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Le Basi Psicologiche dell’Etica #1: Jonathan Haidt

 

Le Basi Psicologiche dell’Etica #1: Le Ricerche di Jonathan Haidt
Prof. Jonathan Haidt

Jonathan Haidt e le basi psicologiche dell’etica. L’uomo è dotato di una intuizione morale che non dipende dal ragionamento.

Il sentimento etico, in quanto stato mentale e comportamentale, può essere oggetto di indagine scientifica e psicologica. Ci sono molte ricerche su questo argomento e tra le più famose ci sono delle ricerche di Jonathan Haidt. Da qualche anno, il prof. Jonathan Haidt, che insegna all’Università della Virginia, negli Stati Uniti, fa interessanti esperimenti di psicologia del senso morale. Per esempio, nell’anno 2001, sul quarto numero di quell’annata della Psychological Review, a pagina 814 apparve un articolo dallo strano titolo: “Il cane emotivo e la sua coda razionale”. L’articolo iniziava con una scena agitata:

“Julie e Mark sono fratello e sorella. Stanno viaggiando insieme in Francia durante le vacanze estive. Una notte sono soli in cabina vicino alla spiaggia. Decidono che potrebbe essere interessante e divertente provare a  fare l’amore. Almeno sarebbe una nuova esperienza per entrambi. Julie già prende la pillola per il controllo delle nascite, ma anche Mark usa un preservativo, giusto per essere sicuro. A entrambi piace aver fatto l’amore, ma decidono di non farlo mai più. Considereranno quella notte come un segreto speciale che li renderà perfino più prossimi l’uno all’altro. Cosa pensi di tutto questo? Era “ok” per loro fare l’amore?”

Questa vignetta è stata utilizzata per eseguire uno degli esperimenti psicologici concepiti da Jonathan Haidt. Qual è l’obiettivo di questo esperimento? Haidt fece leggere la vignetta a un certo numero di persone, partecipanti volontari. La gran maggioranza, subito dopo aver letto il brano, esprimeva repulsione, condanna, ribrezzo, o almeno disorientamento e/o perplessità. A questo punto, Jonathan Haidt chiedeva alle persone di giustificare i loro sentimenti di condanna o repulsione. Qui iniziava il nocciolo dell’esperimento. Secondo Jonathan Haidt nessuno riusciva a giustificare in maniera razionale i propri sentimenti di ripulsa. Naturalmente anche nell’articolo di Jonathan Haidt il termine “razionale” è utilizzato secondo il significato moderno di calcolo dei pro e dei contro, dell’utilità e della dannosità pubblica e privata dell’atto. Per questa morale utilitaria non c’è un atto di per sé malefico, un valore in sé, se non quello dell’oggettiva dannosità.

In breve, secondo Jonathan Haidt nessun partecipante seppe giustificare in maniera convincente la propria condanna. A chi invocò danni genetici per l’eventuale prole, si rispose che i due consanguinei avevano usato varie precauzioni. Altri invocavano invece problemi di tipo emotivo, ma gli si rispondeva che invece il rapporto sessuale incestuoso era stato gratificante e privo di conseguenze emotive negative.

Giudizio morale: una questione di stomaco. Immagine: © Andy Dean - Fotolia.com -
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I risultati di questo esperimento possono essere interpretati in molte maniere. Jonathan Haidt ne ha tratto la conclusione che l’uomo è dotato di una intuizione morale che non dipende dal ragionamento. La reazione affettiva, caratterizzata da immediatezza istantanea, da assenza di sforzo da parte dell’attenzione consapevole e prodotta in maniera automatica e non intenzionale era capace di predire molto meglio il giudizio morale di ogni ragionamento sui pro e contro prodotto a posteriori.

Attenzione. Jonathan Haidt non arriva a sostenere che esistano valori universali. Questa conclusione filosofica andrebbe al di là del suo esperimento, e della scienza tutta. Jonathan Haidt sostiene semmai che esiste una tendenza universale al giudizio morale immediato, che è differente dal ragionamento ponderato. Il giudizio morale è quindi un giudizio spontaneo e non pensato. Certo, è vero che i suoi contenuti possono variare a seconda delle culture e delle sensibilità, che essi possono essersi automatizzati dopo essere stati appresi (o dopo che siano stati inculcati, diranno alcuni spiriti critici) o perché essi sarebbero legati a certe predisposizioni biologiche o naturali.

Jonathan Haidt non si esprime subito sui contenuti morali, e sembra incline semmai a individuare una funzione morale spontanea e universale, dal contenuto però relativo.

Jonathan Haidt conclude il suo lavoro assumendo che ogni giudizio morale obbedisca a una sua particolare bilancia morale in sé giusta, sebbene solo parzialmente. Attenzione: il politeismo morale di Jonathan Haidt non cade nell’immoralismo, ma in una sorta di panmoralismo ecumenico, in cui tutti i valori sono altrettanto pieni di una loro onesta e sincera moralità e inoltre sembrano essere in grado di convivere quasi armonicamente.

È giusto notare che il pluralismo morale di Jonathan Haidt non diventa relativismo morale. Per Jonathan Haidt ogni individuo è sempre moralmente motivato, e questa moralità è un valore in sé che non rimanda a nient’altro, tanto meno a un calcolo utilitaristico. L’obiettivo del suo esperimento psicologico era proprio mostrare la natura auto-fondante della moralità. La moralità è quindi un’emozione che non si appoggia ad alcun calcolo razionale, ma è un valore in sé. E il pluralismo non diventa mai relativismo per due ragioni: perché Jonathan Haidt crede nella genuinità del sentimento morale, che per lui non è un inganno prodotto da stati mentali insensati, e perché per Haidt questa pluralità di valori non è infinita, ma si articola su quatto assi, a quatto ordini di valori:

1) Rifiuto della Sofferenza;

2) Reciprocità, Giustizia ed Equità;

3) Gerarchia, Rispetto e Dovere; 

4) Purezza e Contaminazione.

Jonathan Haidt si fida di quella che lui chiama l’intuizione morale dell’uomo, e su di essa fonda la sua visione dell’etica, visione che è al fondo tradizionalista in quanto per lui l’etica è un valore in sé e non il prodotto di una convenienza utilitarista. Dunque, per Jonathan Haidt l’intuizione è sinonimo di verità. Per questa strada Jonathan Haidt rimane all’interno dell’ordine morale, e si rifiuta di attribuire un peso ad obiettivi meta-morali come l’utilità. Ma c’è qualcosa di ancor più notevole. Jonathan Haidt ammette che i valori morali possano essere il prodotto dell’evoluzione, ma per lui questo rimane ininfluente. Che i doveri, che le motivazioni morali, o anzi che l’organo percettivo della moralità (che sia la coscienza?) siano un prodotto di un processo biologico evolutivo non costituisce motivo di dissacrazione o di perdita di senso per la moralità stessa.

Il sentire morale non diventa un futile inganno solo perché è frutto dell’evoluzione. Haidt rimane all’interno del gioco morale.
LEGGI ANCHE: Le Basi Psicologiche dell’Etica #2: Obiezioni all’esperimento di Haidt

 

VIDEO: Jonathan Haidt: radici morali dei liberali e conservatori

Disarmare il Narcisista di Behary Wendy T.- Recensione

Recensione del Libro:

Disarmare il narcisista.

Sopravvivi all’egocentrico e migliora la tua vita

di Behary Wendy T.

(2012)

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Disarmare il Narcisista. Wendy T. Behary. ISC Editore (2012) Disarmare il Narcisista : un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

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Chi può dire di non avere mai incontrato nella propria vita un narcisista? Che sia il fratello, il fidanzato, il figlio, il collega di lavoro o una persona vicina a noi. Chi non si è almeno una volta sentito schiacciato? Chi non si è mai arrabbiato? Tutti abbiamo esperienza più o meno chiara di quanto sia difficile avere a che fare con un narcisista, di quanto sia difficile comunicare, farsi capire e ascoltare, rompere le difese che ostacolano un rapporto affettivo sereno, che ostacolano la “messa in circolo delle emozioni” .

Con 25 anni di formazione alle spalle e numerose certificazioni, Wendy Behary è fondatrice e direttrice del Cognitive Therapy Center del New Jersey e del The New Jersey Institute for Schema Therapy. E’ Presidente del comitato esecutivo della Società Internazionale di Schema Therapy (ISST).

Come esperta sul narcisismo ha pubblicato e collaborato alla redazione di numerosi testi scientifici sul tema. Tra questi anche Disarma il Narcisista” un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

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È un libro che fornisce sia ai terapeuti che ai pazienti diversi strumenti per migliorare la conoscenza di sé stessi e imparare a “disarmare” il narcisista,  imparando a gestire la relazione in modo più consapevole senza subire la personalità dell’altro. In questo libro Wendy Behary ci fornisce un importante kit di strumenti pratici che ci aiutano a capire come gestire le sfide emotive che subentrano quando ci relazioniamo con qualcuno che non si relaziona con noi, così come accade con il narcisista.

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Vincente in questo libro il fatto che l’autrice utilizza la cornice teorica sia della Schema therapy sia della neurobiologia interpersonale per far arrivare chiaro al lettore come il narcisista veda il mondo e quale sia la connessione tra relazioni interpersonali, mente e cervello. Ci spiega in modo comprensibile e semplice come le componenti biologiche combinate con le esperienze precoci possano plasmare in modo anche drammatico le nostre impressioni e le nostre credenze, e così diventa chiaro per il lettore come gli schemi maladattivi precoci possano essere simili a un boomerang che lo riporta spesso al punto di partenza nonostante i suoi sforzi.

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Molto bello il quadro che fa l’autrice del narcisista, un cavaliere maestro d’illusione, e molto utile l’esercizio presentato nella parte iniziale del libro che aiuta a identificare con quale tipo di narcisista si ha a che fare. Un importante riflettore viene posto sulla connessione emotiva come possibile via di soluzione della relazione, come motore per un cambiamento emotivo e mentale.

Il lettore è accompagnato nel capire come molto spesso gli ostacoli che gli impediscono di relazionarsi con il narcisista siano le proprie esperienze di vita e caratteristiche biologiche, e quindi i propri schemi. Molti sono gli strumenti, che con la lettura di questo libro, si acquisiscono per imparare a riconoscere e anticipare il momento in cui si rischia di cadere nei vecchi schemi maladattivi, dando maggior respiro e importanza alle sensazioni somatiche del momento.

Un passaggio verso l’apprendimento delle abilità di mindfulness come primo step del cambiamento, e tanti altri strumenti che accompagnano nel lungo e faticoso percorso di cambiamento della modalità di relazione, il confronto empatico, la compassione, lo stabilire dei limiti. E infine ancora l’autrice fa chiarezza su quali sono le strategie di comunicazioni maggiormente efficaci con il narcisista.

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Un libro sicuramente da leggere non solo per chi ha a che fare con un narcisista, ma poi chi non ha a che fare almeno con un narcisista, ma anche per chi ha voglia di fermarsi a riflettere sui propri schemi e intraprendere un viaggio pieno di possibili spunti e strumenti per la conoscenza del sé e per migliorare le proprie relazioni.

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Schema Therapy: Intervista a Wendy Behary. Come trattare il Narcisismo

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BIBLIOGRAFIA:

Emozioni Positive & Salute nei Paesi Non Industrializzati

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Emozioni Positive & Salute Fisica nei Paesi Non Industrializzati. Secondo una nuova ricerca le emozioni avrebbero un impatto sulla salute fisica.

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Secondo una nuova ricerca pubblicata su Psychological Science in tutto il mondo le emozioni avrebbero un impatto sulla salute fisica. Con un campione di 150.000 persone provenienti da 142 diversi paesi l’obiettivo della ricerca era di verificare se le emozioni avessero un impatto o meno sulla salute delle persone.

Essere Ottimisti Conviene! Il Ruolo delle Illusioni. - Immagine: © Time
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Sarah Pressman (University of California, Irvine). In particolare, la connessione tra emozioni positive e salute fisica sarebbe più forte nei paesi con inferiore prodotto interno lordo, paesi non industrializzati.

Lo studio quindi dimostra che anche per le persone che vivono nei paesi non industrializzati più poveri, alle prese con carestie e indigenza, e la cui salute fisica di conseguenza viene impattata negativamente da tali condizioni, le emozioni positive avrebbero comunque una correlazione significativamente positiva con il benessere generale e la salute fisica.

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 Se uno studio su larga scala può dare spunti interessanti, gli stessi autori riconoscono alcuni punti di debolezza dello studio tra cui per esempio, l’aver indagato in modo semplicistico lo stato emotivo delle persone soltanto in riferimento al giorno precedente, e altre semplificazioni delle variabili relative al contesto più ampio.

Ad esempio, gli abitanti del Malawi sono definite nella ricerca tra i più povere considerando esclusivamente il criterio del prodotto interno lordo, non considerando che è uno dei pochi paesi africani che non ha mai vissuto una guerra civile dalla sua indipendenza e che ha a disposizione un esteso sistema di acqua potabile.

 

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SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – PSICOLOGIA POSITIVA 

 

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La Deprivazione di Sonno influenza l’Espressione Genica

Dario Catania.

Psichiatra e Psicoterapeuta, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

“Benedetto sia chi inventò il sonno, cappa che copre tutti gli umani pensieri, cibo che toglie la fame, acqua che estingue la sete, fuoco per cui fugge il freddo, freddo che tempra l’ardore, moneta generale con cui tutto si compra, bilancia e peso che rende eguale il re al pastore e il saggio allo zotico.”

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1605/15

La Deprivazione di Sonno influenza l’Espressione Genica. -Immagine:© Ljupco Smokovski - Fotolia.com Una quantità insufficiente di sonno si ripercuote su molti meccanismi fisiologici di reazione allo stress, sulla risposta immunitaria e su quella infiammatoria; tali modificazioni possono giustificare, almeno in parte, gli effetti negativi sullo stato di salute dell’individuo, associati ad una condizione di deprivazione di sonno. 

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Il sonno è una modificazione dello stato di coscienza che da sempre ha suscitato interesse nelle neuroscienze. Nonostante sia di dominio comune il fatto che tutti i mammiferi e anche gli uccelli dormano, ancora si dibatte su quelle che possano essere le principali funzioni del sonno.

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Le principali di queste funzioni, su cui esiste ormai un certo accordo, sono due: il consolidamento della memoria relativa ad informazioni apprese durante la veglia (attraverso meccanismi di plasticità sinaptica) e il ripristino di una condizione di omeostasi cerebrale (attraverso l’attivazione funzioni metaboliche cerebrali di natura specifica volte a compensare modificazioni  fisiologiche occorse durante la veglia).

Acido Folico e Disturbi dello Spettro Autistico. -Immagine: © PHOTOERICK - Fotolia.com
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Sebbene gli esseri umani siano capaci di deprivarsi di cibo, fino a lasciarsi praticamente morire, non sono in grado, parimenti, di vincere il loro bisogno di sonno.

Molte patologie psichiatriche, come i disturbi d’ansia o i disturbi dell’umore presentano dei pattern di sonno alterati rispetto ai soggetti normali, così come molti dei sintomi psichiatrici quali dispercezioni somato-sensoriali, fenomeni dissociativi, possono essere indotti da una deprivazione di sonno. Esistono anche molti dati in letteratura che evidenziano come una quantità insufficiente di sonno e una disregolazione del ritmo circadiano risultino associati ad alcune patologie, come l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari e i deficit cognitivi e dell’attenzione.

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Il meccanismo attraverso il quale un sonno disturbato possa determinare l’insorgenza di alterazioni di una generale condizione di benessere, non sono chiare e risultano in larga misura non esplorate.

Un recente studio (Effects of insufficient sleep on circadian rhythmicity and expression amplitude of the human blood transcriptome) pubblicato sul numero del 25 febbraio 2013 della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” (PNAS) tenta di fornire una prima risposta a questi interrogativi.

Alcune ricerche di laboratorio che hanno studiato volontari sani il cui sonno notturno era stato limitato a circa 4 ore per un periodo da 2 a 6 giorni, hanno identificato alcune variabili fisiologiche ed endocrine che possono mediare alcuni effetti negativi sulla salute, senza però  chiarire i meccanismi patogenetici specifici.

Ricerche effettuate su topi di laboratorio hanno invece evidenziato come la privazione di sonno sia associata ad importanti cambiamenti dell’espressione genica nel tessuto cerebrale, anche se il numero dei geni interessati varia ampiamente in relazione ai diversi studi e ai ceppi di animali utilizzati. Sembra che ci siano geni che vadano incontro ad una  up-regulation, ossia che funzionano di più e meglio, durante la veglia sostenuta (deprivazione totale acuta di sonno)  come quelli implicati nella plasticità sinaptica e nell’espressione delle Heat-Shock Proteins (proteine che intervengono in numerosi processi cellulari, in particolare la loro funzione è quella di mantenere la conformazione spaziale di altre proteine presenti nelle cellule). Sempre in condizioni di veglia sostenuta sono stati individuati geni che subiscono una down-regulation, ossia che riducono la trascrizione di proteine; si tratta soprattutto di geni coinvolti nella biosintesi di macromolecole e nella produzione di energia.

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Ciò che si evidenzia nei topi può verificarsi anche nell’uomo, questa è la conclusione a cui giunge la ricerca della Möller-Levet e dei suoi collaboratori dell’Università del Surrey di Guilford, nel Regno Unito, che hanno esposto 26 volontari sani ad 1 settimana di deprivazione di sonno (in media 5,7 ore per notte), seguita da 1 settimana di sonno sufficiente (in media 8,5 ore per notte).

Al termine di ogni settimana i ricercatori hanno effettuato 10 prelievi ematici per valutare i prodotti della trascrizione del genoma, su ogni individuo sottoposto ad una deprivazione totale di sonno per circa 40 ore, in una condizione sperimentale di luce, attività fisica, assunzione di cibo controllate. Lo studio ha evidenziato che ben 711 geni erano up- o down- regolati durante il periodo di sonno insufficiente.

In particolare una deprivazione di sonno:

riduce il numero di geni che hanno un profilo di espressione nell’arco delle 24 ore, caratterizzato da una fase di picco seguita da una fase di declino (i geni ad espressione circadiana si riducono da 1855 a 1481);

riduce l’ampiezza della espressione circadiana di questi geni;

aumenta di circa 7 volte il numero dei geni che la cui espressione è influenzata dalla assenza totale di  sonno per 40 ore (una analoga assenza totale di sonno, preceduta da una settimana di sonno normale, modifica l’espressione di un numero minore di geni).

I geni coinvolti nella deprivazione di sonno riguardano diverse famiglie, tra cui i geni che regolano i ritmi circadiani e l’omeostasi del sonno, i geni legati allo stress ossidativo legato alla formazione di radicali liberi e sostanze ossidanti (agenti chimici dannosi per le cellule), ed infine geni che regolano diversi processi metabolici.

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In conclusione una quantità insufficiente di sonno, condizione sperimentata da molti individui che vivono nelle società più industrializzate e in parte prodotta dalle trasformazioni dell’epoca post-moderna, si ripercuote su molti meccanismi fisiologici di reazione allo stress, sulla risposta immunitaria e su quella infiammatoria; tali modificazioni possono giustificare, almeno in parte, gli effetti negativi sullo stato di salute dell’individuo, associati ad una condizione di deprivazione di sonno. 

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SONNO  – GENETICA & PSICHE –  NEUROSCIENZE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Adolescenza: L’età degli Elefanti in Equilibrio Su un Filo

 

Di Emma Fadda

 

Adolescenza: L'età degli Elefanti in Equilibrio Su un Filo. -Immagine: © tiero - Fotolia.com

Possiamo immaginare l’adolescente come un elefante sospeso in equilibrio su un filo, dove cadere a volte è questione di un attimo e può essere estremamente doloroso se non si ha ancora a disposizione un buon paracadute.

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L’adolescenza è quella fase del ciclo vitale dell’essere umano in cui si verifica la transizione dallo stato del bambino a quello dell’adulto. Essa ricopre quindi un periodo lungo, mutevole da individuo a individuo, da cultura a cultura, che comporta modificazioni fisico-corporee e significativi cambiamenti psicologici.

L’adolescenza quindi, come ogni fase del ciclo di vita, richiede all’individuo di portare a termine un preciso compito di sviluppo, quello cioè di definire la propria identità in modo coerente, integrato e autonomo.

Tale difficile ma allo stesso tempo affascinante scopo può essere raggiunto solo attraversando una fase (quella adolescenziale) in cui il ragazzo da un lato gradualmente si rende autonomo e si differenzia dalla propria famiglia di origine, e dall’altro sperimenta se stesso, le sue capacità, risorse e limiti all’interno di contesti sociali, ruoli e situazioni sempre più differenti e variegati.

Autolesionismo-e-Adolescenza-“Non-Potevo-Farci-Nulla”. - Immagine: © Eky Chan - Fotolia.com
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Sperimentazione, differenziazione e identificazione rappresentano quindi quegli “strumenti del mestiere” attraverso cui i giovani, sulla scia dei processi maturativi fisici, cognitivi, morali e sociali che caratterizzano questa fase di vita, ricercano e danno coerenza al sé, definendo il proprio sistema di scopi e credenze, che guiderà le scelte di vita futura.

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I processi di maturazione adolescenziale coinvolgono prima di tutto il corpo, che “si trasforma” in un corpo adulto tanto nella forma quanto nelle risorse e nella funzione, aprendo la strada alla definizione della propria identità di genere e di una nuova esperienza di sé e della sessualità in termini di intimità con l’altro.

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Il ragazzo acquisisce un nuovo modo di porsi di fronte al mondo. I cambiamenti cognitivi che caratterizzano questa fase favoriscono l’introspezione, la maggiore predisposizione per la discussione, l’esercizio del pensiero come “oggetto” che si può manipolare, astrarre, usare per costruire teorie, per pensare il possibile, per mettersi nei panni degli altri.

Questa importante abilità, quella di leggere la mente dell’altro è ora possibile per l’adolescente, che matura quella sensibilità emotiva, quel linguaggio emotivo, che gli consente di “sentire” l’altro e non solo di vedere il suo comportamento. L’altro che non è più strumentale al soddisfacimento dei propri bisogni, ma diventa un contenitore di emozioni, sensazioni, idee, bisogni e scopi che devono essere legittimati. Ecco quindi che l’amicizia assume un nuovo valore, perché sostenuta dal desiderio di condividere, di stare insieme, di reciprocità, di rispetto dell’altro. Il mondo delle relazioni si rivoluziona, dalla famiglia alla rete sociale ed amicale.

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Un periodo, quello dell’adolescenza che visto così sembra quasi un’esplosione di accadimenti positivi. Purtroppo però “non sempre è oro quello che luccica” per cui frequentemente questa fase di passaggio avviene con impaccio, fatica e difficoltà.

Possiamo immaginare l’adolescente come un elefante sospeso in equilibrio su un filo, dove cadere a volte è questione di un attimo e può essere estremamente doloroso se non si ha ancora a disposizione un buon paracadute.Quel ragazzo un attimo prima è un bambino che vede improvvisamente e velocemente cambiare il suo corpo e la sua mente, che può sentirsi disorientato, confuso, spaventato e insoddisfatto di ciò che accade, o semplicemente ancora poco attrezzato per affrontarlo. Quel ragazzo che nel mettere alla prova le sue risorse e abilità non è ancora consapevole dei suoi limiti, e quindi fa degli errori, si mette in pericolo, confonde e spaventa chi ancora si prende cura di lui come se fosse un bambino.

L’adolescenza nasconde quindi tante insidie, dalle problematiche sempre più diffuse connesse al corpo e all’immagine corporea, all’uso e abuso di alcol e sostanze, ai rischi connessi ad un uso improprio del web, al cattivo rapporto con la scuola e alle conflittualità spesso forti all’interno della famiglia.

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Difficoltà che l’adolescente a volte e si ritrova a dover affrontare da solo, perché non sostenuto, non “visto” ma criticato e giudicato dal mondo degli adulti, in particolare dai genitori.

Adulti e genitori che dal canto loro si ritrovano spesso disarmati e confusi, inadeguati e preoccupati di fronte ad una fase di vita che loro stessi hanno affrontato, ma che spesso “non ricordano” o che a loro volta hanno dovuto affrontare da soli.

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L’adolescenza non è quindi solo una sfida per i giovani ma anche per i loro genitori, che sono chiamati ad acquisire ed allenare quell’abilità di stare vicini, sostenere, comprendere, ascoltare, ma allo stesso tempo stare lontani, lasciando la libertà ai loro figli di sperimentarsi in autonomia, a volte facendo degli errori, ma pur sempre riconoscendo negli adulti una “base sicura”.

LEGGI:

ADOLESCENTI –  GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ –  RAPPORTI INTERPERSONALI – FAMIGLIA

Mindfulness a Scuola & Minor Rischio Depressivo negli Adolescenti

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una ricerca mostra che i ragazzi che hanno seguito un training di mindfulness a scuola abbiano minori probabilità di sviluppare sintomi depressivi e ansiosi

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Una nuova ricerca belga pubblicata da poco sulla rivista Mindfulness si è occupata degli effetti della mindfulness sugli adolescenti. In particolare, sembrerebbe che i ragazzi che hanno seguito un programma di mindfulness a scuola riportino minori probabilità di sviluppare sintomi di depressione e ansia nei sei mesi successivi.

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Mentre diversi studi si sono già occupati di interventi di mindfulness in setting clinici (si vedano studi su mindfulness e ricadute depressive in popolazioni cliniche) lo studio in questione verifica gli effetti della pratica della mindfulness in un ampio campione (400 soggetti) di adolescenti in un setting scolastico.

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La misura di outcome consiste in un questionario riguardante sintomi ansioso-depressivi, che è stato somministrato prima del programma, alla fine e sei mesi dopo.

Al pre-test entrambi i gruppi- sperimentale e di controllo hanno presentato percentuali simili di studi che riportavano sintomi depressivi (21 e 24%); al termine del programma tale percentuale si è significativamente ridotta nel gruppo sperimentale sceso a 15% di studenti con sintomi depressivi, contro il 27% di soggetti nel gruppo di controllo.

 Tale differenza si è mantenuta anche nel follow-up a sei mesi dalla fine del programma di mindfulness: 16% nel gruppo sperimentale contro il 31% del gruppo di controllo riferivano sintomi depressivi.

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Il limite dello studio è che il gruppo di controllo non ha ricevuto alcun trattamento di nessun tipo, sarebbe stato metodologicmanete più corretto sottoporre il gruppo a trattamenti placebo, e ancora più interessante ad altri interventi psicologici per verificare la maggiore efficacia nel setting scolastico.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

MINDFULESS – DEPRESSIONE – ANSIA – ADOLESCENTI 

BIBLIOGRAFIA:

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #1

 

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 1

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

“Anche se hai già tirato con l’arco varie volte, continua a prestare attenzione al modo in cui sistemi la freccia, e a come tendi il filo.

Quando il principiante è consapevole delle sue necessità, finisce per essere più intelligente del saggio distratto.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.46]

 

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #1. - Immagine: © fabioberti.it - Fotolia.comNegli articoli che seguono si cercherà di entrare più nello specifico del “come”  possono essere realizzati gli obiettivi della terapia e del “come” deve comportarsi il terapeuta, nel rapporto comunicativo con il cliente, per raggiungerli.

Nell’affrontare questo argomento verranno sottointesi i principi di base del colloquio psicologico, i quali svolgono un ruolo al di là delle tecniche e immanente al modo di essere dello psicologo.

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Negli articoli precedenti sono stati definiti i principi di base che devono sostenere le azioni dello psicologo nel corso del colloquio psicologico e quali sono gli obiettivi da realizzare nel corso della prima sessione.

Negli articoli che seguono si cercherà di entrare più nello specifico del “come” tali obiettivi possono essere realizzati e del “come” deve comportarsi il terapeuta, nel rapporto comunicativo con il cliente, per raggiungerli. Nell’affrontare questo argomento verranno sottointesi i principi di base del colloquio psicologico, i quali svolgono un ruolo al di là delle tecniche e immanente al modo di essere dello psicologo.

Il Colloquio Psicologico:Cosa Fare nel Primo Colloquio #1. Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
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Queste tecniche, anche se apparentemente possono sembrare accorgimenti semplici o banali, sono estremamente importanti, esse rappresentano i mattoni con i quali si può costruire un rapporto di fiducia. Per questo motivo la loro rilevanza non deve essere sottovalutata e l’attenzione del psicologo deve essere sempre rivolta anche ai dettagli.

LA PREPARAZIONE DEL COLLOQUIO

“Sa che la preparazione è importante quanto l’azione

C’è sempre qualcosa che manca. E il guerriero approfitta dei momenti in cui il tempo si ferma per armarsi meglio.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.80]

 

Un buon colloquio si avvia attraverso la preparazione precedente all’incontro con il cliente.

Bisogna innanzitutto predisporre una corretta atmosfera in un ambiente con un clima interno confortevole. Il mobilio deve essere neutrale ma accogliente. E’ meglio eliminare qualsiasi fonte di distrazione come ad esempio documenti sparsi per la scrivania o elementi dell’arredo cosi particolari da poter raccogliere l’attenzione e l’interesse del cliente. Anche l’abbigliamento deve essere neutrale, in modo da poter essere accettato con maggior probabilità indipendentemente dalle caratteristiche culturali del cliente. In questo modo LO psicologo può divenire trasparente, uno specchio che riflette parole e sentimenti del cliente mostrandogli come appaiono, visti dall’esterno. Anche abitudini, gesti o tick devono essere evitati in quanto fonti di distrazione.

Prima di un colloquio il terapeuta ha un contatto preliminare con il paziente, solitamente telefonico. Già dalla telefonata si possono ottenere diverse informazioni sulla personalità del futuro paziente, informazioni alle quali, lo psicologo esperto, pone molta attenzione. Innanzitutto può direttamente telefonare il paziente oppure può chiamare una terza persona. Se telefona il futuro paziente si può avere un’idea su cosa ci si può aspettare nel corso del colloquio in base al tono di voce, al modo in cui parla e si presenta e, ovviamente, alle cose che dice.

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E’ sempre bene chiedere informazioni generali sul problema senza soffermarsi troppo tempo al telefono. Si deve fare capire che il telefono non sarà utilizzato come normale mezzo di comunicazione e che non potrà sfruttarlo per lunghi contatti. Se telefona una terza persona è importante capire in che rapporti è con il cliente, a meno che non si tratti di un ente o di un altro professionista, e tenere a mente in che modo presenta il problema. La comunicazione deve essere breve e deve terminare fissando un appuntamento ed accertandosi che sia chiara sia la data che l’ora del primo incontro.

Al momento dell’appuntamento, prima che il paziente entri, lo psicologo deve accertarsi di essere nelle condizioni migliori per accoglierlo ed ascoltarlo. Può essere utile a questo scopo prendere un momento di pausa prima della seduta successiva per liberare la mente da tutto ciò che non riguarda la sessione. Quando il cliente entra è bene che lo psicologo si alzi e si rechi ad accoglierlo, lo inviti ad entrare, gli indichi dove può lasciare la giacca e gli dica di accomodarsi dove desidera.

Tribolazioni. Di Roberto Lorenzini – No Conflict. -Immagine: © olly - Fotolia.com
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Lo psicologo si siederà nel posto rimasto libero senza frapporre la scrivania tra lui e il cliente, sistemandosi in posizione leggermente girata (non direttamente davanti al cliente) né troppo vicino né troppo. Nelle presentazioni lo psicologo può stringere la mano del cliente, ma può anche non farlo in relazione al tipo di persona che si trova davanti, dicendo il proprio nome e cognome omettendo il titolo di dottore. Dopo di ché si può avviare il colloquio.

Nei casi in cui il colloquio si tiene nel domicilio del cliente, lo psicologo può godere di alcuni  vantaggi ma deve anche controllare nuovi ostacoli. Se da un lato si possono ottenere molte informazioni sul suo stile di vita e sulla sua personalità, dall’altro può essere difficile trovare un luogo di intimità e privo di distrazioni. In ogni caso lo psicologo deve dare suggerimenti affinché si possa individuare tale luogo al sicuro da televisione, radio e da rumori di qualsiasi tipo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Shopping Compulsivo: I Love Shopping… Too Much!

di Francesca Soresi

Shopping Compulsivo: I Love Shopping… Too Much!. - Immagine: © elgusser - Fotolia.com  Un modello cognitivo-comportamentale del Compulsive Buying o Shopping Compulsivo

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In letteratura sono presenti pochi riferimenti relativi al disturbo dell’acquisto compulsivo (Compulsive Buying, CB) o shopping compulsivo e solo recentemente è diventato un tema di interesse per i ricercatori.

Stephen Kellett e Jessica V. Bolton (2009) hanno tentato di fornire un possibile modello cognitivo-comportamentale del disturbo dello shopping compulsivo al fine di stimolare una valutazione e un trattamento più adeguato dei pazienti che presentato le particolarità dello shopping compulsivo.

Gli autori hanno individuato in letteratura le principali caratteristiche, definendo quindi lo shopping compulsivo come essenzialmente caratterizzato da singoli comportamenti disadattivi ed estremi. L’atto dell’acquisto nello shopping compulsivo è sperimentato come un impulso incontrollabile e irresistibile, che comporta attività singole eccessive, costose e dispendiose in termini di tempo. Tipicamente è un comportamento messo in atto in risposta ad emozioni negative, dando origine così a difficoltà finanziarie, personali e/o sociali.

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EABCT 2011: Shopaholics! Fenomenologia dello Shopping Compulsivo
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In letteratura emerge che lo shopping compulsivo, a differenza di altri disturbi del controllo degli impulsi, come il gioco d’azzardo patologico o la tricotillomania (DSM-IV), sembra essere tollerato dalla società invece di essere seriamente considerato come possibile genesi di un disagio familiare, sociale ed individuale, significativo e potenzialmente cronico. Inoltre risulta che lo shopping compulsivo può essere facilmente mascherato come shopping, attività socialmente accettabile; inoltre non esistono segni fisici indicativi di un problema e comportamenti da shopping compulsivo isolati non risultano agli occhi degli altri immediatamente bizzarri o comunque evidenti.

Il modello presentato da Kellett e Bolton prevede quattro fasi distinte:

1. Fattori antecedenti: precoci esperienze di vita e ambiente familiare (abuso e/o maltrattamento, criticismo e/o perfezionismo genitoriale) che costituiscono fattori di vulnerabilità. Ad esempio genitori in difficoltà (ad esempio depressi o alcolizzati, solo per citare due casi) che ignorano i propri figli o che utilizzano soldi e regali come rinforzo positivo per elicitare comportamenti desiderati nei propri figli costituiscono le condizioni favorevole per porre le basi per un forte attaccamento al patrimonio, che in seguito potrebbe funzionare da strumento per creare e mantenere un senso di autodefinizione;

2. Trigger interni ed esterni: stati emotivi interni (depressione, ansia, senso di sé sgradevole) e stimoli esterni (pubblicità, interazioni con i negozi, utilizzo di carte di credito) che possono indurre a fare acquisti di impulso.

 3. Atto dell’acquisto: nel momento dell’acquisto i compratori compulsivi sperimentano un restringimento dei processi attentivi che sembra essere indicativo di uno stato mentale “assorbito” (stato alterato e dissociato della mente durante il quale l’elaborazione efficace delle informazioni è generalmente alterata) compromettendo qualsiasi processo cognitivo esecutivo/riflessivo, che facilita gli sforzi di autoregolazione efficace (ad esempio: “io sono consapevole di me stesso e delle mie vere motivazioni per l’acquisto di questo prodotto mentre sto considerando di comprarlo”). Durante uno stato dissociato/assorbito aumenta la responsività emotiva e si riduce il processo di elaborazione dell’informazione, favorendo così gli effetti positivi per il proprio umore dovuti all’acquisto. Si origina, quindi, un circuito di feedback positivo: “acquistare mi fa stare bene”. In questa fase si sperimentano stati emotivi come: sollievo, gratificazione, miglioramento dell’umore e dell’autostima, che risultano però temporanei.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Generalmente l’acquisto in questa fase viene fatto in solitudine poiché la presenza degli altri provoca irritazione e noia. Probabilmente perché, presupponendo che i compratori compulsivi ricerchino effettivamente uno stato di assorbimento, l’interazione con gli altri impedisce il raggiungimento di tale stato;

4. Post-acquisto: consapevolezza di un’incapacità di autoregolazione che determina emozioni come senso di colpa, vergogna, rimorso e disperazione, seguite da comportamenti specifici come nascondere l’acquisto o ignorarlo.

Il modello descrive lo shopping compulsivo come un circolo vizioso, in cui la fase finale, dove si sperimentano gli aspetti negativi dell’acquisto ed emerge lo schema disfunzionale che ha dato origine all’acquisto stesso “Sono sgradevole ed indesiderato”, pone le basi per i trigger emotivi e psicologici per l’inizio di un nuovo circolo, mantenendo così il disturbo. Lo shopping compulsivo può quindi auto-rinforzarsi nel corso del tempo.

La principale implicazione per il trattamento di questo disturbo è rappresentato dal fatto che lo shopping compulsivo potrebbe essere ri-concettualizzato come un fallimento cronico e ripetitivo nell’auto-regolazione, e quindi gli interventi psicologici possono regolare questo aspetto nel tentativo di favorire il cambiamento.

 

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SHOPPING COMPULSIVO – IMPULSIVITA’ – DIPENDENZE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Somministrazione Cronica di Antidepressivi SSRI & Estinzione della Paura

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Ruolo degli antidepressivi SSRI nell’estinzione della paura “appresa”: Uno studio mostra che il trattamento cronico con SSRI inficia l’estinzione nei topi.

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L’estinzione, in termini comportamentali, implica non la distruzione delle originarie memorie di paura, quanto l’apprendimento di nuove informazioni e la creazione di associazioni alternative rispetto al legame iniziale tra stimolo condizionato e stimolo incondizionato, solitamente attravero procedure espositive. I ricercatori hanno somministrato a dei topi (precedentemente “condizionati” alla paura) citalopram (antidepressivo SSRI) e una soluzione salina a un gruppo di controllo per 22 e 9 giorni consecutivi.

 Dallo studio è emerso che la sommistrazione cronica (22 giorni consecutivi nei topi), ma non subcronica (9 giorni) ha inficiato il funzionamento del meccanismo comportamentale dell’estinzione della paura a seguito di esposizione a nuove esperienze.

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In letteratura è ampiamente riconosciuta l’efficacia della combinazione di antidepressivi SSRI e terapie cognitivo-comportamentali nel trattamento della depressione maggiore; nel caso di disturbi d’ansia potrebbe d’altro canto presentare effetti controindicati. Ulteriori trials clinici sono necessari per approfondire i risultati anche in soggetti umani e per spiegare il processo sotteso a tale risultato.

 

Somministrazione Cronica di SSRI & Estinzione della Paura_fig.1
Fig. 1 – Antidepressivi SSRI bloccano l’estinzione della paura nei topi.

 

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ANTIDEPRESSIVI – PAURA 

 

BIBLIOGRAFIA:

Hurting to Heal: a Documentary on Self Harm

 

Self Harm: Hurting to Heal

A film that explores the reasons for people engaging in self-harm behaviours,

who may be affected by it and what we can do to help.

 Courtesy of: HarmLESS Psychotherapy

Hurting to Heal – Introduction

The film explores the reasons for people engaging in self-harm behaviours, who may be affected by it and what we can do to help.

Produced by HarmLESS Psychotherapy and funded by the British Psychological Society’s Public Engagement Grants Hurting to Heal was launched on the 1 March to coincide with International Self-injury Awareness Day.

Every year around 250,000 people attend Accident and Emergency Departments across the UK due to self-inflicted injuries and/or self-poisoning. We know this is only the tip of the iceberg as many people never seek medical attention. Self-harm is a taboo subject and people struggle with the idea. Particularly in the caring environment, where the lack of clear protocols and training leave staff feeling ill-prepared to support people who engage in self-harming behaviours. With this film we hope to remove some of the myths around self-harm and engage people at a personal and human level.

The Psychiatrist & the Rockstar: interview with Sinead O’Connor
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In Hurting to Heal Lora Coyle, a person with lived experience of self-harm takes the viewer on an exploratory journey through the reasons that lead people to engage in self- harming behaviours and how we can offer support.
Maria said: “This film is an introduction to the topic of self-harm and helps to open the conversation around effective support systems for people affected. We want to improve understanding that self-harm is a manifestation of psychological distress and not necessarily a precursor to suicide”.

Hurting to Heal was produced by HarmLESS Psychotherapy in collaboration with Choose Life, The University of Edinburgh, Scottish Mental Health Association, Shared Strengths and NHS Lothian with a 2011 BPS Public Engagement Grant. Copies of the film are available free via www.harmlesspsychotherapy.com

 

SOURCE:

HarmLESS Psychotherapy is a Social Enterprise Mental Health Educational Service founded in 2011.
For more information E: [email protected] TL: 07557056049, W: www.harmlesspsychotherapy.com

 

 

 

 

 

Autismo e Vaccinazioni: oltre le Teorie del Complotto e gli Allarmismi

 

Autismo e Vaccinazioni: oltre le Teorie del Complotto e gli Allarmismi. - Immagine:  © Spectral-Design - Fotolia.com

La tentazione di farsi seguaci di uno o dell’altro schieramento può voler dire per un genitore chiamato a decidere se vaccinare o meno il proprio figlio, regalarsi, più o meno consapevolmente, l’illusione di una scelta facile e giusta. I genitori di bambini autistici sono spesso alla ricerca di una causa che spieghi i sintomi del figlio e dare la colpa ai vaccini sembra essere diventata una moda sostenuta da un forte desiderio di condivisione.

TUTTI GLI ARTICOLI SUI DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

E’ passato un anno dalla sentenza del Tribunale di Rimini che ha disposto il risarcimento da parte del Ministero della Salute a favore della famiglia del piccolo B. V. Il bambino secondo i genitori avrebbe iniziato a manifestare i primi sintomi di autismo in seguito alla somministrazione del vaccino trivalente  MPR. La sentenza ha dato loro ragione: esiste un nesso di causalità tra la vaccinazione anti Morbillo-Parotite-Rosolia (MPR) e l’autismo, così come dimostrato dal dott. Andrew  Wakefield in uno studio pubblicato nel 1998 sulla rivista medica specialistica Lancet. Peccato che dopo due anni il medico in questione sia stato radiato dall’albo britannico dei medici e la stessa rivista abbia  ritirato ufficialmente lo studio.

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Dura anche  la reazione del Board Scientifico del  Calendario Vaccinale per la Vita che ha preso proprio  le mosse dal ritiro dello studio sulla correlazione fra vaccino MPR e autismo per giudicare la sentenza un pericoloso ostacolo alla campagna vaccinale nazionale.

Consiglio solo agli appassionati di romanzi gialli di approfondire la vicenda, che rappresenta  uno dei contenziosi più rilevanti nella storia della medicina contemporanea.

Abbandoniamo quindi l’oscura vicenda per concentrarci sulle poche informazioni limpide e facilmente accessibili sul tema autismo e vaccini:

– I vaccini hanno ostacolato la diffusione di malattie mortali. Dal 2000 al 2008 la mortalità per morbillo è scesa del 78%.

-I vaccini, come tutti i farmaci, possono produrre effetti collaterali. Tra i più gravi l’encefalopatia (o encefalite), un’infiammazione del cervello che può causare danni permanenti.

– La legge 210/92 prevede il risarcimento dei danni da vaccino. Il giudizio medico di un nesso di causalità tra vaccino e la menomazione psico-fisica o la morte del soggetto spetta alla commissione medico ospedaliera.

– L’autismo è una sindrome comportamentale, pertanto un soggetto che manifesta una serie di comportamenti viene definito “autistico”.

– l’eziopatogenesi dell’autismo non è nota. Diversi sono i fattori che potrebbero determinare l’insorgere dell’autismo.

– I bambini colpiti da encefalite possono manifestare un quadro clinico comportamentale descrivibile come autismo.

– L’autismo si manifesta in età diverse da soggetto a soggetto, comunque entro i primi 3 anni di vita.

– Non esiste  alcun esame medico obiettivo in grado di chiarire senz’ombra di dubbio se una certa patologia sia di fatto un danno da vaccino.

 

Date queste premesse credo che la difficoltà nel maturare un’opinione in merito al legame tra autismo e vaccini dipenda dalla natura complessa del tema stesso ma credo che il dibattito sia legittimo.

Come si può concludere con certezza che una patologia che  fa il suo esordio negli anni successivi alla  nascita e che può essere causata da diversi fattori, anche in combinazione,  sia riconducibile all’evento vaccino in assenza di esami medici obiettivi che possano stabilire un nesso di causalità  tra i due fenomeni in questione?

Non ho certo le competenze specifiche per azzardare ipotesi di risposta a questo interrogativo ma indubbiamente la diagnosi di danno da vaccino non sembra un affare di semplice gestione e c’è ragione di pensare che il numero di casi riconosciuti  dal Ministero della Salute possa non corrispondere al dato di realtà. Ecco allora che il quadro si complica ulteriormente se vogliamo delegare alla legge dei grandi numeri l’espressione di un giudizio di significativa pericolosità dei vaccini.

Con maggior competenza posso invece affermare che  per la mente umana, in particolar  modo quella di un genitore, tollerare l’incertezza riguardo la salute del proprio figlio non è cosa semplice. Ecco allora la tentazione di affidarsi a pareri autorevoli, come quello del pediatra che liquida con superficiali rassicurazioni le nostre preoccupazioni o di medici pronti a rifilarci diverse teorie sull’inutilità se non pericolosità dei vaccini nonchè il ricorso a varie teorie del complotto che trovano nella rete il loro terreno più fertile.

La tentazione di farsi seguaci di uno o dell’altro schieramento può voler dire per un genitore chiamato a decidere se vaccinare o meno il proprio figlio, regalarsi, più o meno consapevolmente, l’illusione di una scelta facile e giusta. I genitori di bambini autistici sono spesso alla ricerca di una causa che spieghi i sintomi del figlio e dare la colpa ai vaccini sembra essere diventata una moda sostenuta da un forte desiderio di condivisione.

Citiamo dall’articolo de Il Fatto Quotidiano (in bibliografia):

Consultato telefonicamente dal fattoquotidiano.it, il professor Gabriel Levi, direttore dell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile all’Università La Sapienza di Roma, conferma che “allo stato attuale delle conoscenze non esiste alcuna causa accertata, diretta, esclusiva e sufficiente per l’autismo. Esistono fattori di varia natura, che possono concorrere a determinare una vulnerabilità neurologica”. Anche per il professore accade che “spesso i tribunali intervengono in cose in cui c’è una competenza scientifica nulla” . E spiega così la confusione: “I casi in cui c’è un minimo sospetto ragionevole, sono i casi che avevano accertato già precedentemente al vaccino dei segni neurologici indicativi. Il vaccino può aumentare la vulnerabilità neurologica, che significa assolutamente che determina l’autismo, tanto meno in maniera esclusiva”. “Nel caso di Rimini – prosegue – bisognerebbe prima dimostrare con evidenza certa che c’è stato un danno neurologico, poi bisognerebbe ricercare le altre concause che hanno agito nel determinare lo sviluppo autistico”.

 

Ossitocina: Una Possibile Cura per l'Autismo?. - Immagine: © IKO - Fotolia.com
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Tuttavia in 10 anni di lavoro di psicologa con gli autistici e le loro famiglie ho conosciuto molti genitori convinti che siano stati i vaccini a innescare la sintomatologia autistica e fatico a credere che siano tutti in errore. Conosco però solo un bambino a cui sia stato riconosciuto il danno da vaccino e concesso un risarcimento.

Come genitore (da 5 anni ormai) sento di meritare informazioni più dettagliate rispetto ai rischi e benefici dei vaccini nonchè una concreta  valutazione dello stato di salute del bambino accompagnata da un’accurata anamnesi familiare al fine di determinare la predisposizione a fattori di rischio per la manifestazione di reazioni avverse al vaccino. In verità sono invece i genitori a doversi esprimere circa la buona salute del figlio prima di sottoporsi all’iniezione compilando una checklist che ci chiede, tra le altre cose, se il bimbo sta bene il giorno del vaccino e se è allergico a qualche alimento, farmaco o vaccino. Non si tratta certo di quesiti semplici se rivolti a genitori di bambini di soli 2 mesi ma la legge prevede che il personale sanitario sia adeguatamente formato per rispondere a ogni dubbio e gestire i necessari approfondimenti nel caso in cui le risposte date lascino sospettare una o più controindicazioni al vaccino.

Pretendere dai vaccinatori un’adesione letterale a quanto previsto per legge concederebbe a noi genitori un maggior senso di padronanza della situazione perchè vaccinare i propri figli non dovrebbe essere un atto di fede ma un gesto consapevole.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Storie di Terapie #24 – Salvatore Civis Romanus

 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

– LEGGI L’INTRODUZIONE – 

 

Storie di Terapie #24 - Salvatore Civis Romanus. - Immagine: © rangizzz - Fotolia.comStorie di Terapie #24 – da cinque anni con una coetanea era arrivato il momento della scelta: sposarsi trasferendosi o lasciarsi. Entrambe opzioni orribili.

A volte ritornano.

Salvatore non lo vedevo e sentivo ormai da almeno dodici anni ma, quando ho risposto al telefono alle ventuno di una tranquilla domenica sera di gennaio, il suono delle prime sillabe lo hanno materializzato davanti a me, come se ci fossimo salutati tre ore prima al mio studio. Era in preda ad una crisi d’ansia che definirei da temuto spaesamento (categoria diagnostica inesistente), ma che descrive lo stato d’animo del migrante coatto. Poco importa se ci si trovi sulle spiagge della Tunisia in fiamme, con di fronte le onde tumultuose del canale di Sicilia o cent’anni prima sulla banchina del porto di Napoli, con la valigia serrata dallo spago e lo sguardo alla progressista America. Salvatore, poi, non doveva traversare nessun oceano reale, solamente andare a Genova per iniziare la convivenza con la sua donna, ma ciò non era per lui meno spaventoso. Il migrante coatto ha davanti a sé un’idea di futuro migliore, che sia Lampedusa o New York, ma questa meraviglia è tanto desiderata quanto sconosciuta ed estranea. Ciò che resta alle spalle è invece certamente peggiore, ma conosciuto e familiare.

Sulla banchina si lascia, insieme agli affetti, parte della propria identità, come diceva una vecchia canzone “partire è un po’ morire”. Per telefono, quella domenica sera, Salvatore mi esprimeva appunto un’angoscia di dispersione del sé, di morte.

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Perchè un intervento telefonico breve possa essere efficace è un mistero. Il consiglio farmacologico, adattato malamente alle sostanze in possesso in quel momento di Salvatore (la più indicata delle quali era un Jack Daniels doppio malto) avrebbe fatto effetto solo molte ore dopo. Le rassicurazioni tentate del tipo “abbiamo ancora tempo per decidere e troveremo una soluzione soddisfacente” mi sembravano sciocche nel momento stesso in cui le formulavo.

Storie di Terapie #20 - Le diagnosi di Francesca. - Immagine: © Aarrttuurr - Fotolia.com
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Invece ebbero effetto e l’ansia, nominata e smascherata come tale, non precipitò nel panico che in passato Salvatore aveva conosciuto. Più avanti ci saremmo interrogati sul motivo dell’efficacia di tale superficiale rassicurazione, che non stava nel contenuto della frase, ma semplicemente nel soggetto. Quel “noi” sottinteso aveva strappato Salvatore alla solitudine del naufrago, non era più solo ed il ritrovarmi immediatamente al volo, dopo tanti anni, aveva compattato la sua identità sfrangiata di migrante coatto. Il sollievo era venuto dal mio fulmineo e inaspettato riconoscimento. Poichè non sempre mi capitano queste cose, soprattutto con l’avanzare dell’età, anche di fronte all’esplicita dichiarazione delle generalità, l’accaduto può catalogarsi come una botta di fortuna che, comunque, ben prometteva circa il successivo intervento.

Il senso dell’immediato ritrovarsi era stato nettamente più forte per telefono che al momento dell’incontro, di persona, al mio studio. Avevo lasciato Salvatore venticinquenne atletico e con i capelli già troppo lunghi per le consuetudini dell’epoca, forse non particolarmente bello per la statura contenuta ed il prevalere delle linee curve su quelle rette ma sprizzante energia, vitalità e una tendenza all’esplorazione curiosa della psiche, che lo faceva piuttosto unico tra i suoi colleghi ragionieri ed economisti. Appassionato di teatro, letteratura e mitologia sarebbe stato un paziente psicoanalitico ideale e, a volte, temevo di tarpargli le ali con le mie speculazioni cognitiviste.

Insomma, allora Salvatore si presentava come uno studente che si gode la vita mentre frequenta l’Università, ora mi trovavo di fronte un signore quarantenne, dirigente di banca, con la calvizie camuffata da destino a scelta, per mezzo di una radicale rasatura a zero. L’altezza appariva ancora più modesta, a motivo di un allargamento di tutti i diametri orizzontali, in particolare la testa sembrava essere diventata enorme. Il colorito rossiccio e l’aspetto sudaticcio da evidente ansia, la rendevano appetitosamente simile alle teste che i porchettari di Ariccia espongono guarnite di un limone tra i denti. Quindici anni non passano invano e, con eleganza, evitammo le frasi fatte tipo “ti trovo bene”, “sei sempre lo stesso”, e altre pietose menzogne simili. Era evidente che eravamo due persone diverse e, se ci fossimo incontrati per strada, non ci saremmo affatto riconosciuti. Ci trovavamo nel mio  studio ed era l’esserci ritrovati lì che garantiva che io fossi Roberto e lui Salvatore.

 Questa constatazione interiore riportava esattamente al centro del problema attuale: il fatto che l’ambiente è un sostegno decisivo per l’identità. Dopo gli scontati ringraziamenti, per averlo salvato da morte certa per angoscia la sera in cui mi aveva telefonato disperato mentre già meditava di uccidersi, ecco i fatti: da cinque anni era fidanzato con una coetanea di Genova ed ormai era arrivato il momento della scelta, o sposarsi trasferendosi a Genova (solo lui poteva ottenere un trasferimento) o lasciarsi.

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Entrambe le opzioni gli apparivano orribili.

Grazie ad una serie di espliciti riferimenti mi ricordai che, anni addietro, avevamo affrontato un tema analogo. Aveva perso quello che, allora, definiva l’amore della sua vita perché non si era sentito di seguirla negli Stati Uniti, dove lei aveva vinto una cattedra universitaria. I problemi di allora riguardavano disturbi sessuali mutevoli, oscillanti tra l’impotenza e l’eiaculazione precoce e paura  di stringere legami in cui avrebbe potuto provare emozioni troppo intense, sia negative che positive, che temeva devastanti.

Aveva inoltre un vago dubbio di omosessualità.  Circa  quest’ultimo tema, solo negli attuali incontri ne ha improvvisamente ritrovato l’origine, con un ricordo emblematico che farebbe la gioia di uno psicoanalista: è un tredicenne bruttino e sfigato che non riesce ad adattarsi nella scuola del paese dove si è trasferito per il lavoro del padre. E’ una assolata domenica pomeriggio di fine maggio, la radio racconta “tutto il calcio minuto per minuto”, è solo e si avvicina alla finestra per guardare fuori. Nel giardino a fianco su una sdraio sta prendendo il sole una quindicenne bionda con un vestito arancione che ha tutt’ora impressa nella mente. E’ una francese che sta lì in vacanza, le sembra un angelo, la cosa più bella che abbia mai vista.

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Storie di Terapie #16 – L’impalpabile Marisa. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.com
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Il naso appoggiato al vetro lascia un’impronta di grasso e il fiato appanna tutto fino a impedire la vista. Meno male. Meglio così, ha avuto paura. Da una ragazza così sente che potrebbe venirgli un piacere estatico, al solo contemplarla e un dolore infernale all’idea di perderla e lei tra qualche giorno tornerà in Francia. Ha netta la sensazione che non sopravvivrebbe nè a quell’estasi,  nè a quel dolore. Allora immagina di essere omosessuale, si convince di esserlo per evitare guai. Ma non è una scelta possibile.

Tutto ciò che riguarda il mondo delle donne è per lui troppo e può farlo impazzire. Allora, impara a stare sempre sull’orlo del burrone, vicino alle donne ma a distanza di sicurezza. Il potere enorme che la donna ha su Salvatore non è solo quello di concedersi o negarsi ma di definire in questo modo il suo valore: se  viene rifiutato non perde soltanto la possibilità del rapporto, ma se stesso, perché ciò vuol dire che lui non ha alcun valore, l’altro  gli conferisce esistenza o gliela nega. Così ha sempre fatto la madre, supremo giudice del valore del figlio ed unico erogatore di affetto, che andava spartito con un fratello gemello che ha trovato la sua identità nella continua ribellione ai dogmi familiari, mettendo il piacere sempre prima del dovere, al contrario di Salvatore.

Il padre, ufficiale dell’esercito, ha trascinato la famiglia in giro per l’Italia e non è presente nei ricordi infantili, se non come saltuario esecutore materiale delle pene che venivano comminate dal giudice unico materno.

Dobbiamo, tuttavia, occuparci soprattutto del disagio attuale, che ha anche una scadenza temporale nella pazienza di Rita ormai agli sgoccioli e dunque sinteticamente riassumiamo i temi delle puntate precedenti in pochi concetti.

Salvatore ha il terrore che forti emozioni siano intollerabili.

Salvatore pensa di valere poco ed ha continuo bisogno dell’approvazione e dell’accettazione degli altri come prova, seppure non duratura, del suo valore e del diritto ad esistere.

Salvatore si è creato un microcosmo rassicurante dove tutto ciò gli è garantito: il circolo del tennis che frequenta da venti anni e dove tutti sono conoscenti se non proprio amici, il lavoro nella direzione centrale della sua banca dove ormai è considerato un senior, il gruppo teatrale che frequenta da diciotto anni ed è la sua vera famiglia.

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E’ dunque ricchissimo di legami che gli impediscono di sentirsi solo e, contemporaneamente, è assolutamente solo e può ritirarsi nella sua casetta che è rimasta immutata, da quando i genitori gliela misero su, ormai venticinque anni fa, Non ha né cambiato né spostato un mobile, non ha mai rimbiancato le pareti, il tempo sembra essersi fermato.

Salvatore ricorda che la stessa angoscia l’aveva provata anni addietro quando, fidanzato con una ragazza romana, aveva avuto la proposta di andare a convivere in un altro quartiere di Roma, più bello del suo ed in una casa più grande. Afferma che, anche in quell’occasione, almeno consapevolmente, a spaventarlo non fosse tanto il consolidarsi del legame quanto, piuttosto, il perdere la familiarità con luoghi e oggetti entrati, ormai, a far parte della sua identità.

 All’idea di trasferirsi a Genova, città che conosce e apprezza, il vissuto è di esclusione in un doppio senso. Da un lato il fatto di essere a Roma lo fa sentire al centro del mondo. E’ quella che abbiamo chiamato, scherzando,  “la sindrome del civis romanus sum”, consistente nell’accrescere il proprio valore traballante identificandosi con la città eterna; si sente finalmente importante quando i telegiornali parlano di Roma o nei film riconosce squarci della sua città, è lì dove tutto accade, a suo avviso tutti vorrebbero vivere a Roma, vivendo nella capitale dell’impero ci si sente necessariamente un po’ imperatori.

L’altro senso in cui sperimenta l’esclusione è “la sindrome della mancata inaugurazione”: Salvatore è davvero angosciato al pensiero che non assisterà all’ampliamento della stazione Tiburtina e, quando essa soppianterà Termini come prima stazione della capitale, lui non sarà presente e dovrà leggere la notizia sui giornali  di Genova o l’apprenderà dal telegiornale, che inquadrerà una città che va avanti senza di lui.

Pensa con dolore a quando cambieranno i negozi della sua via senza che lui lo sappia, gli amici invecchieranno, cambieranno l’auto, avranno nuovi amori e lui non sarà presente.

Non desidera troppo starci in mezzo, ma vorrebbe rimanere dietro un vetro, come nel ricordo di quella domenica di maggio, a distanza di scurezza, a vedere il loro vivere, a testimoniarlo e certificarlo. La vita è troppo rischiosa e travolgente, il ruolo di testimone oculare gli si adatta meglio.

Nel giro di cinque incontri l’ansia è fortemente diminuita e riesce a vedere tutti i vantaggi del trasferimento a Genova proprio in termini di riduzione della solitudine. Lo aiuta molto pensare che, se avesse una colica renale a Roma dove si sente nel suo ambiente familiare, di fatto non ci sarebbe nessuno a soccorrerlo, mentre a Genova accanto a lui ci sarebbe Rita. Un altro pensiero che in parte lo sgomenta, ma poi lo rassicura in merito al trasferimento, è quantificare quanto tempo al giorno passano i suoi amici, i genitori, suo fratello ed io stesso a pensare a lui. Concordiamo che questo tempo si approssima allo zero e che ognuno pensa soprattutto a ciò che occupa il suo spazio percettivo immediato, mantenendo il ricordo in una labile memoria di lavoro per pochi istanti, per far poi spazio al nuovo. Lo sgomento nasce dall’idea di non essere costantemente rappresentato nella mente di qualcuno; la rassicurazione dall’idea che, pur essendo sempre stato così,  non è mai successo nulla di drammatico e che  l’unica mente che lo pensa in continuazione, ed è più che sufficiente a mantenerlo in vita, è proprio la sua. Essa è, in modo scientificamente non ben chiarito, ma certamente legata al cervello e quest’ultimo saldamente ancorato alla sua testa. Per questo, che sia a Roma o a Genova, quella macchina portatile di circa un chilo e mezzo, creatrice di significati e di scenari ai quali è tanto affezionato, sarà sempre con lui

Storie di Terapie. Le due Terapia di Nicoletta. - Immagine: © Paulius Brazauskas - Fotolia.com
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La sensazione dell’assoluta irrimediabile solitudine lascia il posto alla piacevole scoperta di bastare a se stesso.

A questo punto del nostro lavoro sollevo il dubbio che parte della resistenza al trasferimento non sia dovuta soltanto a ciò che lascia, ma anche a ciò cui va incontro, vale a dire al rapporto con Rita di cui parla molto poco.

Forse non è solo lasciare la banchina del porto di Napoli a trattenerlo dal salire sul transatlantico, ma anche l’intravedere Staten Island dietro il profilo della Statua della Libertà.

Subito, quasi a fugare ogni dubbio, mi mostra le foto di Rita a riprova della sua bellezza. Dopo poco, però, inizia a dirmi che un piccolo difettuccio effettivamente lo ha: a causa di un padre scapestrato e donnaiolo che ha sempre trascurato la famiglia prima di abbandonarla, è ossessivamente gelosa. Salvatore, per scelta, per carattere e, forse, anche per insicurezza è patologicamente fedele, ma ciò non conta nulla. Tale gelosia è stata già la causa del fallimento del primo matrimonio di Rita durato otto mesi e ha già causato una frattura del loro rapporto, durata un intero anno. E’ molto controllante, non permette che Salvatore abbia rapporti di qualsiasi genere con altre donne, gli impedisce di guardarsi intorno e di avere attività sociali cui partecipino anche donne. Lui, per quieto vivere, non affronta direttamente la questione e si barcamena con piccole bugie che, regolarmente scoperte giustificano un aumento del controllo poliziesco.

Salvatore mi racconta che il suo gemello è esattamente come il padre di Rita, corre appresso a tutte le donne e tradisce sistematicamente la moglie. Anche in questo campo sembra sia siano scelti ruoli opposti per distinguersi l’uno dall’altro: il fratello è un playboy coatto e impenitente, lui è un convinto assertore  della fedeltà, d’esempio per i cattolici più moralisti.

Penso, dentro di me, che mischiando i due se ne farebbe uno buono, ma tengo per me queste riflessioni, temendo di scandalizzarlo. Tuttavia un mio “diavoletto” interiore si scatena, poco convinto delle asserzioni moraliste del mio interlocutore: per  un paio di incontri mi sembra di mettere in scena una vecchia canzone popolare “le tentazioni di Sant’Antonio”, in cui l’asceta  isolato nel deserto resiste ad una serie crescente di tentazioni riguardanti tutti i piaceri dei sensi, proposte dal demone che vuole farlo cadere in peccato.

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La primavera che incalza mi facilita enormemente il compito, considerato che il focus del mio attacco è la bellezza muliebre.

Cerco di dare il meglio di me come tentatore, considerato il duplice fronte: da un lato il timore di Salvatore di essere giudicato male con la temuta conseguenza di essere abbandonato, dall’altro, più grave, di lasciarsi travolgere dalla passione e perdersi, un perdersi mal definito ma assoluto. Le immagini che si alternano nella sua mente sono tre. Lui che si copre di ridicolo, correndo appresso ad ogni donna, fino a che non viene ricoverato nel reparto agitati di un manicomio.

Lui che muore d’infarto nel letto dell’amata, avendo appena accennato la penetrazione (a mio avviso una citazione inconsapevole del “malato di cuore” di Faber).

Infine, il suo corpo ciondolante dal ramo traverso di un grande olivo, nelle campagne dove giocava da piccolo e che sceglierebbe per impiccarsi dopo essere stato abbandonato.

Il lavoro successivo è centrato su una “de-esagerizzazione”, proviamo a considerare gli innumerevoli e più normali esiti di una storia d’amore che non siano la follia, la morte per troppa gioia o per troppo dolore. Mi sembra persino brutto mettergli in discussione questa versione epica, tragica e definitiva dell’esperienza amorosa. Guardandosi intorno si accorge di quanto tutto sia più banale: ci si innamora, si convive, si gioisce, ci si annoia, soprattutto ci si sopporta, si fa qualche viaggio, qualche figlio, qualche casa, ci si tradisce un po’ e ci si pente un po’. Poi il tempo è praticamente finito e ci si accompagna al gran finale. Sipario. Dopo uno dei due continua.

Storie di terapia #12: La gelosia della bella Caterina. Immagine - © Antonio Gravante - Fotolia.com
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Mentre stiamo ragionando su queste cose improvvisamente salta una seduta senza avvisare.

Credo di aver forzato troppo la mano, sia con le tentazioni che con la desacralizzazione dell’esperienza amorosa e di essere stato classificato tra gli infrequentabili. Invece non è così.

Il motivo dell’improvvisa assenza è il passaggio del padre all’ultima parte del percorso di cui stavamo ragionando, con l’improvvisa assunzione della qualifica di vedovo. La morte di una madre non è faccenda che possa eludersi in una terapia, soprattutto se avviene durante. Per più di un mese tutte le altre donne si fanno da parte e il palco (queste metafore a sfondo teatrale credo siano indotte dalla passione di Salvatore per quest’arte) è totalmente dedicato ai saluti alla grande madre. Ma non tutto il male vien per nuocere. Infatti la morte dei genitori, in particolare della madre, è vissuto da Salvatore, sin dalla prima terapia, come l’evento impensabile, intollerabile, al quale certamente non sarebbe sopravvissuto. Ecco che invece i giorni passano, lui non muore ed anzi si meraviglia di quanto sappia affrontare con forza e serenità la perdita.

Un altro effetto della morte della madre è l’ulteriore investimento affettivo su Rita, ora finalmente l’unica donna della sua vita. Si decide e chiede il trasferimento per la sede di Genova che gli viene accordato per dopo l’estate.

Raggiunta la decisione e la riduzione dell’ansia la terapia si conclude, anche perché Salvatore è molto impegnato nella sistemazione della nuova casa di Genova e viaggia continuamente, per completare gli aspetti logistici del trasferimento. Inaspettatamente, tre settimane dopo il nostro formale saluto, mi richiama urgentemente e chiede di vedermi appena possibile.

Penso che l’avvicinarsi della scadenza abbia riattivato l’ansia e, già per telefono, gli consiglio di tamponare con il Tavor tre volte al giorno, fino a che il trasferimento non è completato.

Insiste per vedermi comunque. Arriva con dieci minuti di anticipo sull’appuntamento fissato ed ha un’ aria insolita tra l’imbarazzato e il soddisfatto. Inizia chiedendo uno sforzo di memoria per ricordarmi di Silvia. Naturalmente ho il vuoto più assoluto, il che lo meraviglia, perché dice di avermene lungamente parlato già durante la prima terapia. Si tratta della regista del suo gruppo teatrale, sette anni meno di lui, laureata in Lettere, di origini foggiane, alta un metro e settantacinque, occhiali da miope e erre moscia da aristocratica. Silvia sta da sempre nell’empireo dei desideri proibiti, delle intoccabili troppo belle per interessarsi a lui.

Quando ha saputo dell’imminenza della sua partenza per Genova ha insistito per una cena a casa di lei, per fare un consuntivo di tutti gli anni dell’esperienza teatrale. Un testo in prosa da recitare insieme come saluto e regalo a tutti gli altri, un collage di brani delle diverse rappresentazioni messe in scena dalla compagnia. Salvatore dà la responsabilità al vino che ha portato lui, sta di fatto che il testo rimane incompiuto.

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La resistenza di Salvatore ha la meglio finchè parla con sfoggio di cultura e grande capacità introspettiva: per difendersi, in qualche modo, racconta a Silvia della psicoterapia e dei suoi temi irrisolti. Più parla, rivelando le proprie debolezze, più sente da parte di Silvia un’accettazione incondizionata. Questo fiacca grandemente le sue resistenze e lei comprende che deve farlo tacere e smettere di pensare per tornare invece a sentire, come non è più abituato a fare. Cosa fare di meglio per azzittire qualcuno che tappargli la bocca? Silvia gli chiude la bocca con la sua. Salvatore ha, per un attimo, l’immagine di Sant’Antonio nel deserto che si avventa su un piatto di maccheroni fumante e poi più nulla. Non è uomo da mezze misure e, una volta varcato il Rubicone, nulla più lo trattiene. Si abbandona senza resistere all’onda di tsunami passionale che prima temeva lo avrebbe annientato, scoprendo che se non si fa resistenza l’onda ti solleva e galleggi su di essa.

Storie di Terapia #10 - Le bugie di Filippo. Immagine: © Stephen Coburn - Fotolia.com
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Nel mio intimo gioisco del racconto di Salvatore ma resto impassibile, chetando le “ola” da stadio che si agitano in me. Gli chiedo però quale sia il motivo della sua richiesta tanto urgente di vedermi e lui mi risponde che è stupito, ed un po’ spaventato, della sua reazione: infatti si sente tranquillo e determinato a trasferirsi a Genova. Gli chiedo di fare delle ipotesi sul perché e ne dà immediatamente due: da un lato ha scoperto che di passione non si muore, dall’altro ha l’impressione di non lasciare del tutto Roma e che, dunque, sarebbe rimasto un po’ civis romanus. Mi confessa, con aria sorniona, di non aver usato alcuna precauzione anticoncezionale e di aver deciso di non dire niente a Rita: è una questione sua anzi, accenna, con un tono tra la promessa e la minaccia, che forse è la prima cosa esclusivamente sua.

Passeggiando tra le chiese di Roma per tornare a casa dallo studio mi chiedo se il padreterno abbia disposto per gli psicoterapeuti un particolare girone infernale,  o se non ci sarà nessun trattamento di favore e staremo insieme agli altri.

Figli di qualsiasi età giungono da noi convinti di aver avuto i migliori genitori del mondo e dopo qualche mese li odiano come causa di tutti i loro mali rileggendo al contrario la loro storia. Lavoratori obbedienti e scrupolosi diventano ribelli e oppositivi ravvisando dovunque un sopruso.

Mogli e mariti, fedeli e timorati di Dio e del giudizio degli altri, si perdono appresso a innamoramenti adolescenziali cercando di negare l’inesorabile trascorrere del tempo, negazione che li rende ridicoli. Equilibri faticosamente raggiunti saltano in poco tempo, le tensioni aumentano e prima o poi qualcuno dice al paziente “a me sembra che da quando vai da quello stai peggio”. E noi, evidentemente posseduti dal demonio, interpretiamo ciò come segno che stiamo facendo un buon lavoro. Inoltre creiamo continuamente altro lavoro per la categoria. E’ infatti probabile che il marito di Silvia, inizialmente felice della gravidanza, dopo il suo soggiorno di lavoro di due mesi in America si porrà qualche problema per la mancata somiglianza di quel ragazzino per cui sgobba dalla mattina alla sera in giro per il mondo.

 

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ANSIA GENERALIZZATA – DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITA’ – ANSIA – RAPPORTI INTERPERSONALI – IN TERAPIA – RAPPORTI SENTIMENTALI

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E12 Alex

In Treatment – Psicoterapia in TV

DODICESIMA PUNTATA

Alex

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In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E12 Alex

Paul, Laura e Alex cominciano a costruire una relazione a tre che ben presto si scatenerà in gelosie rivalitarie tra i due maschi.

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La dodicesima puntata è un tutt’uno con la precedente. Paul, Laura e Alex cominciano a costruire una relazione a tre che ben presto si scatenerà in gelosie rivalitarie tra i due maschi. Alex arriva con lo stesso scatolone che si era intravisto il giorno precedente, quando aveva incontrato Laura fuori dalla porta della stanza di analisi. Scopriamo finalmente cosa contiene questo enorme scatolone: è una macchina per il caffè che Alex perfidamente regala a Paul, alludendo alle pessime brodaglie che beve Paul.

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il silenzio in terapia. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Ho parlato di allusione? Se lo chiede anche Paul, che lo dice ad Alex: alludi a qualcosa? No, non è un’allusione, è un’affermazione, risponde Alex con la sua splendente arroganza. Un’affermazione che riguarda non solo il caffè di Paul, ma tutto Paul come persona. Insomma Alex dà dell’insipido a Paul, mentre lui si propone come maschio vitale ed energico, pieno di forza.

Dopo questo primo e incredibile acting out Paul abbozza, in qualche modo è costretto ad accettare la macchina del caffè, poi riprende la sua posizione analitica e segna qualche punto. Spara delle buone interpretazioni che inchiodano Alex. Il quale racconta come abbia appena lasciato la moglie. Poi Alex parla dei suoi genitori, e di come il padre tradisse sua madre frequentemente. Sembra quindi che Paul stia per riprendere le redini del gioco psicoterapeutico, quando Alex improvvisamente si imbizzarrisce e riprende l’iniziativa, uscendo ancora una volta dal terreno del racconto e della riflessione.

Così trasforma la seduta in un unico, enorme acting out. Come fa? Parlando esclusivamente di Laura e del suo incontro fortuito del giorno prima. E di come egli sia poi andato con Laura, fino all’allusione finale, carnale e volgarissima: Alex parla di un happy ending e poi raccomanda a Paul di preparare un caffè con molta schiuma bianca, perché a Laura piace così.

Che dire? La deriva relazionale continua, con un setting sempre più privo di argini, in cui le passioni tracimano come ondate incontenibili. La relazione è ormai addirittura triangolare. Forse è un paragone forte, ma tutto questo ricorda il modello lacaniano del triangolo rivalitario tra fratelli, in cui i fratelli sono naturalmente Paul e Alex. E il polo desiderato e amato è Laura, al tempo stesso moglie, madre e amante desiderata (e conquistata da Alex). È impressionante vedere l’espressione di pura gelosia, rabbia e sofferenza che assume Paul nell’ultimo scorcio di seduta, quando Alex si ostina a parlare di Laura, lasciando ostinatamente da parte il terreno rassicurante delle solite storie di mamma e papà.

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Lacan introdusse in un articolo scritto nel 1938 per l’Encyclopedie francaise: “I complessi familiari nella formazione dell’individuo” (pubblicato in Italia nel 2005) il complesso di intrusione,  chiamandolo anche complesso fraterno. Lacan si pone nel punto di vista del fratello maggiore (Paul?), per cui gli intrusi sono i fratelli minori (Alex?) che alimentano sentimenti di gelosia.

Per Lacan, con l’arrivo del fratello minore il primogenito si trova coinvolto nella gelosia, ma è anche obbligato a confrontarsi con un’alternativa. Può rimanere nella dimensione narcisistica rifiutando l’altro e la realtà o accetta di riconoscere l’altro incontrandosi e scontrandosi con questa realtà non gradita. Riuscirà Paul nell’impresa? O sarà inghiottito dalla gelosia verso Alex?

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PSICOANALISI – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – IN TERAPIA

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BIBLIOGRAFIA:

The Bipolar Blues – Disturbo Bipolare

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Disturbo Bipolare: Twink, patron della Bipolar Organisation inglese si racconta per come ha vissuto il suo disturbo bipolare negli ultimi vent’anni. 

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Il Disturbo Bipolare è un disturbo dell’umore caratterizzato da gravi interferenze nel tono dell’umore che rende – per le persone che ne sono affette- estremamente faticosa le gestione della quotidianità e delle relazioni.

 Nel video che vi proponiamo, ‘Twink’, il primo fotografo della band “The Jam”, e patron della Bipolar Organisation inglese si racconta per come ha vissuto il suo disturbo bipolare negli ultimi vent’anni. Nel video anche Nicholas Craddock professore della Cardiff University School of Medicine racconta qual è il senso della ricerca dei fattori genetici per la comprensione e il trattamento del disturbo bipolare.

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Al momento è a capo del Bipolar Disorder Research Network, uno tra i più vasti programmi di ricerca su genetica e disturbo bipolare.

 


 

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DISTURBO BIPOLARE – DISTURBI DELL’UMORE 

 

APPROFONDIMENTO:

  • Bipolar UK
  • Disturbi bipolari. Si può fare diagnosi di tali disturbi quando sono presenti nella storia clinica della persona episodi maniacali o ipomaniacali o misti. Gli episodi maniacali consistono in periodi di almeno una settimana in cui il tono dell’umore è elevato, espansivo e irritabile, oltre a questo ci devono essere almeno altri tre sintomi specifici (ad es.: diminuito bisogno di sonno, maggiore loquacità, distraibilità, eccessivo coinvolgimento in attività ludiche potenzialmente dannose, ecc.). L’episodio ipomaniacale è simile ma ha durata inferiore (almeno quattro giorni). Infine l’episodio misto è caratterizzato sia da episodi maniacali che da episodi di depressione maggiore. (fonte: SCUOLA COGNITIVA DI FIRENZE)

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Riconoscere le emozioni di Francesco Aquilar- Recensione

 Di Cristian Grassilli

 

Recensione del libro:

 “Riconoscere le emozioni. Esercizi di consapevolezza e Psicoterapia Cognitiva “

di Francesco Aquilar

Ed. Franco Angeli (seconda edizione 2012)

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Riconoscere Le emozioni. Esercizi di Consapevolezza e Psicoterapia Cognitiva. Ed. Franco Angeli

RICONOSCERE LE EMOZIONI – E’ un viaggio a trecentosessanta gradi quello che il lettore fa quando si imbarca in questo libro: la bussola è  l’esperienza, la passione e il desiderio dell’autore di incuriosire e di accompagnare il viaggiatore verso una maggiore consapevolezza del proprio funzionamento, attraverso il riconoscimento di pensieri, di emozioni, di schemi disfunzionali.

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La seconda edizione di questo libro differisce dalla prima del 2000 in quanto è più ampia, contiene un nuovo incipit e una nuova canzone, dedica più spazio alle fondamenta teoriche, contiene nuovi esercizi di consapevolezza e in generale il testo ha subito un aggiornamento.

E’ un viaggio a trecentosessanta gradi quello che il lettore fa quando si imbarca in questo libro: la bussola è  l’esperienza, la passione e il desiderio dell’autore di incuriosire e di accompagnare il viaggiatore verso una maggiore consapevolezza del proprio funzionamento, attraverso il riconoscimento di pensieri, di emozioni, di schemi disfunzionali.

Tutto ciò grazie all’utilizzo di esercizi per  migliorare la qualità della vita e il proprio grado di introspezione e con la complicità di canzoni psicoterapeutiche, di immediata comprensione.

Già Albert Ellis, uno dei padri fondatori della psicoterapia cognitiva, aveva ideato canzoni razionali per aiutare le persone a non prendersi troppo sul serio – scrive Aquilar –  facendone uno strumento per prendere più facilmente le distanze da alcuni processi mentali disfunzionali”.

La Psicantria: introduzione di Francesco Guccini
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L’intento di questo libro è quello di essere un “Cavallo di Troia” che a “insaputa” del lettore/ascoltatore, può espugnare o mettere alla luce aspetti rigidi e disfunzionali del proprio sè, e a predisporlo, in caso di bisogno, a chiedere una psicoterapia personale, senza paura o timore di essere etichettato.

Il primo capitolo del volume è dedicato alle emozioni: l’autore parte da esercizi sulle emozioni  in generale, per addentrarsi successivamente  all’interno di ogni emozione, guidando il lettore a esplorare per esempio la rabbia o la tristezza più da vicino. Una cornice teorica e clinica delle emozioni è necessaria per introdurre il concetto di intelligenza emotiva, così da affrontare la dimensione sociale delle emozioni, declinata all’interno delle negoziazioni interpersonali.

L’occasione di crescita, di conoscenza, di divertimento e di nuova comprensione di sé che il libro rappresenta, emerge distintamente dal secondo capitolo: qui il primo stimolo è rappresentato dalle canzoni psicoterapeutiche che affrontano in maniera trasversale alcune problematiche psicologiche della vita.

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Il discorso – come scrive Aquilar – si struttura a più livelli, dal superficiale al profondo e si conclude con una canzone senza parole”, testimonianza dell’ineffabilità di alcuni complessi stati emotivi. Il secondo stimolo sono gli esercizi di consapevolezza proposti dopo l’ascolto di ogni canzone , che hanno il compito di guidare il lettore in un’esplorazione di alcune caratteristiche di sé.

Le canzoni sono 17 e il paragrafo dedicato ad ognuna di esse è così strutturato: c’è il testo della canzone, il significato esplicito (una riflessione che parte dal testo per collegarsi alla tematica sottostante alla canzone), la psicologia della musica (la spiegazione da parte dell’autore dei motivi alla base della scelta di criteri stilistici musicali, di arrangiamento, specifici per ogni canzone), il significato nascosto (la tematica della canzone viene collegata a riferimenti teorici in campo psicologico), e infine gli esercizi (delle vere e proprie “istruzioni per l’uso” rivolte all’autoconoscenza).

La cornice di riferimento  è quella della psicoterapia cognitiva: gli esercizi sono proposti con uno stile di scrittura “caldo”, analogico, che rispetta il lettore che si avvicina al proprio mondo soggettivo per la prima volta incoraggiandolo, guidandolo e rassicurandolo.

Le canzoni sono composte e scritte da Francesco Aquilar, registrate con strumenti digitali e analogici (nella fattispecie il banco Roland lascia la sua impronta). Analizzando le tracce del cd si parte dall’inglese delle prima due canzoni Who is the first incentrata sul tema della competizione, i cui  protagonisti sono i padri fondatori della psicoterapia cognitiva (Beck, Ellis…) e  Psycoterapy in cui vi è una rassegna del percorso di formazione psicoterapico dell’autore, a canzoni in italiano, di più facile ed immediata comprensione.

I temi delle restanti 15 canzoni spaziano dalla depressione di Nessuno me l’ha mai detto, ai disturbi alimentari descritti in Bella chiattona e si incentrano sull’individuo, sulle difficoltà a negoziare con gli altri i propri bisogni ne Lega il ciuco dove vuole il padrone (cantata in dialetto napoletano), sulle emozioni di tristezza, di paura fino ad arrivare a Talismano,  in cui un pianoforte ed un violino prendono la scena, senza parole.

Recensione: Curare Ridendo di Bernhard Trenkle.
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Questa metafora musicale ha l’intento di costruire un posto caro, evocativo nella mente e nell’anima ascoltatore, che gli consenta di meditare e di sedimentare il percorso di ascolto e di consapevolezza frutto degli ascolti precedenti. La nuova canzone di questa edizione è infine la diciassettesima traccia Svegliati e cambia il tuo mondo dedicata alle emozioni sociali di affiliazione.

Il terzo capitolo del libro si intitola “Psicoterapia cognitiva in azione” e prende in esame più specificatamente la struttura della psicoterapia cognitivo-sociale, il modello di autosservazione guidata e il piano di intervento psicoterapeutico, partendo dal corpo e arrivando alle funzioni di significato personale e metacognitive, concludendo con una rassegna delle organizzazioni psicologiche in psicoterapia.

Dopo le conclusioni vi è l’appendice: coerentemente con lo schema circolare del libro-disco, si forniscono così strumenti per un ulteriore grado di approfondimento di sé, come un viaggio verso a un’autopsicoterapia permanente, per una maggiore consapevolezza.

Nell’appendice è presente il protocollo dell’Intervista Semi-Strutturata di apertura (ISA), in due versioni, una per adulti e una per  ragazzi; ISA è così un modo di iniziare una conversazione con un paziente (nel caso si sia dei professionisti), o, come suggerisce l’autore, può essere l’inizio di un’ulteriore lettura di sé, per chi volesse iniziare a conoscersi ancora meglio.

L’energico, instancabile e pragmatico stile di scrittura di Aquilar fornisce così al lettore strumenti, tecniche, esercizi, incoraggiandolo nel proprio viaggio alla scoperta di sé, come a volergli dire “cantando” si può conoscere sé stessi, le proprie emozioni e raggiungere passo a passo una consapevolezza sempre più chiara: è l’anticamera del vivere serenamente e autenticamente.

Il libro è rivolto a un pubblico eterogeneo tra cui pazienti e famigliari, interessati alla psicoterapia e al cambiamento individuale, ma anche psicoterapeuti professionisti che potranno prendere spunto da alcune tecniche proposte nel libro e esplorare l’uso di canzoni all’interno di una terapia.

LEGGI: 

MUSICA – MUSICOTERAPIA – PSICOTERAPIA COGNITIVA

Tribolazioni 03 – Ci Penso Io – Scenari Mentali, Astrazioni e Ipotesi

I Test Migliorano l’ Apprendimento più dello Studio

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Apprendimento: Gli anziani, come i giovani studenti universitari, imparano di più durante l’esecuzione di un test  piuttosto che rileggendo o studiando.

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Secondo una nuova ricerca pubblicata dalla American Psychological Association gli anziani, proprio come i giovani studenti universitari, imparano di più durante l’esecuzione di un test  piuttosto che rileggendo o studiando.

L’uso dei test come un modo per apprendere nuove informazioni è stato studiato nei giovani studenti. Questa ricerca parte da qui e suggerisce che gli insegnanti, o anche i datori di lavoro, possono utilizzare i test per aumentare l’ apprendimento negli adulti di tutte le età.

Dalla Riserva Cognitiva alla Riserva Comportamentale. -Immagine:© EnryPix - Fotolia.com
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Il campione dello studio è costituito da 60 studenti universitari (età 18-25), 60 giovani adulti (età 18-25), e 60 adulti più anziani (età dai 55 ai 65 anni), che frequentano la scuola o che vivono nella zona di Houston. A tutti i soggetti dello studio è stato somministrato un test di intelligenza prima di iniziare l’esperimento.

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I partecipanti hanno avuto 15 minuti per studiare e leggere i materiali su quattro temi diversi: tsunami, armadilli, il cuore dell’uomo e buchi neri. Dopo aver completato alcuni problemi di matematica, che servivano come distrazione da quello che avevano letto, i partecipanti hanno completato un test a scelta multipla su due dei temi precedentemente studiati. Hanno poi ricevuto dei feedback sulle loro prestazioni da parte dei ricercatori. Al completamento del test test a scelta multipla, i partecipanti hanno ristudiato gli altri due argomenti che non erano stati inclusi nel test.

 Dopo aver completato un’altra serie di problemi di matematica, alcuni partecipanti hanno subito fatto il test finale, mentre altri l’hanno effettuato due giorni dopo. Questo test finale ha coperto tutti e quattro i temi ed è stato più difficile in quanto ha richiesto ai partecipanti di scrivere le risposte, piuttosto che scegliere tra scelte multiple.

I risultati mostrano che entrambi i gruppi hanno beneficiato del test iniziale più che dello studio supplementare. Completare il test e e avere un feedback sugli errori commessi è stato sufficiente a migliorare la memoria del materiale, come mostrato nella prova finale, la più difficile. I partecipanti che hanno effettuato il test finale, il giorno stesso del periodo di studio hanno ottenuto risultati migliori dei partecipanti che l’hanno effettuato due giorni dopo. Tuttavia, gli adulti più anziani, la cui memoria presumibilmente non è buona come quella dei giovani studenti, mostravano un miglioramento della memoria per il materiale precedentemente testato rispetto al materiale ristudiato, anche due giorni dopo.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: MEMORIA

Gli adulti, per svariati motivi, per esempio sul lavoro, possono avere la necessità di acquisire nuove competenze o conoscenze anche oltre il periodo degli studi e questa ricerca suggerisce che il test può essere uno strumento utile ed efficace a raggiungere questo obiettivo.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: 

TERZA ETA’ – INTELLIGENZA – MEMORIA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Recensione: Il Bambino Indaco – Un Caso di Maternità Impossibile

 

Recensione: Il Bambino Indaco - un caso di maternità impossibile
Franzoso M. (2012). Il Bambino Indaco. Milano: Einaudi – Copertina del Libro

Recensione de Il Bambino Indaco. Vicenda drammatica di una gravidanza che la futura madre investe di un significato particolare e un bambino indaco.

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Il Bambino Indaco, romanzo del 2012 di Marco Franzoso, si apre col ritrovamento del cadavere di una donna, la moglie del protagonista; nella stanza accanto, la madre dell’uomo in grave stato di shock. Inizia in questo modo la ricostruzione di una vicenda drammatica che nasce da un appuntamento al buio, le prime parole di una storia d’amore e una gravidanza che la futura madre investe di un significato particolare: verrà alla luce un bambino indaco, una di quelle creature che secondo la dottrina New Age possiedono qualità speciali e soprannaturali venendo inviate sulla Terra per portare nuova purezza.

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Isabel perde progressivamente il contatto con la realtà, rifiuta di mangiare cibi solidi perché potrebbero danneggiare la perfetta armonia del feto, dimagrisce a vista d’occhio e fa scivolare il marito in un’angoscia che lo rende inerme, incapace di agire.

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Arriva il giorno del parto, arrivano i primi mesi del neonato e la missione delirante di Isabel non accenna a modificarsi, nemmeno quando il bambino le viene tolto perché denutrito; in un crescendo di alienazione dal reale la mente della donna produce il più surreale dei gesti, far ingoiare terra al figlio per purgarlo dai cibi che il padre aveva reintrodotto nella sua nutrizione. Fino all’epilogo disperato.

David Foster Wallace. - Immagine: Licenza Creative Commons CC-BY-SA-2.0. Fonte: Wikipedia Italia
Articolo Consigliato: Psicologia & Letteratura: Le visioni di David Foster Wallace.

Il Bambino Indaco esplora un tema complesso utilizzando un linguaggio asciutto, rapido, capace di rendere il crescente smarrimento del protagonista e l’inarrestabile spirale di follia che avvolge la maternità di Isabel; Il Bambino Indaco diventa forse meno incisivo nella parte finale, quando Franzoso descrive la vita che nasce dalla morte, gli anni successivi alla tragedia durante i quali il bambino riesce a raggiungere una faticosa normalità e il padre a mettersi alle spalle ciò che lo aveva cambiato per sempre.

In questi passaggi la narrazione privilegia una sintesi che assottiglia il percorso evolutivo dei personaggi, finendo per racchiudere le molteplici sfumature dell’intreccio in poche pagine scarne la cui funzione di chiusura è troppo definita.

E’ altresì vero che l’intento del libro è raccontare le emozioni oscure, paradossali che si accompagnano al diventare madre, i conflitti di una donna che non può accogliere il cambiamento poiché tormentata da angosce irrisolte, l’impossibilità di tollerare l’imperfezione e l’imprevedibile.

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 Non è raro nell’esperienza di terapeuti incontrare aspettative simili, sebbene meno esasperate, che impediscono ai genitori dei nostri pazienti di accettare i limiti del vissuto umano, l’ordinarietà della natura che tutti noi, venendo al mondo, incarniamo.

Il Bambino Indaco è una lettura interessante perché descrive con l’immediatezza di una buona prosa il nucleo centrale della genitorialità e si serve di una parabola drammatica che accentua le conseguenze del caso particolare stimolando la riflessione sul significato generale: quanto è difficile non controllare ciò che noi stessi abbiamo creato, fronteggiare l’ansia di sapere che nessuno, nemmeno un figlio che abbiamo voluto con forza per arricchire il nostro progetto esistenziale, possiede un colore speciale che lo preserva dai complessi accadimenti dell’esperienza umana?

Il pensiero conclusivo del protagonista, che non ha più attese per il futuro e sente che lo scopo ultimo della vita è non avere più attese, appare come la resa incondizionata all’inutilità del controllo, della previsione. Il disincanto, e insieme l’ascetismo, dopo la follia.

 

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