Scrivere storie può aiutare le persone a esplorare e comprendere le proprie emozioni.
Già Pennebaker (1997a; 1997b) con il metodo del diario sottolineava il potere benefico della scrittura in termini di benessere emotivo e fisico. Un nuovo progetto in atto presso quattro scuole della Gran Bretagna e coordinato dalla fondazione Young Minds si fonda sull’assunto che scrivere storie possa aiutare le persone a esplorare e comprendere le proprie emozioni. Una sessione tipica di questa attività prevede diversi step. Si inizia con un esercizio di rilassamento o midfulness, seguito da un breve assessment dello stato emotivo presente.
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Arriva quindi l’indicazione di scrivere una storia a partire da un’indizio emotivamente connotato quale “c’era una volta un drago molto arrabbiato…”: i ragazzi iniziano a scrivere la loro storia in completa fantasia.
Se l’indizio emotivo fornito non corrisponde allo stato emotivo del ragazzo, si adatta la consegna affinchè vi sia concordanza. Viene poi loro richiesto di condividere le loro storie con il resto della classe, e al termine vi è nuovamente una breve valutazione dello stato emotivo del momento.
E’ fondamentale avere un facilitatore di questa attività che possa validare il lavoro di scrittura e di espressione emotiva dei ragazzi. I vissuti personali dei ragazzi sono comunque mantenuti riservati in tale setting poichè viene data loro la consegna soltanto di identificare lo stato emotivo. Sembrerebbe che il progetto – così semplice da attuare- abbia effetti positivi nel senso che gli studenti coinvolti avrebbero l’opportunità di esprimere le emozioni negative durante e attraverso l’esercizio di scrittura delle storie riportando quindi maggiori emozioni positive al termine dell’esperienza.
Il libro offre un’analisi interessante del percorso che le relazioni hanno dovuto compiere storicamente e indirizza sugli aspetti che aiutano a mantenere una relazione sana.
Enrico Chieli è uno psicologo e sociologo che insegna all’Università di Siena, si occupa di relazioni consapevoli, comunicazioneassertiva, intelligenza emotiva e mediazioni dei conflitti.
In quest’opera Chieli riflette sulla nostra grande libertà d’azione e di pensiero come individui, un modo di vivere che per noi è abituale e quasi scontato, ma che costituisce una vera e propria rivoluzione rispetto a tempi nemmeno troppo lontani, quando la vita del singolo si svolgeva secondo schemi immodificabili e prestabiliti.
Nonostante i cambiamenti positivi nel nostro modo di vivere, il nostro malessere sembra maggiore rispetto a quello di un tempo, secondo Chieli, proprio per la qualità insoddisfacente delle relazioni interpersonali. Il benessere, in tutte le sfere significative di vita, dipende da aspetti relazionali ed emozionali e dalla loro mancanza o problematicità possono derivare disturbi psicoemotivi, psicosociali e psicosomatici.
Lo scopo del libro è fornire strumenti operativi che ci permettano di navigare in quello che l’autore definisce “un oceano di incertezza”. Il testo di facile lettura si rivolge a tutti, perchè tutti noi siamo inseriti in contesti relazionali come mogli, mariti, figli, genitori, insegnanti, lavoratori, medici, pazienti.
Il mito della monogamia. Animali e uomini (in)fedeli Barash David P.; Lipton Judith E. Raffaello Cortina Editore (2002)
L’opera è organizzata in tre sezioni. La prima parte è dedicata alla coppia; com’è cambiata, perchè è in crisi, quali sono i nuovi modelli e come si evolve quando la famiglia cresce.
I rapporti rigidamente regolati, sanciti in base a contrattazioni, secondo un modello patriarcale, col passare del tempo, si sono trasformati, almeno in Occidente, grazie una graduale e sempre maggiore libertà di relazione, permettendo agli individui di esprimere emozioni e sentimenti senza vincoli e convenzioni.
Soprattutto dagli anni Sessanta in poi, con il boom economico, con la democrazia, l’emancipazione della donna e con la liberalizzazione dei costumi sociali, il nucleo relazionale si è spostato da quello familiare al singolo individuo, che si trova oggi a vivere rapporti autodeterminati e flessibili, liberi dai tabù sessuali in cui entrambi i membri della coppia hanno un ruolo paritario. Questa rivoluzione ha portato a rapporti più gratificanti, costruttivi e consapevoli, ma li ha resi anche anche più fragili e suscettibili di crisi, che dall’individuo si estende a tutta la comunità; un caos sociale ed esistenziale.
Il matrimonio è un’istituzione in crisi, i cui vincoli, gli obblighi e le formalità mal si adattano a soddisfare i bisogni e le aspettative che i singoli nutrono all’interno di uno scenario culturale che è profondamente cambiato. Decidere di sposarsi è ormai una scelta che sempre meno si compie e che quando si realizza porta spesso a conflitti e separazioni.
L’autore non si limita a considerare solo la relazione tra due partner: nella seconda parte del testo Chieli effettua una lettura sociale della relazione, analizzando la relazione del lavoratore con l’azienda, del genitore nei confronti del figlio, quella dell’insegnante con gli allievi, del medico con il paziente, sempre mettendo in evidenza il cambiamento, visto come un generatore di opportunità, ma anche di debolezza.
Uno degli assunti che Chieli sottolinea è che la libertà va gestita, in tutti i contesti, grazie a strumenti conoscitivi, operativi e consapevoli, che permettano di orientarsi nei rapporti interpersonali e di affrontare in maniera funzionale i conflitti che li caratterizzano.
La terza e ultima parte, si rivolge agli operatori che effettuano interventi nei contesti relazionali e tratta di come si può insegnare a gestire costruttivamente il cambiamento, grazie a una formazione adeguata e all’aggiornamento costante che permetta ai professionisti di utilizzare interventi terapeutici come la mediazione e la terapia familiare in un’ottica relazionale. Compito degli operatori è sensibilizzare, educare e aggregare, con il fine di promuovere le nuove socialità e prevenire e gestire le problematiche interpersonali.
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Il libro offre un’analisi interessante del percorso che le relazioni hanno dovuto compiere storicamente e indirizza sugli aspetti che aiutano a mantenere una relazione sana. Il primo è la consapevolezza di chi siamo, di chi ci sta di fronte, di quali sono le opzioni possibili e quali le conseguenze che una scelta comporta.
Un altro elemento importante è maturare una competenza comunicativareciproca ed efficace, che vada oltre la semplice capacità linguistica e presti attenzione ai segnali non verbali, orientata a stabilire bisogni, propri e altrui, aspettative e obiettivi, dinamiche di funzionamento, tenendo presente che gli stili comunicativi e i vissuti emozionali del singolo.
Prediligere uno stile di dialogo aperto, continuo e costruttivo per evitare le liti, che quando si presentano vanno comunque gestite in modo non distruttivo. Chieli ci ricorda che stare in relazione è difficile, ma è anche qualcosa che si può e si deve apprendere per vivere bene.
Psicoterapia Cognitiva & Protocolli Mindfulness a confronto
Ansia & Mindfulness: Da oltre un decennio si assiste allo sviluppo di protocolli basati sulla minfulness per riduzione dello stress e sintomi d’ ansia.
Nel trattamento di diverse e molteplici forme d’ ansia, numerosi studi clinici e ricerche scientifiche attestano come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) risulti essere un trattamento d’elezione.
Tuttavia, da oltre un decennio si assiste allo sviluppo, in ambito clinico, dei protocolli basati sull’uso della minfulness (MBSR) per la riduzione dello stress in generale e di alcuni sintomi dell’ansia in particolare (come, ad esempio, il rimuginio).
Tali protocolli prevedono un lavoro finalizzato ad aumentare la consapevolezza di ciò che ci accade momento per momento e numerose sono ormai le prove della loro efficacia, evidenziate da studi che ne attestano l’efficacia clinica e la capacità di influenzare il funzionamento cerebrale (Aftanas e Golocheikine, 2005; Dunn, Hartigan e Mikulas, 1999; Holzen et al., 2007; Jha et al., 2007; Lazar et al., 2000).
Tanto la diffusione della pratica di consapevolezza, quanto la presenza dei numerosi dati a sostegno e a conferma della sua efficacia pongono il clinico di fronte ad alcuni interrogativi cruciali: quali le similitudini e le differenze tra MBSR e terapia cognitivo-comportamentale standard nel trattamento dell’ansia? I risultati a cui è possibile approdare mediante l’utilizzo di pratiche interne ai protocolli basati sull’uso della mindfulness sono ottenibili anche attraverso l’impiego di tecniche cognitive? E con quali differenze?
Un recentissimo studio (Arch et al., 2013) si pone l’obiettivo di fornire alcune risposte a queste domande. Nella ricerca riportata sono posti a confronto due gruppi di pazienti accomunati dalla presenza di una o più diagnosi di disturbo d’ansia e sottoposti ad un trattamento CBT o MBSR.
I risultati appaiono incoraggianti per entrambi i gruppi, infatti i pazienti mostrano una riduzione significativa della gravità della diagnosi d’ ansia. In altre parole, i sintomi ansiosi e l’effetto invalidante degli stessi nella vita dei pazienti sembrano ridursi in modo rilevante a seguito di entrambi i trattamenti.
Esistono, tuttavia, differenze negli esiti. Mentre, infatti, la CBT si dimostra maggiormente efficace nel ridurre l’attivazione fisiologica legata all’ ansia, il trattamento MBSR consente ai pazienti di diminuire in modo più rapido il rimuginio ansioso come anche le eventuali ed ulteriori problematiche emotive presenti.
Questo studio offre l’opportunità di riflettere sull’importanza dell’integrazione tra forme di trattamento differenti che consentano di raggiungere, nel minor tempo possibile e con il massimo livello di efficacia, i risultati in termini di remissione dei sintomi e miglioramento della qualità di vita.
Ma non solo. Esso evidenzia, infatti, come il clinico possa utilizzare le indicazioni fornite dalla ricerca per orientare la pratica terapeutica: è possibile, nelle diverse fasi di un percorso di psicoterapia, affrontare i sintomi e tendere al cambiamento mediante forme di trattamento specifiche, mirate e testate empiricamente.
Le persone divengono più compassionevoli attraverso la pratica meditativa.
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Una ricerca pubblicata su Psychological Science e condotta da un gruppo di ricercatori di Harvard e della Northeastern University ha messo in evidenza che la partecipazione a corsi di meditazione promuove la tendenza degli individui a comportarsi in modo più compassionevole.
Nello specifico i partecipanti hanno frequentato un training di pratica meditativa per circa 8 settimane.
Al termine del training, i soggetti sono stati sottoposti a un artificio sperimentale che ha consentito di valutare l’attuazione di comportamenti compassionevoli: in una stanza vi sono due attori, uno dei quali è in stampelle ed esprime un evidente affaticamento e dolore nello stare in piedi, un altro attore rimane invece tranquillamente seduto a leggersi il giornale.
Rispetto ai soggetti di controllo, i partecipanti al training meditativo erano più propensi a cedere il loro posto a sedere e a offrire aiuto all’attore sofferente.
Tra i soggetti di controllo non-meditatori, soltanto il 15% ha offerto aiuto alla persona in difficoltà, mentre nel gruppo dei meditatori il 65% dei soggetti si è prodigato in modo compassionevole.
La cosa interessante è che la meditazione sembra in questo caso superare l’effetto negativo della distribuzione di responsabilità nel caso di più persone presenti di fronte a qualcuno che chiede direttamente o indirettamente aiuto (by-stander effect), impattando in qualche modo (ancora da chiarire nei processi) sul funzionamento morale.
“Un guerriero della luce conosce il potere delle parole”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.118]
Nel corso di un colloquio psicologico lo psicoterapeuta deve dare molte risposte per poter stabilire una relazione terapeutica, per negoziare definizioni di problemi e obiettivi, per mostrare nuove prospettive e la propria capacità di accettazione e per stabilire un contratto con il paziente.
Si possono individuare alcuni modelli di risposta particolarmente utili a livello pratico dal momento che non sono intrusivi, non interferiscono con i processi di pensiero del paziente, non lo distraggono dagli stati d’animo che sta provando e non implicano giudizio di valore. Queste caratteristiche si possono definire proprie delle risposte che permettono allo psicoterapeuta di immedesimarsi nel comportamento e nei sentimenti altrui, giustificandoli ma, contemporaneamente, cercandone il motivo [Gladstein, 1983; Truax e Mitchell, 1971]. Esempi di questi modelli di risposte empatiche sono:
1) Risposte di incoraggiamento minimo a proseguire ed eco: che sono costituite da cenni di assenso del capo e da semplici frasi. Permettono di trasmettere al paziente un segnale che lo inviti a proseguire senza interrompere in alcun modo il flusso del discorso. È estremamente efficace nel corso del primo colloquio soprattutto per mostrare la disponibilità e l’interesse del terapeuta a raggiungere una conoscenza profonda del paziente.
Gli eco, in particolare, sono impliciti inviti a proseguire trasmes
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si attraverso la ripetizione delle ultime parole dette dal paziente con un tono interrogativo; essendo così semplici possono essere l’ancora di salvezza dello psicoterapeuta che non sa cosa aggiungere e comunque sono utili perché permettono di approfondire le informazioni sulla condizione del paziente. Alcuni esempi di questo modello di risposta possono essere: “e allora cos’è accaduto?”, “la prego, continui pure” o “e lei ne soffre?”.
2) La parafrasi: con questo tipo di risposte lo psicoterapeuta mira a ricapitolare i contenuti espressi dal paziente ripresentandoli con parole proprie. In tal modo ha la possibilità sia di far capire al paziente che ha ascoltato con attenzione tutto ciò che ha detto, sia di far correggere da lui le proprie percezioni sbagliate. Il paziente corregge il terapeuta e il terapeuta ringrazia, dopo di ché si riprende il dialogo, che non ha subito un’ interruzione ma una chiarificazione.
All’interno di queste parafrasi lo psicoterapeuta può introdurre alcune proprie associazioni tra le cose che ha detto il paziente. Per esempio se un genitore di due bambini (di tre e sette anni) si lamenta con il professionista per comportamento antisociale del primogenito emerso gradualmente da circa 3 anni, lo psicoterapeuta può dire: “quindi suo figlio assume comportamenti violentinonostante voi abbiate provato ormai qualsiasi tipo di punizione, e ciò va avanti più o meno da quando è nato il fratello piccolo”.
Con un affermazione di questo tipo viene presentata, mediante la parafrasi, un’associazione non espressa dai genitori, tra la nascita del fratello e l’inizio del disturbo. Questo potrebbe essere l’inizio di un esperienza di insight e di cambio di prospettiva per i genitori. La parafrasi permette, sia di chiarificare e riassumere i contenuti espressi nel colloquio sia di verificare le percezioni dello psicoterapeuta sulla base delle reazioni del paziente alla parafrasi stessa. Un altro esempio potrebbe essere: “Quindi da quando vi siete trasferiti in città sua moglie ha perduto la sua consueta vivacità, e questo la porta a sentire vuota la propria casa quando torna dal lavoro”.
3) Giustificazioni: per essere empatico nei confronti del proprio paziente è necessario un’elevata capacità di comprensione che si traduce, all’interno del colloquio psicologico, nelle risposte di giustificazione. Queste risposte hanno il compito di far sentire il paziente accettato dal professionista, compreso indipendentemente dagli errori commessi e dal giudizio di valore dato dalla società.
Le risposte di questo tipo servono, appunto, per giustificare le emozioni e i sentimenti trasmessi dall’altro ponendo l’attenzione più sulla carica emotiva che sui contenuti. Rappresentano la via attraverso la quale vengono trasmesse le informazioni con le quali il paziente può giungere a capire di più sé stesso e a scoprire nuove prospettive di osservazione delle sue emozioni e dei suoi sentimenti.
4) Riflessioni: costituiscono una delle tipologie di risposte più efficaci soprattutto all’interno del primo colloquio psicologico. Nelle riflessioni i sentimenti del paziente vengono ritrasmessi dallo psicoterapeuta, il quale agisce come uno specchio in grado di catturare non l’immagine della persona ma ciò che vi è dietro.
Mettere in atto una risposta riflessiva vuol dire esprimere non solo l’emozione ma anche l’intensità con cui è vissuta dal paziente, riuscendo a giungere ad un livello massimo di immedesimazione. Le riflessioni possono trasmettere che lo psicoterapeuta è in grado di comprendere e accettare i sentimenti provati dal paziente indipendentemente da quali essi siano, che non è spaventato o scosso e che si può parlare normalmente di questi sentimenti.
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Parlare normalmente dei sentimenti vuol dire non aver timore o vergogna di nominarli, e quindi iniziare ad assumere un controllo su di essi. È molto importante anche ciò che lo psicoterapeuta fa dopo aver risposto con una riflessione, solitamente occorre un po’ di tempo al paziente per rielaborare ciò che gli è stato restituito, in quei momenti il professionista deve mantenere uno stato di silenzio attento. Un esempio di riflessione è: “Immagino che ciò la renda molto triste” o “Deve aver provato un intensa rabbia in quel momento”.
In associazione a questi tipi di risposte empatiche possono quindi essere posti alcuni interventi significativi che emergono facilmente dall’ascolto di ciò che riferisce il paziente. Questi interventi, legati all’intuito dello psicoterapeuta possono condurre , se evitano di essere eccessivamente minacciosi o intrusivi, ad un piccolo insight.
Usare queste strategie consente di evidenziare: l’incongruenza tra sentimenti e comportamento, l’ambivalenza nelle parole del soggetto, le soluzioni possibili e alternative, i modelli di comportamento dietro le singole situazioni, determinare a chi appartiene il problema, quali ruoli ha il paziente all’interno del suo ambiente sociale, quali sono i sentimenti dietro i sentimenti, quali sono le convinzioni del paziente sulla natura umana.
Come esistono delle risposte empatiche consigliabili, così esistono anche delle risposte non empatiche che dovrebbero essere evitate. Queste non solo sono risposte che non funzionano, ma possono compromettere il lavoro svolto finora con il paziente. Già Rogers individuò almeno quattro tipi di risposte che devono essere fuggite attentamente dallo psicoterapeuta se si vuole stabilire un rapporto di fiducia:
1) Risposte banalizzanti: sono le risposte che rendono comune il problema e che fanno apparire il terapeuta come colui che ha la soluzione che, in pochi minuti, farà scomparire tutte le diffcoltà. Bisogna ricordare sempre che esiste un rapporto speciale e unico tra il paziente e il suo problema. La persona non accetta che ciò che l’ha fatta così tanto soffrire o arrabbiare possa essere umiliata e banalizzata dalle parole del terapeuta.
Ognuno considera il proprio caso come unico e deve essere trattato come tale. Non si può affermare di aver visto tanti casi e tutti uguali. Questa è la manifestazione di una forte carenza nella capacità empatica del professionista che alimenta il senso del paziente di non poter essere capito. Alcuni esempi possono essere: “a questa età questo è un comportamento normale” ma anche “non si preoccupi, ho capito benissimo”.
2) Risposte tecnicistiche: rappresentano tutte le risposte da esperto psicologo, tutte quelle che fanno uso di un linguaggio tecnico di cui il paziente può non conoscere il significato. Sono due i grandi svantaggi di questa abitudine. Prima di tutto si annulla qualsiasi possibilità di instaurare un rapporto di fiducia in quanto il paziente non si sente accettato e capito ma anzi avverte il disagio di trovarsi in un relazione non paritaria in cui lui occupa la parte subordinata.
Secondariamente l’uso di un linguaggio poco comprensibile rende difficile per il paziente poter cogliere prospettive diverse dalla propria. Per questi motivi l’uso di risposte tecnicistiche impedisce di seguire un percorso di negoziazione della definizione di problema e obiettivi ma porta alla negazione delle definizioni del paziente con tutti i danni che ne conseguono per il rapporto interpersonale tra lui e lo psicoterapeuta. Un possibile esempio di risposta tecnicistica può essere: “questo suo comportamento è aumentato di frequenza esclusivamente per l’azione di alcune variabili esterne che hanno agito come rinforzatori positivi”.
3) Risposte moralistiche: costituiscono tutte quelle risposte tese a incolpare il paziente per un comportamento che travalica i limiti della moralità del terapeuta. Non è difficile comprendere come in questo caso lo psicoterapeuta verrebbe meno a molti dei principi di base presentati nei capitoli precedenti, primo fra tutti quello che impone l’accettazione piuttosto che il giudizio.
In questo caso lo psicoterapeuta, che dovrebbe accettare i valori del paziente e non rimanere scioccato dalle sue rivelazioni compie esattamente l’opposto, umiliando ulteriormente il paziente, instillando sensi di colpa in aggiunta a quelli che potrebbero già esistere. Se una persona si comporta in modo sbagliato secondo i canoni dello psicologo e giunge da lui portando un problema, questi deve occuparsi del problema e non giudicare il suo comportamento, giusto o sbagliato che sia.
Un’eccezione ampiamente discussa riguarda il caso in cui il comportamento del paziente risulti dannoso per le persone che gli stanno intorno. In questo caso la legalità combatte contro sé stessa. Da un lato lo psicoterapeuta avrebbe il dovere (secondo alcuni) di informare le autorità o gli enti preposti al controllo del comportamento del paziente, dall’altro deve prima di tutto rispettare (secondo altri) l’etica professionale della riservatezza.
La discussione è così animata e combattuta che molti stati hanno optato per soluzioni differenti. In linea di massima è auspicabile che la rottura della riservatezza sia l’ultima soluzione ma è altrettanto indispensabile una sorta di intervento. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di responsabilizzare il paziente a ciò che sta facendo cercando di suggerire come agire e, se tutto ciò non va in porto, pensando di intervenire più direttamente. Alcuni esempi di risposta moralisitica possono essere: “Lei dovrebbe vergognarsi a fare così”o “Quello che fa è sbagliato”.
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4) Risposte interpretative: sono risposte in cui lo psicoterapeuta dà una spiegazione alle emozioni, sentimenti e comportamenti del paziente basandosi sulla propria intuizione più che sulla connessione con i dati reali ricevuti dalla comunicazione. Implicano quindi l’introduzione di un argomento che al momento non è dato dal colloquio psicologico.
Queste intuizioni dovrebbero rimanere tali e non essere subito trasmesse al paziente, solo al momento opportuno potrebbero essere usate come fonte di insight. Infatti l’intuizione può portare a comprendere su quale canale comunicativo (emotivo, cognitivo o comportamentale) sia l’ostacolo principale che la terapia dovrà rimuovere e che il paziente non vede. Per questo si può definire l’intuizione come il faro che illumina il percorso terapeutico.
Tuttavia esprimerla con un’interpretazione non basata sui dati o incomprensibile per il paziente può portare il focus della terapia su un altro problema, che non è quello per cui il paziente è venuto in terapia e che magari non esiste neppure (nel caso che l’intuizione sia scorretta). È sempre meglio prendere le proprie intuizioni come spunti che conducono a nuove domande e a nuove osservazioni; alcune di queste intuizioni evolveranno in ipotesi sperimentali che si procederà poi a verificare.
Rendendole subito esplicite si rischia sia di banalizzare che di tecnicizzare le emozioni, i sentimenti e i problemi riferiti dal paziente, infatti spesso le risposte interpretative sono anche banalizzanti o tecnicistiche. Alcuni esempi di risposte interpretative possono essere: “Lei è così ossessionato dalla pulizia perché il suo sviluppo è rimasto fissato alla fase anale” (interpretativa e tecnicistica), “non si preoccupi, è solo dovuto alla nascita del fratellino” (interpretativa e banalizzante).
Il “segreto” di Andrea Pirlo: Calcio & Funzioni Esecutive
Andrea Pirlo – fonte: Napolinetwork.it
Il “segreto” di Andrea Pirlo. Ultimamente numerose ricerche di psicologia dello sport si sono concentrate sullo studio delle abilità percettivo-cognitive.
Se pensiamo a un giocatore italiano di uno sport di squadra, che spicca per talento e capacità, vuoi per la grande popolarità di cui gode ancora il calcio nel nostro paese, vuoi per le residue tracce di memoria degli Europei della scorsa estate, a molti di noi potrebbe venire in mente il nome diAndrea Pirlo.
Per chi non lo conoscesse, Andrea Pirlo è uno dei calciatori in attività più vincenti e apprezzati degli ultimi dieci anni, vero e proprio regista e “cervello” del centrocampo prima del Milan, ora della Juventus, e della Nazionale italiana. Detto ciò, quali potrebbero essere le caratteristiche alla base del suo successo sportivo?! E più in generale quali sono le gli elementi che differenziano un buon giocatore, da un campione?!
La psicologia ha iniziato ad approcciarsi alle discipline sportive occupandosi tradizionalmente di capire come favorire e migliorare le performance degli atleti, focalizzandosi su aspetti come la motivazione, le dinamiche di gruppo, il training mentale. Una diversa linea di ricerche si è successivamente dedicata, senza troppo successo, all’ “identificazione di talenti”, ovvero a ricercare quali potessero essere i tratti e le caratteristiche di personalità che predicono il potenziale successo di un atleta, in modo da poter stilare un vero e proprio identikit psicologico del futuro campione.
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Negli ultimi vent’anni sempre più numerose ricerche di psicologia dello sport si sono concentrate sullo studio delle abilità di tipo percettivo-cognitivo, evidenziando come il successo negli sport di squadra, in particolare nei cosiddetti “ball-games” (sport dove si utilizzano palle e palloni) richieda, oltre a spiccate doti fisiche e di coordinazione motoria, anche una notevole abilità nell’elaborare le informazioni, a causa della complessità e del rapido cambiamento del contesto durante una gara.
Un giocatore di sport di squadra di successo deve essere in grado di tenere sott’occhio costantemente le situazioni di gioco, paragonarle a esperienze passate, creare nuove occasioni, prendere decisioni nel minor tempo possibile, ma anche inibire velocemente le scelte già pianificate che non sono più adatte al contesto presente. Il giocatore ideale, perciò, possiede specifiche qualità: un’eccellente attenzione spaziale e divisa, notevoli capacità di memoria a breve termine e di mentalizzazione, abilità nel rapido adattamento al contesto, nel cambio di strategie e nell’inibizione di risposte automatiche. Questo tipo di caratteristiche sono indicate nell’ambiente sportivo come “intelligenza di gioco”. Se ascoltiamo opinionisti e telecronisti delle trasmissioni calcistiche commentare le azioni di giocatori particolarmente brillanti, notiamo elogi al loro “senso tattico”, alla “visione di gioco” e più in generale alla loro ”intelligenza calcistica”.
Nel linguaggio neuropsicologico molte di queste abilità sono generalmente conosciute come “funzioni esecutive”.
Uno studio condotto da ricercatori svedesi, guidati da Predrag Petrovic, del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche del Karolinska Institute di Stoccolma, ha evidenziato l’importanza delle funzioni esecutive nella possibilità di prevedere future performance di successo di un calciatore.
In una prima parte dello studio sono stati sottoposti a una valutazione delle funzioni esecutive giocatori di “serie A” svedese (High Division, HD), calciatori di divisioni minori (Lower Division, LD) e un gruppo di controllo standardizzato per età e scolarità.
Nella seconda parte dello studio, due stagioni dopo, sono stati comparati i risultati ottenuti al test cognitivo dai giocatori, con delle statistiche calcistiche (ad esempio il numero di goal e di assist) in grado di misurare in maniera più oggettiva possibile il successo delle prestazioni di un calciatore.
Il test principalmente impiegato è stato il Design Fluency (DF), un compito non-verbale di fluenza grafica, che va a indagare capacità di creatività cognitiva, pianificazione, flessibilità, memoria di lavoro e inibizione, in cui è richiesto ai partecipanti di disegnare con una penna il maggior numero possibile di figure-combinazioni diverse tra loro, unendo con linee rette alcuni puntini contenuti in dei quadrati, in un limite di tempo prestabilito. Altri due test esecutivi (Stroop test e il Trail Making test) sono stati utilizzati come controllo del primo compito.
I risultati della prima parte di ricerca hanno evidenziato come i giocatori che militavano nel campionato più importante abbiano ottenuto nei test dei risultati significativamente migliori rispetto a quelli dei calciatori di divisioni inferiori e come entrambi i gruppi di sportivi abbiano collezionato delle prestazioni nettamente più elevate rispetto al gruppo di controllo della popolazione generale. Nella seconda parte dello studio i ricercatori hanno trovato una correlazione significativa tra il test di Design Fluency e i punteggi delle statistiche calcistiche delle due stagioni successive all’esecuzione del compito, risultato che, secondo il gruppo di ricerca, suggerisce un ruolo causale da parte delle funzioni esecutive nel successo dell’attività calcistica.
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Secondo gli autori l’idea che i cosiddetti “top-players” possiedano delle capacità esecutive superiori, potrebbe cambiare il modo di concettualizzare la relazione tra cognizione e successo sportivo. La ricerca di giovani talenti e futuri campioni, infatti, potrebbe avvalersi di valutazioni che tengano conto non solo delle caratteristiche fisiche o tecniche basate sulle performance attuali dell’atleta, ma anche delle misure delle funzioni esecutive tramite test neuropsicologici validati.
In attesa di vedere osservatori-talent scout e neuropsicologi impegnati in fruttuose collaborazioni per scoprire i campioni del futuro, sarebbe curioso e interessante vedere alla prova con i test esecutivi anche i fuoriclasse del presente, come il nostro Andrea Pirlo, per verificare se nell’unire i puntini con un tratto di penna c’è lo stesso talento e la stessa imprevedibile genialità che mostra con il pallone tra i piedi nel rettangolo verde di gioco.
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Circa una persona su 7500 nasce senza il senso dell’olfatto, una condizione anche conosciuta come anosmia isolata congenita (ICA). Secondo uno studio pubblicato da poco su Biological Psychiatry gli individui con anosmia dimostrano maggiore insicurezza nelle relazioni intime rispetto a un campione di controllo.
Nello specifico, nel caso degli uomini si è riscontrata la presenza di un minore numero di partner sessuali nel corso della vita, mentre nel caso delle donne è stato rilevato un maggiore grado di percezione di insicurezza relazionale nei confronti del proprio partner sessuale rispetto a soggetti sani.
L’olfatto, uno tra i cinque sensi che di primo acchito può sembrare trascurabile, è in realtà il più antico a livello filogenetico, collettore di indizi importanti per rilevare l’ansia nei propri consimili, importante veicolo di riconoscimento del caregiver da parte del neonato (Leggi anche Articoli su: Attaccamento), e così via.
In generale, i ricercatori suppongono che deficit nella sensorialità olfattiva possano ridurre il comportamento esplorativo sessuale nelle relazioni intime; allo stesso tempo raccomandano cautela vista la limitata numerosità del campione clinico coinvolto nello studio.
Un pessimismo violento e plumbeo ormai domina le puntate, una diffusa sfiducia nella possibilità di nutrire relazioni sane e soddisfacenti con il prossimo.
Dopo l’intermezzo speranzoso di Sophie (Leggi l’ultima seduta di Sophie), ricomincia la discesa all’inferno di Paul, stavolta in compagnia della terribile coppia di Amy e Jake. È chiara ormai la struttura delle puntate settimanali, quasi una grande pala dai colori prevalentemente scuri, in cui i quattro tenebrosi pannelli laterali circondano il più luminoso ritratto centrale di Sophie. E oggi tocca ai protagonisti più tenebrosi di tutti, la coppia in crisi.
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La catastrofe preannunciata nel finale della seduta precedente si realizza definitivamente. Amy ha abortito e si presenta da sola in seduta (Leggi anche articoli su: Gravidanza & Genitorialita’) . Sembra un animale soddisfatto di sé e sensuale e, similmente a Laura, flirta con il povero Paul, ormai oggetto delle attenzioni fameliche di tutti i suoi pazienti (l’unico che lo rispetta è Sophie). Il tema della difficoltà di governare le relazioni e di mantenere i confini terapeutici è sempre più presente in questa serie.
Un pessimismo violento e plumbeo ormai domina le puntate, una diffusa sfiducia nella possibilità di nutrire relazioni sane e soddisfacenti con il prossimo. Simbolicamente il nome della ragazza, l’unica messaggera di una speranza, è Sophie: sapienza.
Ma non è il caso di Amy e Jake, che di sapienza paiono possederne ben poca. Arriva anche Jake e la coppia litiga duramente e tristemente in presenza di Paul. Jake intuisce che la moglie ha flirtato col terapeuta, e gli ingiuriosi epiteti che gli uomini violenti rivolgono alle donne in queste situazioni sgorgano dalla sua bocca amareggiata. La seduta termina in un’atmosfera di sconfitta e risentimento.
Ma non è finita. Un’altra coppia in disfacimento occupa il finale: Paul e Kate, sua moglie. Asciuttamente Kate riferisce che se ne va, per un giorno, anzi, per due, anzi per una settimana. Dove? Con l’uomo con cui si vede. E va a Roma. È davvero uno schiaffo in faccia a Paul, se pensiamo che a Roma i due trascorsero il loro viaggio di nozze. La puntata termina con Paul simbolicamente disteso sul divano dei suoi pazienti, moralmente umiliato e schiaffeggiato. Le relazioni umane sono piene di dolore. Decisamente una triste verità per un analista relazionale.
Lo Psicologo Penitenziario – Ci si dimentica facilmente di quel luogo lontano dalla nostra esperienza, il carcere, collocato ai margini di una città.
di Monica Salvi, Psicologa
Poco si parla e si sa di carcere. Entra nei discorsi della gente quando lo impongono i mass media: il sovraffollamento, i suicidi, i delitti trasformati in eventi mediatici. Ci si dimentica facilmente di quel luogo lontano dalla nostra esperienza quotidiana, spesso collocato ai margini di una città, ritenendo forse che i problemi che affliggono quel tipo di istituzione non ci riguardano direttamente. Quel tipo di istituzione è un’istituzione totale, un microcosmo dove si percepisce un taglio netto tra il “dentro” e il “fuori”, dove chi vi è recluso è considerato a priori colpevole nel vissuto collettivo e quasi mai ci si sofferma a riflettere su come sia davvero la vita, dentro.
Poco si sa della figura dello psicologo penitenziario, di come operi all’interno dell’istituzione e delle molte situazioni, non di rado contraddittorie, che si trova a dover far fronte.
La figura dello psicologo penitenziario nasce con la Legge di Riforma dell’Ordinamento Penitenziario del Luglio ’75. La legge n° 354 sancisce il passaggio da un modello meramente retribuzionista della pena a un modello rieducativo-trattamentale, che ha come finalità la rieducazione e il reinserimento sociale del reo. L’articolo 80, nello specifico, sostiene che per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica.
La psicologia, per la prima volta, opera formalmente nell’istituzione penitenziaria e si rivolge primariamente ai detenuti.
Nel 1979 gli Esperti Psicologi iniziano a far parte dell’equipe multidisciplinare interna, definita Gruppo Osservazione e Trattamento e composta da Direzione, Polizia Penitenziaria, Educatori ma anche figure non istituzionali, con la finalità di costituire congiuntamente un progetto individualizzato per il recupero del soggetto deviante. L’Esperto Psicologo è chiamato a dare il suo contributo specifico all’osservazione scientifica della personalità (valutazione della pericolosità sociale e della possibilità di recidiva) e all’elaborazione del programma di trattamento, intra o extra-murario; trattamento che consiste in un progetto individualizzato finalizzato a far si che il tempo della detenzione sia un’occasione esistenziale di assunzione di responsabilità e autocritica circa le proprie condotte antigiuridiche, nonché di rieducazione attraverso attività lavorative, d’istruzione scolastica e professionale, ricreative, culturali e di risocializzazione mediante benefici e misure alternative alla detenzione .
Nel dicembre 1987 la circolare Amato n. 3233/5683 istituisce il “Servizio Nuovi Giunti”, volto primariamente a prevenire gesti suicidari e autolesivi. Nel colloquio di ingresso lo psicologo è chiamato a valutare e individuare i casi a rischio per una successiva presa in carico nonché a dare indicazioni sull’ubicazione del detenuto e sul tipo di sorveglianza da applicare.
Il 2008 è l’anno della riforma della sanità penitenziaria. L’emanazione del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° aprile 2008 segna il passaggio delle funzioni in materia di Sanità Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. Da quella data si sono lentamente costituiti, all’interno degli Istituti Penitenziari, i primi Presidi di Psicologia composti da personale afferente all’Azienda Ospedaliera, e non più al Ministero di Giustizia, con mandato di valutare e monitorare il rischio suicidario attraverso l’individuazione dei fattori di rischio, esteso non solo ai nuovi giunti ma a tutta la popolazione carceraria; e la presa in carico tempestiva delle situazione di disagio o di malattia psichiatrica necessitanti di sostegno psicologico. Si assiste all’epilogo di un lungo percorso di riforme che vede, in ultimo, sottolineare il diritto della tutela della salute e l’utilizzo di strumenti di intervento non più solo custodiali (es. Grande Sorveglianza e Sorveglianza a Vista).
Da queste brevi riflessioni si intuisce come l’intervento dello psicologo in ambito penitenziario sia di grande complessità e responsabilità, e tuttavia poco conosciuto e soprattutto valorizzato. Risale infatti a pochi mesi fa l’allarme lanciato dal Presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, Luigi Palma, sulla condizione preoccupante degli istituti penitenziari, per via del sovraffollamento e dell’aumento dei suicidi, in cui chiede di riqualificare la figura dello psicologo, svilita dal precariato e dalla continua riduzione delle ore dedicate al rapporto con i detenuti, che non permette di garantire realmente il diritto alla salute della popolazione carceraria.
Secondo uno studio presentato presso il British Neuroscience Association Festival of Neuroscience (BNA2013) di Londra da alcuni ricercatori della Brighton and Sussex Medical School (Brighton, UK) la fase del ciclo cardiaco di una persona può influenzare il modo in cui viene elaborata a livello mentale e cerebrale la paura.
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I ricercatori hanno sottoposto 20 volontari sani a elettrocardiogramma; la rilevazione dell’attività cardiaca mediante ECG è stata sincronizzata e collegata a un pc che proiettava ai soggetti espressioni facciali inducenti paura, in modo da presentare gli stimoli emotigeni in relazione a specifiche fasi del ciclo cardiaco.
I risultati hanno rivelato che se si vede lo stesso volto spaventoso durante la fase di sistole (quando il cuore sta pompando) si valuta questo stimolo come più terribile – riportando quindi un’emozione di paura più intensa- rispetto al vederlo in una fase cardiaca di diastole (quando il cuore è rilassato).
Effettuando questo esperimento in risonanza magnetica funzionale è emerso che se lo stimolo pauroso viene presentato nella fase cardiaca di sistole, a livello cerebrale si ha un’attivazione più intensa dell’amigdala, area chiave del sistema limbico deputato alla regolazione emotiva.
In un secondo esperimento, è stato dimostrato che anche la nostra esperienza cosciente è influenzata dalla fase del ciclo cardiaco in cui ci troviamo: i volti spaventosi sono soggettivamente percepiti come più terrificanti nella fase cardiaca di sistole rispetto alla diastole.
Viene cosi identificato a livello empirico un meccansimo importante relativo alle interazioni tra corpo e mente (Leggi Anche: Vasi Comunicanti: il Dialogo tra Mente e Corpo) nell’elaborazione e nella regolazione delle emozioni.
In an early study, Noyes and colleagues (1978) compared the family history of 112 anxious participants to 110 controls that recently had surgery. First-degree relatives of those with anxiety showed an 18% morbidity risk for anxiety, compared to first-degree relatives of controls, which showed a 3% morbidity risk. Further, in families in which both parents were anxious, anxiety in offspring was more common.
Noyes and colleagues (1987) conducted a family study investigating the frequency of several anxiety disorders in the relatives of probands with different anxiety disorders. The results demonstrated higher rates of GAD among relatives of probands with GAD (n = 20) than in relatives of healthy control participants (n = 20). Rates of GAD were not higher among relatives of probands with panic disorder (n = 40) or of probands with agoraphobia (n = 40). The frequency of panic disorder was, however, higher among relatives of probands with panic disorder than control relatives, but not for GAD.
Thus, this study demonstrates specificity in the transmission of GAD and panic disorder.
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Skre and colleagues (1994) conducted a family study investigating the familiar transmission of anxiety disorders and their relationship to mood and psychoactive substance use disorders. The study examined 33 individuals with an anxiety disorder and 76 first-degree relatives, 20 individuals with a mood disorder and 45 first-degree relatives, and six individuals with psychoactive substance use disorder and 12 first-degree relatives. Overall, more first degree relatives of those with an anxiety disorder had panic disorder and GAD, compared to relatives of those with mood disorders, and compared to relatives of those with psychoactive substance use disorders. Thus, while numbers of relatives for some disorders were quite small, the study suggests the specific transmission of anxiety disorders independent of mood and psychoactive substance use disorders.
Last and colleagues (1991) investigated the family history of first and second-degree relatives of children with anxiety disorders, child attention deficit-hyperactivity disorder (ADHD) and a healthy control group. Diagnostic interviews demonstrated an increase in the prevalence of anxiety disorders in first degree relatives of anxiety disordered children compared to relatives of ADHD children and of healthy control children. This study demonstrates familiarity of anxiety disorders, in comparison to behavioral (ADHD) and healthy control groups.
Kendler and colleagues (1997), in the National Comorbidity Survey, examined the family history of 5,877 respondents. Individuals were questioned about the history of five psychiatric disorders in their parents. These disorders included: 1) major depression; 2) generalized anxiety disorder; 3) antisocial personality disorder; 4) alcohol abuse/dependence; 5) drug abuse/dependence. The results demonstrated significant familial aggregation for each of the five disorders. When the presence of other disorders in the probands and the parent were controlled for, specific familial aggregation was still observed in major depression, generalized anxiety disorder and alcohol abuse/dependence, thus demonstrating independence in specificity compared to the other disorders (i.e. antisocial personality disorder, drug abuse/dependence).
Noyes, Jr. R., Clancy, J., Crowe, R. R., Hoenk, P. R., & Slymen, D. J. (1978). The familial prevalence of anxiety neurosis. Archives of General Psychiatry, 35, 9, 1057 – 1059.
Diffamazione su Facebook & Sfogo Emozionale – Psicologia & Legge
Martina Rinaudo, Dottoressa in Giurisprudenza abilitata al patrocinio (Ordine degli Avvocati di Milano)
Andrea Bassanini
Diffamazione su Facebook: I commenti nei confronti di datori di lavoro, ex fidanzati e presunti amici postati sulla vostra bacheca potrebbero costarvi cari.
L’utilizzo compulsivo di Facebook ha quasi fatto assumere al social network la funzione di diario giornaliero, in cui registrare minuziosamente stati d’animo e ogni attività compiuta, fosse anche la più comune. Talvolta, come abbiamo già scritto su State of Mind, tale uso assume la forma clinica della internet addiction.
Di conseguenza, perché non sfogare pubblicamente le proprie frustrazioni, magari alla ricerca di sostegno e conforto da parte delle proprie liste di amici?
Ultimamente però, i commenti negativi nei confronti di datori di lavoro, ex fidanzati e presunti amici postati sulla vostra bacheca, nella convinzione che quel piccolo e confortevole angolo della rete permetta una assoluta libertà di espressione, potrebbero costarvi cari.
Articolo consigliato: “Clicca su “condividi” su Facebook: sì, ma solo se mi fa agitare, arrabbiare o divertire!”
La Giurisprudenza ha, infatti, iniziato ad occuparsi dei messaggi denigratori e delle loro conseguenze in capo ai soggetti colpiti, dato il numero di querele e di azioni risarcitorie in costante aumento nei Tribunali di tutta Italia: nella provincia di Siena, una bidella di una scuola superiore ha chiesto la condanna di alcuni studenti, rei di aver aperto un gruppo contro di lei, al pagamento di un risarcimento ammontante a svariate migliaia di euro; a Molfetta, l’aver apostrofato il proprio ex datore di lavoro con l’epiteto “bastardo” è costato una querela a un di lui collaboratore; a Torino, uno studente è stato denunciato dal proprio professore, a cui aveva aperto un falso profilo su facebook, nel quale gli erano state attribuite bizzarre perversioni.
Una recente sentenza del Tribunale di Livorno (n. 38912 del 31 dicembre 2012) ci aiuta a comprendere i termini della problematica.
Questi i fatti. Nel maggio 2011, una ex dipendente, licenziata dal centro estetico in cui lavorava, aveva pubblicato, sulla bacheca del proprio profilo, un messaggio “…dal contenuto volgare e tenore chiaramente denigratorio a proposito dell’aspetto della professionalità del centro estetico *** (“sono persone che non lavorano seriamente” … “fa onco ai bai” – espressione dialettale traducibile come “fa schifo”, N.d.A.) sconsigliando a chiunque di frequentarlo. La ***, inoltre, nel conversare con altri “amici” sempre su facebook si esprimeva con epiteti offensivi con riferimento al gestore del centro estetico (“sei proprio un a……..e di m….” … “sono dei pezzi di m…”)”.
Seguiva querela da parte del citato centro estetico, il quale lamentava di essere stato oggetto di diffamazione su facebook e chiedeva altresì un risarcimento per i danni inflitti alla propria reputazione.
Il Tribunale accoglieva la tesi del querelante, rilevando correttamente come sussistessero tutti i caratteri della diffamazione, nella forma della diffamazione su facebook, quali la precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose, dato che veniva espressamente fatto riferimento al centro estetico presso cui l’imputata era alle dipendenze; la consapevolezza del carattere “pubblico” dello spazio virtuale in cui si diffonde la manifestazione del pensiero dell’agente, il quale non solo accetta, ma addirittura vuole che un numero potenzialmente indeterminato di persone possano avere accesso al contenuto dei messaggi “postati”; la coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, all’onore e alla reputazione del profilo professionale del centro estetico nominato.
Non solo. Il GIP ha ritenuto che l’aver commesso il reato di diffamazione mediante l’utilizzo di internet, integrasse l’aggravante di cui al comma terzo del’art. 595 c.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità) “…poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale”.
La pena veniva così quantificata in €1.000,00 di multa (già diminuita di un terzo, in virtù della scelta del rito abbreviato), oltre alla condanna a risarcire il centro estetico, costituitosi parte civile all’interno del procedimento, con la somma di €3.000,00 e alla refusione delle spese legali sostenute per il procedimento penale.
Insomma, cari lettori, sfogate pubblicamente le vostre frustrazioni, se vi è utile, però scegliete bene liste di amici a cui far leggere i vostri sfoghi! Pena il reato di diffamazione su facebook!
Quale classe sociale mostra maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti etici scorretti? La risposta non è cosi ovvia come potrebbe sembrare. Molti di noi sarebbero forse più propensi ad associare uno stato sociale più basso a comportamenti scorretti: vivere in un ambiente caratterizzato da un minor numero di risorse, da incertezza economica e da un (più o meno sottile) senso di minaccia alla propria sopravvivenza potrebbe spingere gli individui di classe sociale più bassa a mettere in atto comportamenti poco etici per migliorare la propria situazione (Adler, Epel, Castellazzo & Ickovics, 2000; Kraus, Piff & Keltner, 2011).
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Ma funziona davvero sempre così? Paul Piff (Università di Berkeley, California) e colleghi hanno condotto uno studio nel 2012 partendo dall’ipotesi opposta, e cioè che sarebbero proprio gli individui più “ricchi” a mettere in atto le azioni più immorali (per “ricchezza” si intende qui uno stato socio-economico alto, in termini non solo di benessere economico, ma anche di posizione lavorativa e livello educativo). Secondo gli autori, le maggiori risorse disponibili, il senso di libertà e di indipendenza sfocerebbero per questi soggetti in comportamenti focalizzati sul sé, attuati senza riguardo per gli altri. Partendo da risultati di studi precedenti, che avevano elicitato come i soggetti benestanti avessero la tendenza a considerare il proprio benessere come più importante di quello altrui, gli autori hanno supposto che tali soggetti, motivati dall’avarizia, potessero con maggiore facilità abbandonare i principi morali al fine di raggiungere scopi personali (Steinel & Dreu, 2004).
La ricerca di Piff e colleghi si è focalizzata su sette esperimenti, in cui il comportamento dei soggetti analizzati è stato osservato sia in un contesto naturale (tipo di guida in auto) sia in un contesto sperimentale (è stato chiesto ai soggetti di valutare diverse situazioni “etiche” e di dire come si sarebbero comportati loro in situazioni analoghe, ed è stata successivamente analizzata la propensione all’avarizia come possibile mediatrice della tendenza a comportarsi in modo immorale).
È stato così confermato che il comportamento dei soggetti di stato sociale più alto risultava meno etico in entrambi i contesti, confermando le ipotesi iniziali. Tali individui non solo mostravano uno stile di guida più spericolato, irresponsabile e irrispettoso del codice della strada, ma davano anche risposte alle situazioni “etiche” che mostravano una certa noncuranza o svalutazione di principi morali (come la tendenza a mentire o a barare per raggiungere il proprio obiettivo).
I motivi per tali comportamenti etici o scelte potrebbero essere diversi, come sostenuto dai ricercatori: è possibile (ma non dimostrato) che questi soggetti abbiano una minore percezione dei rischi e un minor senso di dovere morale nei confronti del prossimo, dovuti alla consapevolezza di possedere maggiori risorse per far fronte alle conseguenze dei loro atti. È probabile che anche la tendenza all’avarizia come fattore di mediazione tra alto status e comportamenti etici scorretti sia determinata da fattori diversi: un senso di minore dipendenza dagli altri e le credenze socio-cognitive focalizzate sul sé che sono state riscontrate negli individui di tale gruppo potrebbero essere alla base della propensione a considerare l’avarizia come un valore positivo (Kraus, Piff & Keltner, 2011).
Nel (lecito) dubbio che questa generalizzazione sia effettivamente attuabile, non ci resta che attendere ulteriori studi che confermino o smentiscano la presenza di tali tendenze comportamentali e cognitive, magari anche approfondendo quelle caratteristiche di classi sociali più basse.
Crisi Psicoanalisi: l’idealizzazione dell’analista. Si è consapevoli di come il mondo interno dell’analista contribuisce a plasmare la coppia analitica.
In una seduta psicoanalitica si incontrano due persone. Le regole della psicoanalisi creano un’indubbia asimmetria.
Al paziente viene chiesto di parlare liberamente, di sé, degli oggetti del proprio mondo affettivo e relazionale, dell’analista. L’analista è invece invitato a rispondere, dopo approfondita riflessione, in modo significativo ed utile al paziente.
Già nella prospettiva tradizionale freudiana, all’analista chiediamo molto: conoscenza della mente umana, ed in particolare del funzionamento dell’inconscio, capacità tecniche, ed in particolare la capacità di interpretare e padroneggiare il transfert, e un’etica professionale altamente ascetica. Con lo sviluppo della psicoanalisi le aspettative e la conseguente rappresentazione dell’analista non hanno fatto che crescere.
Nella prospettiva della scuola Kleiniana, il contributo dell’analista al processo psicoanalitico è concettualizzato nei termini di un oggetto vicariante. Egli si offrirebbe al paziente come oggetto capace di amare, prendersi cura, pensare. Sostituirebbe così l’oggetto primario consentendo al paziente di rivivere nuovamente il proprio processo evolutivo, distorto e doloroso: questo processo è stato chiamato esperienza emotiva correttiva.
Monografia: Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea.
Nella teoria psicoanalitica del pensiero di Bion il contributo dell’analista al processo psicoanalitico viene paragonato a un contenitore dei frammenti non elaborati di esperienze percettive. In questa prospettiva, la capacità dell’analista di sperimentare – in modo parzialmente inconscio – pensare, digerire e restituire al paziente i contenuti proiettati, che possono ora essere tollerati, sognati e pensati, rappresenta il fattore essenziale che muove il processo psicoanalitico ed il conseguente sviluppo della personalità del paziente.
Grandi sono dunque le aspettative nei confronti dell’analista. Gli chiediamo di fungere da padre, modello di etica e di tolleranza al contempo, saggio conoscitore dell’uomo e della vita. Gli chiediamo di fungere da madre: dolce, amorevole, o almeno sufficientemente buona e capace di pensiero.
Mi chiedo davvero se un essere umano in carne ossa, che respira, cammina, mangia, ama, odia e si ammala possa essere in grado di soddisfare aspettative così elevate. Dopo la II Guerra Mondiale la letteratura sul controtransfert ha avuto un grande sviluppo. I pericoli che eventuali distorsioni della personalità dell’analista possono rappresentare per il processo di trattamento sono stati riconosciuti in modo via via più ampio.
Dobbiamo a Merton Gill (1992) un modello particolarmente illuminante dello specifico contributo di ciascun analista alla strutturazione del transfert. Nell’ambito della scuola Kleiniana, Paula Heimann ha introdotto una concettualizzazione onnicomprensiva dei fenomeni controtrasferali, indicata come controtransfert totale. Sulla base della teoria kleiniana dell’identificazione proiettiva, la Heimann era convinta che il controtransfert potesse rappresentare uno strumento essenziale per acquisire preziosi insight sul mondo interno del paziente. Sviluppando la teoria dei processi mentali di Wilfred Bion, Willy and Madeleine Baranger hanno proposto di concettualizzare la situazione psicoanalitica come campo bipersonale. In questa prospettiva, la mente dell’analista contribuirebbe alla strutturazione della fantasia inconscia condivisa che domina ciascuna seduta.
La psicoanalisi contemporanea è sempre più consapevole di come il mondo interno dell’analista contribuisca in modo sostanziale a plasmare la dialettica di transfert e controtransfert che caratterizza ogni coppia analitica. Tuttavia, la letteratura tace rispetto alle forze motivazionali di fondo che sostengono la scelta di stabilire relazioni psicoanalitiche con altri esseri umani.
La scelta di guadagnarsi da vivere praticando la psicoanalisi, di stabilire relazioni oggettuali molto intense e prolungate con persone esterne al proprio nucleo familiare ed affettivo, di assumersi la responsabilità dello sviluppo emotivo di individui fragili. La dimensione di tali scelte professionali ed esistenziali non dovrebbe essere sottovalutata, perché il loro impatto quantitativo e qualitativo sulla vita emotiva dello psicoanalista è enorme. Un riferimento implicito e generico al desiderio di conoscere la realtà umana o all’identificazione con un ruolo genitorialesono evidentemente insufficienti a spiegare ed a comprendere come mai abbiamo deciso di dare alla nostra rete di relazioni interpersonali un carattere così nettamente originale rispetto agli stili che la maggior parte degli umani scelgono per la propria vita.
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L’atteggiamento psicoanalitico ci vincola alla ricerca della verità. Un’autentica comprensione del processo psicoanalitico presuppone una rappresentazione realistica di entrambi i partecipanti alla situazione psicoanalitica. E deve includere una valutazione esauriente delle motivazioni inconsce dell’analista sia rispetto alla sua scelta professionale di fondo, sia rispetto ad alla decisione di intraprendere ogni specifico trattamento.
Come ogni essere umano, anche noi abbiamo bisogno di calore e affidabilità, amiamo occuparci dei piccoli e dei deboli, desideriamo essere preferiti nelle relazioni triangolari, ed essere amati e ammirati, controllare e padroneggiare le relazioni oggettuali. Per ciascuno di noi, nella relazione con i nostri pazienti queste varie forze motivazionali giocano un ruolo differente e presumibilmente variabile in ciascun caso.
La teoria e la pratica della psicoanalisi non è fino ad oggi riuscita a dar conto in modo approfondito e sistematico dei desideri di attaccamento, libidici, narcisistici che motivano l’analista ad impegnarsi nel lavoro psicoanalitico accanto a individui sofferenti.
Dobbiamo riconoscere che la nostra rappresentazione delle componenti inconsce del controtransfert è attualmente molto inadeguata.
Gli atleti più sicuri della propria efficacia mostrano una maggiore capacità di concentrazione, soprattutto attraverso il controllo di pensieri intrusivi e una gestione adeguata dei fattori di stress; tendono ad accettare maggiormente i rischi della competizione, mostrandosi pronti anche a fronteggiare gli inevitabili momenti di crisi.
Che la mente possa influire significativamente su ogni attività umana e, quindi, anche su quella sportiva è stato certamente chiaro fin dai primi Giochi Olimpici, in cui il destino di una competizione sportiva non dipendeva solo dalla prestanza fisico-atletica, ma anche dall’astuzia, dalla strategia, dal coraggio, dallo stato d’animo, caratteristiche, queste ultime, strettamente legate all’attività mentale dell’atleta.
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Avere talento nello sport è certamente un dono, ma questo può andare sprecato se non si è in grado di sfruttarlo al meglio. Molte squadre sono estremamente buone “sulla carta”, ma non riescono a funzionare come gruppo e a raggiungere traguardi elevati, così come anche singoli atleti che hanno problemi di stress e di ansia da prestazione possono non dare il massimo durante le gare importanti.
Le buone potenzialità fisiche possono non essere sufficienti per il successo agonistico, dal momento che queste non si traducono automaticamente in elevate prestazioni, ma necessitano di programmi specifici per il potenziamento delle competenze emotive, cognitive e relazionali degli atleti (Steca et al. 2010).
“È importante, infatti, che si arrivi ad accettare fino in fondo che l’atleta per rendere al massimo non deve essere ben allenato solo nei suoi muscoli, ma che anche la sua mente deve essere in grado di dare il massimo nel momento della competizione” (Fredda, 2004).
Numerose ricerche hanno evidenziato che le convinzioni di efficacia personale risultano essere elementi decisivi del successo in una varietà di contesti di vita e di sfere del funzionamento umano, influenzando fortemente le decisioni sui tipi di attività da intraprendere e sulla natura degli ambienti da frequentare.
Gli individui che più di altri riusciranno a trarre consapevolezza dall’esperienza, che sapranno regolarsi, dirigersi, motivarsi, e scegliere tra percorsi di azione alternativi, che riusciranno a interpretare, anticipare e generare eventi e situazioni, ed allo stesso tempo a controllare i propri processi di pensiero e i propri stati emotivi, potranno realizzare scenari futuri desiderati e prevenire il verificarsi di quelli indesiderati, saranno inoltre in grado di far fronte ad ostacoli e insuccessi quando gli si presenteranno davanti.
L’ambito sportivo è uno dei tanti contesti in cui appare significativo il contributo delle credenze di efficacia personale per la spiegazione, la previsione e il cambiamento del comportamento, rivestendo quindi un ruolo critico nella regolazione dello sviluppo e del miglioramento delle competenze atletiche e nel consolidamento della prestazione di eccellenza e non solo.
Il senso di efficacia personale, infatti, risulta determinante sia in fase di preparazione e di allenamento, dove promuove la costruzione e il perfezionamento della prestazione d’alto livello, sia in fase di gara, in quanto ottimizza la scelta delle strategie, l’erogazione degli sforzi, e l’esecuzione e l’orchestrazione nelle diverse attività (Militello, 2005).
Vari sono i meccanismi attraverso i quali le convinzioni di autoefficacia influenzano positivamente l’autoregolazione e il successo dell’atleta (Bandura, 1997; Feltz, Short, e Sullivan, 2007). Elevate convinzioni favoriscono la scelta di obiettivi stimolanti e sostengono l’impegno e lo sforzo anche quando i successi non si raggiungono facilmente o i fallimenti minacciano pericolosamente le aspettative di riuscita.
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Gli atleti più sicuri della propria efficacia mostrano una maggiore capacità di concentrazione, soprattutto attraverso il controllo di pensieri intrusivi e una gestione adeguata dei fattori di stress; tendono ad accettare maggiormente i rischi della competizione, mostrandosi pronti anche a fronteggiare gli inevitabili momenti di crisi.
Elevate convinzioni di autoefficacia, inoltre, favoriscono la tolleranza alla fatica ed il controllo del dolore, così come un più rapido recupero dagli infortuni.
La valutazione delle convinzioni di efficacia personale innesca un processo di riflessione sulle proprie capacità in grado di stimolare il giocatore a prendere consapevolezza, ad elaborare o rivedere i giudizi relativi ad aspetti centrali della pratica del proprio sport, i quali possono non essere oggetto di riflessione e valutazione abituale e costante.
La capacità di monitorare le proprie prestazioni è decisiva per ottimizzare l’impiego delle risorse personali; la convinzione di essere in grado di fare quanto necessario per esprimere al meglio le proprie potenzialità rappresenta un importante elemento che accelera l’apprendimento e rende più tenaci i novizi e gli esperti nel perseguimento del successo.
La maggior parte degli atleti crede, però, che le abilità atletiche dipendano prevalentemente da doti innate; tuttavia, l’attitudine si trasforma in competenza attraverso un impegno assiduo piuttosto che per un programma innato. Ricerche dimostrano che considerare tale capacità come acquisibile ha promosso la crescita della convinzione della propria efficacia fisica e un progressivo miglioramento della capacità stessa.
La convinzione che lo sviluppo della capacità fosse soggetto al controllo personale, inoltre, ha aumentato la soddisfazione per la propria prestazione e ha reso interessante l’attività. Viceversa, il fatto di considerare la prestazione fisica come indicativa di un’attitudine intrinseca non ha prodotto aumenti di autoefficacia, anzi ha addirittura lasciato i soggetti insoddisfatti delle loro prestazioni (Bandura, 2000).
Due sono le caratteristiche principali delle convinzioni di efficacia:
– l’elevata specificità: le convinzioni di efficacia, infatti, si riferiscono sempre ad ambiti ed attività altamente specifici, riflettono particolari abilità e sono ancorate a specifiche sfere di esperienza. Non sempre le convinzioni relative ad un ambito di attività, inoltre, concordano con quelle relative ad altri ambiti; ci si può, ad esempio, sentire molto capaci come giocatori di singolo e, allo stesso tempo, molto poco capaci come giocatori di doppio;
– la possibilità di cambiamento: le convinzioni di efficacia, tanto preziose per il successo e il benessere dell’atleta, non corrispondono a convinzioni stabili e immutabili, ma possono cambiare ed essere sviluppate con opportune metodologie e tecniche di potenziamento. Per essere sviluppate, le convinzioni di efficacia devono naturalmente essere conosciute, ovvero adeguatamente misurate; è, infatti, indispensabile sapere in che misura il singolo atleta si ritiene capace (o incapace) di gestire con successo situazioni e attività caratterizzanti lo specifico sport praticato.
Valutare le convinzioni di efficacia consente di elaborare profili individuali costituiti dai “punti di forza” e dai “punti di debolezza” soggettivamente definiti, che riflettono le aree in cui i giocatori si ritengono e ritengono la propria squadra capace o incapace di agire efficacemente.
I profili possono fornire numerosi spunti e materiali di confronto tra i giocatori e i tecnici, sul cui giudizio viene spesso esclusivamente fondato il piano dell’allenamento, consentendo una programmazione che sia il frutto di opinioni condivise e consapevoli da parte di entrambi. I profili di autoefficacia percepita possono costituire degli adeguati punti di partenza per pianificare e implementare programmi di allenamento altamente personalizzati e finalizzati a potenziare soprattutto le aree in cui i giocatori o gli atleti sperimentano maggiori difficoltà e si sentono particolarmente inadeguati e inefficaci.
Quindi, il poter disporre di strumenti specifici per la valutazione di ciò che gli atleti e i giocatori ritengono di saper fare, come singoli e come squadra, costituisce un notevole vantaggio nell’ottica della preparazione sportiva, in quanto in grado di fornire informazioni utili per impiantare una pratica di allenamento fondata sull’individuazione di “aree forti” e “aree deboli”, che promuova esperienze di reale padronanza, attraverso la pianificazione di obiettivi specifici e personali, e che sostenga l’aspirazione individuale e collettiva a raggiungere risultati ottimali e sempre più ambiziosi.
Proprio per questo motivo ho deciso di approfondire il concetto di efficacia personale all’interno del tennis, costruendo un questionario che andasse a valutare le convinzioni di autoefficacia, e che potesse essere di facile ed immediata applicazione anche per tutti quegli atleti privi di un maestro.
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Sto promuovendo questa mia ricerca in oltre 20 circoli tennistici romani, e su altri sparsi per l’Italia, così da avere un campione rappresentativo ed un adeguato numero di dati da analizzare; il test è per ogni categoria o fascia d’età. Questo strumento è stato creato avvalendosi della consulenza e della collaborazione di atleti e allenatori, oltre che di uno psicologo dello sport Diego Polani, e consente di elaborare profili individuali di punti di forza e di debolezza soggettivamente definiti dal singolo atleta.
Quindi, chiunque sia interessato a comprendere alcuni aspetti psicologici legati al tennis, a confrontarsi con se stesso, e a valutare i suoi limiti e punti di forza, può collaborare al progetto, visitando la seguente pagina:
e compilando il questionario in tutte le sue voci. Se avrete difficoltà nella compilazione via web, potrete tranquillamente richiedermi il test in formato word, in cui non dovrete far altro che evidenziare le vostre risposte e poi rinviarlo alla mia mail.
Il test vi fornirà informazioni utili su alcuni aspetti da migliorare del vostro tennis, non soltanto dal punto di vista tecnico-tattico ma anche e soprattutto da quello mentale, infatti, a fine ricerca, ognuno verrà contattato personalmente dal sottoscritto, con i propri e rispettivi risultati, il tutto ovviamente nel pieno rispetto della privacy, tenendo pur sempre in considerazione che si tratta di una ricerca, con i suoi pregi e difetti.
“Se posso darvi un mio pensiero, può darsi che ve ne ricordiate o meno. Ma se riesco a farvi pensare per conto vostro, ho contribuito notevolmente ad accrescere la vostra personalità.”
Siamo solitamente propensi a giudicare gli altri come persone prevalentemente “cooperative” (inclini ad aiutare gli altri) piuttosto che prevalentemente “egoiste” (inclini a fare i propri interessi) sulla base dei loro comportamenti o delle loro scelte. Ma se non si trattasse semplicemente di una questione di carattere o di tratti di personalità? In un recente studio, condotto nel 2012 da Rand e colleghi, sono state analizzate le condizioni in cui una stessa persona può prendere decisioni – decision making – più cooperative piuttosto che più “egoiste”. Sappiamo tutti che la cooperazione è un fattore cruciale nelle interazioni umane, così come sappiamo che, d’altra parte, scegliere di cooperare spesso implica rinunciare a qualcosa di personale per un bene comune (Trivers, 1971).
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Gli autori hanno voluto esplorare i meccanismi cognitivi sottostanti al comportamento cooperativo utilizzando un “modello a doppio processo”, basato sulla supposizione che l’intuizione e la riflessione contribuiscano entrambe al processo decisionale. Uno dei modi per separare i due processi è calcolare la velocità decisionale, laddove le decisioni intuitive rifletterebbero meccanismi più veloci, automatici ed emotivamente influenzati, mentre quelle ponderate meccanismi più lenti, accompagnati da un insight attivo (Solman, 1996). In un primo esperimento i ricercatori hanno pagato i partecipanti prima della sessione sperimentale (0.40 $ ciascuno). È stato poi chiesto ai soggetti di donare una parte della somma ricevuta ad una cassa comune (la somma totale donata sarebbe poi stata divisa tra tutti i partecipanti). È stato così osservato che i soggetti che riflettevano meno sulla decisione da prendere (meno di 10 secondi) donavano somme maggiori, dimostrando comportamento cooperativo. Chi rifletteva per più tempo, al contrario, tendeva a tenere per sé gran parte del denaro: questo ha suggerito che il decision making più intuitivo fosse anche quello di natura più cooperativa.
In ulteriori sessioni sperimentali gli autori hanno sottoposto i soggetti ad una sorta di “pressione psicologica”, forzandoli in un primo momento a decision making affrettati, ed in un secondo momento a prendersi del tempo per riflettere su quanto donare. In questo caso è stato visto come nella prima condizione (decisione intuitiva forzata) i soggetti donavano somme maggiori non solo rispetto alla seconda (decisione ponderata forzata), ma anche rispetto a quanto avevano fatto nel primo esperimento, in una situazione “naturale”, senza pressioni da parte degli sperimentatori.
Anche in esperimenti di priming, in cui ai soggetti veniva chiesto inizialmente di scrivere un breve tema su situazioni in cui l’intuizione (o, al contrario, la riflessione) li aveva portati a decision making corretto, si ottenevano gli stessi risultati: intuizione cooperativa e riflessione “egoista”.
Ma perché siamo intuitivamente predisposti a cooperare? Non vi è una sola spiegazione.Gli autori hanno ipotizzato che le persone sviluppino le proprie intuizioni nelle situazioni quotidiane, dove la cooperazione porta vantaggi, dal momento che le relazioni più importanti sono anche quelle che avvengono più frequentemente. Nella vita di tutti i giorni, inoltre, mantenere una certa reputazione viene considerato un fattore importante, così come vengono applicate sanzioni per i comportamenti scorretti (Fudenberg, Rand, & Dreber 2012).
Siamo così spontaneamente cooperativi, e ci occorre riflettere per capire sia quando ci conviene rinunciare a questo istinto sia quali siano le situazioni in cui cooperare non è conveniente. Sicuramente studi futuri contribuiranno a fare maggiore luce su questo fenomeno: sarebbe interessante osservare la relazione tra intuizione e riflessione nei bambini, o indagare le differenze culturali nel decision making.
Come è possibile riuscire ad avere una buona relazione di coppia senza arrivare all’extrema ratio? La risposta è possibile trovarla all’interno dell’e-book “Manutenzione della coppia”, scritto da Gabriele Achilli ed edito da Bruno Editore.
“Aiuto, sono in crisi con mio marito?”. “Mia moglie mi controlla troppo, mi sta sempre col fiato sul collo!!!”. “Lui non mi capisce, mette sempre sé stesso in primo piano, mi trascura!”. “Lei mi accusa sempre di non occuparmi abbastanza della casa, mi dice che non ci sono mai!”. Etc. etc. etc.
Si potrebbe andare avanti per ore con frasette dette e ridete all’interno della coppia, ma come è possibile riuscire ad avare una buona relazione di coppia senza arrivare all’extrema ratio? La risposta è possibile trovarla all’interno dell’e-book “MANUTENZIONE DELLA COPPIA”, scritto da Gabriele Achilli ed edito da Bruno Editore.
“Come Creare Intimità e Aumentare la Comunicazione per Rendere Saldo e Duraturo il Legame Affettivo”, sembra uno slogan chimerico, eppure l’autore ha fornito concrete risposte fino a proporre pratici esercizi che portano alla soluzione dei conflitti che quotidianamente si possono verificare nella coppia.
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Snyder, con il suo approccio innovativo sul potenziamento dei legami di coppia: Hope-Focused Marital Enrichment, e Gottman, con le sue teorie su come trasformare il matrimonio, fungono da cornice a questo per-corso, ossia un vero e proprio corso (cammino) scandito da esercizi comportamentali e test aventi lo scopo di far “crescere le coppie (sposate e non), soprattutto le più giovani, di rafforzare il loro legame e farlo maturare nel tempo”, scrive l’autore. Si tratta proprio di un corso, come lo definisce l’autore, atto alla fortificazione e al consolidamento del legame attraverso semplici e preziose regole, talmente tanto preziose che sono definite segreti.
Ogni regola, infatti, è presentata come un segreto, un qualcosa di pregiato non solo da scoprire, ma da modificare o maneggiare. In quattro capitoli sono divisi i 17 segreti che manterrebbero salda e duratura la relazione di coppia nel tempo e nei tempi. Passo dopo passo i segreti diventano esplicitati ed elicitati in una serie di postulati con tanto di dimostrazione/esercizio in allegato da mettere in pratica per modificare quel comportamento insalubre per la vita di coppia.
Si parte dalla banca dell’ “amore” per calcolare i depositi o i prelievi accumulati negli anni, per poi passare alle aspettative verso il partner che influenzano le dinamiche di coppia a nostra insaputa. E poi? Si parla di progettualità emotiva, comunicazione dei propri bisogni, di “zone di confort” (aree in cui la coppia funziona al meglio), e di una cosa molto importante, fondamentale: la comunicazione.
Comunicare nel giusto modo con l’altro, tramite efficaci strategie, permette di spegnere gli incendi emotivi e di creare una repentina riconciliazione. Infine, ecco apparire l’intimità che permette di costruire congiuntamente la piacevolezza della relazione.
Concludo svelandovi l’ultimo segreto e lascio a voi il piacere di scoprire gli altri: “Chi attacca l’altro compie un gesto che produce un vantaggio immediato per se stesso, ma che non tiene conto degli svantaggi complessivi per la coppia che ne deriveranno in seguito. Essere cooperativi è più efficace perché consente all’altro di sapere cosa è possibile fare per il bene comune”.
Quindi, quale sarà il piano d’azione, ossia la messa in atto di strategie e buoni propositi che potreste attuare per far funzionare la vostra coppia? . Scopritelo insieme al vostro partner leggendo il libro!
Il Pregiudizio Sociale Nasce con Noi – Psicologia Sociale
di Giuseppina Epifanio
Pregiudizio Sociale: Secondo lo studio pubblicato su Psychological Science, i neonati di appena 9 mesi mostrano una preferenza solo per individui simili.
La ricerca – condotta attraverso esperimenti ingegnosi con marionette conigli, marionette cani, palle, crackers e fagiolini – rivela le possibili radici cognitive del pregiudizio sociale e gli atteggiamenti alla base della violenza nei confronti di persone percepite come diverse da noi. Nella nostra vita sociale, tendiamo ad avere rapporti con persone che hanno qualcosa in comune con noi, come crescere nella stessa città, preferire gli stessi cibi, avere gli stessi hobby, ecc. La ricerca suggerisce che i bambini facciano la stessa cosa, preferendo le persone che amano gli stessi cibi, vestiti e giocattoli.
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Le preferenze aiutano a formare i contatti sociali, tutto ciò può avere però un lato oscuro come, ad esempio, maltrattare il soggetto diverso o, nei casi estremi, felicitarsi verso qualcuno che tratta male chi è diverso da noi.
Per scoprire se le radici di queste tendenze sono presenti sin dall’infanzia, la psicologa scienziata Kiley Hamlin, professore presso la University of British Columbia, ha condotto due esperimenti.
Nel primo, i ricercatori hanno individuato il cibo preferito di due gruppi di bambini, uno di 9 e l’altro di 14 mesi: la scelta era tra crackers e fagiolini. Dopo, i bambini hanno visto uno spettacolo di burattini, in cui una marionetta preferiva i crackers mentre l’altra sceglieva i fagiolini. Quindi un fantoccio ha dimostrato che la sua preferenza era la stessa del neonato e un altro fantoccio ha manifestato gusti opposti.
Successivamente i bambini hanno visto un altro spettacolo di burattini, in cui sia il burattino coniglio simile (cioè quello che aveva scelto lo stesso cibo) che quello dissimile (quello che aveva scelto il cibo diverso da quello del bambino), hanno perso la palla e la volevano indietro. La palla cadendo, rimbalzava verso uno dei due pupazzi cane. Alternativamente, i bambini hanno visto che un pupazzo cane aiutava sempre il fantoccio coniglio per riavere la palla (pupazzo Helper), mentre un altro pupazzo cane ostacolava il fantoccio coniglio senza palla, cercando di rubargliela (Harmer).
Non sorprende che quasi tutti i bambini (sia di 9 che di 14 mesi) abbiano preferito il personaggio che ha aiutato il fantoccio simile, piuttosto che quello che l’ha danneggiato. La cosa davvero sorprendente consiste nel fatto che quasi tutti i bambini abbiano preferito il personaggio che ha ostacolato il fantoccio diverso da loro, piuttosto che il personaggio che l’ha aiutato.
Secondo Hamlin, questi risultati suggeriscono che i bambini, così come gli adulti, incorporano informazioni non solo su quello che fanno le persone (azioni buone o azioni cattive), ma che riescano a crearsi anche delle valutazioni sociali.
I ricercatori hanno confermato questi risultati in un secondo esperimento, che comprendeva un fantoccio neutrale che non aveva mostrato alcuna preferenza alimentare e nessun comportamento utile o dannoso.
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Questa volta, solo il gruppo di 14 mesi di età ha fornito dati significativi: questi bambini hanno preferito il personaggio che danneggiava il burattino dissimile piuttosto che quello neutro, e il burattino neutro piuttosto che quello che aiutava il burattino dissimile. Questi risultati suggeriscono che, a partire dai 14 mesi di età, si generano sentimenti positivi verso coloro che fanno del male agli individui diversi da loro e sentimenti negativi verso coloro che invece li aiutano. I ricercatori deducono che, tra i 9 ei 14 mesi, i bambini sviluppano la capacità di ragionamento che portano a valutazioni di tipo sociale.
Questi risultati evidenziano i meccanismi fondamentali che sono alla base delle nostre interazioni con persone simili e diverse da noi.
“Il fatto che i bambini mostrano questi pregiudizi sociali, prima ancora di poter parlare, suggerisce che i pregiudizi non sono solo il risultato della sperimentazione di un mondo sociale diviso, ma si basano in parte su aspetti fondamentali della valutazione sociale umana”, dice Hamlin.
Le ragioni esatte che possano spiegare le valutazioni polarizzate dei neonati sono ancora sconosciute. Le ipotesi parlano di un possibile effetto “Schadenfreude” (termine tedesco che significa “piacere provocato dalla sfortuna”) verso individui che non piacciono, oppure tale atteggiamento potrebbe semplicemente riconoscersi nelle alleanze che sono implicite nelle interazioni sociali.