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Amy Cuddy: come il Linguaggio Corporeo definisce te stesso (TED Talk)

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Amy Cuddy: come il tuo Linguaggio Corporeo definisce te stesso (TED Talk)

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Di seguito, la trascrizione del testo del video:

Voglio cominciare offrendovi una tattica di vita gratuita senza tecnologica, e tutto quello che richiede è questo: che possiate cambiare la vostra postura per due minuti. Ma prima di offrirvela voglio chiedervi di fare ora un piccolo controllo del vostro corpo e di quello che fate col vostro corpo. Quanti di voi in qualche modo si rendono più piccoli? Magari vi rannicchiate, incrociate le gambe, magari incrociate le caviglie. Qualche volta incrociamo le braccia così. Qualche volta ci apriamo. (Risate) Vi vedo. (Risate) Voglio che prestiate attenzione a quello che state facendo. Ci torneremo tra qualche minuto, e spero che se imparate ad aggiustare un po’ questa postura possiate cambiare in maniera significativa la vostra vita.

Siamo veramente affascinati dal linguaggio del corpo e siamo particolarmente interessati al linguaggio corporeo di altre persone. Sapete, siamo incuriositi da — (Risate) un’interazione impacciata, o un sorriso, o uno sorriso sprezzante, o magari un goffo ammiccamento, o magari una cosa come una stretta di mano.

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Narratore: Qui arrivano al numero 10 e guardate questo fortunato poliziotto che stringe la mano al Presidente degli Stati Uniti. Oh, ed ecco che arriva il Primo Ministro del — ? No. (Risate) (Applausi) (Risate) (Applausi)

Amy Cuddy: Quindi una stretta di mano, o l’assenza di una stretta di mano possono farci parlare per settimane e settimane. Anche la BBC e il The New York Times. Quindi ovviamente quando pensiamo al comportamento non verbale, o linguaggio del corpo — ma noi scienziati sociali lo chiamiamo non verbale — è un linguaggio, quindi pensiamo alla comunicazione. Quando pensiamo alla comunicazione, pensiamo alle interazioni. Quindi cosa comunica il vostro linguaggio del corpo? Cosa vi comunica il mio?

E ci sono molte ragioni di credere che questo sia un corretto modo di vedere. Gli scienziati sociali hanno passato molto tempo ad osservare gli effetti del nostro linguaggio corporeo, o il linguaggio corporeo di altre persone, sui giudizi. Formuliamo giudizi affrettati e deduzioni dal linguaggio corporeo. E quei giudizi possono prevedere risultati veramente significativi come chi assumiamo o chi sosteniamo, a chi chiediamo di uscire. Per esempio, Nalini Ambady, un ricercatore alla Tufts University, mostra che quando le persone guardano un video senza audio di 30 secondi di reali interazioni tra paziente e medico, il loro giudizio sulla gentilezza del medico predice se il medico verrà citato in giudizio oppure no. Non ha molto a che vedere col fatto che il medico sia o meno incompetente, ma se quella persona ci piace e come interagisce. Ancora più radicale, Alex Todorov a Princeton ci ha mostrato che i giudizi sui visi dei candidati politici in solo un secondo predice il 70% del Senato americano e i risultati delle elezioni a governatore, perfino — andiamo sul digitale — gli emoticon utilizzati bene nelle negoziazioni online possono portare a raggiungere maggiori risultati da quella negoziazione. Se usati male, sono una cattiva idea. Giusto? Quindi, riguardo al linguaggio non verbale, pensiamo a come giudichiamo gli altri, come loro giudicano noi e quali sono i risultati. Eppure, abbiamo tendenza a dimenticare l’altro pubblico che viene influenzato dal linguaggio non verbale, ossia noi stessi.

 Siamo anche noi influenzati dal linguaggio non verbale, i nostri pensieri e i nostri sentimenti e la nostra fisiologia. Di quale linguaggio non verbale sto parlando? Sono una psicologa sociale. Studio i pregiudizi e insegno in una business school competitiva, era quindi inevitabile che mi interessassi alle dinamiche di potere. Mi sono particolarmente interessata alle espressioni non verbali di forza e dominio.

E quali sono le espressioni non verbali di forza e dominio? Beh, ecco quali sono. Nel regno animale, sono quelle relative all’espansione. Ci si rende più grandi, ci si allunga, si prende spazio, in sostanza ci si apre. Parliamo di apertura. E questo vale nel regno animale. Non è limitato ai primati. E gli esseri umani fanno la stessa cosa. (Risate) Lo fanno sia quando hanno una forza consolidato, sia quando si sentono forti in un quel momento. E questo è particolarmente interessante perché ci mostra veramente quanto antiche e universali siano queste espressioni di forza. Questa espressione, nota come orgoglio, è stata studiata da Jessica Tracy. Mostra come le persone nate con la vista e quelle non vedenti dalla nascita lo fanno quando vincono una competizione fisica. Quando attraversano la linea di arrivo e hanno vinto, non importa se non hanno mai visto nessuno farlo. Fanno così. Braccia in alto a forma di V, il mento leggermente rialzato. Cosa facciamo quando ci sentiamo impotenti? Facciamo esattamente l’opposto. Ci chiudiamo. Ci richiudiamo. Ci facciamo piccoli. Non vogliamo entrare in contatto con le persone attorno a noi. Quindi ancora una volta, sia gli animali che gli umani fanno la stessa cosa. E questo è quello che accade quando mettete insieme la forza e l’impotenza. Quello che abbiamo tendenza a fare quando parliamo di forza è essere complementari al linguaggio non verbale degli altri. Se qualcuno è veramente forte nei nostri confronti, tendiamo a farci piccoli. Non lo rispecchiamo. Facciamo l’opposto di quello che fa.

Osservo questo comportamento in classe, e cosa noto? Noto che gli studenti MBA mostrano veramente un’ampia serie di atteggiamenti di forza non verbali. Ci sono persone che sono delle caricature di individui alfa, che entrano in una stanza, si dirigono al centro prima che la lezioni cominci, come se volessero veramente occupare lo spazio. Quando si siedono, si allargano. Alzano la mano in questo modo. Ci sono altre persone che si ripiegano virtualmente quando entrano. Non appena entrano, lo vedete. Lo vedete nei loro visi e nei loro corpi, si siedono sulla sedia e si fanno piccoli e fanno così quando alzano la mano. Noto un paio di cose sull’argomento. Uno, non vi sorprenderò. Sembra sia collegato al sesso. Le donne hanno tendenza a fare così molto più degli uomini. Le donne si sentono cronicamente meno forti degli uomini, quindi non sorprende. Ma l’altra cosa che ho notato è che sembra che sia anche collegato al livello di coinvolgimento degli studenti e al livello di partecipazione. Ed è veramente importante in una classe di MBA, perché la partecipazione conta per metà del voto finale.

Le business school si confrontano con questa differenza di valutazione a seconda del sesso. Ci sono queste donne e questi uomini ugualmente qualificati e si ottengono poi queste differenze di valutazioni, e sembra che sia in parte attribuibile alla partecipazione. Ho cominciato a chiedermi — ok, ci sono qui queste persone che partecipano. È possibile spingere queste persone a fingere e portarle a partecipare di più?

Con la mia principale collaboratrice Dana Carney, a Berkeley, volevo veramente sapere se si poteva fingere pur di riuscire. Per esempio farlo per un po’ di tempo sperimentare un risultato comportamentale che vi faccia sembrare più forti? Sappiamo che il linguaggio non verbale determina cosa gli altri pensano e provano nei nostri confronti. Ci sono molte prove. Ma la nostra domanda era: il linguaggio non verbale guida il nostro modo di pensare e sentire noi stessi?

Ci sono prove che sia così. Quindi, per esempio, sorridiamo quando siamo felici, ma anche, quando siamo costretti a sorridere tenendo una penna tra i denti in questo modo, ci fa sentire più felici. Funziona in entrambi i sensi. Quando si tratta di forza, anche lì funziona in entrambi i sensi. Quando vi sentite forti, è più probabile che facciate così, ma è anche possibile che quando fingete di essere forti, è più probabile che vi sentiate effettivamente forti.

La seconda domanda era — sappiamo che le nostre menti cambiano i nostri corpi, ma è anche vero che i nostri corpi cambiano le nostre menti? E quando dico menti, nel caso dei forti, di cosa sto parlando? Sto parlando di pensieri e sentimenti e quelle cose fisiologiche che creano i nostri pensieri e i nostri sentimenti, e nel mio caso, sono gli ormoni. Guardo gli ormoni. Quindi, come sono le menti dei forti rispetto ai deboli? Non sorprende che le menti dei forti tendano ad essere più assertive, più sicure e più ottimiste. Sentono veramente di poter vincere anche in giochi di fortuna. Tendono anche ad essere capaci di pensare in modo più astratto. Ci sono tante differenze. Corrono più rischi. Ci sono tante differenze tra i forti e i deboli. Fisiologicamente ci sono differenze anche su due ormoni chiave: il testosterone, che è l’ormone dominante, e il cortisolo, che è l’ormone dello stress. Quello che scopriamo è che i maschi alfa più forti nelle gerarchie di primati hanno testosterone alto e cortisolo basso, e i leader forti ed efficaci hanno anche loro testosterone alto e cortisolo basso. Questo cosa significa? Pensando alla forza, la gente tende a pensare solo al testosterone, perché è collegato al dominio. Ma in realtà, la forza ha anche a che vedere con la reazione allo stress. Volete un leader con molta forza, dominante, con testosterone alto, ma molto reattivo allo stress? Probabilmente no, giusto? Volete una persona che sia forte, assertiva e dominante, ma non molto reattiva allo stress, una persona distesa.

Sappiamo che nelle gerarchie di primati, se un maschio alfa deve subentrare, se un individuo deve assumere improvvisamente il ruolo di maschio alfa, nel giro di pochi giorni, il testosterone di quell’individuo sale in maniera significativa e il suo cortisolo scende in maniera significativa. Abbiamo questa prova, che il corpo può dare forma alla mente, almeno a livello di viso, e anche che il cambio di ruolo influenza la mente. Cosa succede se assumete un ruolo? Cosa succede se lo fate in maniera discreta, come questa piccola manipolazione, questo piccolo intervento? “Per due minuti”, dite, “Voglio stare così” e vi farà sentire più forti.

Questo è quello che abbiamo fatto. Abbiamo deciso di portare le persone in laboratorio e condurre un piccolo esperimento e queste persone adottano per due minuti una postura di forza elevata o una postura di forza limitata e vi mostrerò cinque posture, anche se ne hanno assunte solo due. Eccone una. Un altro paio. Questa è stata soprannominato “Wonder Woman” dai media. Eccone un altro paio. Potete stare in piedi o seduti. E questi sono le posture di forza limitata. Vi ripiegate, vi fate piccoli. Questo è una postura di forza molto bassa. Quando vi toccate il collo, vi proteggete veramente. Questo è quello che accade. Arrivano, sputano in una provetta, per due minuti diciamo, “Devi fare questo o questo.” Non guardano le immagini delle posture. Non vogliamo che sappiano del concetto di forza. Vogliamo che abbiano la sensazione di forza, giusto? Per due minuti fanno questo. Poi chiediamo loro, “Quanto forte ti senti?” su una serie di elementi, poi diamo loro l’opportunità di scommettere, e poi teniamo un altro campione di saliva. Tutto qui. Questo è tutto l’esperimento.

Questo è quello che scopriamo. Nella tolleranza del rischio, ossia la scommessa, quello che scopriamo è che nella postura di forza elevata, l’86% di voi scommette. In postura di forza limitata solo il 60% ed è una differenza abbastanza significativa. Questi sono i risultati in termini di testosterone. Dalla situazione di partenza quando arrivano, nelle persone con molta forza aumenta di circa il 20% e nelle persone con poca forza si riduce di circa il 10%. Di nuovo, in due minuti si ottengono questi cambiamenti. Ecco i dati del cortisolo. Nelle persone con forza elevata subisce una riduzione del 25% circa e nelle persone con forza limitata aumenta di circa il 15%. Due minuti portano a questo cambio ormonale che configura il vostro cervello ad essere assertivo, fiducioso e a proprio agio, o molto reattivo allo stress e con la sensazione di essere spento. Abbiamo avuto tutti quella sensazione, giusto? Sembra che il linguaggio non verbale determini davvero il modo di pensare e sentire noi stessi, non sono solo gli altri, siamo anche noi. Il nostro corpo cambia la nostra mente.

La domanda successiva è se può una determinata postura di pochi minuti cambiare veramente la vostra vita. Questo avviene in laboratorio. È un piccolo esperimento di un paio di minuti. Dove si può veramente applicare tutto questo? E ce ne siamo preoccupati, ovviamente. Pensiamo veramente che quello che conta è dove vogliamo utilizzare queste situazioni di valutazione come situazioni di minaccia sociale. Dove venite valutati dai vostri amici? Gli adolescenti vengono valutati a tavola. Per qualcuno parlando ad un consiglio di classe. Potrebbe essere durante una presentazione o durante una conferenza come questa o durante un colloquio di lavoro. Abbiamo deciso che quello in cui la maggior parte della gente si poteva riconoscere perché l’ha vissuto fosse il colloquio di lavoro.

Abbiamo pubblicato queste scoperte e i media ci si sono buttati e dicono, ok, questo è quello che fate ad un colloquio di lavoro, giusto? (Risate) Siamo inorriditi e abbiamo detto, mio Dio, no, no, no non è quello che intendevamo. Per diverse ragioni, no, no, no, non lo fate. Non si tratta di voi che parlate ad altre persone. Si tratta di voi che parlate a voi stessi. Cosa fate prima di andare ad un colloquio di lavoro? Fate questo. Giusto? Siete seduti. Guardate il vostro iPhone — o il vostro Android, non voglio fare un torto a nessuno. Guardate i vostri appunti, vi rannicchiate, vi fate piccoli, quando in realtà quello che dovreste fare forse è questo, in bagno per esempio, giusto? Fate questo. Trovate due minuti. Questo è quello che vogliamo testare. Ok? Portiamo le persone in laboratorio e assumono posture di forza elevata o limitata, affrontano un colloquio di lavoro molto stressante. Dura 5 minuti. Vengono registrati. Vengono anche giudicati e i giudici sono formati per non dare riscontri non verbali, e sembrano così. Immaginate che questa sia la persona che vi intervista. Per cinque minuti, niente, ed è peggio che essere interrotti. La gente lo odia. È quello che Marianne LaFrance chiama “stare nelle sabbie mobili sociali.” Questo fa veramente schizzare il vostro cortisolo. Questo è il colloquio di lavoro che abbiamo fatto loro provare, perché volevamo veramente vedere cosa succedeva. Abbiamo poi questi programmatori che guardano i video, ce ne sono quattro. Sono all’oscuro delle ipotesi. Sono all’oscuro delle condizioni. Non hanno idea di chi assume quale postura, e finiscono per guardare questa serie di filmati, e dicono, “Oh, vogliamo assumere queste persone” — tutte le persone con posture di forza — “non vogliamo assumere queste persone. Valutiamo anche queste persone più positivamente in maniera complessiva.” Ma cosa li guida? Non si tratta del contenuto del discorso. Si tratta della presenza che portano al discorso. Anche noi, perché li valutiamo su tutte queste variabili collegandole alle competenze, come per esempio: Quanto è strutturato il discorso? È buono? Quali sono le sue competenze? Nessun effetto su queste cose. Questo è ciò che viene influenzato. Questo tipo di cose. In sostanza le persone portano se stesse. Portano se stesse. Portano le loro idee, ma come se stesse, senza residui. Questo è quello che guida l’effetto o che media l’effetto.

Quando racconto queste cose alla gente, che i nostri corpi cambiano la nostra mente e la nostra mente può cambiare il nostro comportamento e il nostro comportamento può cambiare i nostri risultati, mi dicono, “Mi sento falso”. Giusto? Così ho detto, sii falso finché ce la fai. No — non sono io. Non voglio arrivare lì e sentire di essere falso. Non voglio sentirmi un impostore. Non voglio arrivare lì e avere la sensazione di non doverci essere. E tutto questo mi suonava familiare, perché voglio raccontarvi una breve storia sull’essere un impostore e sentire di non dover essere qui.

A 19 anni sono stata coinvolta in un brutto incidente d’auto. Sono stata catapultata fuori dall’auto, sono rotolata diverse volte. Sono stata catapultata dall’auto. E mi sono risvegliata con un trauma cranico in riabilitazione, sono stata espulsa dall’università, e ho saputo che il mio Q.I. era precipitato di due deviazioni standard, il che è stato molto traumatico. Conoscevo il mio Q.I. perché ero stata valutata come intelligente, ed ero stata etichettata come bambina prodigio. Quindi lascio l’università, continuo a cercare di tornarci. Dicono, “Non finirai l’università. Puoi fare altre cose, ma per te non funzionerà.” Combattevo veramente con questa cosa e devo dire che farsi portare via un’identità, la vostra identità principale, che nel mio caso era l’essere intelligente, farsela portare via, non c’è niente che vi lasci più impotenti. Mi sentivo completamente impotente. Mi sforzavo di continuo, e sono stata fortunata, e mi sforzavo, e sono stata fortunata e mi sforzavo.

Finalmente mi sono laureata. Mi ci sono voluti 4 anni in più dei miei compagni, e ho convinto qualcuno, la mia consulente e angelo, Susan Fiske, di prendermi, e così sono finita a Princeton, ed avevo la sensazione di non dover essere lì. Sono un impostore. E la sera prima del discorso del primo anno — il discorso del primo anno a Princeton è un discorso di 20 minuti a 20 persone, tutto qui — ero così spaventata di farmi scoprire il giorno dopo che l’ho chiamata e le ho detto, “Rinuncio.” E lei, “Tu non rinunci, perché ho scommesso su di te, e tu rimani. Tu rimani e farai in questo modo. Farai finta. Farai qualunque discorso ti si chiederà di fare. Semplicemente lo farai ancora e ancora, anche se sei terrorizzata e paralizzata e avrai un’esperienza extra-corporea, finché non arriverai a quel momento in cui dirai, “Oh mio Dio, ce la sto facendo. Tipo, sono diventata questo. Ce la sto veramente facendo.” Ed è quello che ho fatto. Cinque anni di scuola di specializzazione, un po’ di anni, prima alla Northwestern, poi mi sono trasferita ad Harvard, sono passata ad Harvard, non ci penso più molto, ma per molto tempo ci ho pensato, “Non dovrei essere qui. Non dovrei essere qui.”

Alla fine del mio primo anno ad Harvard, una studentessa che non aveva mai parlato in classe per un semestre intero, a cui avevo detto, “Guarda, devi partecipare altrimenti fallirai”, è venuto nel mio ufficio. Non la conoscevo per niente. E mi ha detto — è arrivata completamente sconfitta e mi ha detto: “Non dovrei essere qui.” E quello è stato il mio momento. Perché sono successe due cose. Primo, mi sono resa conto, oh mio Dio, non mi sento più così. Capite? Non lo risento più, invece lei sì, e capisco quella sensazione. E secondo, lei deve essere qui! Può fare finta, può diventarlo. Quindi ho detto, “Sì che devi! Devi essere qui! E domani farai finta, ti farai forte e, sapete, farai –” (Applausi) (Applausi) “E entrerai in classe e farai il miglior commento in assoluto.” Capite? E ha fatto il miglior commento in assoluto, e la gente si è girata con quell’espressione, oh mio Dio, non avevo neanche notato che fosse seduta lì. (Risate)

È tornata da me mesi dopo e mi sono resa conto che non solo aveva finto fino a farcela, aveva finto fino a diventarlo. Era cambiata. Quindi voglio dirvi, non fingete fino a farcela. Fingete fino a diventarlo. Sapete? Non è — Fatelo abbastanza finché lo diventate e lo interiorizzate.

L’ultima cosa con cui vi voglio lasciare è questa. Minuscole modifiche possono portare a grandi cambiamenti. Quindi in due minuti. Due minuti, due minuti, due minuti. Prima che affrontiate la prossima situazione stressante di valutazione, per due minuti, provate a fare questo, nell’ascensore, in bagno, alla scrivania a porte chiuse. Questo è quello che volete fare. Configurate il vostro cervello per essere all’altezza della situazione. Fate aumentare il testosterone. Fate scendere il cortisolo. Non uscite da quella situazione con la sensazione di non aver mostrato chi siete. Uscite da quella situazione con la sensazione di aver detto chi siete e di aver mostrato chi siete.

Voglio prima chiedervi, di assumere la postura di forza, ma voglio anche chiedervi di condividere la scienza, perché è semplice. Non è una question di ego. (Risate) Mettetelo da parte. Condividetelo con la gente, perché le persone che possono usarlo di più sono quelle senza risorse e senza tecnologia, senza status e senza potere. Datelo a loro perché lo possano fare in privato. Hanno bisogno del loro corpo, della loro privacy per due minuti, e può cambiare in maniera significativa i risultati della loro vita. Grazie. (Applausi) (Applausi)

 

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REFERENCES:

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #3

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 3

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IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

Colloquio Psicologico: Come Agire Nel Primo Colloquio #3. - Immagine:© pressmaster - Fotolia.comPRENDERE APPUNTI

Molto spesso nel corso della terapia è necessario raccogliere informazioni su cui riflettere successivamente per valutare i progressi, segnare i punti su cui concentrarsi nelle sessioni seguenti e i problemi comparsi e per programmare una strategia di intervento.

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Queste informazioni possono essere necessarie, sia per lo psicologo, sia per l’ente che ha inviato il paziente, per semplificare l’opera di monitoraggio sulla terapia.

Esistono modi diversi di registrare le informazioni sui pazienti. Alcuni terapeuti fanno compilare un questionario prima dell’inizio della sessione. In questo modo si evita il rischio di interrompere il flusso della comunicazione ma non si approfondiscono tali informazioni nel diretto colloquio con il paziente. A contrario di ciò, coloro che ricostruiscono l’anamnesi parlando direttamente con il paziente possono indagare nello specifico le situazioni che sembrano più significative e possono avvalersi di tutte le informazioni trasmesse dal paziente attraverso il canale della comunicazione non verbale.

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In questo modo però è importante porre attenzione a limitare il tempo dell’anamnesi all’interno del colloquio per evitare di interrompere il dialogo sul problema e di togliere la guida della comunicazione al paziente. Per evitare in parte questi problemi è consigliabile occuparsi di queste informazioni verso la fine del colloquio, non in mezzo per non interrompere il flusso comunicativo e non all’inizio per concentrarsi subito sul problema che sta a cuore al paziente.

Attento a Come Parli! Il Nocebo Effect. - Immagine: © T. L. Furrer - Fotolia.com
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Molte informazioni emergono in modo naturale dal colloquio psicologico. Alcune di queste informazioni devono essere tenute a mente e registrate. Alcuni terapeuti registrano ogni colloquio in modo da poter riascoltare ogni parola detta e ciò può essere fatto solo dopo aver ricevuto il consenso informato da parte del paziente.

Altri prendono appunti nel corso del colloquio con carta e penna. In tal caso devono prestare attenzione a riferire al paziente cosa stanno facendo e a cosa serve, a non interrompere il flusso del discorso e, soprattutto a non apparire distratti, il che può realizzarsi solo riuscendo a mantenere il contatto oculare con il paziente.

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Molti, infine, raccolgono appunti e riordinano idee al termine del colloquio. Costoro hanno il vantaggio di potersi dedicare completamente al paziente senza alcuna forma di distrazione o rischio di interruzione della comunicazione ma possono perdere alcune informazioni non fissate bene nella memoria, spesso perché non ritenute sufficientemente significative. Riguardo questo problema Fine e Glasser ricordano che argomenti o spunti significativi anche se persi riappariranno più volte nel corso della terapia.

COME RICONOSCERE SEGNALI DI ALLERTA

 

“Il guerriero della luce presta attenzione alle piccole cose, perché esse possono risultare ostacoli difficili.

[…]

<Il diavolo si nasconde nei dettagli>, dice un vecchio proverbio della Tradizione.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.69]

 

Per poter raggiungere gli scopi del primo colloquio è necessario possedere l’abilità o la dote di riconoscere segnali di allerta all’interno della comunicazione del paziente. Per fare ciò è necessaria una grande capacità di ascolto e, per questo motivo, l’ascolto è il cuore della terapia. Questi segnali possono essere argomenti, parole, associazioni, gesti, pensieri, emozioni manifestati dal paziente che accendono la luce della nostra attenzione richiedendo una risposta adeguata. L’elenco dei potenziali segnali di allarme è infinito e solo minimamente scoperto dalle ricerche psicologiche che si sono susseguite nel corso dei decenni, molto spesso lo stesso segnale d’allerta può valere per un paziente e non per un altro in relazione al contesto problematico che lo circonda.

Con questi presupposti, caratterizzati da poche certezze e molte ipotesi, diventa piuttosto arduo poter dire come riconoscere questi segnali o poter scrivere un “Manuale di istruzioni per il riconoscimento dei segnali di allerta”. Si possono solo dare suggerimenti sulle condizioni che possono condurre lo psicologo a migliorare questa sua capacità. I fattori da cui questa dipende sono fondamentalmente tre: la sensibilità (la dote di cogliere attraverso un rapporto empatico la rilevanza di certi segnali per il paziente), l’esperienza e la cultura (poiché come è già stato detto “il colloquio è figlio della cultura psicologica del terapeuta”).

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Queste sono le tre caratteristiche su cui lo psicologo può intervenire direttamente per aumentare la sua capacità di riconoscere questi segnali e di intervenire con tempestività.

Per chiarire ulteriormente il concetto di “segnali di allerta” si possono qui riportare alcuni esempi tratti da Fine e Glasser [1996]: 

–    Il paziente sembra presentare sé stesso secondo un copione preparato: il psicologo deve cercare di interrompere questo schema portandolo lontano dalla storia ripetuta a memoria.

–    La presentazione appare come un dramma di cui il paziente è il protagonista: il psicologo deve far capire che le persone, nel colloquio psicologico, vengono trattate come sono veramente e cercare di non diventare spettatore di un racconto. È possibile fare ciò se lo psicologo riesce a far concentrare il paziente più sui suoi sentimenti che sui suoi comportamenti.

–    Il paziente mantiene un comportamento infantile: lo psicologo può chiedere se le esperienze narrate lo fanno sentire come un bambino.

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–    Il paziente chiede cosa dovrebbe fare: il terapeuta deve rimanere sul vago, il suo compito è dare informazioni e non consigli, deve fare in modo che il paziente si assuma le proprie responsabilità senza affidarsi ad una figura autoritaria esterna.

–    Il paziente presenta contraddizioni tra ciò che dice e ciò che rivela attraverso la comunicazione non verbale: lo psicologo deve porre in rilievo questa differenza e discuterne con il paziente.

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–    Il paziente attribuisce ad altri la responsabilità della sua sofferenza: Fine e Glasser [1996] suggeriscono in proposito di non discutere di questo problema nel primo colloquio ma di ricordarsene in momenti successivi della terapia.

–    Il paziente pensa che il fato, il destino o Dio siano i principali responsabili degli eventi della sua vita: nel primo colloquio il psicologo cerca di raccogliere il maggior numero di informazioni sulle conclusioni tratte dal paziente su molti aspetti della sua vita. Successivamente lo aiuta a capire come ha fatto a raggiungere tali conclusioni e a ristrutturare il suo pensiero per rivalutarle.

–    Il paziente crede che nella sua vita nulla valga più la pena di essere vissuto: lo psicologo non deve cercare di mostrare il contrario discutendo sulla bellezza della vita perché vincerebbe il paziente. Nel primo colloquio è meglio che ascolti e riconosca la profondità delle sensazioni dell’altro. Successivamente si può agire in diversi modi indiretti, ad esempio chiedendo al paziente di elencare le sue doti e le sue esperienza positive.

–    Il paziente sta cercando di giustificare le sue azioni e i suoi sentimenti attraverso la razionalizzazione: anche questo non è un punto che si possa risolvere portando argomenti contrari. È necessario ascoltare e accettare il paziente senza intervenire prima di essersi assicurati che il paziente sia in grado di affrontare la questione e cioè prima di aver instaurato un saldo rapporto di fiducia e stabilito un contratto.

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–    Il paziente mostra sensi di rabbia inespressa e disperazione: in questi casi il psicologo non deve né minimizzare, né esagerare le sensazioni e fare attenzione a come il paziente le presenta, deve ascoltare e permettere che il paziente esprima con chiarezza ciò che sta cercando di comunicare, deve evitare di usare un linguaggio tecnicistico.

–    Il paziente riferisce di aver adottato dei meccanismi particolari per poter affrontare la sua situazione: è importante riconoscerlo come merito del paziente e incoraggiarlo a provare nuove possibili soluzioni.

–    Il paziente mostra di conoscere la materia perché ha già affrontato una terapia: la soluzione migliore è quella di rispondere cercando di riformulare il gergo tecnicistico del paziente in linguaggio comune.

–    Emerge un conflitto tra psicologo e paziente: se dovesse capitare è importante che lo psicologo cerchi di capire il motivo, provi a parlare con un supervisore o un collega e, se la situazione non accenna a migliorare, pensi seriamente ad un invio.

LEGGI: 

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA – LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – EMPATIA – IN TERAPIA –  ALLEANZA TERAPEUTICA – COLLOQUIO PSICOLOGICO

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La Migliore Offerta: Mistificazione versus Reale – Recensione

 

Recensione del Film:

La Migliore Offerta

Giuseppe Tornatore

(2013)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

 

La-migliore-offerta_di Tornatore- Gennaio 2103 - Locandina

Il film sembra propendere verso  la fuga dalla realtà sociale e dalle persone in quanto “minacciose”ma ciò che, a mio avviso, è degno di rilevanza è il potere relazionale esercitato dal contesto.

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Trama: Un banditore d’asta, veterano del mestiere e super-esperto d’arte e di antiquariato, sa il fatto suo come nessuno: a parte l’assoluta professionalità, organizza per conto suo piccoli grandi intrighi con un amico dalla lunga barba candida che partecipa alle aste per suo conto e interesse, e se da una parte fa ottimi affari, non esattamente leciti, dall’altra si è organizzato in un caveau super-segreto un’inestimabile collezione soprattutto di ritratti femminili “d’autore”.

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Sono le tue donne” – dice infatti l’amico Donald Sutherland  al banditore d’asta.
Perché di donne vere il nostro banditore Virgil non ne ha o preferisce non averne. Vagamente misantropo, preferisce cenare solo al solito ristorante anche la sera del suo presunto compleanno (ma i camerieri hanno anche sbagliato data). Solitario, brusco e refrattario all’amore, ai sentimenti, anche al sesso, è invecchiato accumulando soldi, opere d’arte e fama su scala mondiale per le sue impeccabili perizie su quadri e oggetti d’antiquariato. Nulla sembra poter cambiare la sua situazione.

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Happy-Family - Gabriele Salvatores (2010) - Recensione
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Il destino ha però in serbo la sorpresa della sua vita. Gli telefona un personaggio misterioso, la giovane ereditiera Claire, che gli rivela che i genitori le hanno lasciato una villa enorme, bellissima ma diroccata e hanno stabilito l’obbligo che a fare la perizia all’intera illustre dimora sia proprio lui, Virgil Oldman. Lui ne è lusingato e accetta ma l’ereditiera si rivela un personaggio impossibile, diserta gli appuntamenti adducendo mille scuse e alla fine gli rivela di essere affetta da agorafobia, per cui vive nella villa da reclusa e non vuol essere vista da nessuno, pur essendo bellissima.   

 

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Questo film, al di là dell’effetto sorpresa del cambio di scenario del regista il quale, nei suoi precedenti film (ex: Malena e Baarìa), sembrava detenere  il “mandato” di rappresentare la realtà siciliana,  appare avvolto in una atmosfera per certi versi affascinante (non a caso forse l’arte ne è protagonista indiscussa) e, per altri, misteriosa (vedi l’ incontro con Claire).

Questo connubio ha, a mio avviso, una matrice comune: la mistificazione. Infatti Virgil ha creato un mondo apparentemente perfetto dal punto di vista estetico, depauperato dagli affetti e dalle emozioni, retto da un codice deontologico rigido e apparentemente rispettato (in realtà lui è d’accordo con un amico al fine di prendere i ritratti di donne durante le aste), privo di qualsivoglia contatto umano con “il genere femminile reale”.

Claire (insieme ad altri) ha creato una storia e una identità non corrispondente al vero, non si mostra al mondo e trascorre la sua vita nascosta in casa in quanto “spaventata dall’esterno”. L’incontro di queste due realtà (potremo anche dire sintomi), nonostante la mistificazione di fondo (Claire finge di essere quella che non è ai danni di Virgil e Virgil finge di essere leale come battitore di aste a discapito dei potenziali acquirenti di quadri) rappresenta per Virgil l’occasione di avere un contatto reale con un altro significativo femminile che fungerà da contatto con sè stesso ma che, d’altro canto, costituirà la sua condanna.

Paradossalmente il film sembra propendere verso  la fuga dalla realtà sociale e dalle persone in quanto “minacciose” (Virgil finirà in un casa di cura perché avrà problemi dopo la scoperta della truffa di Claire e di quelli che lui credeva amici) ma ciò che, a mio avviso, è degno di rilevanza è il potere relazionale esercitato dal contesto, mistificatorio in questo caso (Virgil apparente misantropo e leale negli affari e Claire apparente agorafobica e “innamorata” di Virgil)  che ha sorpreso, affascinato, angosciato lo spettatore lasciando quesiti in merito come: “meglio un contesto mistificatorio ma matrice di emozioni (la storia tra Virgil e Claire, occasione per il primo per sperimentare una reale passione) o un contesto reale ma inanimato (Virgil e il suo harem di donne)?”

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CINEMA – ANSIA –  RAPPORTI INTERPERSONALI 

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Effetti a Lungo Termine dello Stress sulla Salute Mentale

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Stress: Effetti a Lungo Termine. Ma quali sono gli effetti dello stress quotidiano e soprattutto del nostro modo di reagirvi, sulla nostra salute mentale?

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Piccoli disguidi quotidiani e leggere avversità si oppongono spesso allo scorrere tranquillo delle nostre giornate: dalle ramanzine in ufficio, agli scontri con figli ribelli o ai battibecchi col partner, spesso si reagisce negativamente a questi episodi di stress. Ma quali sono gli effetti dello stress quotidiano e soprattutto del nostro modo di reagirvi, sulla nostra salute mentale?

In una recente ricerca, pubblicata sulla rivista Psychological Science, si è cercato di rispondere a una particolare domanda: le esperienze emotive negative di ogni giorno si accumulano fino a raggiungere quella goccia che farà poi traboccare il vaso o, al contrario, ci rendono più forti quasi fossero un vaccino contro le future angosce?

Psicoeducazione emotiva- quando la paura diventa uno stress a lungo termine. - Immagine:© lassedesignen - Fotolia.com
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La ricerca in questione ci suggerisce che in realtà le nostre risposte emotive agli stress della vita quotidiana possono predire la nostra salute mentale a lungo termine.

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Utilizzando i dati di due indagini a livello nazionale, i ricercatori hanno esaminato la relazione tra le emozioni negative quotidiane e il quadro di salute mentale dieci anni dopo.

I dati sono stati ottenuti da un campione di 711 partecipanti, uomini e donne, di età compresa tra i 25 e i 74 anni. Entrambi gli studi nazionali analizzati sono di tipo longitudinale: il Midlife Development  degli Stati Uniti (MIDUS) e lo Studio Nazionale delle esperienze quotidiane (NSDE).

I ricercatori, in particolare, hanno studiato le risposte emotive dei partecipanti a periodi densi di  stressors  quotidiani (come ad esempio un problema sul posto di lavoro o a casa) e il loro effetto sulla salute mentale a distanza di dieci anni.

Dall’analisi degli studi è emerso che il livello generale di emozioni negative provate in passato dai partecipanti risulta positivamente correlato ad un futuro disagio psicologico degli stessi, sia autoriferito che diagnosticato da professionisti. In particolare i partecipanti, dieci anni dopo un periodo intenso di stress, sperimentano depressioni e problemi legati all’ansia.

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 Emerge così, a distanza di anni, un vissuto negativo psicologico comune ai soggetti sottoposti a stress anni addietro: la maggior parte di essi riferisce infatti di sentirsi inutile, senza speranza e in uno stato continuo di agitazione.

I ricercatori sostengono che un punto di forza dello studio è stata la possibilità di analizzare dati raccolti su di un vasto campione, composto da partecipanti di ogni età.

Secondo i ricercatori, questi risultati mostrano che gli effetti sulla salute mentale di un individuo non vanno ricollegati ai soli eventi importanti di vita, anche l’impatto delle esperienze emotive apparentemente minori ha infatti i suoi effetti negativi.

Lo studio dunque, nonostante i suoi limiti, suggerisce comunque che la natura cronica di queste emozioni negative in risposta a fattori di stress quotidiano potrebbe avere un suo peso sulla salute mentale a lungo termine degli individui.

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STRESS – PSICOLOGIA POSITIVA – ANSIA – DEPRESSIONE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E13 Sophie

 

In Treatment – Psicoterapia in TV

TREDICESIMA PUNTATA

SOPHIE

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In Treatment - Psicoterapia in TV. S01E13 SophieIn Treatment S01E13. Dopo le tempeste di Laura e Alex l’incontro con Sophie è un sollievo, un tempo lento dopo i drammatici scontri del lunedì e del martedì

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Tuttavia, anche questa seduta inizia con strani venti pre-terapeutici, in cui ancora una volta i confini subiscono violazioni più o meno gravi. È vero che tra Paul e Sophie non c’è ancora terapia. È una consulenza tecnica. Le violazioni, in questo caso, sembrano essere gestite con mano abbastanza sicura da Paul. Egli agisce in una zona grigia e riesce a incoraggiare Sophie a intraprendere un percorso terapeutico. Inizialmente c’è una schermaglia sul numero di incontri previsti (solo tre? O di più?) e Paul è in grado di far sentire Sophie bisognosa di altri incontri.

In Treatment - La versione Italiana
Articolo Consigliato: In Treatment – La Versione Italiana

Poi c’è uno scambio di posizioni, con Paul che si siede sul divano dei pazienti e lascia a Sophie la poltrona del terapeuta. Rassicurata, Sophie si lascia andare e racconta tre episodi di abbandono e separazione. Dapprima tra il padre e la madre (Sophie racconta la mattina in cui i genitori decisero di divorziare) poi tra il padre e la sua seconda moglie e infine tra il suo allenatore e sua moglie. In tutti i casi Sophie si assume la colpa. Ma non è finita. Segue un quarto episodio, in cui Sophie racconta di un rapporto sessuale con il suo allenatore. Rapporto vissuto in stato dissociativo, come se stesse guardando se stessa in TV. Quest’ultimo episodio illumina la tendenza di Sophie ad assumersi la colpa per le separazioni altrui e anche lo strano incidente per il quale Sophie è venuta da Paul a chiedere un parere. Non proprio un consapevole tentativo di suicidio, e però quasi un confuso modo di punirsi e farsi del male.

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 Il fenomeno dell’assunzione di colpa in persone abusate sessualmente è stato dimostrato da tempo (Mayers, Heller, Heller, 2003). Cognitivamente questi auto-rimproveri in persone abusate si possono descrivere come un tentativo di dare un senso a un episodio in sé inspiegabile, assumendosene la colpa. Nei bambini può diventare una strategia di sopravvivenza e di adattamento alla convivenza con la figura abusante, che al tempo stesso è anche la figura che fornisce accudimento (Summitt, 1983). Altrettanto provato è lo stato dissociativo legato a queste esperienze traumatiche (Kessler e Bieschke, 1999), stato dissociativo che spiega l’incidente di Sophie.

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PSICOANALISI – SESSUALITA’ – TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Monografia ACT #6 – Valori: so cosa per me è importante?

Monografia ACT – parte 6 –

I Valori: So Cosa Per Me E’ Importante?

PARTE 6 di 7

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5

       

Monografia ACT #6: I Valori: So cosa per me è importante?. - Immagine: © Sergey-Nivens - Fotolia.comMonografia ACT #6 – Un processo fondamentale dell’ Acceptance and Commitment Therapy è ciò che viene chiamata la Mancanza di contatto con i propri valori.

LEGGI LA MONOGRAFIA ACT – ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

In breve, con tale mancanza si intende l’insieme di difficoltà legate all’individuazione di ciò che per il singolo individuo è importante e rende(rebbe) la propria vita significativa e ricca. Si può manifestare in varie forme e modalità, ma il punto centrale che si può osservare è la confusione e la vacuità degli scopi personali e delle mete individuali. In sostanza, le persone che presentano difficoltà nel processo Mancanza di chiarezza/contatto con i propri valori hanno difficoltà a rispondere alla domanda: “cosa voglio dalla vita?” oppure “cosa è importante per me?” oppure “quali sono i miei valori?”.

Monografia ACT #1 - Introduzione. - Immagine: © Sergey Nivens - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Monografia ACT #1 – Introduzione

A questo punto è necessaria una piccola specificazione: con il termine valori nell’ ACT si intende qualcosa di diverso dagli obiettivi personali, dalle aspirazioni concrete e dalla morale. Potremmo definire i valori come “long-term desired qualities of life” (qualità della vita desiderate a lungo termine; Hayes et al., 2006). I valori sono ciò che motiva le persone al cambiamento, ad affrontare momenti difficili. Potremmo pensare “Questo è per me importante, e lo porterò avanti nonostante le emozioni difficili che sto provando”.

Le scelte difficili della nostra vita, spesso vengono fatte proprio facendoci guidare dai nostri valori.

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Chi non si muove secondo i propri valori, si trova spesso a preferire una gratificazione a breve termine che, seppure dannosa, ci dà la illusoria impressione di “gestire” le emozioni difficili.  Altra caratteristica dei valori è che vengono scelti liberamente dal singolo individuo.

Utilizzando le parole di Steven Hayes: “Values are chosen qualities of purposive action that can never be obtained as an object but can be instantiated moment by moment. ACT uses a variety of exercises to help a client choose life directions in various domains (e.g., family, career, spirituality) while undermining verbal processes that might lead to choices based on avoidance, social compliance, or fusion (e.g., ‘‘I should value X ’’ or ‘‘A good person would value Y ’’ or ‘‘My mother wants me to value Z ’’). In ACT, acceptance, defusion, being present, and so on are not ends in themselves; rather they clear the path for a more vital, values consistent life” (Hayes et al., 2006, p.9)

Spesso i valori sono mete finali, che guidano l’azione impegnata nella vita. Possiamo avvicinarci ai nostri valori tramite insiemi di obiettivi, concreti, fattibili (workable, una delle parole chiave dell’ ACT) e praticabili.

Facciamo alcuni esempi. Ad un valore come quello di “prendersi cura della propria relazione”, un individuo potrebbe scegliere diversi obiettivi come “ascoltare il proprio partner”, “essere sincero con lui/lei” etc. Se una persona ha come valore “mangiare sano” potrebbe perseguire azioni e darsi obiettivi legati alla dieta, al come farla, a cosa mangiare. Se il valore è “prendersi cura del proprio fisico”, potrebbe sviluppare obiettivi come “andare in palestra”, “camminare” etc.

I valori spesso entrano in terapia. Alcune persone potrebbero richiedere una psicoterapia per un problema d’ansia. Per questa persona, “agire più coraggiosamente e fare esperienza” potrebbe essere un valore. Un obiettivo che ci si potrebbe porre nel percorso con questo paziente potrebbe essere quello di “lasciare spazio all’ansia e gestirla in modo più utile”.

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Monografia ACT. - Immagine: © electriceye - Fotolia.com
Leggi la Monografia ACT

Nella riflessione con i pazienti sui valori, dobbiamo stare attenti a una piccola/grande trappola: Gli obiettivi da uomo morto (dead person’s goal). Sono quelle aspettative e obiettivi personali (e spesso di terapia) che focalizzano l’attenzione su ciò che non si vuole ottenere, che non si vuole provare, che vogliamo che non accada. Insomma, quando i pazienti ci portano obiettivi formulati al negativo, come ad esempio, “non voglio avere l’ansia, “non voglio più sentirmi triste”, “voglio che mia moglie non mi lasci”).

Come possiamo osservare la mancanza di contatto con i propri valori? 

Secondo il modello dell’ ACT, potremmo trovarci di fronte a diverse situazioni. La prima, a mio personale parere la più frequente, si manifesta con una sensazione di forte confusione, rispetto a ciò che la persona ritiene importante e significativo per sé, che si può concretizzare in frasi come : “non so proprio cosa voglio, cosa mi importa in questo momento” . Una seconda situazione si trova nel momento in cui l’individuo manifesta una completa (o quasi) assenza apparente di aree della vita che considera importanti, di valore appunto (ad es. lavoro, prendersi cura di sé, relazioni, famiglia etc…). Una frase tipica può risuonare con un “per me nulla è importante, ormai”.

Esistono anche situazioni opposte, in cui tutte o quasi tutte le aree di valore sono considerate di grande importanza per l’individuo ma allo stesso tempo non c’è un investimento coerente con il valore.  Qui ci possiamo trovare di fronte a persone bloccate da un ideale di perfezionismo eccessivo che causa l’effetto opposto dell’impegno secondo i propri valori (“tanto non sono mai contento, per cui non mi ci metto neanche”).

Secondo l’ ACT, un lavoro importante da fare con questi pazienti è quello di riflettere insieme sui valori, sugli obiettivi per raggiungerli e chiarire la fattibilità e l’utilità di impegnarsi per i propri valori, mettendo in conto e lasciando spazio alle difficoltà, che nel breve termine si potrebbero incontrare.

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Metafore molto utilizzate nell’ ACT per discutere insieme al paziente dei propri valori e obiettivi sono quella della bussola, del faro e del viaggio.

Essendo una forma di psicoterapia che trae molte riflessioni dalla componente esperienziale/immaginativa, il consiglio è di provare prima su di sé a riflettere sui propri valori e sulle proprie azioni impegnate, chiedendoci, ad esempio: “Cosa per me è importante?”

 

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MONOGRAFIA ACT – SCOPI ESISTENZIALI –  IN TERAPIA – ALLEANZA TERAPEUTICA 

Conversazioni Telefoniche: Effetti su Attenzione e Memoria?

FLASH NEWS

 

 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Ascoltare le Conversazioni al cellulare di altri ha effetti sull’attenzione e la memoria di chi ascolta.

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Attualmente, il cellulare è uno strumento dal quale sempre più persone, soprattutto adolescenti e giovani adulti, diventano dipendenti, tanto da manifestare sentimenti di ansia quando non possono utilizzarlo o da dichiarare di non poter vivere senza di esso.

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Memoria: I post su Facebook vincono sui Libri!. - Immagine: © venimo
Articolo Consigliato: Memoria: I post su Facebook vincono sui Libri!

 

Il cellulare fa ormai parte della nostra vita quotidiana e il 76% della popolazione dichiara di tenerlo acceso sempre o per la maggior parte del tempo.

Molte ricerche hanno messo in evidenza come l’uso del cellulare possa avere diversi effetti in chi lo utilizza di natura soprattutto cognitiva e attentiva ed essi risultano più evidenti in chi utilizza il cellulare mentre sta guidando o sta attraversando la strada.

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In alcuni casi, invece, soprattutto in luoghi pubblici, può capitare di essere casualmente spettatori di conversazioni al cellulare in cui sono coinvolti altri. E allora una domanda spontanea potrebbe essere: Possono esserci degli effetti anche in chi ascolta involontariamente queste conversazioni al cellulare? E gli effetti sono differenti rispetto a quando si assiste a delle conversazioni faccia a faccia?

Per rispondere a questi quesiti, Galvàn e colleghi hanno condotto uno studio su 149 studenti di Psicologia dell’Università di San Diego. Ai soggetti è stato chiesto di risolvere degli anagrammi prima semplici e poi più complessi e, nello stesso tempo, senza che essi fossero a conoscenza dello scopo della ricerca, a seconda delle condizioni cui erano stati assegnati, hanno assistito ad una conversazione tra due complici oppure ad una conversazione al cellulare. Dopo qualche minuto dal termine della conversazione, ai partecipanti è stato chiesto di completare un test di memoria al pc in cui era necessario discriminare le parole che erano state pronunciate nella conversazione alla quale avevano assistito.

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Dai risultati è emerso che, rispetto a coloro che hanno assistito alla conversazione faccia a faccia, i soggetti che hanno ascoltato la conversazione al cellulare sono stati più distratti durante l’esecuzione del compito degli anagrammi e più attenti alla conversazione che stava avvenendo nonostante non fosse stato loro chiesto di prestarvi attenzione. Infatti, questi ultimi hanno riportato una performance migliore nello svolgimento del compito di riconoscimento al pc rispetto agli altri.   

Successive ricerche potrebbero indagare sugli effetti che le conversazioni al cellulare hanno sulla memoria e sull’attenzione degli spettatori, variando il volume della voce e il contenuto della conversazione.

LEGGI: 

 TELEFONI CELLULARI – SMARTPHONE – MOBILE –  MEMORIA – ATTENZIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA

In Treatment: la Versione Italiana

 

In Treatment - La versione Italiana
Sergio Castellitto interpreta lo psicoanalista Giovanni Mari nell’adattamento italiano della serie televisiva In Treatment.

Da alcuni giorni va in onda la versione italiana di In Treament, la serie televisiva israeliana dedicata all’attività di uno psicoanalista e al suo rapporto con i pazienti. La fama mondiale di questa serie è arrivata grazie alla versione americana, interpretata da Gabriel Byrne che recita nei panni dell’analista Paul Weston.

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT, PSICOTERAPIA IN TV

Eppure non bisogna dimenticare che la versione originale è israeliana e si chiama Be Tipul” (ovvero “in terapia” in ebraico) mentre il terapeuta si chiama Reuven Dagan ed è interpretato dall’attore Assi Dayan. Su questo format sono state costruite le versioni degli altri paesi: Romania, Serbia, Olanda, Argentina, Stati Uniti e molti altri paesi.

Attenzione: la versione israeliana esporta non solo il format, ma l’intera sceneggiatura quasi parola per parola. Guardando le varie versioni nei diversi paesi i dialoghi sono sempre pressoché identici, con adattamenti davvero minori. Per esempio, il paziente del martedì della prima serie, il pilota militare attanagliato da sensi di colpa per avere lanciato una bomba su una scuola uccidendo dei bambini, sia nella versione americana che in quella israeliana ha cercato “il migliore” psicoanalista per fare terapia.

ARTICOLI SU: PSICOANALISI

Ma nella serie americana il paziente raccoglie le informazioni da fonti impersonali e professionali: curriculum, internet, altri professionisti. Nella serie israeliana ha ricevuto l’informazione attraverso ex pazienti e parenti del terapeuta. Potrebbe trattarsi di una differenza culturale tra informazione impersonale e razionale “nordica” e informazione relazionale ed emotiva “mediterranea”? Secondo Gal Szekely, psicoterapeuta e conferenziere appassionato di “In treatment” è possibile.

Nella serie italiana il terapeuta è Sergio Castellitto. Ho potuto assistere alla prima puntata, e la sceneggiatura segue fedelmente l’originale israeliano. La scena si apre con la paziente del lunedì (Sara, nella serie italiana) piangente che racconta 

!!! ATTENZIONE SPOILER !!! VENGONO RIVELATE PARTI DELLA TRAMA

 

Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.

la crisi della sua relazione per poi dichiarare il suo amore al terapeuta (Giovanni Mari, nella serie italiana). Identica la sceneggiatura, mentre ci sono delle modifiche di ambientazione: lo studio americano e quello italiano sono ingombri di mobili e di modellini di barche; spoglio e spartano invece lo studio del terapeuta israeliano.

Gli attori però sulla stessa sceneggiatura costruiscono personaggi differenti.

Giovanni Mari, almeno in questa prima puntata, sembra un tipo più sicuro di sé e più sereno del plumbeo Paul Weston. Gli sfuggono espressioni ironiche e distaccate mentre ascolta i racconti istrionici di Sara.

Sara, a sua volta, non sembra la belva vorace che è Laura e che sovrasta Paul fin dall’inizio. L’americana Laura, ora me ne rendo conto meglio, è davvero una persona molto dura, molto “working class”, se posso dirlo. Schiaccia con la sua sensualità violenta e feroce il funereo e depresso Paul fin dall’inizio.

L’italiana Sara è altrettanto popolare (usa un linguaggio infarcito di “cazzo!”) ma appare priva della brutalità che a tratti esprime Laura. L’effetto finale è, per ora, più realistico. In che senso? Nel senso che Sara davvero sembra una paziente fragile, come molti pazienti. Una paziente che ha idealizzato il terapeuta ed esprime, un po’ goffamente, desiderio sessuale. Un vero transfert? E Giovanni Mari, almeno per ora, non sembra eccessivamente scosso dalle avance della paziente.

ARTICOLI SU: SESSUALITA’

 

Tutto il contrario nella versione americana: Laura sembra una che ha deciso di portarsi a letto l’inerme Paul e che, quando vorrà, lo farà. Paul è scosso, forse addirittura terrorizzato fin dall’inizio. Non ha il controllo della terapia ed è tentatissimo, nel suo grigiore, dalla sensualità di Laura.

Vero è che, al termine della puntata, anche Giovanni Mari inizia a slittare pericolosamente verso luoghi prossimi alla violazione delle regole. La violazione più impressionante? Cede di schianto e troppo facilmente alla richiesta di Sara di passare al tu.

D’altro canto questo è lo spirito di In Treatment, che sia israeliano, americano o italiano: un terapeuta fragile, schiacciato da ondate di relazioni terapeutiche che lo sommergono.

 

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 LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT, PSICOTERAPIA IN TV

 

PER APPROFONDIRE:

 

Psiche & Legge #7: Alienazione Mentale

 

PSICHE E LEGGE #7

Rubrica a cura dell’ Avv. Selene Pascasi

 

    Alienazione Mentale:

Dalla Soggezione del Familiare alla Violenza Psicologica.

 

Psiche & Legge #7: La Alienazione Menta. - Immagine: © Steven Jamroofer - Fotolia.comPsiche & Legge #7: Alienazione Mentale: Nelle precedenti rubriche mi sono soffermata sul reo. Con l’appuntamento odierno l’attenzione è rivolta alla vittima.

LEGGI GLI ARTICOLI DELLA RUBRICA: PSICHE & LEGGE 

Nelle precedenti rubriche, mi sono soffermata sulle caratteristiche del reo, esaminandone le tematiche inerenti la normalità psichica, la pericolosità sociale, e, persino, il corredo genetico, ove correlato alla vulnerabilità caratteriale, quale fattore scatenante l’atto criminale.

Con l’appuntamento odierno, si cambia rotta. L’attenzione, oggi, sarà rivolta alla vittima.

Ma non ad una vittima qualsiasi. Tratterò, difatti, della vittima della cosiddetta violenza psicologica. Il pensiero, inevitabilmente, corre ai ben noti fenomeni dello stalking, purtroppo sempre più frequenti, sui quali, tuttavia, si tornerà più avanti. La questione che mi preme affrontare in queste righe, è quella dell’aggressione mentale.

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Psiche & Legge #6 - La Mente Esplode. Parola alle Neuroscienze. - Immagine: © konradbak - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Psiche & Legge #6 – La Mente Esplode. Parola alle Neuroscienze.

Tema che richiama, senza ombra di dubbio, il fenomeno del plagio. È noto, che il reato di plagio è stato dichiarato incostituzionale molti anni fa (Corte Costituzionale, n. 96 /81), per via delle difficoltà pratiche connesse alla prova del delitto. Si pensi che, ai giudici – chiamati ad emettere una sentenza di condanna, o di assoluzione, ai sensi dell’abrogato art. 603 c.p. – veniva chiesto, in pratica, di affermare (al di là di ogni ragionevole dubbio, e dati scientifici alla mano), se l’imputato avesse effettivamente plasmato la vittima, inducendola a porre in essere un determinato comportamento, da questi preordinato. Ma come potevano tracciarsi, con certezza, i confini tra azioni influenzate da altri (pur sempre volute dal soggetto agente) e azioni “comandate” dal reo (e, dunque, prive di qualsivoglia partecipazione psicologica da parte della vittima)?

LEGGI GLI ARTICOLI SU: VIOLENZA

Queste le perplessità dei giudici, che testualmente affermarono: “è estremamente arduo, se non impossibile, individuare sul piano pratico” e distinguere “l’attività psichica di persuasione da quella anch’essa psichica di suggestione. Non vi sono criteri sicuri per separare e qualificare l’una e l’altra attività e per accertare l’esatto confine fra esse”. Non poteva più accogliersi, pertanto, un sistema normativo che delineava una figura, come quella del plagio – dal latino plagium e dal greco plágion, sotterfugio – appositamente tesa a sanzionare penalmente, una sorta di schiavitù mentale della vittima al suo “aguzzino psichico”, alla stregua di una soggiogazione meramente fisica (tanto che il reato in parola, era collocato, si badi, tra i delitti contro la personalità individuale, al pari della riduzione in schiavitù).

Non doveva dimenticarsi, in sostanza, secondo la Corte Costituzionale, che l’uomo è per natura influenzabile, e che non sempre può individuarsi una linea netta tra la condotta della vittima, frutto di una lecita ed umana suggestione, e quella conseguente esclusivamente all’altrui premeditata manipolazione. Ebbene, venendo a mancare una norma specifica tesa a punire i descritti comportamenti, forte era l’esigenza di offrire adeguata risposta punitiva ai fenomeni prima ricondotti nell’alveo del plagio. L’aver cancellato il reato di plagio dal Codice Penale, in effetti, se da un lato aveva reso onore ai principi di certezza probatoria – che, giustamente, va fondata su basi certe, e non su mere illazioni – non aveva, dall’altro, risolto la questione. Anzi, la dichiarazione di incostituzionalità, aveva lasciato un vuoto di tutela, costringendo l’operatore di diritto a frugare tra le norme, al fine di comprendere come, ed a che titolo, sanzionare tutte quelle condotte precipuamente volte a condizionare taluno, per i propri personali interessi. Del resto, la Costituzione italiana garantisce ampia tutela alla personalità individuale, protetta, a mezzo dell’art. 13, anche sotto il profilo della violazione della sfera psichica.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

Tanto è vero, che l’art. 32 Cost. – nel dotare la salute di un ampio ombrello di tutela – ne intende garantire non solo l’integrità  fisica, ma altresì quella mentale. Occorreva (ed occorre), dunque, colmare la lacuna normativa. Ma come? Sfogliando le pagine del Codice Penale, scoviamo diverse norme che potrebbero tornarci utili per “inchiodare” di fronte alla giustizia, chi – intenzionalmente – abbia mirato a manipolare una persona, per trarne un personale vantaggio, solitamente di natura patrimoniale. Tra queste disposizioni, ad esempio, potrebbe annoverarsi l’art. 613 c.p., che punisce chi “mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo” ponga taluno, senza il suo consenso “in stato di incapacità di intendere o di volere”. In detta ipotesi, alla vittima – capace d’intendere e volere – viene indotto uno stato d’incapacità. Si tratta, è evidente, di una condizione di incapacità provvisoria, posto che, se le si procurasse uno stato di incapacità permanente, si sconfinerebbe nel più grave reato di lesioni personali. Ancora, prendendo spunto dalla normativa americana – che, con riferimento al termine adottato dallo studioso Borowitz, associa tal genere di condotta ad un sequestro psicologico, noto come psychological kidnapping – si potrebbe mettere in correlazione il buon esito di una manipolazione psichica, ad una materiale limitazione della libertà di muoversi della vittima (è curioso pensare che, quando il plagio era ancora contemplato dal nostro codice, le accuse, formulate a tal titolo, si tramutavano, di sovente, in condanne per sequestro di persona).

Psiche & Legge #1: Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.
Articolo Consigliato: Psiche & Legge #1. Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: PERSONALITA’

Al di là dei rilievi appena estesi, preme comunque annotare come la figura delittuosa che più risponde alle nostre esigenze, è quella della circonvenzione di incapaci, delineata dall’art. 643 c.p. Tale norma punisce chi “per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso”. Per “effetto giuridico dannoso”, si intende, lo si noti, una lesione del patrimonio della vittima, con conseguente arricchimento di quello del reo. Si spiega così, difatti, la collocazione della norma tra i reati “contro il patrimonio”. Vi sarà circonvenzione di incapace, dunque, in presenza di: a) un’attività d’induzione posta in essere dal reo; 2) l’incapacità della vittima; c) l’abuso di tale incapacità, da parte del criminale. Potranno essere puniti, pertanto – a titolo di circonvenzione di incapace – alcuni comportamenti, un tempo ricondotti al plagio.

 Ne potrebbe rispondere, ad esempio, chi abbia approfittato dell’altrui incapacità (fragilità psichica, sofferenza di disturbo paranoide, o altra ragione di menomazione psichica) per farsi rilasciare una delega ad operare sul suo conto corrente. Parimenti, potrebbe rischiare la condanna per circonvenzione di incapace, chi abbia fatto forza sulla particolare vulnerabilità di un anziano (da potersi ritenere, anche solo transitoriamente, incapace, per via dell’isolamento affettivo in cui vive, che lo rende maggiormente fragile e timoroso, o in ragione di un’insorgente demenza senile) per farsi donare soldi o immobili. Va precisato, inoltre, che il reato in parola è ravvisabile anche nell’ipotesi in cui – a manipolare taluno – sia stata una persona a questi vicina, quale un parente, un coniuge, o un compagno di vita. Certo, in tali evenienze, sarà più complicato, da punto di vista probatorio, distinguere tra i condizionamenti (leciti) inevitabilmente connessi al rapportarsi tra amanti, amici, familiari, e le manipolazioni (illecite), perpetrate allo specifico scopo di assoggettare a sé l’incapace, e trarne beneficio economico. Ancor più grave, infine, sarà l’attività di induzione posta in essere, non già nei confronti di un singolo individuo, bensì diretta ad una comunità di persone, intesa come “folla”, definita dal noto Le Bon, nell’opera “Psicologia delle folle” del 1895, come “un agglomeramento di uomini” che “possiede caratteri nuovi, molto diversi da quelli degli individui di cui esso si compone”, dove “la personalità cosciente svanisce” e si forma “un’anima collettiva”, una “folla psicologica” che “invade il campo dell’intelligenza e paralizza ogni facoltà critica”. E appare superfluo marcare la pericolosità delle conseguenze connesse ad una sorta di manipolazione di massa. Del resto, Friedrich Nietzsche affermò che “la follia è nei singoli qualcosa di raro − ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola”. Si approda, così, sul delicatissimo terreno della manipolazione mentale propria dei fenomeni settari, sui quali tornerò con apposita trattazione.

 

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VIOLENZA – RAPPORTI INTERPERSONALI – PERSONALITA’ 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Le Bon, G. (1980). Psicologia delle Folle. Milano: TEA.
  • Lusa, V. & Pascasi, S. (2011). La persona oggetto di reato. Torino: Giappichelli Editore.
  • Lusa, V., Pascasi, S., & Borrini, M. (2012). Sanity and Insanity in a Criminal Trial: The European Experience Seeks the American Experience, in Proceedings 64rd Annual Meeting of American Academy of forensic Sciences, Atlanta.
  • Strano, M. (2003). Manuale di criminologia clinicaFirenze: SEE.

Il Mito della Monogamia di D.P. Barash & J.E. Lipton – Recensione

 

Recensione del Libro:

 

IL MITO DELLA MONOGAMIA

Animali e uomini (in)fedeli

by D.P. Barash & J.E. Lipton

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Il Mito della Monogamia di D.P. Barash & J.E. Lipton - Recensione - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Il mito della monogamia. Animali e uomini (in)fedeli
Barash David P.; Lipton Judith E.
Raffaello Cortina Editore (2002)

“Cielo, mio marito!!!” –

Evolutivamente programmati per il tradimento

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Vi ritrovate a fantasticare sulla collega del quarto piano o sul giovane panettiere che vi imbusta lo sfilatino nonostante siate sentimentalmente impegnati? State tranquilli, il desiderio sessuale per più partner è assolutamente naturale. La monogamia, invece, no.

Questo è quanto affermano Barash e Lipton nell’interessantissimo e divertente libro Il mito della monogamia (2002), in cui fanno letteralmente a pezzi l’ideale della monogamia portando prove a supporto dell’ipotesi che la poligamia sia la regola (e non l’eccezione) non solo nel regno animale, ma anche, e soprattutto, fra gli esseri umani.

Tra curiosità alla “Incredibile, ma vero!”, ricerche di zoologia comparata e psicologia, studi dai titoli esilaranti sulla vita sessuale libertina degli uccelli, in aggiunta ad una nutrita rassegna bibliografica, gli autori illustrano come siamo biologicamente programmati per il tradimento.

Dal punto di vista evolutivo il discorso è molto semplice: nella gara per la riproduzione i maschi hanno un netto vantaggio rispetto alle femmine. Infatti mentre una femmina nasce con un numero limitato di ovuli, costosi da produrre e con impressa una data di scadenza, i maschi possono sfornare milioni di spermatozoi in pochissimo tempo con un piccolo dispendio di energia e hanno quindi un vasto potenziale riproduttivo. Se aggiungiamo a ciò una bassa soglia di eccitazione sessuale ed una forte attrazione per la varietà tipicamente maschili, non stupisce che i maschi tendano più facilmente alla poliginia o, in caso di monogamia, abbiano una maggiore suscettibilità a ricercare rapporti extra-coppia. In un’ottica evolutiva, quindi, il tradimento ha per il maschio lo scopo di aumentare la possibilità di trasmettere i propri geni.

LA SCIENZA DEL BACIO. - Immagine: Raffaello Cortina Editore (2011)
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Che cosa spinge invece una femmina a tradire il proprio compagno? Innanzitutto avere rapporti con partner diversi aumenta la probabilità di essere fertilizzate, in secondo luogo permette di scegliere ed ottenere geni migliori per la propria prole; infatti difficilmente si tradisce con il primo che si incontra, ma si sceglie un partner che sia in qualche modo superiore al proprio compagno: si tiene il maschio affidabile che cura la prole, ma non si disdegna un giro col maschio alfa!

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Il tradimento, però, può essere pericoloso! Il maschio, per esempio, lasciando la propria compagna da sola per andare a caccia di una scappatella potrebbe a sua volta ritrovarsi “cervo a primavera” (quale ironia!) oppure rischiare di prenderle dal partner dell’amante o, ancora, andare in bianco o trovare una femmina non fertile. Per le femmine i rischi sono addirittura maggiori, soprattutto nel caso in cui venga scoperto il tradimento: oltre alla possibilità di ricevere una punizione fisica dal proprio partner, rischiano di essere abbandonate o che la propria prole riceva meno cure dal compagno che sospetti di non esserne il vero padre (senza contare la perdita della reputazione sociale).

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Sebbene la tendenza ad avere più partner sia naturale, a nessuno piace ritrovarsi con un paio di corna in testa; così nel regno animale si osserva la messa in atto di comportamenti di stretto controllo nei confronti del partner (soprattutto femmina), con maschi che si ritrovano a fare la guardia alla propria compagna soprattutto nei periodi di fertilità … un po’ l’equivalente del controllare i messaggi sul cellulare o l’account di Facebook, dei pedinamenti e del divieto di uscire da sole con le amiche in discoteca!

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Quindi la prossima volta che il nostro partner ci troverà tra le braccia di un altro potremo giustificarci dando la colpa alla biologia? Sì, ma solo se saremo in grado di dimostrare di non possedere il libero arbitrio! Infatti l’essere umano ha la possibilità di scegliere se fare o meno qualcosa, e quindi può decidere se tradire o meno. Pertanto la monogamia sembra essere più che altro una scelta per noi umani, per di più non facile visto che, in quanto animali sociali, siamo continuamente immersi nelle relazioni ed esposti alle tentazioni della carne. 

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Cinicamente si potrebbe condividere quanto sostengono Barash e Lipton: “La maggior stabilità [di una coppia] presumibilmente deriverebbe da una situazione in cui ogni partner è davvero – o pensa di essere – un po’ meno desiderabile dell’altro! In questo caso, ognuno penserebbe probabilmente di avere fatto un buon affare (cioè di avere un partner ‘migliore’  del previsto) e probabilmente non cambierebbe per tentare di conseguire una superiore eccellenza”.

Ma, riconoscono gli autori, se negli animali la monogamia è solo una questione biologica, negli umani è anche qualcosa in più: “è anche una questione di psicologia, sociologia, antropologia, economia, diritto, etica, teologia […]” dove concorrono altri fattori come l’amore, la fiducia, l’impegno, la paura, la rabbia, la prole, la lealtà, il denaro, la malattia, ecc.

E forse ci piace pensare che con la persona giusta la monogamia sia una scelta … naturale. Il problema è solo trovarla tra 7 miliardi di persone. Buona caccia!

LEGGI:

 SESSO – SESSUALITA’ –  SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – SCELTA DEL PARTNER

BIBLIOGRAFIA:

Decision Making: Più Possibilità = Più Rischi

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Decision Making: Più possibilità di scelta abbiamo, più rischiamo. È l’effetto che ha una grande quantità di informazioni nel processo decisionale.

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I ricercatori dell’University of Warwick e della Università della Svizzera Italiana di Lugano hanno messo a punto un gioco per analizzare come il processo decisionale – decision making – viene influenzato da un alto numero di numero di scelte possibili.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Hanno scoperto che una distorsione nel modo di raccogliere informazioni induce a ad assumere maggiori rischi quando ci si trova di fronte ad un ampio set di opzioni, un fenomeno che i ricercatori hanno definito ”search-amplified risk”.

Ciò significa che, di fronte ad un gran numero di possibilità – ciascuna associata a diverse probabilità di verificarsi – le persone sono più propense a decision making che sopravvaluta le probabilità di alcuni degli eventi più rari.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Psychonomic Bulletin and Review, ha evidenziato che in presenza di ampi set di possibilità, le persone corrono più rischi sulla base di una stima errata delle grandi vincite, rimanendo in realtà spesso a mani vuote.

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 Il dottor Thomas Hills del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Warwick sostiene che il problema non sia il fatto che le persone prendono decisioni – decision making – casuali quando sono di fronte a un gran numero di opzioni, ma che prendono decisioni razionali, utilizzando però strategie difettose di raccolta delle informazioni. La gente insomma raccoglie più informazioni quando ha più possibilità di scelta, ma il problema sta nel fatto che ogni opzione non viene saggiata abbastanza da capire le sue probabilità di base, aumentando così la probabilità di andare incontro ad eventi rari e rischiosi.

 

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DECISION MAKING – CREDENZE – BELIEFS

 

BIBLIOGRAFIA:

La Dismorfia Muscolare o Vigoressia : lo Specchio deforme di Adone

 

Di Massimo Amabili

 

La Dismorfia Muscolare o Vigoressia- lo Specchio deforme di Adone. -Immagine:© olly - Fotolia.comLa dismorfia muscolare: preoccupazione cronica di non essere sufficientemente muscolati“.

Gli individui con dismorfia muscolare vivono un senso di inadeguatezza che li induce ad evitare contatti sociali, a fallire frequentemente nelle relazioni interpersonali.

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La dismorfia muscolare, secondo Pope, Gruber, Choi, Olivardia and Phillips (1997, p. 550) è una “preoccupazione cronica di non essere sufficientemente muscolati” (o a volte, specialmente in caso di donne, muscolati e magri). Gli individui affetti da dismorfia muscolare sviluppano una marcata dipendenza dall’esercizio fisico (protratto per molte ore al giorno), unita ad un’attenzione eccessiva alla loro dieta.

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Inoltre, presentano compromissioni in aree importanti del loro funzionamento (sociale, occupazionale, relazionale): i soggetti affetti da tale disturbo possono allenarsi per più di due ore al giorno, talvolta sacrificando importanti impegni sociali, e compromettendo la loro salute fisica.

Gli studi di Olivardia et al. (2001, pagg. 254–259) hanno confermato ad esempio la rinuncia da parte di alcuni soggetti anche a ruoli di rilievo in affari, in ambito legale o medico, pur di perseguire lo scopo di allenarsi il maggior tempo possibile in palestra. Altri hanno perfino compromesso le relazioni familiari, divorziando dalle mogli perché il bisogno di allenarsi aveva la priorità su ogni altra cosa.

LA Regina di Biancaneve, lo Specchio e la Dismorfofobia. - Immagine: Author: Franz Jüttner This image is in the public domain because its copyright has expired.
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La necessità di sviluppare sempre più massa muscolare conduce la maggior parte di loro a fare uso di sostanze illegali, in particolare steroidi anabolizzanti. Queste sostanze aiutano i muscoli a raggiungere livelli di sviluppo non ottenibili con il semplice esercizio fisico e possono provocare conseguenze negative sia di natura fisica che psichica come aumento dell’aggressività, acne, impotenza. Nonostante i soggetti siano consapevoli di tali effetti collaterali diversi studi dimostrano che l’uso di steroidi è fortemente diffuso (Pope et al. 1997; Blovin & Goldfield 1995).

I soggetti con tale disturbo, inseguendo un ideale corporeo “ipermesomorfico”, ipertrofico (Lantz et al. 2002), utilizzano queste sostanze illegali per poter andare oltre i limiti fisici posti dalla natura umana.

Per ottenere il corpo desiderato non si limitano solo a sottoporsi ad estenuanti esercizi fisici o all’uso di sostanze illegali dannose, ma si sottopongono anche a meticolose diete in cui sono ammessi solo alimenti iperproteici, importanti per lo sviluppo muscolare, mentre sono categoricamente esclusi cibi ad alto contenuto di grassi e carboidrati.

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Gonfiano i loro fisici,  eseguendo con grande concentrazione i loro esercizi, affinché il muscolo “straripi” da sotto la pelle, ignari di mostrare il simbolo della loro debolezza psicologica, legata ad una profonda insicurezza dell’identità di genere. I muscoli, infatti rappresenterebbero per loro un mezzo di compensazione per un senso di inadeguatezza circa la propria mascolinità. Infatti, attualmente è ampiamente accettato che la dismorfia muscolare sia più frequente nei maschi, sebbene siano stati documentati anche casi di donne con severa dismorfia muscolare. (Leone JE. Muscle dysmorphia symptomatology and extreme drive for muscularity in a 23-year old woman: A case study. J Strength Conditioning Res 2009;23:988–995 ).

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Vigoressia ed anoressia sono concettualmente molto simili differendo solamente in funzione dell’ideale corporeo stabilito culturalmente: questo potrebbe indicare alla futura ricerca, che per trarre delle conclusioni più significative nelle differenze tra maschi e femmine nell’aree dell’immagine corporea e dell’alimentazione, dovrà probabilmente costruire strumenti di valutazione più sensibili alla presentazione sintomatica dei maschi con preoccupazioni legate a queste aree (10,39-40). Questo potrebbe aiutare a differenziare sottocategorie significative di disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati, che sono una categoria rilevante tra i disturbi dell’alimentazione e meglio comprendere l’esperienza dei disturbi nell’alimentazione, nel peso e nella forma del corpo nei maschi.

Pope (2000) sottolinea che più di una distorsione relativa all’immagine dei loro corpi, nei soggetti con dismorfia muscolare, vi è una distorta immagine di se stessi come uomini. L’insoddisfazione nei confronti di se stessi, viene trasferita sul corpo, come debole maschera che cela un vuoto incolmabile. Gli individui con dismorfia muscolare vivono un senso di inadeguatezza che li induce ad evitare contatti sociali, a fallire frequentemente nelle relazioni interpersonali.

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Entrambi dispongono di un’autostima, estremamente fragile. Uno degli aspetti più volte sottolineato è la marcata correlazione esistente, per i soggetti affetti da dismorfia muscolare, tra taglia muscolare e autostima. Sembra che quest’ultima dipenda in modo esclusivo da quanto grossi i soggetti sentono di essere. Questo fenomeno spiegherebbe l’esigenza di richiedere costantemente rassicurazioni dagli altri, concernenti lo sviluppo ulteriore della loro muscolatura.

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Tale disturbo colpisce in maniera silente la popolazione sportiva soprattutto maschile, “mimetizzandosi” nell’equazione di genere muscolarità=forza. Whitson (1990) argomenta che per i maschi adolescenti l’apparenza e l’immagine del corpo suggeriscono forza e potere. Ciò può aiutare a spiegare anche l’esca del bodybuilding per i teenagers che hanno paura di non possedere i requisiti della mascolinità egemonica: tuttavia pochi sono gli studi condotti circa la diffusione di questa patologia sia sul territorio italiano che internazionale (Olivardia, 2001); si assume però che il 5% dei maschi che praticano il sollevamento pesi, i power lifters, e i weightlifters ne soffrano (come dagli studi di Choi, Pope, & Olivardia, 2002; Hildebrandt, Schlundt, Langenbucher, & Chung, 2006; Kuennen & Waldron, 2007; Lantz et al., 2002; Maida & Armstrong, 2005; Olivardia, Pope, & Hudson, 2000).

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Uno studio italiano condotto su una popolazione di soggetti culturisti maschi (Cella, Buonaiuto, Miraglies, Cotrufo, 2005), con lo scopo di rilevare, in una popolazione di soggetti culturisti maschi, la presenza di quei caratteri psicologici indicati in letteratura (Pope et al., 2000; Olivardia, 2001), e proposti come criteri diagnostici di una Reverse Anorexia (Cella et al., 2005, pagg. 339-341), ha rilevato la presenza di una insoddisfazione per il corpo e una dipendenza dall’esercizio in soggetti che praticano il culturismo in modo agonistico. Questa categoria di atleti manifesta caratteristiche psicologiche omogenee e diverse dal campione di controllo. Risulta, confermato, il dato di una maggiore vulnerabilità per il disturbo di Reverse Anorexia nei soggetti culturisti che fanno uso di steroidi anabolizzanti (Pope et al., 1993, pagg.. 406 – 409; Blouin & Goldfield, 1995, pagg. 159–165; Pope et al., 1997). La dismorfia muscolare è un disturbo tanto giovane quanto inesplorato. L’insufficienza di ricerche al riguardo e la complessità della patologia non permettono di definire con esattezza le cause del disturbo.

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Un recente studio del 2012  (Petroski, Pelegrini e Glaner) condotto su 641 adolescenti maschi e femmine di età compresa tra gli 11 e i 17 anni, ha evidenziato alla base dell’insoddisfazione corporea, studiata nel campione come percezione di sgradevolezza per il proprio corpo, tre elementi che i soggetti segnalavano come motivanti al cambiamento corporeo. Prima fra tutti la sgradevolezza estetica (mi guardo allo specchio e mi trovo esteticamente sgradevole, non conforme ai canoni di bellezza riconosciuti dalla società di appartenenza); i soggetti maschi tendenzialmente avrebbero voluto essere più muscolati, mentre le femmine dichiaravano di voler essere più magre.

L’insoddisfazione corporea risultava essere correlata successivamente all’autostima del campione: soggetti con maggiore autostima tendevano a percepire una ridotta sgradevolezza per il proprio corpo, mentre i soggetti con bassa autostima presentavano anche un grado di sgradevolezza corporea maggiore. Infine, un numero più ristretto del campione segnalava un desiderio di cambiamento del proprio corpo per ragioni prettamente salutari (essere troppo grasso/a o troppo magro/a significava ammalarsi, un rischio per la propria salute). Lo studio sottolineava anche la necessità di un intervento in chiave preventiva per questa fascia di età per limitare l’insorgenza di Disturbi d’Alimentazione e di Dismorfia muscolare.

LEGGI: 

ATTIVITA’ FISICA –  ALIMENTAZIONE – DISMORFOBIA – DISTURBO DI DISMORFISMO CORPOREO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le Basi Psicologiche dell’Etica #2: Obiezioni all’esperimento di Haidt

Le Basi Psicologiche dell’Etica #2 Obiezioni all’esperimento di Haidt.

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

 

Le Basi Psicologiche dell’Etica #2- Obiezioni a un esperimento. -Immagine: © carlos castilla - Fotolia.comSecondo l’antropologo Westermarck (1921) persone cresciute nella prima infanzia nello stesso ambiente familiare, perfino se non consanguinee, sono sessualmente desensibilizzate l’una verso l’altra.

Si tratterebbe di un meccanismo evolutivo di stimolo della varietà genetica che si tramuta in uno spontaneo sentimento di indifferenza sessuale, se non di vera e propria repulsione, tra persone cresciute insieme per i primissimi anni di vita.

Riconsideriamo l’esperimento di Haidt esposto nell’articolo precedente. Una possibile obiezione è che in esso ci siano delle ingenuità di metodo. La chiave dell’esperimento è l’affermazione che il rapporto incestuoso sia privo di conseguenze psicologiche negative. Una volta accettato questo, il tabù dell’incesto diventerebbe accettabile, in termini puramente utilitaristici. Tuttavia, come si fa a dire che le conseguenze siano assenti? Che non ci siano state conseguenze sembra essere stato deciso dallo sperimentatore stesso, che ha assunto le vesti del narratore onnipotente e onnisciente.

le perversioni vanno curate.
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E già questo limita la validità dell’esperimento. Il tabù verrebbe a essere abolito solo in una situazione immaginaria manipolata da un autore onnipotente, che agisce con una certa rozzezza. Infatti, in base a quale semplicistica concezione psicologica non ci sarebbero state conseguenze? E’ sufficiente stabilire a priori che non ci siano conseguenze per etichettare l’incesto come un atto in sé innocuo e neutro e solo irrazionalmente terrifico? La razionalità del tabù dell’incesto risiede in un calcolo precauzionale, sia dal punto di vista dei rischi genetici che non. In questo calcolo vale ben poco avvertire che non ci sono state conseguenze in un caso singolo, quello di Mark e Julie (caso del resto immaginario).

In realtà è la scienza stessa che suggerisce che per l’incesto un danno psicologico è possibile. Si tratterebbe del cosiddetto “effetto Westermark”.

Secondo l’antropologo Westermarck (1921)  persone cresciute nella prima infanzia nello stesso ambiente familiare, perfino se non consanguinee, sono sessualmente desensibilizzate l’una verso l’altra. Si tratterebbe di un meccanismo evolutivo di stimolo della varietà genetica che si tramuta in uno spontaneo sentimento di indifferenza sessuale, se non di vera e propria repulsione, tra persone cresciute insieme per i primissimi anni di vita.

A ulteriore conferma, il fenomeno della desensibilizzazione sessuale è stato poi osservato anche in individui non consanguinei cresciuti insieme in kibbutz israeliani (Wolf, 1970; Shepher, 1983). Subire quindi un approccio sessuale da qualcuno con cui si è cresciuti sembrerebbe generare uno stato emotivo di disagio e di sofferenza.

Per questo può diventare irrilevante che nell’esperimento di Mark e Julie si sostenga che i due soggetti non abbiano provato disagio o sofferenza. Non dimentichiamo che Mark e Julie sono due personaggi immaginari. Invece chi legge la vignetta dell’esperimento di Haidt è una persona reale. Costui, dovendo esprimere la sua opinione, proverà sulla sua pelle le conseguenze emotive dell’effetto Westermark. Sarà anche assente un danno reale, ma le conseguenze emotive sono di disagio, sia pure sottile e razionalmente inspiegabile. Mi chiedo se tutto questo non sia il segno di un possibile limite della razionalità pragmatica, utilitaristica e cognitiva.

Ma anche lasciando da parte il rischio di danno genetico, occorre ragionare con più concretezza sulle implicazioni psicologiche dell’atto sessuale. L’atto sessuale è evidentemente un piacere, ma un piacere complesso e sofisticato, che va al di là della semplicità ginnica e ludica del coito.

L’amore fisico è una relazione tra due persone. In quanto tale, esso è gravido di attese, aspettative, speranze e desideri che vanno al dì la del piacere momentaneo.  Anche nel più occasionale degli incontri sessuali, queste aspettative si creano.

Certo, esse possono essere gestite e messe a tacere attraverso una dose non piccola di autocontrollo emotivo. Nel piacere sessuale occasionale i cedimenti affettivi possono essere bene accetti, ma vanno sapientemente dosati perché continuamente cozzano con l’occasionalità dell’evento. D’altro canto, è pur vero che un eccesso di freddezza sarebbe fuori luogo anche nel più sbrigativo ed episodico degli incontri amorosi, trasformandolo facilmente in un’esperienza da dimenticare. Si tratta quindi di rimanere in equilibrio su una fune.

Ma la necessità di mantenere questo precario equilibrio è incomprensibile da un punto di vista della razionalità utilitaria. Insomma, direbbe la ragione pratica, non stiamo forse esagerando? Si tratta di andare a letto insieme, di avere un po’ di piacere, di cibarsi l’uno dell’altro. Cosa sono tutte queste complicazioni, questo giocare sul filo del detto e del non detto?

Aspettare per il Primo Rapporto Sessuale? Forse Conviene!. - Immagine: © majesticca Fotolia.com
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Insomma, la razionalità utilitaria vuole ridurre la fruizione del piacere dell’amore fisico alla semplicità e immediatezza edonistica del godimento alimentare. Ridurre l’amore e il sesso a piacere privo di ombre quotidiane dell’esistenza, al pari del mangiare o del bere, senza caricarlo di troppe aspettative. E in tal modo ridurlo a piacere calcolabile, quantificabile e, quindi, razionalizzabile.

Tuttavia proprio la vignetta di Haidt finisce per suggerire il contrario. Non so quanto volontariamente, ma Haidt dissemina la sua situazione immaginaria di troppe precauzioni che finiscono per suggerire che lui per primo crede poco alla semplicità delle gioie del sesso. Vediamo perché.

Apparentemente la vignetta descrive un episodio semplice e gioioso, sesso arcadico tra un efebo e una ninfa. Due giovani in una spiaggia estiva che si regalano reciprocamente un piacere. “Decidono che potrebbe essere interessante e divertente provare a  fare l’amore.“  Eppure, già in quel “almeno” della frase successiva le prime ombre si radunano sui due giovani. “Almeno” potrebbe significare un innocuo “nel caso non ci piaccia” o suggerisce qualcosa di peggio?

Ma poi le ombre si addensano. “Julie già prende la pillola per il controllo delle nascite, ma anche Mark usa un preservativo, giusto per essere sicuro”. Pillola e preservativo insieme? Quante precauzioni per un piacere che vorrebbe essere così semplice e privo di complicazioni! Ma come è giudizioso questo Mark. Chissà se invece con un’altra donna che prendesse la pillola sarebbe così desideroso di indossare anche il cappuccio. Il preservativo toglie piacere, ma si vede che ne vale la pena prendere più precauzioni. Decisamente, ci allontaniamo sempre più dalla semplicità. Un coito sulla spiaggia con la propria sorella non è semplice come condividere del pesce arrostito su quella stessa spiaggia con quella stessa sorella.

Proseguiamo. Apprendiamo che “A entrambi piace aver fatto l’amore, ma decidono di non farlo mai più “ Gli piace ma non lo faranno più? E perché mai? È stato divertente, perché proibirselo? Ci si proibisce forse il concedersi ancora altri piaceri? Anzi, è parte integrante di ogni umana gioia sapere che non è l’ultima volta, che si potrà ancora attingere a quel godimento. Ma stavolta no. Meglio non ripetersi, chissà perché. Forse lo stesso Haidt comincia a innervosirsi. È stato facile per noi ipocriti lettori sorridere con moderna coolness della agitazione di chi ha letto questa vignetta durante il fatale esperimento  e ha provato sacrosanto sconcerto o, peggio, impresentabile repulsione, e non è riuscito poi a giustificare razionalmente queste reazioni. Ma non dimentichiamo che anche chi ha elaborato la vignetta ha tradito una buona dose di disorientamento.

Ma andiamo avanti, che non è finita. “Considereranno quella notte come un segreto speciale che li renderà perfino più prossimi l’uno all’altro”. Un segreto speciale? Che li farà sentire ancora più vicini? Ma se si trattava di una gioia così semplice, perché trasformarla in un segreto? Non voglio negare che possa esistere il silenzio che protegge un’esperienza felice passata, e che cementa la condivisione. Il problema è però che è proprio difficile dire come possa svilupparsi, se si sviluppa, un simile ricordo comune.

Un fratello e una sorella si sono congiunti carnalmente, tra mille precauzioni. Poi, non ne parlano più per il resto della loro vita. E i loro rapporti continuano a essere sereni, privi di ombre. Almeno questo ci assicurano gli sperimentatori.

In verità, di queste due figurine ritagliate nella carta, Julie e Mark, non sappiamo nulla. Non abbiamo alcun dato che possa farci intuire cosa pensino e provino i due giovani, se non il quadro singolarmente elementare e zuccheroso che ci danno i ricercatori. La verità è che l’intero esperimento presuppone una scena troppo astratta.

 

 

Orari dei Pasti & Salute Mentale negli Adolescenti

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Adolescenti: La regolarità negli orari dei pasti in famiglia é un indice misurabile degli scambi sociali in famiglia di cui beneficiano gli adolescenti.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ADOLESCENTI

Secondo i risultati di una ricerca condotta dal canadese Institute for Health and Social Policy l’abitudine a cenare in famiglia contribuirebbe alla buona salute mentale negli adolescenti; in particolare è la regolarità negli orari dei pasti familiari ad essere un indice misurabile degli scambi sociali in famiglia di cui beneficiano gli adolescenti, addirittura a prescindere dalla facilità di comunicazione che sentono di avere con i genitori.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: FAMIGLIA

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Disturbo Bipolare e Giovani: Trattamento Focalizzato sulla Famiglia

Lo studio, condotto da un team di ricercatori della Queen University, ha esaminato la relazione tra la frequenza di cene di famiglia e gli aspetti positivi o negativi sulla salute mentale nei giovani. I ricercatori hanno utilizzato un campione nazionale di 26.069 adolescenti di età compresa tra 11 a 15 anni che hanno partecipato al 2010 Canadian Health Behaviour in School-Aged Children study. I risultati indicano che gli effetti benefici della regolarità dei pasti familiari sono costanti, indipendentemente da sesso, età o benessere della famiglia. Inoltre, anche in presenza di grandi differenze rispetto alla frequenza delle cene in famiglia (0 o 7 sere a settimana), è risultato evidente come anche solo un momento di incontro aggiuntivo facesse la differenza in termini di incremento del benessere mentale ed emotivo dell’adolescente.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: GENITORIALITA’

 Lo studio ha considerato i dati relativi alla frequenza settimanale di cene in famiglia, la facilità di comunicazione genitore-adolescente e cinque dimensioni della salute mentale, tra cui l’internalizzazione e esternalizzazione dei problemi, il benessere emotivo, i comportamenti utili e la soddisfazione di vita.

Gli autori suggeriscono che i pasti in famiglia rappresentino un occasione per la famiglia di interagire in modo aperto e un opportunità per i genitori di insegnare, anche fungendo da modello, comportamenti positivi per la salute, per esempio rispetto alle scelte alimentari, ma anche per consentire agli adolescenti di esprimere preoccupazioni e sentirsi apprezzati, tutti elementi importanti  per il loro benessere mentale ed emotivo.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

ADOLESCENTI – FAMIGLIA – GENITORIALITA’ 

 

APPROFONDIMENTO:

 

BIBLIOGRAFIA:

Stress Post Traumatico e Disturbo Ossessivo: Dove Cominciare?

 

Stress Post Traumatico e Disturbo Ossessivo. Dove Cominciare?. - Immagine: © Microstock Man - Fotolia.comStress Post Traumatico & OCD – possono combinarsi quando un paziente che ha subito un grave trauma tenta di alleviare la sofferenza con rituali ossessivi. Il caso di Albert.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO (PTSD)

Il disturbo ossessivo compulsivo (OCD) e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) condividono un tratto comune e molto frequente negli individui che ne sono affetti: il controllo o, meglio, il desiderio di controllo.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO (OCD)

I pazienti affetti da OCD sono ossessionati dall’idea di ottenere e mantenere un controllo assoluto sugli eventi in ogni circostanza e per farlo utilizzano dei rituali, ripetitivi e sempre identici per natura, che hanno l’obiettivo di allentare l’ansia e aumentare la sensazione di controllo (pensiero magico).

I pazienti affetti da Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD), con una storia quindi di uno o più eventi traumatici, cercano invece di recuperare il controllo perso durante l’esperienza traumatica attraverso il sistematico evitamento di tutte le situazioni simili o riconducibili, per qualsivoglia motivo, all’evento vissuto (“se evito mi proteggo e mi sento sotto controllo”).

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ESPERIENZE TRAUMATICHE

Trauma: Problema Diagnostico. - Immagine: © udra11 - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Trauma: Problema Diagnostico

I disturbi descritti possono talora combinarsi insieme quando un paziente che ha subito un grave trauma cerca di alleviare la sua sofferenza attraverso l’utilizzo di rituali ossessivi che favoriscono sì una riduzione immediata dello stato di allerta e un’apparente sensazione di controllo sugli eventi, ma che nel lungo periodo rischiano di non essere più sufficienti e soprattutto di occupare molte ore al giorno.

Un case report descritto in un recentissimo articolo pubblicato da un gruppo di ricercatori olandesi (Nijdam et al, 2013) descrive proprio una situazione clinica di questo tipo, interessante a mio parere soprattutto per l’evoluzione del disturbo durante la cura attraverso il metodo EMDR.

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È subito evidente nel caso descritto la necessità dei clinici di stabilire delle priorità rispetto i sintomi da alleviare e contenere: da un lato la presenza di intensi rituali di lavaggio legati alla propria igiene personale e alla casa scatenati da pensieri intrusivi di “essere sporco” o da veri e propri timori di contaminazione (OCD) e dall’altro la persistenza altrettanto urgente di insonnia, flashback e continui tentativi di ricostruire l’evento traumatico  rivivendo ogni giorno i ricordi rimasti vividi nella memoria (Disturbo da Stress Post Traumatico).

 Il trauma, un abuso sessuale da parte di un estraneo adulto, risaliva a quando il paziente aveva 14 anni, mentre i sintomi da stress post traumatico sono iniziati solo a 21 anni, in occasione di un rapporto sessuale con il partner. Il disturbo ossessivo comparirà invece dopo altri 12 anni, quando il paziente ne ha 34 e rievoca alcuni ricordi del trauma nel corso di una psicoterapia.

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All’inizio dello studio Albert ne ha 49 e riporta una sofferenza psicologica durata quasi 30 anni!

L’ipotesi dei clinici è che i gravi sintomi ossessivi di questo paziente siano una modalità attraverso cui il paziente affronta, cercando di annullarli con rituali “magici”, i pensieri intrusivi di “essere sporco”, le emozioni di colpa e i sintomi fisici di allerta legati al terrore vissuto durante l’esperienza traumatica.

Il disputing delle idee ossessive e delle compulsioni. - Immagine: © fotocomo - Fotolia.com
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Il lavoro terapeutico parte quindi dai sintomi da stress post traumatico, con l’obiettivo di ottenere una rielaborazione efficace e completa dell’abuso, per concentrarsi solo successivamente sui sintomi ossessivi, ritenuti una conseguenza dei primi. Albert viene sottoposto a un trial di 7 sedute di EMDR (Eyes Movement desensitization and Reprocessing) al termine delle quali si riducono significativamente i sintomi da stress post traumatico e in parte anche i rituali ossessivi (OCD). I sintomi ossessivi residui vengono eliminati definitivamente con ulteriori due sedute di terapia ERP (Esposizione con Prevenzione della Risposta), terapia cognitivo-comportamentale di elezione per il disturbo ossessivo.

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Un miracolo? No! Una buona diagnosi funzionale e la scelta del metodo evidence based più adeguato al quadro sintomatologico e all’evoluzione dei sintomi nella storia di Albert.

L’importanza di lavorare sul trauma sembra tornare dunque centrale anche nelle moderne tecniche terapeutiche, sicuramente più orientate sui sintomi attuali e al contesto presente in cui il paziente vive, piuttosto che prevalentemente (o talora unicamente) sul passato.

Identificare tuttavia precocemente e velocemente il legame tra i sintomi attuali e il trauma originario è la loro sfida principale:  il passato viene rivissuto, compreso e reinserito, stavolta in modo non traumatico, nella propria storia di vita, che potrà andare avanti guardando al passato senza paura.

 

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DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO (PTSD) – DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO (OCD) – ESPERIENZE TRAUMATICHE – EMDR – ABUSI & MALTRATTAMENTI – PSICOTERAPIA COGNITIVA 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Aprassia Ideativa: Quando la macchinetta del caffè diventa problema

Aprassia Ideativa: Quando la macchinetta del caffè diventa problema. - Immagine: © fabioberti.it - Fotolia.comAprassia Ideativa – Quando la macchinetta del caffè diventa problema: Breve Panoramica e chiave di lettura diversa dell’Aprassia Ideativa.

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Nell’ambito dei disturbi del movimento, un disturbo complesso e che ha occupato in un primo periodo di tempo una posizione secondaria nello studio della categoria dei disturbi aprassici, è l’aprassia ideativa.

Per aprassia si intende l’incapacità della persona ad eseguire un gesto su richiesta (ad esempio: l’esaminatore che chiede alla persona di riprodurre il gesto del “ciao”), benchè non siano presenti difetti di moto, di senso e di coordinazione che ne giustifichino il suo fallimento, o perché sono assenti in assoluto o perchè non interessano l’arto  esaminato (De Renzi, 1980).

Legame Fraterno: una prospettiva relazionale. - Immagine: © gekaskr - Fotolia.com
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Possono persistere difficoltà  sia per i movimenti che riguardano gesti simbolici e sia verso oggetti inanimati (De Renzi e coll. 1980). Ora una delle varie forma di aprassia è appunto quella ideativa. Descritta per la prima volta da Pick, le persone che soffrono di aprassia ideativa commettono errori grossolani nell’utilizzazione di oggetti, previo mantenimento delle capacità di riconoscimento (ad esempio, usare forbici come cucchiaio, portare il fornello della pipa alla bocca).

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Un esempio famoso viene fornito da De Renzi e Lucchelli (1988) che riportano le difficoltà di una paziente nella preparazione del caffè. “Alla paziente vennero presentati una caffettiera, una scatola chiusa di caffè macinato, una caraffa di acqua e un cucchiaio con l’invito a preparare la macchinetta. La paziente solleva il coperchio della macchinetta e tenta ripetutamente di versare la polvere del caffè nella sua parte superiore, senza aver rimosso il coperchio della scatola di caffè. Alla fine apre la scatola e versa la polvere direttamente nella parte superiore della macchinetta senza usare il cucchiaio. Svita la parte superiore della macchinetta e versa l’acqua prima sulla tavola e poi nel filtro. Guarda a lungo perplessa le due parti della macchinetta, poi le riavvita, dopo aver aggiunto altra acqua nel filtro”.

Questa descrizione rende bene l’idea di come il paziente, appunto, manchi dell’idea o dell’ insight nel senso più lato del termine del fare il caffè per cui la relativa sequenza dei movimenti ne risulta inficiata. In un primo momento si credeva che ci fosse una esclusività di questo disturbo nell’ambito di processi di degenerazione cerebrale (demenza) o in stati post-epilettici, ma fu lo stesso Pick ( 1906) a rilevare la non sola matrice degenerativa o post-epilettica.

 Da un punto di vista neurofisiologico, le aree cerebrali interessate (tenendo a mente gli studi che certificano una dominanza dell’emisfero sinistro sulla produzione, monitoraggio e coordinazione degli engrammi motori) sembra siano, prestando fede al circuito di Liepman, la giunzione parietooccipitale, anche se successivi studi hanno rilevato anche il coinvolgimento di altre aree (ad esempio l’area supplementare motoria etc.).

L’interesse personale per questo tipo di disturbo del movimento nasce dal suo essere trattato, come accennato sopra, disturbo di “serie B” o come un “epifenomeno” dell’aprassia ideomotoria (Liepman, 1900).

Il Potere Trasformativo del Legame con la Famiglia d’origine. - Immagine: © Andrija Markovic - Fotolia.com
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La mia idea, dettata dagli studi in letteratura e debitrice dell’ottica della complessità della teoria dei sistemi, è che si tratti di due forme diverse di uno stesso processo, dove per processo intendo in questo caso, quel meccanismo coordinato da molteplici fattori che consente il raggiungimento di un obiettivo (in questo caso sistemare i vari pezzi in modo tale da poter preparare il caffè).

Quindi, tornando al discorso squisitamente neuropsicologico, l’aprassia ideativa e quella ideomotoria rappresenterebbero due disturbi che vanno a minare due aspetti di un processo complesso quale quello della pianificazione e riproduzione vuoi di un gesto appena visto (aprassia ideomotoria) vuoi di una sequenza di movimenti di cui manca la visione d’insieme (aprassia ideativa).

Uno stimolo, anche ai fini riabilitativi, potrebbe essere quello di provare a vedere il processo (in questo caso tutti i passaggi per delimitare un movimento previa conoscenza dell’idea) a 360 gradi e non concentrarsi esclusivamente  solo su una punteggiatura fornita dai soli aspetti interattivi (riproduzione dei gesti o imitazione di questi).

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NEUROPSICOLOGIA – ESPRESSIONI FACCIALI

 

BIBLIOGRAFIA:  

Antidepressivi & Gravidanza: Si Può?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Antidepressivi & Gravidanza: Assumere antidepressivi durante la gravidanza non ha alcun effetto sulla crescita del bambino durante il suo primo anno di vita

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È quanto emerso da uno studio della Northwestern Medicine sugli effetti dell’assunzione in gravidanza di Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI).

Lo studio ha evidenziato che i bambini nati da madri che assumevano SSRI durante la gravidanza avevano, nel primo anno di vita, circonferenza del cranio, peso, e lunghezza simili a quella di bambini nati da donne non depresse e che non avevano assunto antidepressivi. I neonati le cui madri hanno assunto antidepressivi erano meno alti alla nascita, ma la differenza è scomparsa già a due settimane di vita.

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SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale
Articolo Consigliato: SITCC 2012 – Emozioni in gravidanza. Superare lo stereotipo sociale per identificare e prevenire la “tristezza” delle mamme.

Inoltre, le misure di crescita per i bambini delle donne depresse che non assumevano SSRI erano simili a quelle della popolazione generale.

La depressione ha un impatto negativo sulla salute della madre e del bambino, e spesso le donne che assumono SSRI smettono al momento del concepimento e questo è causa di un alto tasso di recidiva.

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Lo stress prenatale e la depressione sono legati alla nascita pretermine e al basso peso del bambino alla nascita e questo aumenta il rischio di malattie cardiovascolari. La depressione influenza anche l’appetito della donna, la nutrizione e la cura prenatale ed è associata a un aumento dell’abuso di alcol e droghe.

 La depressione non trattata è anche associata un più alto indice di massa corporea, che comporta rischi aggiuntivi per la gravidanza e lo sviluppo del feto.

“Le donne che assumono antidepressivi sono interessate a conoscere gli effetti della malattia e dell’assunzione del farmaco alla nascita e a lungo termine sulla crescita e lo sviluppo del bambino”, dice  Katherine L. Wisner, autrice principale dello studio e direttrice del Northwestern’s Asher Center for the Study and Treatment of Depressive Disorders, “Queste informazioni possono aiutare le donne a valutre i rischi e i benefici nel continuare il  trattamento con antidepressivi durante la gravidanza”. 

 

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GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – DEPRESSIONE – FARMACI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #2

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 2

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #2. - Immagine: © Michael Schindler - Fotolia.comAVVIARE IL COLLOQUIO – Nei primi momenti si possono ricevere informazioni e avere le prime impressioni

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Avviare bene il colloquio è molto importante. Come è già stato sottolineato, nei primi momenti del colloquio psicologico si possono ricevere molte informazioni dal cliente e si possono instaurare le prime impressioni e valutazioni generali l’uno dell’altro. Per questo motivo lo psicologo deve mantenersi neutrale e avere, così maggiori possibilità di essere accettato indipendentemente dalla personalità e dalla cultura del cliente. Anche evitare particolari termini quali “problema” e “terapia” permette di mantenere questa neutralità e di evitare che il cliente avverta di essere già stato giudicato. L’unica cosa che può essere libero di mostrare a volontà è l’atteggiamento di interesse e completa accettazione e la disponibilità all’ascolto. Bisogna evitare discorsi tecnicistici, soprattutto all’inizio del colloquio perché possono generare repulsione e ostilità e aumentarli se sono sentimenti già presenti. Così, se il cliente non parla e mantiene uno sguardo cupo, lo psicologo deve evitare di elogiare gli esiti e i risultati dei propri strumenti.

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I Principi della Comunicazione Terapeutica. - Immagine: © Adam Gregor - Fotolia.com
Articolo Consigliato: La Comunicazione Terapeutica #1

Fine e Glasser [1996] suggeriscono alcuni modi per avviare il colloquio, tutto semplici e non intrusivi:

1) “Cosa l’ha portata qui?”: fare una domanda aperta di questo tipo è una delle vie più semplici da seguire. La domanda aperta permette di passare il testimone della comunicazione al cliente (lasciando nelle sue mani il flusso comunicativo) senza imporre o indurre alcun tipo di argomento specifico e rimanendo totalmente neutrali. E’ consigliabile anche evitare particolari accenti su una o più parole della frase che potrebbero cambiare il suo significato.

2) “Lei mi sembra molto sofferente”: è un esempio del secondo tipo di apertura che, oltre a essere neutrale e semplice mette in mostra un’importante qualità dello psicologo, quella di saper nominare i sentimenti. All’interno del colloquio psicologico è importante mostrare (più che dire) al cliente che, parlando di sentimenti, non si ha paura di nominarli e di discuterne senza turbamento, mantenendoli sotto il proprio controllo.

3) “Mi rendo conto che è stato mandato da me e penso che sia questo il motivo per cui ora ha un aria così arrabbiata”: costituisce l’avvio più adatto, secondo gli autori, in un colloquio con clienti involontari. Si concentra proprio sul fatto che il cliente non è venuto di sua spontanea volontà, mostrando che lo psicologo può capirlo anche in questo. Un’introduzione di questo tipo può avere il potere di smuovere il cliente, posto davanti ad un avvio inaspettato, e di motivarlo a tentare un dialogo. Dopo questa affermazione lo psicologo può rimanere in silenzio prima di proseguire per lasciare al cliente il tempo di realizzare tutto questoe magari di iniziare a parlare.

 4) “Il tribunale per la libertà condizionale l’ha mandata qui per una supervisione”: è un altro metodo per avviare il colloquio con clienti involontari. Equivale a dire cosa si sa sulle condizioni che lo hanno condotto al colloquio psicologico. Lo psicologo espone il problema come viene visto dal suo punto di vista salvo poi porre una domanda aperta del tipo: Me ne vuole parlare?” che permette di lasciare il fluire della comunicazioni nelle mani del cliente.

5) “Lasci che le spieghi di cosa si occupa il nostro ente. Noi aiutiamo le persone a…”: questo è il genere di apertura che gli autori consigliano quando lo psicologo è dipendente di un qualche ente di servizio. Si può immaginare che il cliente sappia già in che tipo di ente si trova, ma probabilmente questo tipo di introduzione serve anche a esprimere ciò che l’ente fa attraverso un linguaggio comune e più facilmente comprensibile e, quindi, a chiarire al cliente di essere giunto nel posto giusto. Dopo questa introduzione, che deve comunque essere breve, una domanda aperta concede la parola al cliente.

 

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

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ALLEANZA TERAPEUTICA – IN TERAPIA  

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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