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Il Transfert – Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #4

Freud si rese conto che il transfert non solo era inevitabile ma che veniva a sostituire gli oggetti ed i conflitti della nevrosi preesistente.

Di Paolo Azzone

Pubblicato il 07 Mar. 2013

Aggiornato il 06 Mag. 2013 13:43

 

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: 

La terza piaga: Transfert e Vita Reale.

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Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #4 - Il Transfert. - Immagine: © Kybele - Fotolia.com

Freud si rese conto che il transfert non solo era inevitabile ma che veniva a sostituire gli oggetti ed i conflitti della nevrosi preesistente.

Agli albori della psicoanalisi Freud scoprì che ogni paziente proietta inevitabilmente sulla persona dell’analista aspettative e rappresentazioni che traggono origine dalle interazioni con i genitori durante l’infanzia. Così, nel corso del trattamento, il paziente ama, odia, desidera, teme, invidia l’analista.

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Freud concettualizzò inizialmente il transfert come un ostacolo alla cura analitica, ma ben presto il suo punto di vista subì una netta trasformazione. Freud si rese conto che il transfert non solo era inevitabile, ma che veniva progressivamente a sostituire gli oggetti ed i conflitti della nevrosi preesistente. La nevrosi di transfert, così costituita, offriva allo psicoanalista la possibilità di affrontare in modo diretto la psicopatologia del paziente nella sua interezza: meccanismi di difesa, organizzazione libidica, ricordi infantili, rappresentazioni dei genitori, struttura del Super-io. Tutti questi elementi riemergerebbero focalizzati sulla figura dell’analista.

Il concetto di nevrosi di transfert consente all’analista di occupare una posizione del tutto singolare. Nel modello più comunemente accettato del processo psicoanalitico, la relazione di transfert rappresenterebbe lo scenario di ogni significativo scambio emotivo con potenzialità di indurre cambiamento. Nel transfert si giocherebbe la lotta tra nevrosi e salute mentale. Il concetto di nevrosi di transfert consentiva dunque a Freud di sottovalutare il ruolo delle relazioni della vita reale del paziente, ed il loro contributo alla strutturazione del mondo interno del paziente.

Freud manifestava un certo disagio rispetto ai contatti con i familiari del paziente dopo l’inizio del trattamento analitico. Egli ammetteva con molta franchezza che: “Nei trattamenti psicoanalitici l’intrusione dei congiunti costituisce appunto un pericolo, un pericolo di quelli a cui non si sa come fare fronte” (1912, p. 607).

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La tecnica psicoanalitica classica ha cercato di limitare il più possibile i contatti con i congiunti del malati, riducendoli idealmente solo a situazioni eccezionali (come crisi psicotiche o grave rischio suicidario). Per decenni gli psicoanalisti hanno inseguito l’utopia di una relazione totalmente bipersonale, esclusivamente diadica. Tale intolleranza per le relazioni triangolari tradisce evidenti radici edipiche.

Anche i bisogni narcisistici dell’analista giocano senza dubbio un ruolo importante. Diamo tanto ai nostri pazienti: tempo, ascolto paziente, attenzione, sincero interesse. Ed è davvero difficile essere consapevoli fino in fondo che le sedute rappresentano una componente – senza dubbio fondamentale ma non unica – della vita emotiva del paziente. Che madri, padri, fratelli, sorelle, coniugi, amanti condividono tanto con loro: la concretezza del lavoro e della gestione dei beni, dell’organizzazione pratica della vita, i problemi della salute, la semplicità delle esperienze corporee. Ed anche la realtà dell’odio, dell’aggressività, della competizione, del controllo.

I pazienti in analisi continuano a vivere, a fare esperienze e a crescere dentro, ma anche fuori della stanza d’analisi. Abbiamo davvero bisogno di riconoscere con grande umiltà l’impatto della vita relazionale reale del paziente al di fuori del transfert e di liberarci da aspettative non realistiche rispetto ai potenziali benefici del trattamento analitico.

Noi analisti conosciamo bene il senso di frustrazione che nasce quando il lavoro analitico compiuto insieme al paziente non è seguito da paralleli cambiamenti in termini sintomatici o di maturità delle relazioni oggettuali. Nemmeno il più accurato lavoro interpretativo sugli aspetti negativi del transfert – odio, aggressività, invidia, ma anche sottomissione e paura – può realizzare quello stato di benessere fusionale di coppia che inconsciamente e regressivamente inseguiamo. La disperazione e la tristezza persistono, così come le relazioni cariche di sadomasochismo.

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 Anche Freud si rese conto che l’analisi del transfert, della nevrosi di transfert, non era spesso in grado di promuovere il cambiamento terapeutico. In questo contesto egli coniò i concetti di resistenza di transfert e di reazione terapeutica negativa.

Nella supervisione troppo spesso la causa della scarsa efficacia terapeutica viene ricercata nell’inadeguatezza dello stile e del contenuto degli interventi del candidato. Quanto più fruttuoso sarebbe prendere coscienza in modo realistico dei limiti terapeutici oggettivi della psicoanalisi!

Le relazioni sono come piante. Crescono, si sviluppano nel tempo. Le interazioni umane comportano sequenze di identificazioni proiettive ed introiettive. Seminiamo inevitabilmente nei nostri partner relazionali emozioni, così come fantasie, rappresentazioni oggettuali così come angosce superegoiche.

E’ ovvio che per l’analista desideri, paure, aspettative centrate sulla relazione di transfert sono di grandissima importanza terapeutica. Dalla capacità di comprendere ed interpretare la componente inconscia del transfert dipende la possibilità di creare e mantenere una fruttuosa relazione di collaborazione.

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Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #2. - Immagine: © NLshop - Fotolia.com
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Ma i pazienti vivono nel modo reale. Sono immersi in una rete di proiezioni ed identificazioni che vengono continuamente scambiate con gli oggetti reali: partner sessuali, genitori, colleghi capi insegnanti e così via. La psicoanalisi è un lavoro triangolare. Il terzo assente è sempre presente sia nella fantasia inconscia che nella vita emotiva del paziente.

Come psicoanalisti siamo chiamati a prendere piena coscienza del contributo che gli oggetti reali danno alla strutturazione della vita interiore del paziente e conseguentemente allo scenario emotivo che si dispiega momento per momento nella stanza d’analisi. E ad aiutare il paziente ad essere altrettanto cosciente della quantità di ansia e dolore che si producono nella sua vita relazionale. Il lavoro psicoanalitico, per quanto intenso e prolungato, non ha il potere di rimuovere il dolore interpersonale dalla vita del paziente. Ma la consapevolezza della durezza del vivere unita ad un’autentica condivisione da parte dell’analista può fare molto per alleviare le esperienze emotive più dolorose e consentire di tollerare meglio gli oggetti d’amore più inquietanti e disfunzionali.

 

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Paolo Azzone
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Psichiatra, Psicoterapeuta, Psicoanalista

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