Il Bambino Indaco, romanzo del 2012 di Marco Franzoso, si apre col ritrovamento del cadavere di una donna, la moglie del protagonista; nella stanza accanto, la madre dell’uomo in grave stato di shock. Inizia in questo modo la ricostruzione di una vicenda drammatica che nasce da un appuntamento al buio, le prime parole di una storia d’amore e una gravidanza che la futura madre investe di un significato particolare: verrà alla luce un bambino indaco, una di quelle creature che secondo la dottrina New Age possiedono qualità speciali e soprannaturali venendo inviate sulla Terra per portare nuova purezza.
Isabel perde progressivamente il contatto con la realtà, rifiuta di mangiare cibi solidi perché potrebbero danneggiare la perfetta armonia del feto, dimagrisce a vista d’occhio e fa scivolare il marito in un’angoscia che lo rende inerme, incapace di agire.
Arriva il giorno del parto, arrivano i primi mesi del neonato e la missione delirante di Isabel non accenna a modificarsi, nemmeno quando il bambino le viene tolto perché denutrito; in un crescendo di alienazione dal reale la mente della donna produce il più surreale dei gesti, far ingoiare terra al figlio per purgarlo dai cibi che il padre aveva reintrodotto nella sua nutrizione. Fino all’epilogo disperato.
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Il Bambino Indaco esplora un tema complesso utilizzando un linguaggio asciutto, rapido, capace di rendere il crescente smarrimento del protagonista e l’inarrestabile spirale di follia che avvolge la maternità di Isabel; Il Bambino Indaco diventa forse meno incisivo nella parte finale, quando Franzoso descrive la vita che nasce dalla morte, gli anni successivi alla tragedia durante i quali il bambino riesce a raggiungere una faticosa normalità e il padre a mettersi alle spalle ciò che lo aveva cambiato per sempre.
In questi passaggi la narrazione privilegia una sintesi che assottiglia il percorso evolutivo dei personaggi, finendo per racchiudere le molteplici sfumature dell’intreccio in poche pagine scarne la cui funzione di chiusura è troppo definita.
E’ altresì vero che l’intento del libro è raccontare le emozioni oscure, paradossali che si accompagnano al diventare madre, i conflitti di una donna che non può accogliere il cambiamento poiché tormentata da angosce irrisolte, l’impossibilità di tollerare l’imperfezione e l’imprevedibile.
Non è raro nell’esperienza di terapeuti incontrare aspettative simili, sebbene meno esasperate, che impediscono ai genitori dei nostri pazienti di accettare i limiti del vissuto umano, l’ordinarietà della natura che tutti noi, venendo al mondo, incarniamo.
Il Bambino Indaco è una lettura interessante perché descrive con l’immediatezza di una buona prosa il nucleo centrale della genitorialità e si serve di una parabola drammatica che accentua le conseguenze del caso particolare stimolando la riflessione sul significato generale: quanto è difficile non controllare ciò che noi stessi abbiamo creato, fronteggiare l’ansia di sapere che nessuno, nemmeno un figlio che abbiamo voluto con forza per arricchire il nostro progetto esistenziale, possiede un colore speciale che lo preserva dai complessi accadimenti dell’esperienza umana?
Il pensiero conclusivo del protagonista, che non ha più attese per il futuro e sente che lo scopo ultimo della vita è non avere più attese, appare come la resa incondizionata all’inutilità del controllo, della previsione. Il disincanto, e insieme l’ascetismo, dopo la follia.
Un giorno, nel 2011, un utente di Facebook ha professato l’amore per le lenzuola pulite, terminando l’aggiornamento del suo stato con una faccina sorridente. Poco a poco questa persona realizzò come il post avrebbe illuminato la nostra conoscenza sulla memoria.
Gli scienziati hanno scoperto che, quando si tratta di richiamare le informazioni alla memoria le persone sono più propense a ricordare il contenuto di interazioni online su piattaforme di social media come Facebook che le frasi dei libri.
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I ricercatori scoprirono questo dato per caso. La psicologa cognitiva Laura Mickes dell’università della California, San Diego, e sue colleghe stavano lavorando sull’effetto delle emozioni sulla memoria, e decisero di utilizzare i posts di Facebook per indurre emozioni diverse. Ma scoprirono che gli aggiornamenti di status erano memorabili già di per sé. Questo rappresentò una sorpresa in quanto non era l’ipotesi iniziale della ricerca.
I ricercatori hanno allora raccolto 200 posts dagli accounts di assistenti di ricercatori universitari. Hanno poi selezionato 200 frasi di libri recentemente pubblicati. Gli scienziati ne hanno poi selezionato 100 tra posts di Facebook e frasi di libri e chiesto a 32 studenti universitari di studiarli e memorizzarli; assegnarono 16 studenti ad ogni gruppo. Poi fecero sedere i volontari davanti al pc e chiesero loro di definire se le frasi presentate una alla volta erano nuove per loro o già note.
Lo studio determinò che i post di Facebook rimanevano nella memoria circa 1 anno e mezzo in più rispetto alle frasi dei libri!
Mickes suggerisce che la risposta si riduce a come vengono filtrate le informazioni. La memoria va di pari passo con il linguaggio naturale, il cervello umano si è evoluto per poter ricordare anche quelle informazioni che non derivano dalle interazioni sociali. “Prima della macchina da scrivere, prima di usare la penna, prima di tutto, abbiamo parlato l’un l’altro”.
Lo psicologo cognitivo Suparna Rajaram della Stony Brook University di NY, che non è stato coinvolto nello studio, afferma che questo dimostra per la prima volta che la mancanza di editing fa ricordare più facilmente un testo, oltre alla rilevanza personale. “Più semplice è la scrittura, più facile è far arrivare il messaggio. I social media giovano di questo.”
Uno psicologo evoluzionista come R. Dunbar dell’Università di Oxford sostiene che i social media abbiano introdotto la fluidità della conversazione di tutti i giorni in un testo scritto, in cui le persone sono notoriamente più aperte: spesso questo risulta pericoloso. Un sacco di persone non riescono a scrollarsi di dosso i commenti di Twitter e Facebook” dice Dunbar. Siete d’accordo?
Per la prima volta negli esseri umani, uno studio della UCLA ha misurato la ipocretina che aumenta quando siamo felici e diminuisce quando siamo tristi.
I cambiamenti neurochimici che sottendono le emozioni umane e il comportamento sociale sono in gran parte sconosciuti. Ora, però, per la prima volta negli esseri umani, gli scienziati della UCLA hanno misurato il rilascio di un peptide specifico, un neurotrasmettitore chiamato ipocretina, che aumenta notevolmente quando siamo felici e diminuisce quando siamo tristi.
La scoperta suggerisce che l’incremento di della ipocretina potrebbe elevare l’umore e la vigilanza negli esseri umani, gettando così le basi per possibili futuri trattamenti di disturbi psichiatrici come la depressione.
Questo studio ha anche misurato per la prima volta il rilascio di un altro peptide, l’MCH (melanin-concentrating hormone) che i ricercatori ipotizzano possa avere un ruolo fondamentale nel sonno perché il suo rilascio è minimo nello stato di veglia, ma che aumenta notevolmente durante il sonno.
Nel 2000, il team di Jerome Siegel, professore di psichiatria e direttore del Center for Sleep Research all’ UCLA’s Semel Institute for Neuroscience and Human Behavior, ha pubblicato i risultati di uno studio che mostra come chi soffre di narcolessia, un disturbo neurologico caratterizzato da periodi incontrollabili di sonno profondo, aveva nel cervello il 95% in meno di cellule nervose per l’ipocretina rispetto a chi non aveva il disturbo. Lo studio è stato il primo a dimostrare una possibile causa biologica della narcolessia.
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Dal momento che la depressione è fortemente associata alla narcolessia, Siegel ha cominciato a studiare l’ ipocretina e il suo possibile collegamento con la depressione.
La depressione è la principale causa di disabilità psichiatrica negli Stati Uniti, ha osservato Siegel. Più del 6 % della popolazione ne è affetto ogni anno. Tuttavia, l’uso di antidepressivi, quali gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), non si basa su prove di carenza o eccesso di qualsiasi neurotrasmettitore. Diversi studi recenti hanno messo in dubbio che gli SSRI, così come altri farmaci contro la depressione, siano più efficaci del placebo.
In questo studio, i ricercatori hanno raccolto i dati su ipocretina e MCH direttamente dal cervello di otto pazienti che venivano trattati al Ronald Reagan UCLA Medical Center per l’epilessia intrattabile e ai quali sono stati impiantati elettrodi di profondità intracranica. I pazienti sono stati monitorati mentre guardavano la televisione, mangiavano o erano impegnati in interazioni sociali, come parlare con i medici, il personale infermieristico o i familiari; sono stati anche indotti momenti di transizione sonno-veglia. Ogni 15 minuti veniva misurato il rilascio di ipoceretina e MCH.
I soggetti hanno valutato i loro stati d’animo e atteggiamenti su un questionario che è stato somministrato ogni ora durante la veglia.
I ricercatori hanno scoperto che i livelli di ipocretina non erano collegati a un generico stato di attivazione, ma che ranno massimi in coincidenza di emozioni positive, della rabbia, durante le interazioni sociali e al risveglio. Al contrario, i livelli di MCH erano massimi durante il sonno e minimi durante le interazioni sociali.
“Questi risultati suggeriscono una specificità emotiva, precedentemente sconosciuta, nell’attivazione di stati di veglia e di sonno negli esseri umani”, ha detto Siegel, “le anomalie nel pattern di attivazione di questi sistemi possono contribuire ad un certo numero di disturbi psichiatrici. L’ipocretina potrà essere usata per elevare sia l’umore che la vigilanza negli esseri umani”.
Gli antagonisti dell’ ipocretina, da utilizzare come sonniferi, sono ora in fase di sviluppo da parte di alcune aziende farmaceutiche.
Disturbi Specifici dell’Apprendimento – Intervista ad Elena Simonetta
Di Barbara Stefania Comerci
Andrea Bassanini
La dott.ssa Simonetta promuove un nuovo modello teorico sui DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) che sembra far emergere interessanti spunti di riflessione sul piano diagnostico, riabilitativo e sulla reale possibilità di prevenzione di tali disturbi.Abbiamo provato ad approfondire, attraverso un’intervista, tale modello.
Elena Simonetta (psicologa psicoterapeuta, psicomotricista neurofunzionale, psicotraumatologa, EMDR consultant) studia, cura e si occupa da molti anni delle problematiche relative ai disturbi dell’apprendimento. Autrice di numerosi volumi che trattano questa tematica, la dott.ssa Simonetta promuove un nuovo modello teorico sui DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) che sembra far emergere interessanti spunti di riflessione sul piano diagnostico, riabilitativo e sulla reale possibilità di prevenzione di tali disturbi. Grazie alla disponibilità della dott.ssa Simonetta abbiamo provato ad approfondire, attraverso un’intervista, tale modello.
Dott.ssa Simonetta, può spiegare brevemente ai lettori di State of Mind la sua teoria sui DSA?
Il modello a cui faccio riferimento nel mio lavoro con i bambinicon DSA è un modello multifattoriale funzionale, che attinge per quanto riguarda gli aspetti affettivi, dalla teoria cognitivo-evoluzionista, dalla teoria dell’attaccamentodi Bolwby e dal pensiero psicanalitico di Winnicot.
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Questa teoria attribuisce a molti fattori, oltre che a una predisposizione genetica, l’origine dei disturbi dell’apprendimento; in particolare l’inadeguato o carente funzionamento del Sistema Nervoso Vestibolare diventa l’elemento responsabile del disfunzionamento delle aree corticali preposte alla realizzazione della transcodifica per la lettura e la scrittura.
Gli aspetti funzionali carenti che si individuano nelle persone con dislessia, disortografia, disgrafia e una parte di discalcolia, riguardano infatti difficoltà attenzionali, deficit a livello di decodifica fonetico-fonologica, mancata affermazione di una prevalenza motoria sottocorticale stabile e coerente, problematiche a livello di orientamento spaziale, di equilibrio posturale e carente organizzazione della motricità visiva.
In generale, il modello individua due tipi di DSA: uno legato ad aspetti funzionali, parliamo quindi di problemi di codifica e decodifica dei suoni in lettera e viceversa, cioè quelli che riguardano l’aspetto della transcodifica del codice sonoro; un secondo tipo di natura cognitiva, legato a difficoltà di percezione, di rappresentazione, astrazione, memorizzazione, logica.
Queste diverse tipologie di DSA non dovrebbero essere confuse come spesso avviene. I disturbi specifici dell’apprendimento noti, cioè la dislessia, la disgrafia, la disortografia e gli aspetti spaziali della discalcolia appartengono al primo tipo di disturbi funzionali, mentre la meno nota, la disgnosia, individua le carenze di tipo cognitivo.
La dislessia è un ostacolo che infastidisce l’apprendimento, ma non lo disturba al punto da impedirlo, come succede invece con la disgnosia. Prova di ciò sono l’infinità di persone affette da dislessia che si laureano in discipline anche impegnative in cui ci vuole uno studio rigoroso, mentre i soggetti che presentano una disgnosia, non solo non riescono a laurearsi, ma spesso vanno a far parte delle persone che abbandonano prematuramente gli studi e la scuola.
Spesso vengono in consultazione, per una diagnosi di DSA, soggetti che non hanno problemi nell’ambito delle modalità di transcodifica dei codici, ma che non comprendono nulla o molto poco di ciò che ascoltano a livello verbale. Allora ci si chiede: come può avere un disturbo di transcodifica un soggetto che legge in modo adeguato, ma che non comprende ciò che sente oralmente? Inoltre, i soggetti dislessici con difficoltà di transcodifica e di codifica sonora spesso non hanno problemi di apprendimento, ma solo una lettura lenta e poco fluida.
Il termine disgnosia indica una difficoltà a conoscere o apprendere che può derivare da un’incompleta integrazione psiche-soma collegata a ritardo psicomotorio, ritardo delle funzioni psicolinguistiche, ritardo nella evoluzione della rappresentazione mentale, elemento che collega il linguaggio allo sviluppo psicomotorio; inoltre sono spesso carenti anche le modalità logiche e di astrazione.
Altri aspetti che caratterizzano la difficoltà ad apprendere dei soggetti disgnosici sono la difficoltà di attenzione e concentrazione, labilità mnestica, scarsa autonomia, incoerenza e frammentazione nei processi di pensiero, comorbilità con disturbi somatici e della sfera emotivo relazionale. Dalle narrative dei genitori e degli insegnanti la sintomatologia che emerge è la difficoltà nell’apprendere i contenuti delle differenti materie scolastiche, parlano spesso di una sorta di atteggiamento ipoattivo nei confronti di stimoli esterni che viene spesso identificato dagli adulti come “pigrizia”.
La disgnosia è proprio un esito, in ambito cognitivo, di quei traumi che vengono riconosciuti come traumi dell’attaccamentoe quindi inducono uno sviluppo traumatico infantile, che condiziona pesantemente l’evoluzione del soggetto direttamente a livello del comprendere e dell’apprendere.
Quando la difficoltà a conoscere deriva da un carente sviluppo delle funzioni psicomotorie/rappresentative e psicolinguistiche, il punteggio del Quoziente Intellettivo è relativamente basso ma nella norma, oppure c’è una differenza significativa tra “verbale” e “performance”.
Inoltre il termine disgnosia vuole includere anche le difficoltà a conoscere di quei soggetti che hanno un buon punteggio nel Q.I. ma che, nonostante questo, non riescono ad apprendere, in quanto le funzioni cognitive sono inibite da esiti traumatici e dagli effetti ripetitivi legati alla mancata elaborazione di emozioni veementi o disfunzionali.
Parlo di trauma cosiddetto a t piccolo cumulativo o a T grande. I traumi come la mancata affermazione della prevalenza motoria naturale, portano verso disturbi più funzionali come la dislessia. Invece traumi più profondi riguardanti l’identità, ma soprattutto l’attaccamento, portano verso la disgnosia.
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In una ricerca del 2011, in attesa di publicazione, abbiamo evidenziato come l’attaccamento insicuro o disorganizzato sia l’elemento che rende un soggetto dislessico anche un soggetto disgnosico.
Che ruolo ha, nel suo modello, la storia di attaccamento di questi bambini?
Il possibile collegamento tra i traumi dell’attaccamento e i DSA, la disgnosia in particolare, va ricercato a livello di presenza precoce nel sangue di eccessive quantità di neurotrasmettitori quali l’adrenalina e la noradrenalina, presenza dovuta alla secrezione peritraumatica di queste sostanze, che quando il bambino è molto piccolo possono incidere negativamente sullo sviluppo delle altre aree del cervello deputate alle funzioni di base e a quelle superiori. Le funzioni di base sono collegate all’esperienza motoria del soggetto, parliamo di sensazione, percezione, rappresentazione mentale, attenzione; per le funzioni superiori ci riferiamo alle capacità di astrazione, simbolizzazione, memorizzazione e logica, che necessitano del supporto linguistico.
Infatti, gli esiti di esperienze traumatiche e emozioni violente come paura e ansia in tenera età, diciamo prima dei 6 anni, se collegate a fenomeni di abbandono precoce o di confusività eccessiva, si manifestano proprio a seguito della secrezione dei relativi neurotrasmettitori nel cervello. Gli effetti di una eccessiva presenza di neurotrasmettitori possono coinvolgere anche aree cerebrali quali il giro del cingolo, il fascio arcuato, l’area di Wernike, oltre alle aree preposte alla codifica e decodifica fonetica, organizzando i circuiti mnestici automatici base della memoria implicita in modo difettoso, in modo inefficace. Basta prendere gli ultimi libri di Schore e della Hart nei quali hanno accertato che in un bambino eccessive dosi di adrenalina e noradrenalina portano ad un disfunzionamento del cervello.
Liotti e Farina inoltre definiscono come strategie controllanti gli esiti traumatici a livello di comportamento dei soggetti in età infantile, per adattarsi e resistere agli effetti dolorosi di un attaccamento insicuro o disorganizzato. Altri autori come Fonagy, Siegel, Pat Ogden, Shapiro dimostrano come gli esiti dei traumi possono cambiare la vita delle persone; nella teoria multifattoriale dei DSA la disgnosia viene indicata proprio quale strategia controllante cognitiva, tramite la quale il soggetto riporta su di sé quelle cure genitoriali e quell’attenzione che gli sono mancati precocemente a livello relazionale.
Che cosa aggiunge la sua teoria sui DSA alle conoscenze attualmente presenti nella letteratura scientifica?
Di sicuro si integrano alcuni aspetti nella diagnosi. Anche stamattina ho visto una valutazione per DSA che comprendeva la WISC, prove MT, correttezza e velocità e basta. Io aggiungo un’esplorazione su altri aspetti; avere degli indicatori come quelli studiati sul piano cognitivo è utilissimo, ma è come fare una fotografia del bambino che dopo qualche mese può già essere cambiata. Questi altri indicatori che rientrano nella multifattorialità dei DSA danno un quadro che non cambia neanche dopo un anno se non si fa un intervento specifico.
Ci sono degli elementi, come la mancata affermazione della prevalenza motoria naturale, che danno informazioni importanti. La ricerca svolta insieme all’ospedale San Gerardo di Monza e l’ospedale Don Gnocchi di Milano ci ha fatto vedere come una percentuale altissima, si parla del 98% dei soggetti con DSA, non hanno affermato la prevalenza motoria naturale, cioè usano per scrivere la mano e l’occhio non geneticamente prevalenti. Allora da qui l’ipotesi che se una persona nasce con un livello tonico muscolare più forte da una parte rispetto all’altra e l’ambiente esterno contrasta con questo dato genetico facendo utilizzare al soggetto la parte meno forte, meno capace, ecco che compare una quantità enorme di soggetti con disturbo specifico dell’apprendimento. Tutto ciò ovviamente non riguarda la disgnosia, ma la dislessia, la disortografia e la disgrafia.
Cosa si può fare invece sul piano preventivo e riabilitativo con questo dato?
E’ utile a livello preventivo individuare, nei bambini che frequentano la scuola materna, l’emisoma prevalente, cioè quale dovrebbe essere l’occhio e la mano con i quali farlo accedere al mondo del grafismo, della scrittura. Inoltre, grazie ad un lavoro di Carlo Aleci, medico oculista presso l’Ospedale Gradenigo di Torino, sulla “visione” del soggetto dislessico, si teorizza che il soggetto tende a perdere l’orizzontalità della spaziatura della scrittura per vedere alcune lettere totalmente in verticale e che scompaiono quindi dalla vista dell’occhio.
Allora, c’è una grossa componente di motricità visiva e percezione visiva nella dislessia, che la rende più come un disturbo di matrice motoria oculare che non di matrice linguistica, anche se è vero che al disfunzionamento della motricità oculare si accompagna una dispercezione di tipo fonetico/fonologico; ma, i muscoli tonici che risultano scoordinare la motricità oculare trovano corrispondenza in una disorganizzazione tonica dei muscoli che si trovano all’interno dell’orecchio che organizzano l’attività del sistema vestibolare e quindi il filtro fonetico.
Un inquadramento tale dei DSA permette di ipotizzare percorsi riabilitativi specifici per ogni problematica, quella relativa agli aspetti sonori vestibolari, quella relativa agli aspetti di motricità visiva, ecc. In sostanza si può preparare un reale programma di prevenzione prima dell’ingresso nella scuola primaria, si può intervenire con percorsi che favoriscano il funzionamento del sistema vestibolare, e l’arricchimento percettivo…prevenzione che fino adesso non è stata fatta perché si parla solo dell’aspetto genetico.
Parlando invece del percorso di cura e riabilitazione esso diventa particolare per i soggetti con DSA perché è diversificato a seconda che si tratti di un disturbo di tipo funzionale o di tipo cognitivo. La metodologia che si può utilizzare è la metodologia psicocinetica del TEP-RED (Trattamento Elettivo Psicocinetico Riabilitativo Efficace DSA), che consente di ridurre gli effetti del disfunzionamento vestibolare e consente al soggetto di compensare o eliminare le difficoltà di codifica e decodifica fonetica.
I soggetti con disgnosia hanno bisogno invece di una psicoterapia detraumatizzante, come l’EMDR o la Sensorimotor Therapy, per affrontare in seguito un percorso di riabilitazione cognitiva tramite il TEP-RED nei suoi aspetti cognitivi oppure la metodologia di Feurstein per il miglioramento del potenziale cognitivo.
In generale, quindi, quali sono le implicazioni sul piano clinico?
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Per prima cosa, la possibilità di realizzare delle diagnosi precise e corrette sul rapporto causa-effetto rispetto alla molteplicità dei fattori coinvolti. Il clinico così può differenziare un disturbo funzionale, collegato ad aspetti di transcodifica, nella lettura, scrittura e calcolo, da un disturbo di matrice prevalentemente cognitiva; inoltre può riconoscere quando questi disturbi si presentano isolatamente, oppure associati e in questo caso determinando la forma più grave del problema.
Secondo, si possono orientare i soggetti a percorsi riabilitativi mirati al recupero delle differenti specificità che concorrono nel determinare lo specifico disturbo di apprendimento.
Il terzo contributo è rappresentato dalla possibilità di organizzare una reale prevenzione nella scuola dell’infanzia e nei primi anni di quella primaria di cui abbiamo già parlato.
Ovviamente anche per i genitori dei soggetti con disgnosia è necessario affrontare un percorso psicoterapeutico per riconoscere gli effetti e ridurre quelle che sono le implicazioni transgenerazionali relative alla mancata risoluzione di eventi traumatici o stressanti che hanno accompagnato la loro genitorialità e le modalità di attaccamento con i figli.
Cosa può fare la scuola nella cornice del modello di multifattorialità dei DSA?
La distinzione dei DSA funzionali e cognitivi consente di capire quali soggetti possono beneficiare solamente di piccoli accorgimenti sui tempi di esecuzione e accedere ad un programma preciso e regolare rispetto alla classe, e quali sono i soggetti che hanno un disturbo cognitivo per i quali è necessario che la scuola pensi e provveda a percorsi cognitivi individualizzati ma soprattutto a lavorare sul recupero delle funzioni e contenuti carenti…e questa funzione di recupero oggi non è offerta dalla scuola. Il bambino disgnosico arriva ad esempio in quinta elementare… magari è anche dislessico e quant’altro, ma ha delle lacune nell’apprendimento del programma di prima, di seconda, di terza e di quarta.
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Come fa a svolgere il programma di quinta? Dove ha le basi per costruire gli apprendimenti precedenti? Allora, per un soggetto di questo tipo, la scuola può essere aiutata a riflettere su programmi di recupero dei contenuti persi. A volte il programma ridotto individualizzato non è sufficiente perché i soggetti disgnosici non hanno delle conoscenze perché bloccate da lacune pregresse, cioè non hanno gli strumenti per costruire l’apprendimento. Questi bambini spesso hanno la diagnosi di dislessia ma il motivo per cui non apprendono non è la dislessia ma la disgnosia.
Vi sono i casi in cui i bambini emergono per la dislessia; in alcuni casi non emergono i bambini dislessici perché hanno solo la dislessia, e a volte si vedono i disgnosici che non avendo la diagnosi di dislessia, vengono inquadrati nei disturbi aspecifici, o addirittura non vengono inquadrati, ma hanno problemi di apprendimento più gravi dei disturbi specifici di apprendimento. E tutte queste persone di cui stiamo parlando hanno, in genere, un Quoziente Intellettivo nella norma, a volte basso , ma nella norma.
Ogden, P., Minton, K., Pain, P., Siegel, D.J. & van der Kolk, B. (2006). Trauma and the Body: A Sensorimotor Approach to Psychotherapy. New York: W. W. Norton & Company.
Shapiro F. (2001) Eye Movement Desensitization and Reprocessing (Emdr), Second Edition: Basic Principles, Protocols, and Procedures. New York: Guildford Press
Winnicott D.W. (1991) Dalla pediatria alla psicoanalisi. Firenze: Martinelli Editore
Il Silenzio In Psicoterapia: Segnale di che cosa?
Dal punto di vista cognitivo il silenzio può essere proprio il segnale che finalmente il paziente non riesce più a usare come risposta i suoi automatismi e le sue convinzioni. In questo vuoto il paziente sta sperimentando una frustrazione che forse non è così terribile, sta sperimentando che forse non è sempre necessario sapere come andrà a finire e trovare una risposta.
Quando Luisa mi racconta degli abusi e delle violenze che subiva da ragazzina erano passati già diversi mesi dall’inizio della psicoterapia. Stavamo ripercorrendo alcune tappe significative della sua infanzia e io, sprovvista di registratore, ero impegnata a scrivere tutto quello che mi raccontava.
A un certo punto la sento abbassare il tono della voce e sussurrare l’inizio di quegli abusi. Istantaneamente la mia mano smette di scrivere. Con un filo di voce inizia a raccontare con particolari raccapriccianti le violenze subite. Le lacrime le contornano tutto il viso. Non mi guarda.
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Io vengo rapita dal racconto e man mano che prosegue sento le mie guance accaldate e le mani sudate. Penso per un istante che sia meglio che Luisa stia parlando con la testa bassa, così da non vedere la mia evidentissima attivazione emotiva. Lei va avanti a raccontare senza fermarsi. Quando mi calmo inizio a provare una profondissima tristezza nei suoi confronti, sento un nodo allo stomaco. Quando Luisa finisce di parlare si asciuga le lacrime e riporta lo sguardo su di me. Rimango in silenzio, rimaniamo insieme in silenzio forse per un minuto o per un tempo che a me è sembrato lunghissimo. Mentre sono lì con lei e il nodo allo stomaco stringe sempre più forte, affiora alla mia mente quella domanda che, da giovane psicoterapeuta, spesso mi mette in difficoltà: “E adesso che cosa le dico?”.
L’importanza del silenzio in psicoterapia, anche se storicamente associato alle correnti di stampo psicoanalitico, è riconosciuta oramai dai diversi orientamenti teorici e non vi è clinico che non concordi sul fatto che a volte il silenzio in seduta può essere terapeutico tanto quanto lo sono le parole. Esistono diversi tipi di silenzi, da quello empatico a quello in cui il paziente sta mettendo in discussione le sue credenzee dobbiamo lasciarlo sforzare da solo, senza i nostri suggerimenti. La fretta di riempire quello spazio riflette spesso, infatti, la nostra incapacità di tenere quel silenzio.
Dal punto di vista cognitivo il silenzio può essere proprio il segnale che finalmente il paziente non riesce più a usare come risposta i suoi automatismi e le sue convinzioni. In questo vuoto il paziente sta sperimentando una frustrazione che forse non è così terribile, sta sperimentando che forse non è sempre necessario sapere come andrà a finire e trovare una risposta.
Solo con il tempo e prestandovi molta attenzione ho iniziato a usare il silenzio consapevolmente e non semplicemente a reagirvi quando mi ci capitavo dentro. Da psicoterapeuta alle prime armi la domanda “che cosa faccio adesso?” mi segue, a volte ripetendosi anche dopo che il paziente se ne è andato, spesso invece andando via da sola così come è arrivata.
Quel giorno a Luisa non dissi niente, nonostante la mia testa cercasse freneticamente una risposta. Non avevo più scritto neanche una parola. Decisi di chiudere la seduta così, in silenzio. E infatti, fu lei a parlare per prima, ringraziandomi di essersi sentita capita. Uscendo, mi disse che sarebbe andata a prendere una boccata d’aria, doveva sbloccare quella stretta allo stomaco.
“ Ogni guerriero della luce ha avuto paura di affrontare un combattimento.
Ogni guerriero della luce ha tradito e mentito in passato.
Ogni guerriero della luce ha imboccato un cammino che non era il suo.
[…]
Perciò è un guerriero della luce: perché ha passato queste esperienze e non ha perduto la speranza di essere migliore.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.41]
Un altro aspetto importante che lo psicologo deve prendere in considerazione riguarda la prognosi, e cioè la previsione, in base ai dati raccolti nel primo colloquio, sul decorso e sull’esito del tentativo di risoluzione del problema. Oltre a definire il problema e il modo in cui affrontarlo lo psicologo deve raccogliere dati, anche dalla sua intuizione e dalla sua esperienza, sulla speranza di ottenere dei risultati attraverso specifici strumenti.
Questa valutazione deve fare i conti innanzitutto con l’efficacia e l’efficienza degli strumenti offerti e con la speranza e il senso di inutilità del cliente.Per efficacia di uno strumento si intende quanto questo è in grado di condurre i clienti al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Per efficienza, invece, si intende quanto il servizio che lo psicologo, in base alle conoscenze e alle tecniche che possiede, può fornire in relazione al costo più basso possibile per il cliente.
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Il senso di speranza e di inutilità del cliente deve essere attentamente soppesato poiché esso rappresenta anche il livello di motivazione con il quale il soggetto affronta la terapia e quest’ultimo costituisce un fattore di primo piano per il successo finale. Se il cliente ha fiducia, è speranzoso e motivato tutto risulta più semplice e la prognosi nettamente positiva rispetto al caso contrario, e questo indipendentemente dal problema.
Valutare la prognosi, in questo senso, permette al psicologo di: avere un idea di quali siano obiettivi realisticamente raggiungibili con una spesa di tempo e di impegno accettabili (il che influenza il processo di negoziazione degli obiettivi stessi), capire su quali livelli intervenire (se solo sui problemi o anche sulla motivazione del cliente), capire quali reazioni può aspettarsi dal cliente e prepararsi ad affrontarle nel modo corretto.
STIPULAZIONE DI UN CONTRATTO
“Il contratto è un accordo di lavoro tra il cliente e l’operatore riguardante quello che si vuole ottenere e come ottenerlo” [Fine e Glasser, 1996]. Questo rappresenta il passaggio riassuntivo di tutte le definizioni, le negoziazioni e le valutazioni precedenti. Attraverso un accordo, prettamente verbale, psicologo e paziente definiscono un impegno reciproco a muoversi insieme nell’affrontare specifici problemi verso il raggiungimento di specifici obiettivi attraverso l’uso di specifici strumenti.
Questi ultimi devono essere esposti al cliente (per mantenere e mostrare la propria onestà), prima della stipulazione del contratto e, se non vi è verso che questi li accetti, è necessario presentare alternative ed iniziare un ulteriore negoziazione. Per fare in modo che gli obiettivi che si vogliono perseguire e gli strumenti che si vogliono utilizzare siano compresi da tutte le persone coinvolte, è necessario che il contratto sia formulato in termini chiari e con un linguaggio facilmente comprensibile [Croxton, 1988; Seabury, 1976].
Normalmente la strutturazione di un contratto si realizza dopo la definizione degli obiettivi e alla fine del colloquio. Spesso, però, situazioni particolarmente complesse rendono difficile poter stabilire un contratto in un’unica sessione. Così, mentre è importante che al termine del primo colloquio il cliente abbandoni la sessione con un’idea piuttosto chiara degli obiettivi, la vera strutturazione del contratto può richiedere più di una sessione.
Il contratto è anche un momento per fare il punto della situazione, per esprimere in modo chiaro tutto ciò che è risultato dal colloquio, per ripercorrere, assieme al cliente, la definizione data al problema e agli obiettivi e per affrontare eventuali dubbi e ripensamenti dell’ultimo momento. è importante essere più chiari possibile perché le condizioni del contratto e di come esso può essere rotto, appartengano al cliente.Questo momento ha un importanza molto elevata poiché su di esso si baserà ogni intervento terapeutico successivo.
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Un alternativa al contratto è la stipulazione di un precontratto. Questo viene usato con clienti che non si mostrano decisi a voler proseguire la terapia o il counseling. In tal caso la proposta potrebbe essere quella di raggiungere un accordo tra psicologo e paziente attraverso il quale quest’ultimo si impegna a collaborare per un numero limitato di incontri, da tre a cinque, dopo i quali potrà decidere se continuare o meno.
Anche questa versione dell’accordo finale tra professionista e cliente mantiene tutte le caratteristiche del contratto normale con l’unica eccezione per il fatto di essere limitato nel tempo, un limite ben definito. Per questo motivo al suo interno contiene sempre il sunto di ciò che si è ottenuto nel primo colloquio, una definizione del problema, la definizione degli obiettivi e degli strumenti e, anche in questo caso, deve essere esplicitamente comprensibile al cliente.
Il precontratto ha principalmente due vantaggi: concede al cliente l’opportunità di avere un opinione più chiara degli strumenti utilizzati dal terapeuta e conferisce al psicologo la possibilità di guadagnare la sua fiducia e valutare le sue reali possibilità di cambiamento [Fine e Glasser, 1996].
L’uso del precontratto è particolarmente utile quando il psicologo ha a che fare con clienti involontari, clienti che sono stati inviati dallo psicologo contro la loro volontà, in base ad un altro contratto stipulato con un altro ente o istituzione, soprattutto se sono poco collaborativi. In tal caso un precontratto può essere un modo per il cliente di risolvere in fretta lo scomodo impegno e per il professionista una via per riuscire ad ottenere una collaborazione comunicando che se questa non ci fosse l’accordo verrebbe rotto.
Un ultima caratteristica che è bene non dimenticare, riguarda la possibilità per il cliente di scegliere e definire assieme al psicologo le caratteristiche del contratto in modo da costruire insieme il percorso verso gli obiettivi accordati. Un contratto non imposto ma costruito e proprio del cliente, incentiva la sua motivazione e il suo impegno a realizzarlo.
PRECISAZIONI SUL COLLOQUIO SUCCESSIVO
Una volta che tutte queste informazioni sono state raccolte non rimane altro che stabilire assieme al cliente tutto ciò che riguarda il colloquio successivo mantenendosi più chiari ed espliciti possibile. È necessario definire chi deve essere presente, fissare la data e l’ora del prossimo incontro, chiarire cosa dovranno affrontare, a quale scopo e con quali strumenti.
Happy Family: Poesia Leggera vs. Ansia del Cambiamento.
“Andiamo a fare un giro in città?” propone lei, “e se piove?” suggerisce la timidezza di lui, “ci bagniamo“, “però poi potrebbe venire caldo…“, “ci asciughiamo“. Addio ansia, benvenuta felicità.
Una piacevole scoperta, questo film di Salvatores del 2010. Una commedia italiana semplice ma anche finemente sofisticata, che riunisce a cena una famiglia di personaggi creati da un autore in cerca di ispirazione. Salvatores gioca, come in “Nirvana”, con la commistione fra mezzi comunicativi diversi, figure narrative che escono da uno schermo facendosi reali, capaci di autodeterminarsi, e ne ricava una storia delicata, a tratti sussurrata, che non manca però di ricercare il cambiamento e coglierlo con forza.
La cena è la presentazione ufficiale tra le famiglie di due sedicenni che hanno intenzione di sposarsi, e il confronto si sviluppa tra stili personali apparentemente in contrasto e ugualmente tormentati, atteggiamenti bizzarri e tentativi di comunicare unendo il sarcasmo e la prudenza, l’accelerazione e la conservazione espressiva.
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Il disagio dei commensali affiora a tratti e si incastra in ciò che diventa presto un intreccio di sguardi, significati spesso comici ma mai banali, intenzioni abbozzate e gesti che diventano più complici col passare dei minuti. Il cambiamento travolge la coppia di sedicenni, che si rompe nella serata più importante quando la ragazza esplode la propria insofferenza per i formalismi mortalmente noiosi del fidanzato, e crea un nuovo legame tra la sorella del ragazzo e un invitato giunto quasi per caso, dopo un piccolo incidente stradale con la padrona di casa; i due si incontrano in ascensore, si osservano, assaporano il reciproco desiderio di un sentimento spontaneo e poco alla volta consentono alle proprie anime di sfiorarsi dolcemente, di toccarsi senza perdere un solo attimo di quella magia.
Il film è anche l’amicizia fra due uomini che conoscono dapprima la distanza che li separa – quasi inconciliabile si direbbe – nella storia personale, nelle soggettive inclinazioni, per poi sentire che qualcosa li accomuna a un livello estremamente profondo, la voglia di condividere uno spazio dove i rumori della vita ripetuta fino a quel momento vengano sospesi, allontanati da un’esperienza silenziosa e intima.
Sarà il mare aperto a renderlo possibile. “Happy family” non racconta una famigliafelice, bensì tanti modi differenti di essere felici attraverso il cambiamento – non ultimo, quello che nella parte finale conduce il timido sedicenne ad esplorare una dimensione affettiva finalmente libera – e mostra allo spettatore un modo antico di fare cinema, attraverso citazioni di altri registi e della stessa filmografia di Salvatores, un viaggio musicale caldo e poetico affrescato da Simon e Garfunkel, un contatto intimo con gli oggetti particolari che tracciano la parabola privata di ogni persona.
“Happy family” è un film contro il rimuginio, nella leggerezza dei dialoghi e delle passioni, nella scena finale tra il protagonista-autore, sollevato per aver portato a termine il proprio racconto, e la vicina di casa sorprendentemente simile a uno dei suoi personaggi. “Andiamo a fare un giro in città?” propone lei, “e se piove?” suggerisce la timidezza di lui, “ci bagniamo“, “però poi potrebbe venire caldo…“, “ci asciughiamo“. Addio ansia, benvenuta felicità.
Uno studio suggerisce che il trattamento farmacologico precoce in bambini con ADHD moderato o grave non ha effetti significativi sulla riduzione dei sintomi
Uno studio, che rappresenta fino ad oggi la più grande analisi a lungo termine su bambini in età prescolare con con deficit di attenzione ADHD, suggerisce che il trattamento farmacologico precoce in bambini con ADHD moderato o grave non ha effetti significativi sulla riduzione dei sintomi, tanto che 9 bambini su 10 continuano ad avere gravi sintomi anche molto tempo dopo la diagnosi e l’inizio del trattamento.
Lo studio, pubblicato sul Journal of American Academy of Child and Adolescent Psychiatry è stato condotto dai ricercatori del Johns Hopkins Children’s Center.
Visto che l’ADHD riceve una diagnosi sempre più precoce è di fondamentale importanza comprendere come ADHD progredisce in questa fascia di età, afferma il capo ricercatore e psichiatra infantile Mark Riddle. “Abbiamo scoperto che l’ADHD nei bambini in età prescolare è una condizione cronica e persistente, che richiede trattamenti comportamentali e farmacologici a lungo termine migliori di quelli in uso al momento”.
Bambini con ADHD, dai 3 a 5 anni, sono stati inseriti nello studio e trattati per diversi mesi, poi stati indirizzati ai pediatri per il monitoraggio della cura in corso.
Nel corso dei sei anni successivi, i ricercatori hanno utilizzato relazioni dettagliate da parte dei genitori e degli insegnanti per monitorare il comportamento dei bambini, il rendimento scolastico, e la frequenza e la gravità di tre dei sintomi di ADHD: disattenzione, iperattività e impulsività. La procedura diagnostica veniva ripetuta dai clinici dello studio all’inizio, a metà e alla fine della ricerca.
Lo studio mostra che quasi il 90% dei 186 bambini seguiti hanno continuato a lottare con i sintomi di ADHD anche sei anni dopo la diagnosi, inoltre quelli trattati farmacologicamente hanno continuato ad avere sintomi gravi come quelli che non hanno assunto farmaci.
L’assunzione del farmaco quindi non sembra fare la differenza in più di due terzi dei bambini.
In particolare, il 62% dei bambini che hanno assunto farmaci anti- ADHD mostravano iperattività e impulsività clinicamente significativa, rispetto al 58% di quelli che non avevano assunto farmaci. Anche la disattenzione era clinicamente significativa nel 65% dei bambini in terapia, rispetto al 62% nei bambini non trattati farmacologicamente.
Tuttavia, i ricercatori avvertono che non è chiaro se la mancanza di efficacia dei farmaci sia dovuta alla scelta del farmaco, non ottimale, al dosaggio, alla scarsa adesione, all’inefficacia del farmaco di per sé, o ad altre ragioni.
“Il nostro studio non è stato progettato per rispondere a queste domande, ma qualunque sia il motivo, è preoccupante che i bambini con ADHD, anche se trattati con i farmaci, continuino ad avere sintomi” ha spiegato Riddle.
I bambini che avevano un disturbo oppositivo-provocatorio e un disturbo della condotta in aggiunta all’ ADHD hanno avuto il 30% in più di probabilità di avere i sintomi di ADHD persistenti sei anni dopo la diagnosi, rispetto ai bambini la cui unica diagnosi era di ADHD.
“L’ADHD è considerata una condizione neurocomportamentale ed è caratterizzata da incapacità di concentrazione, irrequietezza, iperattività e comportamento impulsivo, e può avere effetti profondi e duraturi sullo sviluppo intellettuale ed emotivo di un bambino”, ha aggiunto Riddle, “questo può mettere in pericolo l’apprendimento e il rendimento scolastico e anche la sicurezza fisica, infatti i bambini con ADHD sono a più alto rischio di infortuni e ricoveri. “
Secondo i ricercatori, oltre il 7 per cento dei bambini americani sono attualmente in trattamento per l’ADHD, e l’onere economico della condizione è stimato tra $ 36 e 52 miliardi dollari all’anno.
Qualcosa è cambiato. (1997) – As good as it gets – Locandina
INFO:
Qualcosa è cambiato. Un film di James L. Brooks. Interpretato da Jack Nicholson, Helen Hunt, Greg Kinnear, Cuba Gooding Jr., Skeet Ulrich.
Jack Nicholson e Helen Hunt, vinsero con questo film il Premio Oscar. Il film occupa il posto numero 140 de “I 500 Film più Grandi di Tutti i Tempi” (“The 500 Greatest Movies of All Time”) della rivista Empire.
Titolo originale As Good As It Gets. Commedia. USA 1997.
TRAMA:
Melvin Udall è un affermato scrittore che vive a New York. Ha un pessimo carattere, misantropo, non ama neri, omosessuali, vecchiette,cani ed ebrei. È ostile e umiliante con gli altri.
Carol, cameriera in un locale dove Melvin di solito va a mangiare portandosi dietro posate di plastica per la sua paura dei germi, è la madre di un bambino malato che ha bisogno di essere assistito con continuità.
Carol è costretta a licenziarsi per assistere suo figlio.
Melvin è sconvolto, il fatto stravolge le sue abitudini, solo Carol può servirlo, nessun altra cameriera è in grado di farlo senza creargli ansia.
Il susseguirsi di una serie di vicende porteranno Melvin a rendersi conto di come la presenza di Carol sia per lui importante e, con non poche difficoltà, in modo goffo a confessare a Carol il suo amore.
MOTIVI DI INTERESSE:
Melvin presenta una sintomatologia tipica del disturbo ossessivo-compulsivo: in una scena del film mentre passeggia con Carol non può fare a meno di calpestare le linee orizzontali del pavimento, in altre sequenze ripete parole mentalmente, ha il timore dei germi e quando si reca al ristorante si porta le posate da casa, è eccessivamente attento ai dettagli, è meticoloso, è riluttante a svolgere attività di svago e a curare amicizie, si aspetta che gli altri si sottomettano esattamente al suo modo di fare, è rigido e testardo.
Quando si tratta di manifestare i suoi sentimenti lo fa in maniera così goffa e impropria che trasforma una dichiarazione d’amore a Carol in una offesa.
Ha scarsa consapevolezza dei suoi stati emotivi e soprattutto non riesce a padroneggiarli. Vuole evitare di non essere amabile, ma ha poche strategie, è centrato in maniera assoluta sul lavoro.
INDICAZIONI PER L’UTILIZZO:
Il film può essere molto utile per evidenziare e discutere con il paziente alcune credenze e processi centrali del disturbo. Può motivare al cambiamento, facendo intravedere la possibilità di migliorare la qualità di vita.
L’intera puntata è tutta una violazione di un setting deteriorato e pericolante. Il dialogo tra Paul e Laura è tra due persone che non si capiscono. Paul sostiene che la terapia sia finita. Il ritardo di 25 minuti ne è la dimostrazione, e Laura non era mai arrivata in ritardo.
Si moltiplicano i segnali di disfacimento. Paul, abbandonato il letto matrimoniale, dorme sul divano. Ormai la sua simbiosi con la stanza analitica è completa. Non esce più fuori di lì. Arriva Laura in ritardo di 25 minuti, si siede sul divano dal quale Paul è da poco emerso e incoccia nella cintura di Paul, abbandonata lì, come su un letto sfatto.
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L’intera puntata è tutta una violazione di un setting deteriorato e pericolante. Il dialogo tra Paul e Laura è tra due persone che non si capiscono. Paul sostiene che la terapia sia finita. Il ritardo di 25 minuti ne è la dimostrazione, e Laura non era mai arrivata in ritardo. Laura a sua volta porta un racconto di morte e disperazione, racconta di un cane investito e travolto dalle auto sulla Madison Avenue. La seduta si conclude in una situazione di completo stallo, ma la puntata non è finita.
Laura esce in strada e incontra Alex, il paziente del martedì. Che si è confuso ed è arrivato con un giorno di anticipo. Altro deterioramento del setting. Non basta. Alex non solo sbaglia giorno, ma ha con sé uno scatolone che vuole regalare all’analista. È davvero una puntata in cui saltano tutte le regole e come tale si conclude. Alex offre un passaggio in centro a Laura, iniziando quella che sembra una relazione.
Mi chiedo se tutto questo sia sempre una sottile polemica contro gli sviluppi relazionali e intersoggettivisti della psicoanalisi. Gli sceneggiatori sembrano pensare che, una volta imboccata quella strada, l’involuzione relazionale extra-terapeutica è inevitabile. È impossibile pensare che il setting possa essere protetto rinunciando alla neutralità.
Prendiamo ad esempio il caso, suggeritomi dal collega Diego Sarracino (leggi l’articolo del dott. Sarracino Rileggendo Abraham Maslow – Le Caratteristiche dell’Individuo “Sano”su State of Mind ), dell’interpretazione concreta. Sarracino mi scrive che “Per gli intersoggettivisti, l’interpretazione concreta è una violazione intenzionale delle regole del setting, che un analista ortodosso considererebbe un “acting out”, motivata dall’intenzione del terapeuta di trasmettere un contenuto sul piano implicito e relazionale (“concreto”) più che su quello simbolico e verbale. Per es., Lachmann a un certo punto “riacchiappa” una paziente grave che stava droppando telefonandole un po’ prima di ogni seduta e ricordandole l’appuntamento (più che il contenuto della telefonata, è il gesto relazionale in sé che fa la differenza)”.
Per gli sceneggiatori di In Treatment tutto questo sembra essere pericoloso e –nemmeno tanto sottilmente- raccontano che su questa strada non si fa più terapia.
Questa settimana, presentiamo un secondo piccolo intermezzo della monografia sull’ ACT (Acceptance and Commitment Therapy) con scopo di fornire ai lettori di State of Mind un modello grafico dei sei processi descritti nella monografia sull’Acceptance and Commitment Therapy e di rivedere una famosa intervista a Steven Hayes, ideatore di questo approccio psicoterapeutico.
Il grafico, noto come Hexaflex, è stato ripreso da un famoso articolo scritto da Steven Hayes e colleghi nel 2006 e pubblicato su Behavior Research and Therapy.
L’Hexaflex può essere utilizzato con i pazienti, in modo da concordare con loro quali sono i processi maggiormente inflessibili e disfunzionali e con il fine di impostare un contratto terapeutico individualizzato.
Hayes, S.C., Luoma, J.B., Bond, F.W., Masuda, A., & Lillis, J. (2006). Acceptance and Commitment Therapy: Model, processes and outcomes. Behavioral Research and Therapy, 44:1-25.
Per questo motivo, l’Hexaflex potrebbe essere inteso anche come strumento “diagnostico” e come “bussola” per l’intervento, secondo l’ Acceptance and Commitment Therapy.
Per comprendere però la natura, le basi epistemologiche e teoriche e l’uso psicoterapeutico dell’ Acceptance and Commitment Therapy, un suggerimento è di ascoltare le parole del suo fondatore, Steven Hayes.
Una nuova ricerca, pubblicata sul Journal of American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, mette in luce l’efficacia di un percorso terapeutico, in particolare di tipo familiare, in bambini ad alto rischio di disturbo bipolare, rispetto ai trattamenti educativi di breve durata.
Il disturbo bipolare, nel caso degli adulti, viene trattato con terapie e psicofarmaci. Tuttavia, nel caso di pazienti molto giovani, che iniziano a manifestare alcuni sintomi di disturbo bipolare, emergono opinioni discordanti su quale tipo di intervento sia più idoneo al trattamento del disturbo.
Una nuova ricerca, pubblicata sul Journal of American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, mette in luce l’efficacia di un percorso terapeutico, in particolare di tipo familiare, in bambini ad alto rischio di disturbo bipolare, rispetto ai trattamenti educativi di breve durata.
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I ricercatori hanno identificato 40 giovani (età media 12 anni) con alcuni sintomi di disturbo bipolare, di disturbo depressivo o di disturbo bipolare non altrimenti specificato (episodi brevi e ricorrenti di mania o ipomania che non soddisfano i criteri diagnostici completi per il disturbo bipolare), e con almeno un parente di primo grado (di solito un genitore) con disturbo bipolare di tipo I o II.
I partecipanti dello studio, in modalità random, vengono assegnati a due gruppi di ricerca: uno con trattamento focalizzato sulla famiglia (FFT), che consiste in 12 sedute con la famiglia, dispiegatesi in 4 mesi, comprendenti incontri di psicoeducazione (strategie di apprendimento per gestire gli sbalzi d’umore), di training sulle capacità di comunicazione, e di training sulle capacità di problem-solving. L’altro gruppo di ricerca è stato sottoposto invece a 1 o 2 sessioni di informazione familiare sul controllo educativo (EC).
Dei 40 partecipanti, il 60% assume psicofarmaci al momento del reclutamento, e ha continuato il trattamento farmacologico nel corso dello studio.
Dai risultati dello studio è emerso che i partecipanti con trattamento focalizzato sulla famiglia vedono migliorare i loro sintomi depressivi iniziali in una media di 9 settimane, rispetto alle 21 settimane impiegate nel gruppo con controllo educativo.
I partecipanti che hanno ricevuto FFT hanno mostrato, inoltre, una remissione completa dei sintomi dell’ umore per molte settimane anche dopo le sessioni di terapia. I miglioramenti dei sintomi relativi alla mania, inoltre, misurati attraverso la Young Mania Rating Scale, risultano anche questi maggiori nel gruppo con FFT.
I ricercatori hanno inoltre analizzato i livelli di emotività espressa all’interno delle famiglie dei partecipanti, quale misura della tendenza alle critiche e dell’ iperprotettività emozionale dei genitori. Dalle analisi è così emerso un altro dato interessante: i partecipanti che appartenenti alle famiglie classificate ad alto contenuto di emotività espressa, così come quelli appartenenti a famiglie con basso livello di emotività espressa, hanno visto migliorare i loro sintomi in un tempo doppio rispetto ai partecipanti con famiglie classificate a livelli normali di emotività espressa.
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Un’analisi secondaria ha indicato che giovani provenienti da famiglie ad alta emotività espressa, sottoposti al trattamento incentrato sulla famiglia, hanno mostrato una remissione più duratura nel corso dell’anno di follow up, rispetto a quelli trattati con le sole sessioni informative.
La ricerca pecca di alcuni limiti e, infatti, gli stessi autori dello studio, hanno per esempio sottolineato che la lunghezza del follow-up (un anno) è stata troppo breve per determinare se questi bambini potessero sviluppare a pieno il disturbo bipolare.
“Tuttavia“, dicono i ricercatori, “catturare il disturbo bipolare nelle sue prime fasi, stabilizzando i sintomi già sviluppati, e aiutando la famiglia a far fronte in modo efficace agli sbalzi d’umore del bambino può avere effetti che consentono di migliorare i risultati a lungo termine su bambini ad alto rischio”.
Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla – 15 Marzo 2013
Venerdì 15 marzo, si è celebrata la seconda edizione della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla contro i Disturbi Alimentari.
A promuovere la sua prima edizione nel 2012 è stato un papà che ha visto la propria figlia Giulia morire a soli 17 anni per le complicanze emerse in seguito a una grave condizione di bulimia.
Oggi in Italia quasi 10 ragazze su 100 tra i 12 e i 25 anni hanno problemi di anoressia, bulimia e obesità e secondo la Sisdca, Società italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, questi disturbi rappresentano la prima causa di morte per malattia tra le giovani italiane tra i 12 e i 25 anni.
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L’adolescenza è un’età difficile per gli importanti cambiamenti fisici e psicologici che implica. Per questo, i ragazzi in questo periodo di transizione sono più insicuri e vulnerabili a diversi tipi di pressioni sociali e psicologiche. Tra i principali fattori di stresse difficoltà ricordiamo i cambiamenti che avvengono nel corpo a partire dalla pubertà, i conflitti familiari che riguardano l’indipendenza, le crisi di identità e rivalutazione dei valori etici e morali, insicurezza e bassa autostima e nuove capacità intellettive.
I problemi a cui i giovani devono fare fronte variano su un’ampia gamma e possono avere un grande impatto sul modo in cui percepiscono loro stessi e sui loro comportamenti, interferendo con le loro relazioni interpersonali, la loro vita sociale e familiare, il loro impegno scolastico, il loro benessere generale e la loro qualità di vita.
Molti adolescenti non ricevono un adeguato sostegno quando si trovano a fronteggiare disagi psicologici, per incertezza, vergogna, paura di stigmatizzazione, scarsa conoscenza rispetto alle modalità con cui richiedere un aiuto professionale, difficoltà nell’accesso ai servizi, etc..
Risultano quindi di massima importanza interventi educativi e preventivi precoci relativi ai problemi psicologici nella fascia di età adolescenziale.
Lo scopo del Progetto ProYouth è la promozione della salute psicologica in ragazzi e ragazze con un’età compresa tra i 15 e i 25 anni, incentrata soprattutto su un sano regime alimentare e sul raggiungimento della soddisfazione corporea.
Gli utenti ricevono supporto attraverso interventi via Internet e, nel caso in cui sia necessario, viene loro facilitato l’accesso al sistema di cura convenzionale. Con queste finalità è stata costruita una specifica piattaforma online che offre diversi moduli informativi e di supporto per i giovani.
I principali obiettivi di questo sistema online sono:
1) Garantire informazioni e educare gli utenti circa la salute mentale, la promozione della salute e i disturbi alimentari.
2) Aiutare i giovani utenti a identificare precocemente i loro atteggiamenti problematici e comportamenti a rischio.
3) Fornire consigli e suggerimentirispetto a quello che i ragazzi possono fare per aiutare loro stessi e gli altri.
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4) Offrire un supporto professionale e tra pari tramite Internet, ostacolando così l’ulteriore evoluzione dei disturbi alimentari e dei relativi problemi.
5) Facilitare l’accesso ai regolari sistemi di cura da parte dei giovani (per es., consulenza e trattamento), limitando così il tempo tra l’esordio del disagio e la possibilità di fruire di un aiuto professionale.
Tra i vantaggi che provengono da un approccio basato sull’interazione via web, si collocano:
La possibilità di raggiungere un ampio numero di giovani, compresi quelli residenti nelle zone meno servite dai Servizi di Cura convenzionali
L’agevolazione del supporto tra pari, con conseguente minore timore da parte dei ragazzi e, anche attraverso la garanzia dell’anonimato, minore vergogna e rischio di stigmatizzazione
La focalizzazione dell’intervento sulle necessità individuali di ogni singolo partecipante, promuovendo un approccio più flessibile al problema plasmato sulle caratteristiche di ognuno
La facilitazione all’accesso ai servizi di cura collocati sul territorio, nel caso in cui vi fosse la necessità
Complessivamente, il Progetto ProYouth è finalizzato al miglioramento del sistema di cura con particolare riferimento alla salute mentale della popolazione giovane nei 7 Paesi che hanno aderito all’iniziativa (Germania, Repubblica Ceca, Romania, Italia, Irlanda, Ungheria e Paesi Bassi). I partner ProYouth collaborano con le autorità locali e regionali, con le istituzioni di cura e dell’educazione (scuole e università).
La piattaforma ProYouth è consultabile all’URL www.proyouth.eu e si possono richiedere maggiori informazioni scrivendo a [email protected].
Se volete avere maggiori informazioni sul progetto, sulle possibilità di collaborazione e sulle modalità di diffusione, scriveteci!
Se volete essere aggiornati sul ProYouth e su temi che riguardano una corretta alimentazione e i giovani, seguite la pagina ProYouth su Facebook (www.facebook.com/proyouth.italia) e Twitter (@ProYouth_Italia).
“Perché tutti gli uomini d’eccezione nel campo della filosofia, della politica, della poesia o delle arti sono melanconici..” queste le intuitive parole di Aristotele, che fu forse il primo a notare questa interessante correlazione fra “follia” e creatività.
Prosegue nella descrizione del melanconico uomo di genio come colui che “..per natura è sempre bisognoso di cura..” e che la sua condizione, dovuta all’eccesso di bile nera (che in greco si dice appunto melanconia) “fanno sì che tutti i melanconici si distinguano dagli altri uomini, non a causa di una malattia, ma a causa della loro natura originale”.
Intuizione aristotelica che ebbe un seguito nei secoli fino ad arrivare a Lombroso, che traghettando dall’ambito filosofico a quello psicologico, notò che “V’hanno tra la fisiologia dell’uomo di genio e la patologia dell’alienato non pochi punti di coincidenza”; quasi a sottolineare come la genialità altro non fosse che una particolare forma di malattia mentale. Da Hernest Hemingway a Virginia Woolf, da Franklin Delano Roosvelt ad Abramo Lincoln, da Rossini a Kurt Cobain, da Michelangelo a Van Gogh…solo questi alcuni talenti dietro le cui opere si cela un mondo di alti e bassi, di inferni e paradisi, di infinita gioia ed infinita tristezza.
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Un’altalena fra stati di iperattività e stati depressivi è ciò che caratterizza l’andamento dell’umore in coloro che soffrono di disturbo bipolare. Fra la popolazione di coloro che si dedicano ad un lavoro creativo alcuni studi hanno rilevato che il 10% soffre di disturbo bipolare contro l’1% dei soggetti nella popolazione generale (Goodwin & Jamison, 2007; Rothenberg, 2001). L’artista ha da sempre avuto un modo sui generis di distinguersi, di affrontare la vita e le persone.
E non per altro è dall’epoca di Aristotele che ci interroghiamo sui limiti esistenti tra genialità e follia. Ad oggi ciò che i dati ci dicono è che esiste un legame fra stato maniacale e creatività, legame valido solo per coloro che soffrono di forme più leggere di maniacalità. Andando ad analizzare infatti le caratteristiche di un episodio maniacale, come riportato dal DSM IV-TR, ciò che si può riscontrare è una fase di umore eccessivamente elevato sia esso sul versante dell’espansività che dell’irritabilità, un’elevata autostima, una più spiccata loquacità; la persona si sente riposata anche dopo pochissime ore di sonno (addirittura 3 pare siano più che sufficienti!!), le idee si rincorrono una dietro l’altra come un fiume in piena, ci si distrae molto facilmente, ci si dedica maggiormente alla vita sociale ma anche a quella lavorativa, e si finisce per dedicarsi ad attività che potrebbero portare a conseguenze dannose quali spese eccessive, atteggiamenti sessuali sconvenienti, investimenti avventati fatti senza riflettere.
Ora, parlando invece di creatività, da cosa dipende essa a livello fisiologico? Come sottolinea Flahearty (2011) dipende dall’attivazione del sistema dopaminergico del mesencefalo. La dopamina è un neurotrasmettitore che a livello cerebrale svolge diverse funzioni ed è implicata nella regolazione del comportamento, della cognizione, dell’umore ed influisce inoltre sul ritmo sonno-veglia. L’alterazione nel funzionamento di tale neurotrasmettitore sottostà al manifestarsi dei disturbi dell’umore, ed in particolare è stato riscontrato come un aumento di dopamina sia connesso anche alla produzione di immagini mentali e ad un aumento delle associazioni, traducibile nel fiume in piena di idee che spesso caratterizza i soggetti più creativi (Flahearty, 2011).
In questa fase di ipertrofico entusiasmo si è particolarmente recettivi, privi di inibizioni, ed in preda alla frenesia, si parla con chiunque e potenzialmente si scorgono in ogni dove nuove idee. Ma come sottolinea Runco (2004) “La creatività non è una sorta di psicopatologia!”. Tra creatività e psicopatologia esiste una correlazione, ma la presenza dell’una non determina di certo la presenza dell’altra. Come riportano Murray e Johnson (2010) fra maniacalità e creatività c’è un legame inversamente proporzionale tale per cui, nelle forme più gravi di maniacalità, la creatività viene meno, viceversa si può osservare un estro creativo in coloro che soffrono del disturbo in forma più lieve.
Da ricerche recenti è emerso come l’apertura a nuove esperienze, l’estroversione, ed in minima parte anche quel tratto di psicoticismo (Eysenck, 1993), da vedersi nell’originalità dei pensieri creativi, siano tutte connesse ad una personalità creativa (Silva et al., 2009; De Young et al., 2007). Per quanto riguarda la creatività, da intendersi come originalità di pensiero, si è notato come il tratto dello psicoticismo correli con una maggiore tendenza all’antisocialità. Un tratto come il nevroticismo forse per associazione con una maggiore sensibilità emotiva (Batey & Furnham, 2006), risulta essere correlato positivamente ad una buona riuscita nel campo artistico (Feist, 1998).
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Un altro aspetto da tenersi in considerazione riguarda l’impulsività; nel disturbo bipolare il tratto impulsivo risulta particolarmente accentuato anche nei momenti di benessere della persona, ovviamente durante gli stati maniacali l’impulsività la fa da padrona. Per quanto riguarda creatività ed impulsività si può notare come spesso nella prima vi sia un’espressione totalmente libera dei propri bisogni e dei propri impulsi (Leibenluft et al., 2007;Swann, Anderson, Dougherty, & Moeller, 2001; Swann, Dougherty, Pazzaglia, Pham & Moeller, 2004). Come se l’artista, libero da qualsiasi costrizione, potesse lasciare libera la sua espressività sotto ogni qual forma, facendo scaturire dall’arte un prodotto unico, che in altre condizioni non sarebbe stato creato.
Ma dietro a tutta questa entusiastica frenesia creativa si cela il lato oscuro della luna, le fasi di buio più profondo, dove quello spirito eccessivamente vitale si annulla totalmente e la più totale sfiducia in sé la fa da padrona, non c’è più scampo, nessuna via d’uscita, tutto è piatto e senza significato. Tuttavia anche questa fase pare essenziale per la produzione creativa, toccare il fondo del baratro per poi godere appieno della risalita. Cita Kay Jamison “Da depressa, ho strisciato carponi per arrivare all’altro lato di una stanza, e l’ho fatto per mesi. Ma in condizioni normali o maniacali ho corso più velocemente, pensato più rapidamente e amato più intensamente della maggior parte delle persone che conosco. E credo che ciò sia dovuto in gran parte a questa malattia, all’intensità che conferisce alle esperienze e alla prospettiva che mi impone. Penso che la malattia mi abbia costretto a mettere alla prova i limiti della mia mente (che resiste, pur se è carente) e quelli della mia educazione, della mia famiglia, della mia cultura e dei miei amici”.
Sarebbe bello conservare della bipolarità solo l’aspetto ludico e creativo, ma in realtà non è possibile, specie nelle forme più gravi elevato è il rischio di suicidio. Fine cui sono andati incontro alcuni dei nomi precedentemente riportati.
Ma quali sono le implicazioni cliniche e terapeutiche della creatività all’interno del disturbo bipolare?
Esiste una nota correlazione tra disturbo bipolare e creatività (Richards et al., 1988; Santosa et al., 2007; Strong et al., 2007) ed essa necessita di essere ben maneggiata nel setting terapeutico. E’ stato stimato che circa l’8% dei pazienti la cui diagnosi rientra nello spettro del disturbo bipolare sia considerata “creativa” (Akiskal & Akiskal, 2007). Non esistono tuttavia manuali di trattamento o linee guida terapeutiche che considerino la creatività nel trattamento del disturbo bipolare. Alla luce del legame esistente tra creatività e Disturbo Bipolare, in futuro, potrà essere d’aiuto ai fini terapeutici valutare e, più in generale, tenere in considerazione anche la creatività nel paziente bipolare. Il rischio, non considerando tale caratteristica, è che essa possa ostacolare la terapia ed in generale la compliance terapeutica.
Dietro la creatività, molto spesso, si cela un mondo fatto di poli opposti, di positivo e negativo, di entusiasmo e di apatia, un mondo che affascina e allo stesso spaventa, che Virginia Woolf descrive con queste semplici e quanto mai taglienti parole: “La bellezza del mondo, che dovrà così presto soccombere, ha due tagli, uno di gioia, l’altro d’angoscia, che ci dividono il cuore.”
Batey M, Furnham A. (2006). Creativity, intelligence, and personality: A critical review of the scattered literature. Genetic, Social & General Psychology Monographs, 132(4):355–429. (READ FULL ARTICLE)
Dolore Sociale & Fisico: Quando il Cuore Ci Prende a Calci
di Giuseppina Epifanio, Psicologa
“Chiunque abbia mai amato porta una cicatrice”.
Alfred de Musset
Gli studi di neuroimaging mostrano come le regioni cerebrali coinvolte nell’elaborazione del dolore fisico si sovrappongano a quelle legate al dolore sociale.
La maggior parte di noi vede il collegamento tra il dolore sociale e quello fisico come qualcosa di metaforico. La delusione amorosa “fa male”? Sicuramente può generare sofferenza ma non nel senso letterale del termine, ad esempio, come essere presi a calci negli stinchi!
Allo stesso tempo, la vita presenta argomenti convincenti riguardo il fatto che i due tipi di dolore possano avere una fonte comune. Spesso, vecchie coppie fanno notizia perché non possono fisicamente sopravvivere l’uno senza l’altro. Ad esempio in Pennsylvania, due vecchi coniugi, che erano stati sposati per 65 anni, sono morti a soli 88 minuti di distanza (Jaffe, 2013).
Negli ultimi anni, i ricercatori di psicologia hanno trovato un bel po’ di “verità” letterali insite nelle frasi metaforiche che paragonano l’amore al dolore. Gli studi di neuroimaging (Panksepp, 1978; Eisenberger, 2003; Kross, 2011) hanno dimostrato che le regioni cerebrali coinvolte nell’elaborazione del dolore fisico si sovrappongono considerevolmente a quelle legate al dolore sociale, dove per dolore sociale si intende una situazione di esclusione, prima fra tutte la separazione da un partner o da un caregiver.
Gli accenni di un legame neurale tra dolore fisico e sociale sono emersi, inaspettatamente, alla fine degli anni ’70 durante l’attività di ricerca di F. J. Panksepp, il quale stava studiando l’attaccamento sociale nei cuccioli. I cani neonati piangevano e si agitavano se separati dalle loro madri, ma queste chiamate di soccorso si riducevano nel caso in cui era stata somministrata una bassa dose di morfina. L’implicazione dello studio era profonda: se un oppiaceo riesce a placare il dolore emotivo così come quello fisico, forse i processi cerebrali sono simili.
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Le scoperte di Panksepp erano innovative ma è stato possibile testarle sugli esseri umani solo alcuni decenni più tardi, con la comparsa del neuroimaging, il quale ha mostrato le aree attive durante il dolore fisico: la corteccia cingolata anteriore (ACC), che serve come un allarme dello stress, e la corteccia prefrontale ventrale (RVPFC), che lo regola (Lanz et at., 2011).
Eisenberger e i suoi collaboratori (Eisenberger et al., 2003) hanno indagato le aree di attivazione cerebrale provocando dolore sociale. I partecipanti sono stati sottoposti a fMRI mentre erano impegnati in un gioco chiamato Cyberball, ideato per lo studio di emarginazione e rifiuto sociale. I partecipanti avevano l’impressione che stessero giocando anche altre due persone. In realtà, gli altri giocatori sono stati predefiniti dal computer e controllati dai ricercatori.
Alcuni partecipanti al test hanno sperimentato l’esclusione “implicita” durante il gioco (il soggetto percepiva l’esclusione come occasionale e non volontaria), altri hanno sperimentato l’esclusione “esplicita” (i giocatori del computer hanno incluso il partecipante per sette lanci, poi hanno escluso per ben 45 volte il soggetto dai lanci della palla). Quando Eisenberger e colleghi hanno analizzato le immagini relative alla condizione di esclusione esplicita, hanno scoperto un modello di attivazione molto simile a quello che si trova negli studi sul dolore fisico.
Lo studio ha ispirato una nuova linea di ricerca sulle somiglianze neurali tra il dolore fisico e quello sociale. Comprendere i collegamenti tra questi due tipi di dolore sarebbe utile per spiegare perché fa così male perdere qualcuno che si ama.
Eisenberger ha offerto una ragione potenzialmente evolutiva a questa relazione. I primi esseri umani necessitavano dei legami sociali per sopravvivere: l’acquisizione di cibo, la fuga dai predatori e la cura della progenie erano più facili se messi in atto in collaborazione con gli altri. L’ipotesi è che, con il tempo, questo meccanismo di allerta sociale si sia sovrapposto al sistema del dolore fisico, in modo che la sensazione di malessere derivante, ad esempio, da allontanamento dal caregiver o dal proprio gruppo sociale, potesse essere un sistema adattivo per impedire tali separazioni.
Un gruppo di ricercatori, guidato da Ethan Kross dell’Università del Michigan (Kross et al., 2011), riteneva che il dolore sociale provocato da giochi come Cyberball non fosse sufficientemente significativo. Così, gli studiosi hanno reclutato 40 partecipanti, sottoponendoli a un test che provocava dolore sociale di maggiore intensità: la vista di un ex-fidanzato o fidanzata. I soggetti hanno svolto due compiti durante una scansione di neuroimaging. Uno era un compito sociale: i partecipanti vedevano le immagini della ex pensando alla fine della loro relazione, poi venivano loro presentate le immagini di un loro buon amico. L’altro era un compito “fisico”: i partecipanti ricevevano una stimolazione calda sul loro avambraccio, e un’ altra che era appena tiepida.
Come previsto da precedenti ricerche, le aree associate al dolore affettivo (come la corteccia cingolata anteriore) si sono attivate durante le stimolazioni più intense (vedere l’ “ex” e sentire il forte calore). Ma anche le aree associate al dolore fisico, come la corteccia somatosensoriale e l’insula dorsale posteriore, si sono attivate non solo durante l’induzione di dolore fisico ma anche di dolore sociale. I risultati suggeriscono che il dolore fisico e il dolore sociale, causando disagio, condividano regioni cerebrali sensoriali.
C’è un risvolto interessante che emerge da questa nuova linea di ricerca: i rimedi per uno potrebbero funzionare come terapia anche per l’altro.
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Un gruppo di ricercatori, guidato da N. C. DeWall della University of Kentucky (De Wall et al., 2010), ha recentemente testato se l’analgesico paracetamolo potesse alleviare il dolore da stress emotivo nello stesso modo in cui allevia i dolori del corpo. In un esperimento, alcuni partecipanti al test hanno assunto una dose di 500 mg di paracetamolo due volte al giorno per tre settimane, mentre altri hanno preso una sostanza placebo. Tutti i 62 partecipanti hanno compilato un self-report, progettato per misurare l’esclusione sociale. Dopo il 9 ° giorno, le persone che avevano preso l’analgesico hanno riportato livelli significativamente più bassi di esclusione sociale, rispetto a quelli che avevano assunto un placebo.
In un’altra ricerca del 2009 (Master et al., 2009) è stato scoperto che il supporto sociale può alleviare l’intensità del dolore fisico. Master e colleghi hanno reclutato 25 donne con una relazione di coppia di almeno 6 mesi, le quali sono state portate in laboratorio con i loro partners. Inizialmente è stata determinata la soglia del dolore di ogni donna, e successivamente il campione è stato sottoposto ad una serie di stimolazioni di calore. La metà delle stimolazioni è stata data a livello di soglia del dolore, l’altra metà è stata data con un grado (Celsius) più alto. Nel frattempo ogni donna ha partecipato a una serie di compiti differenti per individuare quale elemento potesse avere un effetto mitigante sul dolore. Alcuni compiti implicavano contatto diretto (tenendo la mano del partner, la mano di uno sconosciuto, o un oggetto), mentre altri implicavano solo il contatto visivo (visualizzazione foto del partner, foto di uno sconosciuto, o un oggetto). I risultati hanno mostrato come il contatto con il partner – sia visivo che diretto – portava le donne a una valutazione del dolore significativamente più bassa.
In ogni caso, durante situazioni dolorose ma che coinvolgono l’amore, come ad esempio il parto, la vicinanza del partner, che sia fisica o anche solamente visiva, potrebbe avere effetti analgesici sulla donna partoriente. Mariti accorrete! Oppure, se proprio non ce la fate, lasciate una vostra foto all’ostetrica!
Se a causa dell’amore si può soffrire, grazie all’amore si può anche guarire.
Master, S. L., Eisenberger, N. I., Taylor, S. E., Naliboff, B. D., Shirinyan, D., & Lieberman, M. D. (2009). A picture’s worth: Partner photographs reduce experimentally induced pain. Psychological Science, 20, 1316–1318. (READ FULL ARTICLE)
Definito anche sindrome maniaco-depressiva, il disturbo bipolare è caratterizzato da forti sbalzi d’umore la cui durata è variabile.Come stimato dal National Institute of Mental Health circa il 2,6 % della popolazione americana al di sopra dei 18 anni ne è colpito e vi sarebbero determinanti genetiche che in interazione con l’ambiente possono dar luogo alla patologia. I primi sintomi si manifestano generalmente nell’adolescenza per poi acutizzarsi nell’età adulta. Richiede controllo e cura costante spesso per tutto l’arco della vita.
I sintomi correlati al Disturbo Bipolare variano da episodi maniacali ad episodi depressivi le cui tonalità emotive sono molto marcate. Euforia e tristezza superano un certo limite che contrasta con il tono affettivo abituale.
Nello specifico un Episodio Maniacale è caratterizzato da:
Umore persistentemente elevato, decisamente superiore al norma, sia sul versante dell’espansività che dell’irritabilità per almeno una settimana
Autostima ipertrofica,aspirazioni eccissive e senso di grandiosità
Spiccata ed eccessiva loquacità
Agitazione piscomotoria e netta riduzione delle ore di sonno (3 sono sufficienti per sentrsi riposati)
Successione continua dei pesieri come se si rincorresso uno dopo l’altro
L’attenzione viene catturata da ogni stimolo, anche quelli meno pertinenti, provocando una distraibilità continua
Diminuzione della capacità di giudizio e dell’autocritica
Aumento dell’attività lavorativa/scolastica e sociale
Aumento dell’interesse nell’attività sessuale
Eccessivo coinvolgimento in attività con il rischio di conseguenze potenzialmente dannose (shopping eccessivo, comportamento sessuale sconveniente, investimenti avventati)
Mentre un Episodio Depressivo è caratterizzato da:
Umore depresso e/o perdita di interesse verso attività fino ad allora piacevoli
Stato emotivo prolungato caratterizzato da sconforto,sensazione di vuoto, pessimismo, scoramento e disperazione
Alterazione del comportamento alimentare caratterizzato da dimuzione o aumento dell’appetito con conseguenti variazioni ponderali
Alterazione del sonno sia sul versante dell’insonnia che dell’ipersonnia ed alterazioni del bioritmo caratterizzate da risvegli precoci
Rallentamento della capacità di pensare e forte indecisione
Mancanza di energia e faticabilità
Rallentamento psicomotorio o agitazione
Forti sentimenti di autosvalutazione e senso di colpa eccessivo e spesso inappropriati
Ricorrenti pensieri di morte, ideazione suicidaria con o senza pianificazione, tentativo di suicidio
Il disturbo bipolare può essere di due tipi:
Bipolare I: caratterizzato dalla presenza di uno o più Episodi Maniacali o misti e spesso anche da Episodi Depressivi
Bipolare II: caratterizzato dalla presenza di uno o più Episodi Depressivi cui si associa almeno un Episodio Maniacale.
Queste variazioni patologiche dell’umore persistono per mesi e anni ed hanno sulla persona un effetto invasivo tanto da influenzarne ed alterarne la capacità di giudizio. Sia la Mania che la Depressione influiscono notevolmente sulla vita dell’individuo, e sono fortemente debilitanti sia sul piano lavorativo, che sociale, che affettivo e familiare.
Il disturbo bipolare necessita di un intervento adeguato e quanto mai tempestivo specie se si considera l’elevato rischio di suicidio cui il soggetto può andare incontro. In particolar modo lo stato che più può portare a rischio di suicidio, come ripotato dal manuale Merck, risulta essere lo stato Misto (Condizione in cui l’individuo è altamente irritabile e nervoso e al contempo prova un grande senso di scoramento, tristezza e perdita di piacere nel fare le cose) che, in associazione all’elevata impulsività che caratterizza questo disturbo, può spesso rivelarsi fatale.
Nonostante il Disturbo Bipolare sia fra le malattie psichiatriche con una base organica ben identificata, e quindi trattabile farmacologicamente, è importante ricordare che un percorso di cura non sostituisce l’altro. È stato infatti riscontrato come, specie nella fase acuta della malattia, sia importante associare ad una cura farmocologica strettamente controllata anche un percorso psicoterapico.
U.S. Census Bureau Population Estimates by Demographic Characteristics. Table 2: Annual Estimates of the Population by Selected Age Groups and Sex for the United States: April 1, 2000 to July 1, 2004 (NC-EST2004-02) Source: Population Division, U.S. Census Bureau Release Date: June 9, 2005.
Cyberball è uno strumento che consente di riprodurre il dolore del rifiuto sociale in laboratorio, consiste in un gioco di palla virtuale tra tre giocatori: il partecipante e due giocatori virtuali. Originariamente sviluppato da Kip Williams, Christopher Cheung e Wilma Choi, Cyberball è stato utilizzato dai ricercatori per studiare gli effetti dell’ostracismo. Gli studi hanno monitorato le reazioni dei partecipanti esclusi attraverso le tecniche di mapping cerebrale.
Cyberball è semplice nel design e facile da giocare (è sufficiente fare clic su un altro giocatore per passare la palla). In un primo momento, il gioco agisce normalmente, con il partecipante e i due giocatori virtuali che si passano la palla tra di loro. Ad un certo punto la situazione cambia. I due giocatori virtuali smettono di passare la palla al partecipante e continuano a passarsi la palla tra di loro, come una squadra. Il partecipante è stato escluso dal gioco.
Cyberball potrebbe sembrare uno strumento semplice e banale, in realtà ha reso riproducibile in laboratorio il rifiuto sociale, permettendo agli studiosi di occuparsi di fenomeni come il cyber-bullismo (una minaccia recente che si verifica sul web) e la sofferenza in amore (dovuta a rifiuto del partner).
Il gioco è disponibile gratuitamente online, sul sito di Wikispace (è necessaria l’iscrizione).
La Stimolazione Cerebrale Profonda in pazienti affetti da anoressia nervosa e resistenti al trattamento ha avuto effetti positivi su peso, umore e ansia.
Un team di ricercatori Canadesi ha studiato l’uso della stimolazione cerebrale profonda (DBS) in pazienti affetti da anoressia nervosae resistenti al trattamento: i risultati di questo studio pilota, pubblicato sulla rivista medica The Lancet, indicano che questo trattamento ha avuto effetti positivi sul peso corporeo, sul tono dell’umore e sui livelli di ansia dei soggetti trattati.
I 6 pazienti sottoposti al trattamento avevano un’età media di 38 anni e soffrivano, oltre che di anoressia, anche di altri disturbi psichiatrici, come la depressioneo disturbo ossessivo-compulsivo. Inoltre la lunga storia di anoressia aveva portato a complicazioni mediche di vario genere e reso i ricoveri ospedalieri molto frequenti, circa 50 dall’esordio della malattia.
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Durante il processo di messa in sicurezza della prima fase, i pazienti sono stati trattati con DBS, una procedura neurochirurgica in grado di modulare l’attività dei circuiti cerebrali disfunzionali. Il neuroimaging infatti ha evidenziato differenze strutturali e funzionali nei circuiti cerebrali che regolano l’umore, ansia, e la percezione del corpo nei pazienti anoressici rispetto ai soggetti sani.
Il test è stato ripetuto a uno, tre e sei mesi dall’attivazione del dispositivo generatore di impulsi. Dopo nove mesi, tre dei sei pazienti avevano guadagnato peso, con un indice di massa corporea (BMI) significativamente maggiore di quanto non avessero mai sperimentato. Per questi pazienti è stato il più lungo periodo di aumento di peso dall’inizio della loro malattia.
Quattro dei sei pazienti hanno manifestato cambiamenti del tono dell’umore, nei livelli di ansia, nella tendenza al binge e all’assunzione di purghe, e nella sintomatologia ossessivo-compulsiva.
Come risultato di questi cambiamenti, due dei sei pazienti hanno portato a termine il programma per il trattamento dei disturbi alimentari per la prima volta dall’esordio della malattia.
“I disturbi alimentari hanno il più alto tasso di morte di qualsiasi malattia mentale e sempre più donne stanno morendo di anoressia. C’è un urgente bisogno di terapie aggiuntive per aiutare chi soffre di anoressia grave”, ha detto il dottor Blake Woodside, direttore medico del più grande programma sui disturbi alimentari del Canada al Toronto General Hospital e professore di psichiatria presso l’Università di Toronto. Il trattamento con DBS, ancora considerato sperimentale, potrebbe diventare uno strumento aggiuntivo nel trattamento dell’anoressia nervosa.