questa categoria di atleti manifesta caratteristiche psicologiche omogenee e diverse dal campione di controllo. Risulta, confermato, il dato di una maggiore vulnerabilità per il disturbo di Reverse Anorexia nei soggetti culturisti che fanno uso di steroidi anabolizzanti (Pope et al., 1993, pagg.. 406 – 409; Blouin & Goldfield, 1995, pagg. 159–165; Pope et al., 1997). La dismorfia muscolare è un disturbo tanto giovane quanto inesplorato. L’insufficienza di ricerche al riguardo e la complessità della patologia non permettono di definire con esattezza le cause del disturbo.
Un recente studio del 2012 (Petroski, Pelegrini e Glaner) condotto su 641 adolescenti maschi e femmine di età compresa tra gli 11 e i 17 anni, ha evidenziato alla base dell’insoddisfazione corporea, studiata nel campione come percezione di sgradevolezza per il proprio corpo, tre elementi che i soggetti segnalavano come motivanti al cambiamento corporeo. Prima fra tutti la sgradevolezza estetica (mi guardo allo specchio e mi trovo esteticamente sgradevole, non conforme ai canoni di bellezza riconosciuti dalla società di appartenenza); i soggetti maschi tendenzialmente avrebbero voluto essere più muscolati, mentre le femmine dichiaravano di voler essere più magre.
L’insoddisfazione corporea risultava essere correlata successivamente all’autostima del campione: soggetti con maggiore autostima tendevano a percepire una ridotta sgradevolezza per il proprio corpo, mentre i soggetti con bassa autostima presentavano anche un grado di sgradevolezza corporea maggiore. Infine, un numero più ristretto del campione segnalava un desiderio di cambiamento del proprio corpo per ragioni prettamente salutari (essere troppo grasso/a o troppo magro/a significava ammalarsi, un rischio per la propria salute). Lo studio sottolineava anche la necessità di un intervento in chiave preventiva per questa fascia di età per limitare l’insorgenza di Disturbi d’Alimentazione e di Dismorfia muscolare.
Cella S., Buonaiuto M., Miraglies R., Cotrufo P., La reverse anorexia: uno studio descrittivo su 50 bodybuilders XIX congresso AIP sezione di psicologia clinica, Cagliari, 2005.
Mangweth B., Pope HG Jr., Kemmler G., Ebenbichler C., Pope H. G. Jr., Brower KJ, Anabolic – androgenic steroid abuse, in Sodock BJ, Sodockva (eds), Comprehensive Textbook of Psychiatry, ed 7. Baltimore, Lippincott Williams & Wilkins, 2000.
Phillips KA, O’ Sullivan RL, Pope HG Jr., (1997) Muscle Dysmorphia, “Journal of Clinical Psychiatry”, 58 (8), 1997.
Edio Luiz Petroski, Andreia Pelegrini; Maria Fátima Glaner, Reasons and prevalence of body image dissatisfaction in adolescent, Universidade Federal de Santa Catarina, 2012 (DOWNLOAD)
Secondo l’antropologo Westermarck (1921) persone cresciute nella prima infanzia nello stesso ambiente familiare, perfino se non consanguinee, sono sessualmente desensibilizzate l’una verso l’altra.
Si tratterebbe di un meccanismo evolutivo di stimolo della varietà genetica che si tramuta in uno spontaneo sentimento di indifferenza sessuale, se non di vera e propria repulsione, tra persone cresciute insieme per i primissimi anni di vita.
Riconsideriamo l’esperimento di Haidt esposto nell’articolo precedente. Una possibile obiezione è che in esso ci siano delle ingenuità di metodo. La chiave dell’esperimento è l’affermazione che il rapporto incestuoso sia privo di conseguenze psicologiche negative. Una volta accettato questo, il tabù dell’incesto diventerebbe accettabile, in termini puramente utilitaristici. Tuttavia, come si fa a dire che le conseguenze siano assenti? Che non ci siano state conseguenze sembra essere stato deciso dallo sperimentatore stesso, che ha assunto le vesti del narratore onnipotente e onnisciente.
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E già questo limita la validità dell’esperimento. Il tabù verrebbe a essere abolito solo in una situazione immaginaria manipolata da un autore onnipotente, che agisce con una certa rozzezza. Infatti, in base a quale semplicistica concezione psicologica non ci sarebbero state conseguenze? E’ sufficiente stabilire a priori che non ci siano conseguenze per etichettare l’incesto come un atto in sé innocuo e neutro e solo irrazionalmente terrifico? La razionalità del tabù dell’incesto risiede in un calcolo precauzionale, sia dal punto di vista dei rischi genetici che non. In questo calcolo vale ben poco avvertire che non ci sono state conseguenze in un caso singolo, quello di Mark e Julie (caso del resto immaginario).
In realtà è la scienza stessa che suggerisce che per l’incesto un danno psicologico è possibile. Si tratterebbe del cosiddetto “effetto Westermark”.
Secondo l’antropologo Westermarck (1921) persone cresciute nella prima infanzia nello stesso ambiente familiare, perfino se non consanguinee, sono sessualmente desensibilizzate l’una verso l’altra. Si tratterebbe di un meccanismo evolutivo di stimolo della varietà genetica che si tramuta in uno spontaneo sentimento di indifferenza sessuale, se non di vera e propria repulsione, tra persone cresciute insieme per i primissimi anni di vita.
A ulteriore conferma, il fenomeno della desensibilizzazione sessuale è stato poi osservato anche in individui non consanguinei cresciuti insieme in kibbutz israeliani (Wolf, 1970; Shepher, 1983). Subire quindi un approccio sessuale da qualcuno con cui si è cresciuti sembrerebbe generare uno stato emotivo di disagio e di sofferenza.
Per questo può diventare irrilevante che nell’esperimento di Mark e Julie si sostenga che i due soggetti non abbiano provato disagio o sofferenza. Non dimentichiamo che Mark e Julie sono due personaggi immaginari. Invece chi legge la vignetta dell’esperimento di Haidt è una persona reale. Costui, dovendo esprimere la sua opinione, proverà sulla sua pelle le conseguenze emotive dell’effetto Westermark. Sarà anche assente un danno reale, ma le conseguenze emotive sono di disagio, sia pure sottile e razionalmente inspiegabile. Mi chiedo se tutto questo non sia il segno di un possibile limite della razionalità pragmatica, utilitaristica e cognitiva.
Ma anche lasciando da parte il rischio di danno genetico, occorre ragionare con più concretezza sulle implicazioni psicologiche dell’atto sessuale. L’atto sessuale è evidentemente un piacere, ma un piacere complesso e sofisticato, che va al di là della semplicità ginnica e ludica del coito.
L’amore fisico è una relazione tra due persone. In quanto tale, esso è gravido di attese, aspettative, speranze e desideri che vanno al dì la del piacere momentaneo. Anche nel più occasionale degli incontri sessuali, queste aspettative si creano.
Certo, esse possono essere gestite e messe a tacere attraverso una dose non piccola di autocontrollo emotivo. Nel piacere sessuale occasionale i cedimenti affettivi possono essere bene accetti, ma vanno sapientemente dosati perché continuamente cozzano con l’occasionalità dell’evento. D’altro canto, è pur vero che un eccesso di freddezza sarebbe fuori luogo anche nel più sbrigativo ed episodico degli incontri amorosi, trasformandolo facilmente in un’esperienza da dimenticare. Si tratta quindi di rimanere in equilibrio su una fune.
Ma la necessità di mantenere questo precario equilibrio è incomprensibile da un punto di vista della razionalità utilitaria. Insomma, direbbe la ragione pratica, non stiamo forse esagerando? Si tratta di andare a letto insieme, di avere un po’ di piacere, di cibarsi l’uno dell’altro. Cosa sono tutte queste complicazioni, questo giocare sul filo del detto e del non detto?
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Insomma, la razionalità utilitaria vuole ridurre la fruizione del piacere dell’amore fisico alla semplicità e immediatezza edonistica del godimento alimentare. Ridurre l’amore e il sesso a piacere privo di ombre quotidiane dell’esistenza, al pari del mangiare o del bere, senza caricarlo di troppe aspettative. E in tal modo ridurlo a piacere calcolabile, quantificabile e, quindi, razionalizzabile.
Tuttavia proprio la vignetta di Haidt finisce per suggerire il contrario. Non so quanto volontariamente, ma Haidt dissemina la sua situazione immaginaria di troppe precauzioni che finiscono per suggerire che lui per primo crede poco alla semplicità delle gioie del sesso. Vediamo perché.
Apparentemente la vignetta descrive un episodio semplice e gioioso, sesso arcadico tra un efebo e una ninfa. Due giovani in una spiaggia estiva che si regalano reciprocamente un piacere. “Decidono che potrebbe essere interessante e divertente provare a fare l’amore.“ Eppure, già in quel “almeno” della frase successiva le prime ombre si radunano sui due giovani. “Almeno” potrebbe significare un innocuo “nel caso non ci piaccia” o suggerisce qualcosa di peggio?
Ma poi le ombre si addensano. “Julie già prende la pillola per il controllo delle nascite, ma anche Mark usa un preservativo, giusto per essere sicuro”. Pillola e preservativo insieme? Quante precauzioni per un piacere che vorrebbe essere così semplice e privo di complicazioni! Ma come è giudizioso questo Mark. Chissà se invece con un’altra donna che prendesse la pillola sarebbe così desideroso di indossare anche il cappuccio. Il preservativo toglie piacere, ma si vede che ne vale la pena prendere più precauzioni. Decisamente, ci allontaniamo sempre più dalla semplicità. Un coito sulla spiaggia con la propria sorella non è semplice come condividere del pesce arrostito su quella stessa spiaggia con quella stessa sorella.
Proseguiamo. Apprendiamo che “A entrambi piace aver fatto l’amore, ma decidono di non farlo mai più “ Gli piace ma non lo faranno più? E perché mai? È stato divertente, perché proibirselo? Ci si proibisce forse il concedersi ancora altri piaceri? Anzi, è parte integrante di ogni umana gioia sapere che non è l’ultima volta, che si potrà ancora attingere a quel godimento. Ma stavolta no. Meglio non ripetersi, chissà perché. Forse lo stesso Haidt comincia a innervosirsi. È stato facile per noi ipocriti lettori sorridere con moderna coolness della agitazione di chi ha letto questa vignetta durante il fatale esperimento e ha provato sacrosanto sconcerto o, peggio, impresentabile repulsione, e non è riuscito poi a giustificare razionalmente queste reazioni. Ma non dimentichiamo che anche chi ha elaborato la vignetta ha tradito una buona dose di disorientamento.
Ma andiamo avanti, che non è finita. “Considereranno quella notte come un segreto speciale che li renderà perfino più prossimi l’uno all’altro”. Un segreto speciale? Che li farà sentire ancora più vicini? Ma se si trattava di una gioia così semplice, perché trasformarla in un segreto? Non voglio negare che possa esistere il silenzio che protegge un’esperienza felice passata, e che cementa la condivisione. Il problema è però che è proprio difficile dire come possa svilupparsi, se si sviluppa, un simile ricordo comune.
Un fratello e una sorella si sono congiunti carnalmente, tra mille precauzioni. Poi, non ne parlano più per il resto della loro vita. E i loro rapporti continuano a essere sereni, privi di ombre. Almeno questo ci assicurano gli sperimentatori.
In verità, di queste due figurine ritagliate nella carta, Julie e Mark, non sappiamo nulla. Non abbiamo alcun dato che possa farci intuire cosa pensino e provino i due giovani, se non il quadro singolarmente elementare e zuccheroso che ci danno i ricercatori. La verità è che l’intero esperimento presuppone una scena troppo astratta.
Orari dei Pasti & Salute Mentale negli Adolescenti
Adolescenti: La regolarità negli orari dei pasti in famiglia é un indice misurabile degli scambi sociali in famiglia di cui beneficiano gli adolescenti.
Secondo i risultati di una ricerca condotta dal canadese Institute for Health and Social Policy l’abitudine a cenare in famiglia contribuirebbe alla buona salute mentale negli adolescenti; in particolare è la regolarità negli orari dei pasti familiari ad essere un indice misurabile degli scambi sociali in famiglia di cui beneficiano gli adolescenti, addirittura a prescindere dalla facilità di comunicazione che sentono di avere con i genitori.
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Lo studio, condotto da un team di ricercatori della Queen University, ha esaminato la relazione tra la frequenza di cene di famiglia e gli aspetti positivi o negativi sulla salute mentale nei giovani. I ricercatori hanno utilizzato un campione nazionale di 26.069 adolescenti di età compresa tra 11 a 15 anni che hanno partecipato al 2010 Canadian Health Behaviour in School-Aged Children study. I risultati indicano che gli effetti benefici della regolarità dei pasti familiari sono costanti, indipendentemente da sesso, età o benessere della famiglia. Inoltre, anche in presenza di grandi differenze rispetto alla frequenza delle cene in famiglia (0 o 7 sere a settimana), è risultato evidente come anche solo un momento di incontro aggiuntivo facesse la differenza in termini di incremento del benessere mentale ed emotivo dell’adolescente.
Lo studio ha considerato i dati relativi alla frequenza settimanale di cene in famiglia, la facilità di comunicazione genitore-adolescente e cinque dimensioni della salute mentale, tra cui l’internalizzazione e esternalizzazione dei problemi, il benessere emotivo, i comportamenti utili e la soddisfazione di vita.
Gli autori suggeriscono che i pasti in famiglia rappresentino un occasione per la famiglia di interagire in modo aperto e un opportunità per i genitori di insegnare, anche fungendo da modello, comportamenti positivi per la salute, per esempio rispetto alle scelte alimentari, ma anche per consentire agli adolescenti di esprimere preoccupazioni e sentirsi apprezzati, tutti elementi importanti per il loro benessere mentale ed emotivo.
Stress Post Traumatico e Disturbo Ossessivo: Dove Cominciare?
Stress Post Traumatico & OCD – possono combinarsi quando un paziente che ha subito un grave trauma tenta di alleviare la sofferenza con rituali ossessivi. Il caso di Albert.
I pazienti affetti da OCD sono ossessionati dall’idea di ottenere e mantenere un controllo assoluto sugli eventi in ogni circostanza e per farlo utilizzano dei rituali, ripetitivi e sempre identici per natura, che hanno l’obiettivo di allentare l’ansiae aumentare la sensazione di controllo (pensiero magico).
I pazienti affetti da Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD), con una storia quindi di uno o più eventi traumatici, cercano invece di recuperare il controllo perso durante l’esperienza traumatica attraverso il sistematico evitamento di tutte le situazioni simili o riconducibili, per qualsivoglia motivo, all’evento vissuto (“se evito mi proteggo e mi sento sotto controllo”).
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I disturbi descritti possono talora combinarsi insieme quandoun paziente che ha subito un grave trauma cerca di alleviare la sua sofferenza attraverso l’utilizzo di rituali ossessivi che favoriscono sì una riduzione immediata dello stato di allerta e un’apparente sensazione di controllo sugli eventi, ma che nel lungo periodo rischiano di non essere più sufficienti e soprattutto di occupare molte ore al giorno.
Un case report descritto in un recentissimo articolo pubblicato da un gruppo di ricercatori olandesi (Nijdam et al, 2013) descrive proprio una situazione clinica di questo tipo, interessante a mio parere soprattutto per l’evoluzione del disturbo durante la cura attraverso il metodo EMDR.
È subito evidente nel caso descritto la necessità dei clinici di stabilire delle priorità rispetto i sintomi da alleviare e contenere: da un lato la presenza di intensi rituali di lavaggio legati alla propria igiene personale e alla casa scatenati da pensieri intrusivi di “essere sporco” o da veri e propri timori di contaminazione (OCD) e dall’altro la persistenza altrettanto urgente di insonnia, flashback e continui tentativi di ricostruire l’evento traumatico rivivendo ogni giorno i ricordi rimasti vividi nella memoria (Disturbo da Stress Post Traumatico).
Il trauma, un abuso sessuale da parte di un estraneo adulto, risaliva a quando il paziente aveva 14 anni, mentre i sintomi da stress post traumatico sono iniziati solo a 21 anni, in occasione di un rapporto sessuale con il partner. Il disturbo ossessivo comparirà invece dopo altri 12 anni, quando il paziente ne ha 34 e rievoca alcuni ricordi del trauma nel corso di una psicoterapia.
All’inizio dello studio Albert ne ha 49 e riporta una sofferenza psicologica durata quasi 30 anni!
L’ipotesi dei clinici è che i gravi sintomi ossessivi di questo paziente siano una modalità attraverso cui il paziente affronta, cercando di annullarli con rituali “magici”, i pensieri intrusivi di “essere sporco”, le emozioni di colpa e i sintomi fisici di allerta legati al terrore vissuto durante l’esperienza traumatica.
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Il lavoro terapeutico parte quindi dai sintomi da stress post traumatico, con l’obiettivo di ottenere una rielaborazione efficace e completa dell’abuso, per concentrarsi solo successivamente sui sintomi ossessivi, ritenuti una conseguenza dei primi. Albert viene sottoposto a un trial di 7 sedute di EMDR (Eyes Movement desensitization and Reprocessing) al termine delle quali si riducono significativamente i sintomi da stress post traumatico e in parte anche i rituali ossessivi (OCD). I sintomi ossessivi residui vengono eliminati definitivamente con ulteriori due sedute di terapia ERP (Esposizione con Prevenzione della Risposta), terapia cognitivo-comportamentale di elezione per il disturbo ossessivo.
Un miracolo? No! Una buona diagnosi funzionale e la scelta del metodo evidence based più adeguato al quadro sintomatologico e all’evoluzione dei sintomi nella storia di Albert.
L’importanza di lavorare sul trauma sembra tornare dunque centrale anche nelle moderne tecniche terapeutiche, sicuramente più orientate sui sintomi attuali e al contesto presente in cui il paziente vive, piuttosto che prevalentemente (o talora unicamente) sul passato.
Identificare tuttavia precocemente e velocemente il legame tra i sintomi attuali e il trauma originario è la loro sfida principale: il passato viene rivissuto, compreso e reinserito, stavolta in modo non traumatico, nella propria storia di vita, che potrà andare avanti guardando al passato senza paura.
Nell’ambito dei disturbi del movimento, un disturbo complesso e che ha occupato in un primo periodo di tempo una posizione secondaria nello studio della categoria dei disturbi aprassici, è l’aprassia ideativa.
Per aprassia si intende l’incapacità della persona ad eseguire un gesto su richiesta (ad esempio: l’esaminatore che chiede alla persona di riprodurre il gesto del “ciao”), benchè non siano presenti difetti di moto, di senso e di coordinazione che ne giustifichino il suo fallimento, o perché sono assenti in assoluto o perchè non interessano l’arto esaminato (De Renzi, 1980).
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Possono persistere difficoltà sia per i movimenti che riguardano gesti simbolici e sia verso oggetti inanimati (De Renzi e coll. 1980). Ora una delle varie forma di aprassia è appunto quella ideativa. Descritta per la prima volta da Pick, le persone che soffrono di aprassia ideativa commettono errori grossolani nell’utilizzazione di oggetti, previo mantenimento delle capacità di riconoscimento (ad esempio, usare forbici come cucchiaio, portare il fornello della pipa alla bocca).
Un esempio famoso viene fornito da De Renzi e Lucchelli (1988) che riportano le difficoltà di una paziente nella preparazione del caffè. “Alla paziente vennero presentati una caffettiera, una scatola chiusa di caffè macinato, una caraffa di acqua e un cucchiaio con l’invito a preparare la macchinetta. La paziente solleva il coperchio della macchinetta e tenta ripetutamente di versare la polvere del caffè nella sua parte superiore, senza aver rimosso il coperchio della scatola di caffè. Alla fine apre la scatola e versa la polvere direttamente nella parte superiore della macchinetta senza usare il cucchiaio. Svita la parte superiore della macchinetta e versa l’acqua prima sulla tavola e poi nel filtro. Guarda a lungo perplessa le due parti della macchinetta, poi le riavvita, dopo aver aggiunto altra acqua nel filtro”.
Questa descrizione rende bene l’idea di come il paziente, appunto, manchi dell’idea o dell’ insight nel senso più lato del termine del fare il caffè per cui la relativa sequenza dei movimenti ne risulta inficiata. In un primo momento si credeva che ci fosse una esclusività di questo disturbo nell’ambito di processi di degenerazione cerebrale (demenza) o in stati post-epilettici, ma fu lo stesso Pick ( 1906) a rilevare la non sola matrice degenerativa o post-epilettica.
Da un punto di vista neurofisiologico, le aree cerebrali interessate (tenendo a mente gli studi che certificano una dominanza dell’emisfero sinistro sulla produzione, monitoraggio e coordinazione degli engrammi motori) sembra siano, prestando fede al circuito di Liepman, la giunzione parietooccipitale, anche se successivi studi hanno rilevato anche il coinvolgimento di altre aree (ad esempio l’area supplementare motoria etc.).
L’interesse personale per questo tipo di disturbo del movimento nasce dal suo essere trattato, come accennato sopra, disturbo di “serie B” o come un “epifenomeno” dell’aprassia ideomotoria (Liepman, 1900).
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La mia idea, dettata dagli studi in letteratura e debitrice dell’ottica della complessità della teoria dei sistemi, è che si tratti di due forme diverse di uno stesso processo, dove per processo intendo in questo caso, quel meccanismo coordinato da molteplici fattori che consente il raggiungimento di un obiettivo (in questo caso sistemare i vari pezzi in modo tale da poter preparare il caffè).
Quindi, tornando al discorso squisitamente neuropsicologico, l’aprassia ideativa e quella ideomotoria rappresenterebbero due disturbi che vanno a minare due aspetti di un processo complesso quale quello della pianificazione e riproduzione vuoi di un gesto appena visto (aprassia ideomotoria) vuoi di una sequenza di movimenti di cui manca la visione d’insieme (aprassia ideativa).
Uno stimolo, anche ai fini riabilitativi, potrebbe essere quello di provare a vedere il processo (in questo caso tutti i passaggi per delimitare un movimento previa conoscenza dell’idea) a 360 gradi e non concentrarsi esclusivamente solo su una punteggiatura fornita dai soli aspetti interattivi (riproduzione dei gesti o imitazione di questi).
Pick (1906). Uber eine weiteren Symptomenkomplex im Rhamen der Dementia senilis bendingt umschriebene Starkere Hirnatrophie (gemischte Apraxie). Monatsschrift fur Psychiatrie und Neurologie, 19:97-108.
Antidepressivi & Gravidanza: Assumere antidepressivi durante la gravidanza non ha alcun effetto sulla crescita del bambino durante il suo primo anno di vita
È quanto emerso da uno studio della Northwestern Medicine sugli effetti dell’assunzione in gravidanza di Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI).
Lo studio ha evidenziato che i bambini nati da madri che assumevano SSRI durante la gravidanza avevano, nel primo anno di vita, circonferenza del cranio, peso, e lunghezza simili a quella di bambini nati da donne non depresse e che non avevano assunto antidepressivi. I neonati le cui madri hanno assunto antidepressivi erano meno alti alla nascita, ma la differenza è scomparsa già a due settimane di vita.
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Inoltre, le misure di crescita per i bambini delle donne depresse che non assumevano SSRI erano simili a quelle della popolazione generale.
La depressione ha un impatto negativo sulla salute della madre e del bambino, e spesso le donne che assumono SSRI smettono al momento del concepimento e questo è causa di un alto tasso di recidiva.
Lo stress prenatale e la depressione sono legati alla nascita pretermine e al basso peso del bambino alla nascita e questo aumenta il rischio di malattie cardiovascolari. La depressione influenza anche l’appetito della donna, la nutrizione e la cura prenatale ed è associata a un aumento dell’abuso di alcol edroghe.
La depressione non trattata è anche associata un più alto indice di massa corporea, che comporta rischi aggiuntivi per la gravidanza e lo sviluppo del feto.
“Le donne che assumono antidepressivi sono interessate a conoscere gli effetti della malattia e dell’assunzione del farmaco alla nascita e a lungo termine sulla crescita e lo sviluppo del bambino”, dice Katherine L. Wisner, autrice principale dello studio e direttrice del Northwestern’s Asher Center for the Study and Treatment of Depressive Disorders, “Queste informazioni possono aiutare le donne a valutre i rischi e i benefici nel continuare il trattamento con antidepressivi durante la gravidanza”.
Avviare bene il colloquio è molto importante. Come è già stato sottolineato, nei primi momenti del colloquio psicologico si possono ricevere molte informazioni dal cliente e si possono instaurare le prime impressioni e valutazioni generali l’uno dell’altro. Per questo motivo lo psicologo deve mantenersi neutrale e avere, così maggiori possibilità di essere accettato indipendentemente dalla personalità e dalla cultura del cliente. Anche evitare particolari termini quali “problema” e “terapia” permette di mantenere questa neutralità e di evitare che il cliente avverta di essere già stato giudicato. L’unica cosa che può essere libero di mostrare a volontà è l’atteggiamento di interesse e completa accettazione e la disponibilità all’ascolto. Bisogna evitare discorsi tecnicistici, soprattutto all’inizio del colloquio perché possono generare repulsione e ostilità e aumentarli se sono sentimenti già presenti. Così, se il cliente non parla e mantiene uno sguardo cupo, lo psicologo deve evitare di elogiare gli esiti e i risultati dei propri strumenti.
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Fine e Glasser [1996] suggeriscono alcuni modi per avviare il colloquio, tutto semplici e non intrusivi:
1) “Cosa l’ha portata qui?”: fare una domanda aperta di questo tipo è una delle vie più semplici da seguire. La domanda aperta permette di passare il testimone della comunicazione al cliente (lasciando nelle sue mani il flusso comunicativo) senza imporre o indurre alcun tipo di argomento specifico e rimanendo totalmente neutrali. E’ consigliabile anche evitare particolari accenti su una o più parole della frase che potrebbero cambiare il suo significato.
2) “Lei mi sembra molto sofferente”: è un esempio del secondo tipo di apertura che, oltre a essere neutrale e semplice mette in mostra un’importante qualità dello psicologo, quella di saper nominare i sentimenti. All’interno del colloquio psicologico è importante mostrare (più che dire) al cliente che, parlando di sentimenti, non si ha paura di nominarli e di discuterne senza turbamento, mantenendoli sotto il proprio controllo.
3) “Mi rendo conto che è stato mandato da me e penso che sia questo il motivo per cui ora ha un aria così arrabbiata”: costituisce l’avvio più adatto, secondo gli autori, in un colloquio con clienti involontari. Si concentra proprio sul fatto che il cliente non è venuto di sua spontanea volontà, mostrando che lo psicologo può capirlo anche in questo. Un’introduzione di questo tipo può avere il potere di smuovere il cliente, posto davanti ad un avvio inaspettato, e di motivarlo a tentare un dialogo. Dopo questa affermazione lo psicologo può rimanere in silenzio prima di proseguire per lasciare al cliente il tempo di realizzare tutto questoe magari di iniziare a parlare.
4) “Il tribunale per la libertà condizionale l’ha mandata qui per una supervisione”: è un altro metodo per avviare il colloquio con clienti involontari. Equivale a dire cosa si sa sulle condizioni che lo hanno condotto al colloquio psicologico. Lo psicologo espone il problema come viene visto dal suo punto di vista salvo poi porre una domanda aperta del tipo: “Me ne vuole parlare?”che permette di lasciare il fluire della comunicazioni nelle mani del cliente.
5) “Lasci che le spieghi di cosa si occupa il nostro ente. Noi aiutiamo le persone a…”: questo è il genere di apertura che gli autori consigliano quando lo psicologo è dipendente di un qualche ente di servizio. Si può immaginare che il cliente sappia già in che tipo di ente si trova, ma probabilmente questo tipo di introduzione serve anche a esprimere ciò che l’ente fa attraverso un linguaggio comune e più facilmente comprensibile e, quindi, a chiarire al cliente di essere giunto nel posto giusto. Dopo questa introduzione, che deve comunque essere breve, una domanda aperta concede la parola al cliente.
Alcuni studi dimostrano che il 50% di donne lesbiche ha subito abusi sessuali nell’infanzia: circa il doppio rispetto alle donne eterosessuali. (Balsam et al. 2005; Hughes et al. 2000).
Se le dinamiche relazionali di una famiglia e la non-conformità con il genere sessuale sono già stabilite, l’abuso sessuale può causare il radicamento del distacco, dell’insicurezza dell’identità sessuale e della disidentificazione, che possono condurre all’attrazione per lo stesso sesso. L’abuso sessuale può essere emotivo, verbale o fisico. Una ragazza che è fatta oggetto di inappropriati commenti sessuali, cui viene negata un’adeguata privacy o il cui padre ha tendenze voyeuristiche, nonostante non sia stata toccata è stata lo stesso violata sessualmente. (Peters & Cantrell 1991, Howard 1991)
Tonda Huges, professore presso l’Università di Illinois a Chicago, ed i suoi collaboratori hanno pubblicato sulla rivista Science i risultati di uno studio condotto su 34.635 giovani adulti (a partire dai venti anni di età), il 2% dei quali si identificava in una minoranza sessuale (lesbiche, gay, bisessuali), al fine di esaminare la relazione tra esperienze di vittimizzazione e disturbi relativi all’abuso di sostanze stupefacenti (Huges, T. at al. 2010).
Mediante interviste faccia a faccia, i ricercatori hanno raccolto dati circa loro eventuali passate esperienze di attività sessuali indesiderate, abbandono, violenza fisica, aggressioni con armi per poi comparare gli effetti di questi episodi di vittimizzazione tra i quattro sottogruppi di identità sessuale in cui era stato diviso il campione: eterosessuali, lesbiche o gay, bisessuali, “non sicuri”.
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Dai risultati è emerso che, rispetto ai soggetti eterosessuali, lesbiche e donne bisessuali riferiscono più del doppio di esperienze di vittimizzazione ed il triplo di episodi di abusi sessuali nell’infanzia.
Anche i ricercatori Roberts e Sorensen (1999) hanno condotto una ricerca sulla diffusione di abusi sessuali nell’infanzia in particolare nella popolazione lesbica.
Ventidue questionari sono stati distribuiti attraverso il «Progetto Salute Lesbica» di Boston.
Le domande circa l’abuso sessuale infantile sono state:
• sei mai stato molestato o aggredito sessualmente?
• se sì, chi ti ha molestato?
• a che età?
Un totale di 1.633 lesbiche ha restituito il questionario. Delle lesbiche intervistate, il 45,8% ha affermato di essere stata molestata o sessualmente aggredita. Tra queste donne, il 26,8% ha indicato di essere stata molestata prima dell’età di 12 anni e il 12,1% tra i 12 e i 18 anni.
Sono cresciuta in una famiglia un po’ all’antica – per usare un eufemismo – in cui la femmina è “schiava” del maschio. Mi sentivo la bambina invisibile: una bimba vissuta nell’ombra di un fratello più grande, venerato dai miei genitori. Già a tre anni avevo capito che essere maschio era “meglio”, più facile, più bello. Ai maschi tutto era dovuto e soprattutto permesso, così, pur sentendomi donna, cercavo di comportarmi da maschio, per poter godere degli stessi diritti… Ma non è andata così. Avevo un fratello, quattro anni più grande, a lui è stato davvero permesso tutto. Anche l’abuso sessuale sulla sorella. Su di me. Mi son portata dentro questo “segreto” per anni, finché, all’età di 30 anni ho deciso di parlare e raccontare tutto. In famiglia non sono stata creduta. Il carnefice si è sentito così sicuro e tutelato da ammettere l’abuso, ma i miei genitori hanno sminuito il tutto e, messi di fronte alla possibilità di rimediare al loro errore, hanno continuato a fare la scelta sbagliata. Hanno ancora deciso di tutelare il maschio, il figlio.
Io ho troncato i rapporti con quella che non considero più la mia famiglia e che in fondo non lo è mai stata. Fino a 26 anni ho sempre avuto rapporti con soli uomini, mi sono scoperta/accettata lesbica a 30 anni, alla mia seconda storia sentimentale con una donna. Durante la prima relazione negavo l’evidenza: “Io non sono lesbica!”. Data la famiglia e il contesto in cui vivevo, non riuscivo ad ammettere, prima di tutto con me stessa, di essere omosessuale, e che, quello che provavo era amore, un amore saffico. Entrambe ci definivamo amiche. A riprova della mia eterosessualità ho continuato a frequentare dei maschi, poi, dopo due anni di “amicizia”, la presa di coscienza. Il bisogno di capire chi ero mi ha portato su una chat di “donne per donne” e lì ho trovato l’amore della mia vita. Lei mi ha spiegato e introdotto nel mondo lesbico, mi ha aiutato a trovare le risposte che cercavo e soprattutto a trovare la forza per uscire dall’inferno che era il mio contesto familiare. I miei genitori non riuscendo ad accettare questa mia “condizione” hanno definito queste persone appartenenti ad una setta. Nel frattempo, dolorosamente, ho affrontato un percorso di psicoterapia che mi ha aiutata a rielaborare il trauma dell’abuso, ad accettare la mia omosessualità e soprattutto a scoprire di non essere io quella sbagliata.
Testosterone: I risultati suggeriscono che i livelli di testosterone nei maschi subiscano un calo quando questi interagiscono con la moglie di un caro amico
Un nuovo studio della University of Missouri ha studiato l’influenza delle modificazione biologiche negli individui di sesso maschile sul comportamento sociale e le relazioni sentimentali. I risultati, pubblicati sulla rivista Human Nature, suggeriscono che i livelli di testosterone nei maschi adulti subiscano un calo quando questi interagiscono con la moglie di un caro amico.
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Mark Flinn, professore di antropologia, spiega che le proposte di adulterio fatte da un uomo alla moglie di un amico sono relativamente rare rispetto alle molte occasioni di corteggiamento offerte dalle circostanze.
I livelli di testosterone degli uomini in genere aumentano quando stanno interagendo con una potenziale partner sessuale o con la compagna di un nemico. Tuttavia, i risultati di questo studio suggeriscono che la mente maschile si sia evoluta per favorire una situazione in cui, tra amici, siano rispettati i legami di coppia stabili.
In definitiva, sostiene Flinn, questi risultati mettono in luce come le persone si siano evolute per formare alleanze.
I sociologi ritengono che la comprensione dei meccanismi biologici che impediscono ai maschi di competere per conquistare le mogli degli altri possono aiutare a comprendere come le persone collaborano in piccole realtà sociali come i quartieri, e in quelle più grandi come le città, fino a comprendere la collaborazione a livello globale.
Secondo Flinn, a livello evolutivo, gli uomini che hanno costantemente tradito la fiducia degli amici, mettendo in pericolo la stabilità delle famiglie, possono avere causato uno svantaggio in termini di sopravvivenza per l’ intera comunità.
Infatti una comunità di uomini che non si fidano gli uni degli altri sarebbe fragile e vulnerabile agli attacchi esterni. I costi di una reputazione inaffidabile avrebbero superato i vantaggi di avere un maggiore numero di figli con la compagna di un amico.
Che cos’è l’insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il suo rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o alla saggia follia dei sogni? (Marguerite Yourcenar)
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Persone che dormono in media meno di sette ore hanno probabilità più alte di avere valori della pressione sanguina superiori alla norma.
“Le ore di sonno devon essere: cinque al viandante, sei al mercante, sette allo studente e otto all’altra gente” dice il proverbio, e ancora “Andar presto a dormire e alzarsi presto chiude la porta a molte malattie”, quello che la saggezza popolare ci ricorda da tempo, la voce della nonna davanti al camino che racconta quello che la sue esperienza l’ha portata a conoscere, viene oggi sempre più confermato dalla ricerca.
Ad esempio, uno studio pubblicato nel Journal of Sleep Research da un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School di Boston ha evidenziato che donne e uomini che dormono regolarmente in media meno di sette ore hanno una probabilità più alta di avere valori della pressione sanguina superiori alla norma, rispetto ai coetanei che, a parità di stile di vita, dormono di più. Un buon sonno ristoratore magari più lungo anche di solo un’ora può aiutare a tenere sotto controllo i valori della pressione arteriosa, oltre a migliorare umore e memoria.
Secondo i ricercatori, infatti, riposare almeno sette ore inciderebbe sulla capacità dell’organismo di rispondere alle sollecitazione degli ormoni dello stress durante la giornata, avendo poi una ricaduta importante sulla regolazione della pressione sanguigna.
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Alla ricerca hanno partecipato 22 uomini e donne con valori di pressione non eccessivamente alti ma vicini al livello soglia che hanno dichiarato di dormire meno di sette ore per notte. Nelle sei settimane di durata dello studio a 13 persone è stato chiesto di dormire almeno un ora in più, andando per esempio a letto prima tutte le sere, mentre a 9 è stato detto di mantenere le stesse abitudini sonno\veglia. I risultati hanno dimostrato che i valori di pressione sanguigna erano scesi tra gli 8 e i 14 mmHg solo grazie al piccolo cambiamento chiesto ai 13 partecipanti. In affiancamento alla terapia farmacologica a chi soffre di pressione altra potrebbero forse essere prescritte qualche ora di sonno un più?
E ancora, secondo uno studio condotto dai ricercatori guidati da Timothy Roehrs, solo due ore di sonno in più a notte, almeno dieci invece delle tanto citate otto ridurrebbe la sensibilità al dolore e aumenterebbe il livello di attenzione e vigilanza. Solo due ore di sonno in più produrrebbero gli stessi effetti analgesici di 60 mg di codeina. Alla ricerca hanno partecipato 18 soggetti divisi in modo randomizzato in quattro gruppi differenti tra di loro per il numero di ore di sonno in un range tra quattro e dieci. I membri del gruppo delle 10 ore di sonno hanno mostrato una maggior tolleranza al dolore infatti hanno tenuto il dito su una fonte di calore il 25% più a lungo rispetto agli altri gruppi. Così di contro secondo i ricercatori l’aumentata sensibilità al dolore nelle persone stanche sarebbe da collegare direttamente alla loro mancanza di sonno.
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Avete mai subìto la tortura dell’insonnia, quando si avverte ogni istante della notte, quando esistete solo voi al mondo, e il vostro dramma diventa il più importante della storia, di una storia ormai svuotata di senso, e che neppure più esiste, giacché sentite levarsi in voi le fiamme più spaventose, e la vostra esistenza vi appare come unica e sola in un mondo nato soltanto per portare a termine la vostra agonia? (Emil Cioran)
Una delle leggi di Murphy recita: “Più efficienti si è nel procrastinare, meno efficienti si ha bisogno di essere in ogni altra cosa”. La procrastinazione si può definire come una decisione volontaria di ritardare il corso di un’azione, nonostante la consapevolezza che il ritardo potrebbe avere conseguenze negative. In sintesi, posticipiamo anche sapendo che è la scelta peggiore.
Lo studio di Steel e Ferrari (2012), rispettivamente delle università di Calcary e Chicago negli Stati Uniti, indaga le caratteristiche degli individui che avrebbero la tendenza a rimandare. Lo studio è stato condotto su un imponente campione di 16.413 soggetti, raccolto nell’arco di tre anni, di madrelingua inglese, reclutati attraverso internet. Le variabili prese in considerazione hanno riguardato: sesso, età, stato coniugale, numerosità del nucleo familiare, educazione e nazionalità.
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Era possibile accedere al questionario attraverso un sito online gratuito e senza fini pubblicitari. Ai partecipanti erano poi restituite informazioni riguardanti i livelli di procrastinazione e dei consigli per ridurli.
I risultati, emersi dalla ricerca, indicherebbero che la procrastinazione sarebbe maggiormente connessa a sesso, età stato coniugale e livello educativo. I procrastinatori sarebbero di sesso maschile, giovani, single, con una bassa scolarità.
La procrastinazione, non indicherebbe una semplice tendenza a rimandare ciò di cui non si ha voglia, ma costituirebbe un tratto stabile di personalità, come già ipotizzato da Steel (2007); al test-retest reliability la stabilità dei punteggi nelle somministrazioni successive (a circa 40 giorni), attestato a .73, sembrerebbe confermarlo.
La tendenza a rimandare, non avrebbe effetti negativi solo sugli studi, ma sarebbe anche associata a spese mediche più alte: i procrastinatori sarebbero dei pessimi pazienti, non seguendo le direttive dei medici o facendosi controllare solo quando la malattia è ad uno stato avanzato. Incorrerebbero poi in maggiori debiti economici, l’80% infatti ammette di non riuscire a risparmiare. In conclusione essere più cicala, che formica, come nella favola di Esopo, non avrebbe dei costi elevati solo per il singolo, ma anche per la sanità e la società.
Il Disturbo Borderline di Personalità: Una Cascata Emotiva
Edward Selby, Ph.D. Associate Professor at Rutgers University (New Jersey)
Francesca Martino, Psicologa Cognitiva
“Ho sempre sentito queste sensazioni. Non credo ci siano parole per descriverle esattamente, è una combinazione di ira furiosa, rabbia e dolore estremo. Queste si mescolano insieme in quella che io chiamo “la Furia” … Sto iniziando ad imparare come trattarla, ma fino a poco tempo fa, gli unici modi che conoscevo per domarla erano il bere e le droghe. Prendevo qualcosa, qualsiasi cosa, e se ne prendevo abbastanza, la Furia si placava. Il problema era che sarebbe sempre tornata, di solito più forte, e che avrebbe richiesto sempre più sostanze per ucciderla. Quello sarebbe stato sempre l’obiettivo: ucciderla”.
– James Frey, A Million Little Piece
Il Disturbo Borderline di Personalità – Una Cascata Emotiva – State of Mind
Cascata Emotiva: La disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità potrebbe essere considerata il risultato di un uso intenso di ruminazione.
La disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità potrebbe essere il risultato di un uso intenso della ruminazione. Infatti, la tendenza a ruminare sulle emozioni negative aumenta la loro intensità e, a loro volta, le emozioni negative intense incrementano i livelli di ruminazione, creando così un circolo vizioso, chiamato Cascata Emotiva.
Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è caratterizzato da emozioni negative intense, problematiche interpersonali e comportamenti impulsivi e discontrollati. L’instabilità emotiva e il discontrollo del comportamento sono caratteristiche centrali nel DBP (Linehan, 1993). La disregolazione emotiva è intesa come un’ intensa e veloce risposta agli stimoli emotivi e un lento ritorno all’attivazione di base. Il modello teorico suggerisce che l’instabilità emotiva sia responsabile dei comportamenti discontrallati del DBP, tra cui l’autolesionismo, l’aggressività, l’uso di sostanze e le abbuffate alimentari. Nonostante le ricerche abbiano fornito una parziale conferma di tale modello teorico, i meccanismi specifici che provocano la disregolazione emotiva ed elicitano i comportamenti impulsivi nel DBP non sono ancora chiari.
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Di recente, il Modello della Cascata Emotiva (MCE; Selby et al 2008; 2009) ha fornito una maggiore comprensione del DBP, soprattutto rispetto al rapporto tra disregolazione emotiva e comportamentale. Secondo il MCE, la ruminazione potrebbe svolgere un ruolo centrale nell’incrementare le emozioni negative e nel favorire il discontrollo del comportamento. In particolare, quando le persone con DBP sperimentano emozioni negative, inizierebbero automaticamente a rimuginare su queste con l’intenzione di regolare tale emotività intensa e sgradevole. C’è ormai un certo accordo nel definire la ruminazione come una strategia cognitiva disfunzionale di regolazione emotiva caratterizzata dalla tendenza a riflettere ripetutamente sulle cause e sulle conseguenze dell’ esperienza negativa (Nolen-Hoeksema, 1991). Nonostante sia stato dimostrato come la ruminazione aumenti le emozioni, invece di ridurle, molte persone continuano ad utilizzarla perché credono, erroneamente, che ri-pensare agli eventi aumenti la loro comprensione della situazione e la possibilità di risolvere i problemi (Papageorgiou, 2001).
La disregolazione emotiva nel DBP potrebbe essere dunque il risultato di un uso intenso della ruminazione. Infatti, come la tendenza a ruminare sulle emozioni negative aumenta la loro intensità, così le emozioni negative intense, a loro volta, incrementano i livelli di ruminazione, creando dunque un circolo vizioso chiamato Cascata Emotiva.
Al fine di interrompere questo ciclo, un individuo può adottare comportamenti disfunzionali che lo distraggono dai pensieri negativi. Questi comportamenti interrompono la cascata emotiva consentendo all’individuo di concentrarsi su altri stimoli intensi, come la quantità elevata di cibi in un’abbuffata, le azioni aggressive verso qualcuno, il dolore fisico e la vista del sangue nell’ autolesionismo. Questi comportamenti si rivelano efficaci nell’immediato (nel modificare/ridurre le emozioni negative) spiegando dunque le ragioni del loro frequente utilizzo, ma disfunzionali nel lungo periodo. Successivamente infatti, gli individui possono sperimentare nuove forme di ruminazione, derivanti dalla vergogna o dal senso di colpa per aver messo in atto comportamenti privi di controllo (come autolesionismo e/o abbuffate).
Il MCE è stato studiato su popolazioni di studenti con tratti borderline (Selby et al 2008, 2009, 2012). In uno studio trasversale, i risultati hanno mostrato che la ruminazione (depressiva e rabbiosa) mediava tra le emozioni negative e i comportamenti problematici, confermando il suo ruolo centrale nel favorire azioni impulsive e discontrollate in soggetti con tratti borderline in presenza di emozioni negative. Inoltre, in uno studio longitudinale, alti livelli di emozioni spiacevoli e di ruminazione predicevano i comportamenti impulsivi dopo poche ore dall’ evento negativo.
In conclusione, il MCE è stato studiato ad oggi su popolazione sana. Nonostante siano state confermate nel DBP delle strategie cognitive disadattive di regolazione emotiva, come la ruminazione (Baer et al. 2011), la loro implicazione nel discontrollo del comportamento deve ancora essere dimostrata in campioni clinici. Attualmente in Italia si sta conducendo una ricerca finalizzata ad indagare il MCE nel DBP.
La mediazione familiare si è sviluppata per la prima volta negli Stati Uniti negli anni 70 e attualmente si sta diffondendo ovunque con l’intento di ridurre i danni indotti da separazioni coniugali molto conflittuali. La carte europea dei Mediatori Familiari (1992) la definisce così: “Un processo nel quale un terzo viene sollecitato dalle parte per affrontare la riorganizzazione resa necessaria dalla separazione nel rispetto del contesto legale esistente. La mediazione è un lavoro che mira a ristabilire la comunicazione fra i coniugi in vista della costruzione di un progetto relativo all’organizzazione delle relazioni dopo la separazione e il divorzio.”
Lo scopo quindi dell’intervento sarebbe quello di aiutare genitori che si stanno separando in modo conflittuale a trovare strategie cooperative in quanto genitori. La mediazione offre ai coniugi la possibilità di costruire uno spazio protetto di ascolto e di soluzione del conflitto.
Sono previsti anche interventi dopo la fase di mediazione, con l’obiettivo di sostenere le risorse genitoriali in coincidenza di eventi come l’adolescenza, la modificazione dell’assetto familiare (esempio: uno dei due ex coniugi si risposa), gestione di famiglie monoparentali.
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La mediazione si differenzia dalla psicoterapia di coppia poiché nel primo caso ci si occupa in modo specifico della valorizzazione delle risorse genitoriali dando per assodata una dissoluzione del legame di coppia mentre nel secondo caso ci si interessa direttamente alla dimensione coniugale e relazionale.
Vi sono pareri diversi in base a quale debba essere la formazione di base del mediatore. In Italia attualmente non è stato approvato dal legislatore un percorso di studio obbligato per divenire mediatore, esistono però dei corsi specifici generalmente frequentati da: avvocati, psicologi e assistenti sociali.
Dove avviene la mediazione e quanto tempo dura?
La mediazione può essere pubblica, privata o collocata presso un Tribunale. Attualmente in Italia i mediatori che lavorano privatamente hanno maggiori occasioni di lavoro proprio collaborando con gli studi legali. I Tribunali per i minorenni e i Tribunali Ordinari quando decidono di prescrivere un percorso di mediazione inviano gli interessati presso i consultori e i centri di mediazione pubblici.
Per quanto riguarda la durata vi è un accordo nel proporre un numero limitato di incontri, dagli 8 ai 12, che si estendono nell’arco di tempo compreso tra 4- 8 mesi sino ad un massimo di un anno.
Quali sono le tecniche adottate dal mediatore?
Durante il primo colloquio il mediatore spiegherà che il suo tentativo sarò quello di aiutare la coppia a trovare un accordo comune, senza che sia lui stesso a dover proporre delle soluzioni, li aiuterà a definire i campi di interesse e si occuperà del futuro più che del passato.
Procederà poi con la raccolta delle informazioni più significative relative alla storia della coppie e ai motivi che hanno indotto la separazione, facendo in modo che tutte le informazioni siano condivise. Il primo compito del mediatore è quello di assumere il controllo nella definizione dell’elenco dei problemi da discutere. Il suo obiettivo è quello di far giungere la coppia ad una definizione congiunta di ciascun problema. È molto importante che la definizione avvenga in modo chiaro, non astratto e ben circoscritto.
Durante questa prima fase è facile constatare nelle persone la convinzione che la causa della crisi coniugale sia qualcosa da attribuire all’altro (ad esempio: litigiosità, aggressività, troppa dipendenza dalla famiglia d’origine, tradimenti, indisponibilità alla vita sessuale ecc). Di conseguenza all’inizio ciascuna parte è fortemente convinta che la soluzione consista nel correggere questi comportamenti presenti nell’altro. Questo atteggiamento oltre ad essere scorretto dal punto di vista relazionale è anche inefficacie dal punto di vista operativo. Compito del mediatore, quindi, è anche quello di sottolineare proprio questo aspetto ai propri clienti, specificando che la mediazione è valida nella misura in cui i partner scelgono di assumersi degli impegni, nell’interesse loro e dei figli.
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Comunque una volta definiti i singoli argomenti da discutere si passa alla fase successiva, stabilendo i problemi da affrontare. Per ogni problema definito, il mediatore stimola i coniugi a trovarne una soluzione univoca o una possibile gamma di opzioni e gestisce la contrattazione fino a raggiungere un accordo. Non deve essere il mediatore a scegliere la soluzione che a lui pare più idonea, il suo compito è quello di fare in modo che i partner raggiungano una soluzione per loro accettabile. Quando è stato individuato un accordo su tutte le questioni si procede con la stesura dell’accordo.
Tra le principali tecniche che il mediatore può utilizzare citiamo:
la normalizzazione, che serve a definire come risolvibile il problema che si sta affrontando, presentando la situazione come analoga a quella già vissuta da molte altre persone;
la reciprocità, che serve ad evidenziare le somiglianze tra le posizioni dei partner (esempio: “ho notato che entrambi desiderate essere ascoltati dall’altro”);
la sintesi, ovvero fare spesso il punto della situazione, sintetizzando di tanto in tanto ciò che è stato detto, ignorando i contenuti inutili e riaffermando gli obiettivi.
L’uso di tali tecniche ha come obiettivo quello di spostare lentamente i partener dalla posizione conflittuale di partenza, aiutandoli a comprendere il punto di vista dell’altro attraverso l’acquisizione del principio di negoziazione, cedere qualcosa per ottenere qualcos’altro.
Un nuovo studio della University of Maryland School of Medicine e pubblicato su Nature Neuroscience suggerisce che la depressione sarebbe riconducibile a un’alterazione delle modalità di comunicazione cellulare e della trasmissione del segnale neuronale. Invece di focalizzarsi sui livelli di serotonina nel cervello, gli scienziati hanno scoperto che la trasmissione di segnali eccitatori tra le cellule neuronali (comunicazione cellulare) presenta delle anomalie in caso di depressione.
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La gran parte dei farmaci antidepressivi maggiormente in uso di questi tempi fanno riferimento ai cosidetti SSRI (selective serotonin reuptake inhibitor), farmaci che causano un minore riassorbimento cellulare della serotonina, favorendone quindi una maggior concentrazione nel cervello. Poiché molti pazienti traggono beneficio dall’incremento di serotonina a livello cerebrale, è da tempo in voga l’ipotesi che sia proprio un insufficiente livello di tale sostanza il substrato biologico della depressione. Tuttavia, in circa la metà dei casi la sintomatologia della depressione non è responsiva alla farmacoterapia con SSRI.
Il primo risultato rilevante dello studio è che la serotonina avrebbe la capacità di potenziare la comunicazione cellulare neuronale, amplificando il segnale eccitatorio della trasmissione cellulare in alcune aree cerebrali importanti per il funzionamento cognitivo ed emotivo. Il passo successivo è stato chiedersi se tale funzione della serotonina giocasse un ruolo nell’azione terapeutica dei farmaci SSRI.
I ricercatori hanno esaminato il cervello di topi che sono stati ripetutamente esposti a situazioni stressanti che hanno causato in tali animali anedonia, una significativa perdita di interesse e preferenza per le attività normalmente svolte piacevolmente. Per esempio, in condizioni normali i topi preferiscono bere acqua zuccherata rispetto ad acqua insapore; gli animali sottoposti a condizioni stressanti non mostravano più tale preferenza, segnale per l’appunto di anedonia secondo gli autori della ricerca. Da un confronto dell’attività cerebrale dei topi anedonici e normali, è emerso che non vi erano differenze nel livello di serotonina cerebrale quanto invece le connessioni eccitatorie rispondevano alla serotonina in modo marcatamente differente, con difficoltà nella trasmissione del segnale eccitatorio nel cervello dei topi depressi.
Gli autori, pur riconoscendo la necessità di ulteriori approfondimenti e repliche dello studio, ritengono che il malfunzionamento delle connessioni eccitatorie neuronali sia uno dei fattori chiave nella genesi della depressione e che il recupero di una adeguata comunicazione cellulare a livello cerebrale possa essere fondamentale nel trattamento dei sintomi depressivi.