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Cosa Esprime il Pianto dei Neonati?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Dai movimenti oculari e facciali lattanti e il pianto dei neonati, si può discriminare se un bambino ha fame, rabbia, paura o dolore.

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Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Spanish Journal of Psychology, osservando i movimenti muscolari oculari e facciali di neonati e lattanti e il pianto dei neonati, si è in grado di discriminare se un bambino ha fame, rabbia, paura o dolore. I ricercatori dell’Università di Valencia, l’Università di Murcia e della National University of Distance Education hanno analizzato a livello osservativo i patterns di pianto di 20 bambini di età compresa fra i tre e i diciotto mesi.

Dare Significato alle Esperienze. Come si Sviluppa la Capacità Metacognitiva. - Immagine: © chocolates4me - Fotolia.com
Articolo consigliato: Dare Significato alle Esperienze. Come si Sviluppa la Capacità Metacognitiva.

Dallo studio è emerso che le principali differenze tra gli stati emotivi e fisiologici provati dai piccoli si manifestano sia attraverso specifici patterns espressivi a livello facciale in combinazione con la dinamica del pianto dei neonati.

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Chiaramente, il pianto dei neonati è la modalità elettiva per i cuccioli di uomo per comunicare le emozioni negative. Ecco secondo la ricerca i tre diversi patterns espressivi relativi agli stati emotivi e fisiologici dei lattanti:

  • Rabbia: la maggior parte dei bimbi presenta gli occhi semi-chiusi, la bocca è completamente aperta o aperta per metà, e l’intensità del pianto dei neonati aumenta progressivamente.
  • Paura: gli occhi rimangono aperti e spalancati per la maggior parte del tempo, la testa tende a muoversi all’indietro e il pianto è immediatamente esplosivo.
  •  Dolore: gli occhi sono costantemente chiusi (o aperti solo per pochi istanti), si osserva tensione muscolare elevata nell’area oculare e la fronte è corrugata. Il pianto dei neonati inizia subito in modo molto intenso, iniziando improvvisamente e immediatamente a seguito dello stimolo doloroso.

Raccomandiamo però prudenza, non si tratta di certezze – come qualsiasi espressione non verbale anche degli adulti – bensì di indizi inferenziali con un elevato margine di opacità.

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BAMBINI – ESPRESSIONI FACCIALI 

 

BIBLIOGRAFIA:

EABCT Scientific Advisory Board: Aumenta la Presenza degli Italiani

 

EABCT

European Association for Behavioral Cognitive Therapies

Aumenta la presenza italiana nel Comitato Scientifico dell’associazione europea per la

Terapia Cognitivo-Comportamentale

 

Marzo 2013 porta delle piacevoli novità in campo internazionale. I ricercatori e psicoterapeuti italiani vedono infatti aumentare di molto la loro presenza nel comitato scientifico della EABCT. E’ della scorsa settimana infatti la delibera che vede ben 5 italiani nominati all’interno del Scientific Advisory Board dell’Associazione Europea per la Terapia Cognitivo-Comportamentale: 

Giovanni LiottiGiovanni Liotti è stato nominato referente nell’area Attachment and Evolutionary Psychopatology.

 

 

 

 

31 - Sandra Sassaroli - STATE OF MIND & Studi Cognitivi - EABCT 2012 Genève. Pictures from the Congress - © 2011-2012 State of Mind All rights reservedSandra Sassaroli è stata nominata referente per l’area Eating Disorders.

 

 

 

 

Francesco Mancini - Psichiatra PsicoterapeutaFrancesco Mancini è stato nominato referente per l’area OCD (Obsessive-Compulsive Disorder).

 

 

 

 

Antonio Semerari

Antonio Semerari è stato nominato referente per l’area Personality Disorders.

 

 

 

 

Antonio PintoAntonio Pinto è stato nominato referente per l’area Psychosis.

Ricordiamo anche che Pinto, già membro del Board of Directors EABCT e Congress Coordinator, è il primo promotore degli Specialized Interest Groups (SIG): gruppi di ricerca internazionali su specifiche tematiche che permetteranno agli psicoterapeuti di tutta Europa di collaborare nella ricerca attraverso il web.

 

Un futuro quindi molto promettente e interessante per la ricerca in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale e l’apporto che l’ottima ricerca italiana può e potrà dare.

Per ora è tutto, aspettando Marrakesh 2013!

VAI ALLA SEZIONE EABCT 2012 GINEVRA

 

 

Monografia ACT #5 – Quale maschera indossiamo?

Monografia ACT #5 –

Quale maschera indossiamo?

PARTE 5 di 7

LEGGI: INTRODUZIONE – PARTE 4

Monografia ACT – parte 5 - Quale maschera indossiamo?. -Immagine: © olly - Fotolia.comCiò che l’ACT promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo attento e consapevole (potremmo dire meta-cognitivo) di (auto)riflessione della propria esperienza MENTRE avviene.

LEGGI LA MONOGRAFIA ACT

In questa puntata della mia monografia per State of Mind sull’ACT vorrei concentrarmi sul quarto processo, incluso nel macro-processo di mindfulness e accettazione: Il “Sé Concettualizzato”.

Potremmo definire il sé concettualizzato come un insieme di “fusioni” a definizioni di noi stessi che la mente di ognuno di noi ci racconta. Queste definizioni, solitamente, toccano aspetti nucleari e rilevanti per la definizione di sé e di sé-in relazione con gli altri. 

Quando questo processo è molto presente e dannoso, ci identifichiamo fortemente con i contenuti della nostra mente e, in particolare, con quei pensieri, immagini e ricordi disfunzionali che fanno sì che nella vita di tutti i giorni noi viviamo indossando la maschera che la nostra storia di vita ha costruito per noi.

Scopi Esistenziali e Psicopatologia. - Immagine: © Mopic - Fotolia.com
Articolo consigliato: (di Matteo Giovini) Scopi Esistenziali e Psicopatologia.

Ci sono varie forme che il sé concettualizzato può assumere nella nostra quotidianità. Alcuni tra le più frequenti possono essere le “etichette” che noi stessi ci diamo. Pensiamo, ad esempio, all’essere “il malato”, “lo sfortunato”, “l’imbranato” etc… . In altre occasioni il sé concettualizzato assume il contenuto di fissazioni rigide su specifici problemi, blocco che porta a non riuscire a cogliere l’evoluzione dell’esperienza. In altre occasioni ancora, il sé concettualizzato può essere caratterizzato da “fusioni” con alcuni aspetti di sé rigidi e astratti/valutativi.

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Alcune domande utili a individuare quanto il passato concettualizzato influenza il modo con cui noi stessi ci descriviamo e ci etichettiamo nel presente possono essere le seguenti (adattate da un training ACT Italia cui ho partecipato):

Che regole si porta dietro dal passato?

– Quando eri bambino, quali erano le emozioni “giuste” e quelle “sbagliate”, indesiderabili che non potevi provare?

– Da bambino, cosa ti dicevano in merito a come gestire le tue emozioni, soprattutto quelle spiacevoli?

– Quali emozioni si potevano esprimere liberamente nella tua famiglia?

– Quali emozioni erano scoraggiate o disapprovate?

– Nella tua famiglia, gli adulti come gestivano le loro emozioni negative/spiacevoli?

– Quali strategie di gestione (leggi: controllo) delle emozioni venivano utilizzate?

– Nella tua famiglia, gli adulti che reazioni avevano di fronte alle tue emozioni spiacevoli/negative?

– Come effetti di tale esperienza, quali idee/visioni/significati/rappresentazioni ti porti dietro sulle tue emozioni e su come gestirle?

Queste domande potrebbero essere un ottimo spunto di riflessione per comprendere ciò che le persone hanno imparato dalla propria storia personale e a quali “insegnamenti”, idee e convinzioni ha finito per credere.

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Per una descrizione più approfondita del sé concettualizzato, rimando all’articolo di State of Mind “Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo” .

Ciò che l’ACT suggerisce come controparte virtuosa del sé concettualizzato è Il Sé Come Contesto.

ACT-Acceptance and Commitment Therapy_ La soluzione è accettare. - Immagine:© Sergey Nivens - Fotolia.com
Articolo Consigliato: ACT-Acceptance and Commitment Therapy. La soluzione è accettare.

In breve, potremmo sostenere che il sé come contesto è un punto di vista nuovo, talvolta mai sperimentato, in cui impariamo a osservare la nostra esperienza interna ed esterna da un punto di vista privilegiato, cioè quello di un “osservatore partecipe, gentile, compassionevole e curioso” della propria esperienza.

Ciò che l’ACT promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo attento e consapevole (potremmo dire meta-cognitivo) di (auto)riflessione della propria esperienza MENTRE avviene.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: METACOGNIZIONE

Questo potrebbe portare a scoprire che noi stessi possiamo imparare ad osservare la nostra esperienza mentre avviene, a guardarla in modo curioso e allargare in questo modo l’orizzonte delle possibilità, delle scelte e riconoscere in questo modo quale è la maschera che indossiamo.

Mantenendoci dentro la maschera che indossiamo, potremmo pensare al Sé Come Contesto come ad un attore, che SA di essere un attore, SA di essere su un palco e che SA che una volta conclusa la storia messa in scena si può “uscire dal personaggio”, togliere la maschera e vivere le esperienze della vita nella loro interezza, in modo pieno e significativo, meno vincolato dalla propria storia e, soprattutto, SCEGLIENDO se seguire il “personaggio della sua maschera” (e comportarsi come se credesse alla storia del proprio sé concettualizzato) oppure no. 

Nell’ACT questo atteggiamento viene chiamato “consapevolezza di essere consapevole”, oppure “Coscienza dell’essere cosciente”.

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E, a pensarci bene, tale abilità è ciò che caratterizza la pratica della mindfulness e che la rende qualcosa di pienamente diverso da quasi tutto il resto degli esercizi esperienziali e comportamentali presenti in psicoterapia…

 

LEGGI LA MONOGRAFIA ACT

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CREDENZE-BELIEFS – MINDFULNESS – METACOGNIZIONE –  ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – PSICOTERAPIA COGNITIVA

 

Bullismo & Effetti in Età Adulta

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Non solo essere vittime di bullismo ma anche l’essere bulli aumenta la probabilità dell’insorgenza di depressione e ansia una volta maturati

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Essere vittime di episodi di bullismo da bambini è spiacevole nell’immediato, ma costituisce un fattore che aumenta il rischio di sviluppare un disturbo d’ansia oltre che nell’infanzia e nell’adolescenza anche nell’età adulta.

Questo è quanto suggerisce una ricerca pubblicata in questi giorni sull’autorevole JAMA Psychiatry. La cosa interessante è che secondo lo studio non solo essere vittime di bullismo ma anche l’essere bulli, ovvero essere i perpetratori di angherie nei confronti dei propri pari, aumenterebbe la probabilità dell’insorgenza di depressione e ansia una volta cresciuti.

1420 soggetti di età compresa tra i 9 e i 16 anni sono stati valutati da 4 a 6 volte nell’arco degli anni  e sono stati categorizzati in 4 gruppi: bulli, vittime, sia bulli che vittime nello stesso tempo, nessuna delle precedenti. Gli stessi soggetti sono stati poi sottoposti in età adulta (19, 21 e 24.26 anni) a colloqui diagnostici semi-strutturati con l’obiettivo di valutare alcune variabili di outcomes psicopatologico come depressione, ansia, disturbo di personalità antisociale, dipendenza da sostanze, etc.

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
Serie consigliata: “I comportamenti aggressivi dei bambini”

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I risultati indicano che il gruppo delle “vittime” e dei “bulli e vittime” presentano elevati rates disturbi psichiatrici da giovani adulti.

In particolare la categoria delle “vittime” nel passaggio dall’adolescenza alla giovane età adulta continuano a presentare in misura rilevante (più elevata prevalenza) disturbi quali agorafobia, disturbo d’ansia generalizzato, e disturbo da attacchi di panico; d’altro canto il gruppo “sia vittime che bulli”(una vittima che è diventata a sua volta bullo o che presenta nello stesso tempo comportamenti di bullismo) sarebbero invece a maggior rischio di disturbi depressivi, disturbi da attacchi di panico, agorafobia (solo nel caso delle femmine), con un aumento di rischio suicidario soltanto in relazione al genere maschile.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: BAMBINI & ADOLESCENTI

Contro ogni sorpresa, le analisi danno ragione al nostro volgare buon senso clinico, poichè per i bulli “duri e puri” vi sarebbe un maggior rischio di sviluppare un disturbo antisociale della personalità. L’accuratezza dello studio che ha seguito i soggetti per un periodo molto esteso di tempo dall’infanzia alla giovane età adulta, pone al centro il tema del bullismo in voga di questi tempi apportando consocenze specifiche in merito alle specificità del bullismo in quanto fattore di rischio a lungo termine per i disturbi psicopatologici.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

BULLISMO – DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’ – BAMBINI & ADOLESCENTI 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

L’Insostenibilità Neuroconcettuale della Fisica Teorica del ‘900 di Roberto Bertagnolio

Dott. Roberto Bertagnolio

L’Insostenibilità Neuroconcettuale della Fisica Teorica del Novecento

Roberto Bertagnolio spiega ai lettori di State of Mind la sua tesi sulla insostenibilità neuroconcettuale della fisica teorica del ‘900.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SCIENZE COGNITIVE

Immanuel kant è stato il primo a spostare lo spazio e il tempo dal mondo fuori di noi al mondo dentro di noi, ma Kant era un uomo del settecento, e a quel tempo non c’era né la neuroscienza né la psicologia cognitiva né la psicoanalisi né il materialismo (storico-dialettico) che storicizza i concetti, evita le universalizzazioni e permette le traslazioni epistemologiche.

Ora tocca a noi sradicare definitivamente dalla testa quelle che passavano come categorie dette trascendentali. Ora, dopo un secolo di Neuroscienza e di Psicoanalisi, sappiamo che queste categorie sono già una derivazione causata da un’anomalia evolutiva che riguarda la disconnessione simmetrica degli emisferi e su questa anomalia dualistica si installa un sistema psicoanalitico di rispecchiamento della stessa.

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Schema Percezione Coscienza in Freud

Questa anomalia porta a una discrepanza dualistica fra il soggetto e l’oggetto che percorre i millenni del pensiero Occidentale, dalla scienza presocratica alla quantistica. Conduce a bavagli psichici che stanno alla base della confusione cognitiva e sono presenti in tutta la fisica del 900, come il dualismo determinazioneindeterminazione, simmetricoasimmetrico, finito-infinito, materia-antimateria, RelativitàQuantistica, onda-particella eccetera. Il mio lavoro sperimentale si è svolto in 38 anni di insegnamento. Dall’Università popolare di Biella ai vari licei ed infine, con la concessione di un progetto speciale, ho avuto il privilegio di seguire negli anni ’90, presso l’Istituto Comprensivo di Cavaglià sez. di Cerrione (BI), anche gli alunni di prima elementare di classi multietniche, in particolare sul rapporto OggettiMentali e teoria degli insiemi, per sei anni. Mi sono convinto che tale teoria non è che  il riflesso della disposizione simmetrica-deterministica degli Oggetti Mentali, struttura base del pensiero*.

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Tale struttura, attraverso passaggi complessi e poi c’è la traslazione dal simbolo al segno), conduce fino alle equazioni base della fisica.

 Ora, nell’ultimo periodo, sto lavorando sul concetto di Infinito, perchè sono convinto che il blocco neuropsichico alla base del concetto sia la vera causa delle confusioni fisiche, astrofisiche e cosmologiche attuali, e di tutti i problemi irrisolti che creano ambiguità logicointerpretative sia nella Relatività sia nella Quantistica. Si tratta in particolare del concetto di Entanglement[1]: Einstein è il primo a non essere convinto del concetto stesso. Innanzitutto non accetta l’idea che due fotoni viaggino in simultanea a miliardi di Km. di distanza, idea che presuppone l’esistenza di una velocità tendente all’infinito e questo metterebbe in discussione il limite “sacrale” della velocità della luce.

Einstein poi, assieme ad altri fisici, ritiene l’Entanglement un concetto inspiegabile (EPR)**. Questo resta il vero problema di fondo. Per la Relatività e per la Quantistica rimane il blocco psichico in relazione ad una energia “infinita”. Rimane cioè il limite neuropsichico in relazione al concetto di infinito. Limite derivante dalla disconnessione emisferica che impone bavagli cognitivi anche alla struttura matematica, non risolti con l’escamotage di Cantor[2] della corrispondenza biunivoca (pone in corrispondenza ad esempio numeri pari e numeri dispari).

Schema di C.

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Per la quantistica si pone un’ulteriore contraddizione: i “pacchetti” di energia finita, vale a dire i quanti, Planck li aveva progettati proprio per evitare ciò che riteneva assurdo cioè un’energia infinita (Teoria dei forni, corpo nero, Einstein-effetto fotoelettrico***), e su questo tabù è stata coniata la struttura dell’atomo di Borh, coi “salti energetici“.

Citiamo le parole sintetiche di Amiir D. Aczel: “Per esempio due fotoni emessi da uno stesso atomo quando il suo elettrone discende di due livelli di energia sono, come si dice in gergo, entangled. (i livelli energetici sono associati all’orbita di un elettrone nell’atomo). Sebbene nessuno dei due fotoni si muova lungo una direzione definita, la coppia verrà sempre individuata ai lati opposti dell’atomo. E simili fotoni o particelle, prodotti in un modo che li lega tra loro, rimarranno Entangled, cioè “accoppiati”, per sempre. Se si agisce su uno dei due fotoni, il suo “gemello”, ovunque si trovi nell’universo, reagirà a sua volta, istantaneamente”[3]. Per essere coerente a Planck, cioè alla negazione dell’energia infinita, Borh nel modello di atomo che costruisce, fa scindere con i “Saltidi energia finita un elettrone in due fotonigemelli“, perchè non può dare una spiegazione all’Entanglement con un concetto di energia infinita. Il concepimento delle particelle gemelle è la soluzione neuropsicologica legata all’anomalia emisferica, un escamotage per deviare l’ostacolo irrisolto dell’Infinito.

 LEGGI GLI ARTICOLI SU: SCIENZE COGNITIVE

*(i miei studi vedi PS )

**(EPR) Einstein-Podolshy-Rosen. Entanglement, una concettualità ambiguo cognitivamente per Relativisti, ma altrettanto ambigua è la spiegazione che danno i fisici quantistici. Partiamo solo da questa contraddizione evidente:formulazione di una concettualità che tende all’infinito, nata da “pacchetti” di energia concepiti come dimostrazione evidente dell’assurdità del concetto stesso di infinito.

*** Sia per quanto riguarda la teoria dei forni sia il corpo nero sia l’effetto Fotoelettrico affiora, nell’interpretazione della struttura della luce (tutto si complica quando ci sono di mezzo e Fotoni, in quanto si pongono distorsioni percettive enormi), un dualismo concettuale di fondo, assunto come “realtà”. Quest’assunzione da parte di Planck e di Einstein, di  un’onda continua o di una particella,*** è un’ulteriore conferma di una disconnessione emisferica alla base di tutto il pensiero occidentale, tendente alle concezioni dualistiche che in questo caso è un limite nei confronti del concetto di Infinito.

 

PS: I due schemi che si riferiscono e al pensiero logicosimbolico e al parallelismo fra la struttura degli insiemi e degli Oggetti Mentali, sono tratti dal mio saggio sui limiti neuropsicologici del pensiero occidentale in rapporto alle moderne fisiche e astrofisiche (Prefazione di Marco Pivato), ed. MJM Meda, 2011.

 

*** Questo dualismo merita un discorso a parte, perché sta alla base delle confusioni gnoseologiche del 900, anche se ha prodotto tanti premi Nobel.

 


[1]           Entanglement:due particelle separate anche da miliardi di Km, possono risultare collegate, qualunque cosa accada ad una accade istantaneamente anche all’altra.

[2]           Cantor –concetto di corrispondenza biunivoca-Schema

[3]           Amir D. Aczel, Entanglement, Raffaello Cortina editore, MI 2004, prefazione XVII.

La Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman. Seminario Avanzato parte 2

CRONACHE LONDINESI #3

 Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman

Seminario avanzato – Seconda parte.

 

La Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman. Seminario Avanzato parte 2 - Peter Fonagy
Peter Fonagy Ph.D durante l’intervista rilasciata a State of Mind presso l’Anne Freud Centre di Londra.

La MBT prevede una forte raccomandazione a intervenire, interloquire, interrompere il paziente, chiedere tanti chiarimenti, stimolarlo continuamente. Una tecnica molto attiva e al tempo stesso poco direttiva. Al paziente è lasciata sempre la scelta degli argomenti

LEGGI L’INTRODUZIONELEGGI LA PRIMA PARTE

Non ci sono molte novità in questo secondo giorno di corso avanzato di Mentalization Based Therapy (MBT). Ci si esercita guardando video, facendo simulate e discutendo in gruppo. Oppure ascoltando Fonagy e Bateman, che rifilano un altro paio di randellate al freudismo. Date le poche novità sarò breve, anche perché sono appena tornato in aereo da Londra e sono stanco morto.

ARTICOLI SULLA PSICOANALISI

Dicevo delle randellate. Fonagy dice chiaramente ed esplicitamente che la sua MBT non è una terapia psicodinamica. Lo hanno già detto ieri e lo ribadiscono. Mi chiedo: ma lo dicono tutti i giorni? Ancora una volta fa impressione sentire questo nell’Istituto Anna Freud. È davvero un segno del tempo che passa.

La cocaina, Freud e la lezione dei maestri. - Immagine: licenza Creative Commons, Autore: http://www.flickr.com/photos/ajourneyroundmyskull/
Articolo Consigliato: La cocaina, Freud e la lezione dei maestri.

Non basta. Fonagy ci racconta anche della sua supervisora di tanto tempo, una freudiana ortodossa dal forte accento viennese. Anche questo fa impressione: Fonagy, penso, ha fatto in tempo a entrare in contatto diretto con alcuni membri del gruppo storico di viennesi che, fuggendo dall’Austria occupata dal Terzo Reich, emigrò a Londra. Avrà anche conosciuto direttamente Anna Freud, Melanie Klein, Ernest Jones e poi Winnicot, Fairbairn, Balint e tutta la compagnia. Mi pare plausibile, e avrei voluto chiederglielo.

Però è stato meglio non chiederglielo, dato che il racconto di Fonagy è divertente e triste al tempo stesso. Questa supervisora era una piccoletta autoritaria che si sistemava su una sedia altissima e piazzava, terrorizzandolo, il supervisionato su una sedia bassissima. Dopodiché affliggeva il disgraziato con degli sprezzanti “What did you saaaayyyy?” con inimitabile accento viennese. E Fonagy conclude dicendo testualmente che in quella maniera imparò poco. Che come giudizio sulla formazione analitica ricevuta mi pare una bella mazzata.

E continua così: per tutto il corso ci sono distanziamenti dall’analisi. La MBT prevede una forte raccomandazione a intervenire, interloquire, interrompere il paziente, chiedere tanti chiarimenti, stimolarlo continuamente. Una tecnica molto attiva e al tempo stesso poco direttiva. Al paziente è lasciata sempre la scelta degli argomenti.

Non ci sono solo chiarimenti in questa terapia, però. Il terapeuta MBT può anche invitare a ipotizzare spiegazioni diverse sugli stati mentali propri e altrui. E in alcuni casi fa qualcosa che si chiama “challenging”.

Il “challenging” non mi è chiarissimo come concetto. Se ho ben capito il terapeuta fa “challenging” quando esprime un punto di vista differente sul contenuto o la congruenza di uno stato d’animo. Somiglia alla confrontazione di Kernberg e forse al disputing cognitivo, anche se Fonagy ci tiene a dire che non è la disputa cognitiva. La quale per lui è soprattutto la disputa logico-empirica alla Beck e non quella pragmatica ed emotiva di Ellis.

La Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman. Seminario Avanzato parte 2 - Antohny Bateman
Anthony Bateman presso l’Anne Freud Centre di Londra, codidatta di Fonagy nel corso avanzato di Mentalizazion Based Therapy

In conclusione, Fonagy propone un trattamento semplicissimo riassumibile in un unico intervento: invitare il paziente a mentalizzare, a saper riformulare tutto quel che riporta in forma di stato mentale, in modo da imparare a riconoscere la natura mentale e interna dei sentimenti intensissimi e dolorosi che mostra.

Inviti a riformulare diversamente sembano meno presenti. Fonagy privilegia il riconoscimento degli stati d’animo. Anche se poi il challenging è un invito a una visione diversa.

In conclusione, la MBT è una terapia che concepisce la psiche come elaborazione cognitiva e percezione cosciente emotiva. D’inconscio e di dinamico non c’è nulla. Mentre il transfert è ridotto a fenomeno interpersonale possibile tra i tanti che possono accadere, senza un valore particolare. Come poi lo stesso Fonagy ribadisce nell’intervista che ha concesso a State of Mind e che pubblicheremo a breve, la MBT non è una terapia analitica e nemmeno dinamica.

 

LEGGI L’INTRODUZIONE – LEGGI LA PRIMA PARTE

Psiche & Legge #6 – La Mente Esplode. Parola alle Neuroscienze

PSICHE E LEGGE #6

 Rubrica a cura di Selene PASCASI, Avvocato, Giornalista Pubblicista, Autrice

 

    La mente “esplode”.

Il delitto è frutto del volere criminale o del gene malvagio?

La parola passa alle Neuroscienze

LEGGI GLI ARTICOLI DELLA RUBRICA PSICHE & LEGGE

Psiche & Legge #6 - La Mente Esplode. Parola alle Neuroscienze. - Immagine: © konradbak - Fotolia.comPsiche & Legge #6 – Oggi andrò oltre, fino a tracciare un sentiero particolare, sul quale appronteranno passi importanti le neuroscienze.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: NEUROSCIENZE

Come si ricorderà, nelle scorse rubriche, ho affrontato le delicate tematiche inerenti la nozione di imputabilità, legata a quella di capacità d’intendere e di volere, e di pericolosità sociale del reo. Trattasi, è evidente, di questioni di estrema rilevanza nell’ambito di un processo penale, laddove l’accertamento del vizio di sanità mentale dell’assistito, deciderà le sorti della sentenza, sia in punto di trattamento sanzionatorio, che sotto il profilo dell’eventuale applicazione di misure di sicurezza.

È noto, difatti, come nell’ordinamento italiano, il presupposto essenziale per la perseguibilità del soggetto agente, sia il vaglio sul pieno possesso della cosiddetta “capacita di intendere e di volere”, al momento della commissione del delitto. Ed è noto, altresì, come con il termine “reato”, si intenda “l’atto criminale”, letto come comportamento espressamente punito a norma di legge, e perpetrato con intenzione delittuosa. Ebbene, se un individuo non imputabile non potrà mai ritenersi responsabile di un fatto doloso o colposo, andando esente da sanzione penale, sarà doverosa premura, quella di esaminarne con certosina attenzione, l’effettivo stato mentale, con riferimento all’istante in cui se ne sia accertata la perpetrazione dell’azione delittuosa.

PSICHE E LEGGE #5 - Chi è il “Pericoloso Sociale”?. -Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com
Articolo Consigliato: PSICHE E LEGGE #5 – Chi è il “Pericoloso Sociale”?

LEGGI GLI ARTICOLI SU: VIOLENZA

Così, se in precedenza, mi sono già occupata di chiarire il metodo mediante il quale taluno possa ritenersi, o meno, capace di intendere e/o di volere, l’odierno approfondimento, andrà oltre, fino a tracciare un sentiero particolarissimo, sul quale appronteranno passi importanti le novelle conoscenze scientifiche.

Nella corrente analisi, pertanto, si vuole dar risalto al ruolo, fondamentale, oggi rivestito dalle Neuroscienze, ambito scientifico cui gli operatori del diritto potranno fare affidamento – in aggiunta alle metodologie classiche, rinvenibili nei dettami del codice penale – per indagare sullo stato di infermità psichica del reo, quale condizione patologica, non necessariamente duratura, ma comunque in grado di elidere (vizio totale, art. 88 c.p.) o diminuire (vizio parziale, art. 89 c.p.) la capacità del soggetto. Può sostenersi, in altre parole, che l’evolversi del progresso scientifico, abbia plasmato il pensiero della giurisprudenza, guidandone i passi in un iter scandito, principalmente, da tre passaggi di rilievo: la nozione di infermità strettamente legata ai criteri nosografici, che la leggevano come vera e propria malattia del cervello o del sistema nervoso, la nozione di infermità psicologicamente orientata, ed, infine, quella connessa al dato sociologico, implicante valutazioni inerenti il contesto socio-culturale di appartenenza dell’individuo.

Di qui, l’affermarsi della tesi attuale, stesa sulla base di una sinergica ricostruzione delle tre descritte teorie, tanto da forgiarsi un modello di malattia mentale maggiormente elastico, e comprensivo – come sostenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione, con pronuncia n. 9163 del 25 gennaio 2005 – dei disturbi della personalità, purché caratterizzati da una gravità ed intensità tali da elidere o diminuire sensibilmente la capacità del reo.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: DISTURBI DI PERSONALITA’

Quanto precisato, però, lo si noti, nulla apporta di innovativo ai rilievi svolti in occasione degli altri appuntamenti di rubrica. Ciò che di nuovo si affaccia sullo scenario del processo penale – su cui è mio intento far riflettere – è quel qualcosa in più, cui la scienza e la giurisprudenza stanno rivolgendo attenzione, in maniera sempre più pregnante. Il riferimento, come anticipato, è alla “necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza”, imprescindibile al fine di accertare se, ed in quale misura, le condizioni psichiche dell’agente, possano averne guidato la mano criminale.

E’ in questo contesto, che può saggiarsi e apprezzarsi l’apporto delle Neuroscienze. Ma cosa intendiamo esattamente con tale termine? In via esemplificativa, possiamo definire le Neuroscienze, come scienze tese a studiare il rapporto esistente tra il funzionamento cerebrale, i sintomi psicopatologici propri del reo, e il comportamento delittuoso da questi posto in essere. Con il ricorso a tali conoscenze, si vuole vagliare, dunque, il grado di incidenza di specifiche e riscontrate alterazioni dell’attività celebrale – talora annunciate da sintomi psicopatologici, correlati in taluni casi a un’anomalia funzionale dell’encefalo – e la perpetrazione della condotta violenta. Le domande, allora, saranno molteplici. Quanto l’azione criminale è conseguenza della patologia, e quindi anche in una certa misura del patrimonio genetico del reo?

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Quanto un omicidio è voluto, e quanto, invece, è dettato dal corredo genetico dell’assassino e/o da patologie idonee a compromettere la funzionalità dei lobi frontali, in conseguenza a traumi, a percorsi neurodegenerativi, o a specifiche caratteristiche biologico-genetiche? Quanto, infine, può aver influito l’uso di alcool da parte della donna, durante la gravidanza, sulle anomalie di sviluppo mentale e sulla marcata aggressività del bambino (in seguito reo), alla luce della cosiddetta Alcohol Fetal Syndrome (FAS)? E quali sono le metodologie cui è possibile ricorrere al fine di “frugare” nel cervello umano, per meglio comprendere il nesso esistente tra struttura cerebrale, funzionalità cerebrale, sintomi patologici e comportamento aggressivo?

Il ruolo della Suggestionabilità nelle Testimonianze del Minore. - Immagine: © N-Media-Images - Fotolia.com
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A fronte di questi e mille altri interrogativi, ne sovvengono ulteriori: è davvero possibile che il progresso scientifico sia in grado di leggere la mente e il cervello omicida e carpirne il “funzionamento”? L’individuo, è effettivamente dotato di una sorta di libretto di “istruzioni per l’uso”, recante anomalie e conseguenze delle stesse? Le scienze – avvalorate da pronunce di merito, su cui si tornerà a breve – offrono un responso positivo. Del resto, non si tratta, a ben ricordare, di un’impostazione del tutto nuova.

Basti pensare al fatto che i primi studi inerenti la correlazione tra i gravi turbamenti della personalità, ed i traumi cerebrali si rinvengono già a metà degli anni ottocento (cfr. caso Phineas Gage, descritto dal medico inglese Harlow). Viene da se, allora, come il progresso scientifico non sarà che un acceleratore del processo, già avviatosi tempo fa, imperniato sull’utilizzo di strumenti esplorativi del cervello (tomografia ad emissione di positroni, PET; risonanza magnetica strutturale, MRI e risonanza magnetica funzionale, fMRI).

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Così, nell’esaminare “i perché” dell’atto criminale, si studierà, con riferimento al reo: a) la biologia dell’encefalo (anche in relazione ai geni potenziali originatori di atti aggressivi); b) la personalità (ambiti pertinenti alla psicologia e alla psichiatria forense); c) il contesto sociale. Fattori, quelli indicati, di imprescindibile valutazione per far luce sulla concreta “capacità di intendere e di volere” del criminale, alla stregua dei criteri offerti dal DSM-IV, prossimo alla sua quinta edizione, e dall’ICD-10 (decima revisione della classificazione ICD, classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati). Non solo. Quanto alla biologia del cervello, in campo forense è già frequente il ricorso alla risonanza magnetica cerebrale, tesa a scovare le cause delle disfunzioni comportamentali.

Viene da se, dunque, come diritto penale e scienza, non esclusa la genetica molecolare, debbano andare a braccetto in tale delicato settore. Imput, già recepito da attenta giurisprudenza. Si annoveri la nota sentenza emessa dalla Corte di Assise di Trieste (n. 5 dell’1 ottobre 2009), resa in linea con le innovative ed anticipate tecniche di indagine scientifica sulla psiche del criminale. Ad aprire il caso risolto dai giudici triestini, l’omicidio commesso, a seguito di un banale alterco, da un uomo a carico del quale venne riscontrata – a seguito di accertamento peritale – sia una patologia psichiatrica di tipo psicotico, connotata da episodi di delirio, che un rilevante disturbo della personalità.

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Condizione per la quale l’imputato, pur riconosciuto parzialmente infermo di mente, non fu ritenuto meritevole di beneficiare altresì di uno sconto di pena. La difesa, nel contestare la decisione, gioca il jolly delle Neuroscienze. Al fine di dimostrare la sussistenza di una rilevante seminfermità mentale dell’assistito, era necessario – precisò l’avvocato – esperire un’indagine cromosomica sul patrimonio genetico del reo, da affidarsi ad esperti in genetica molecolare, ed in neuropsicologica clinica.

L’esito della perizia fu sconvolgente: il soggetto presentava polimorfismi genetici – allele MAOA (MAOA-L) – “colpevoli” di favorire reazioni eccessivamente aggressive, ed impulsive, ad eventi stressanti. Il suo corredo genetico, dunque, lo rendeva più vulnerabile, potenziandone l’emotività, a fronte di situazioni associate a contesti sociali sfavorevoli.

Sulla base delle risultanze ottenute, la Corte riduce di un anno la pena originariamente inflitta. Pena ridotta – va marcato – non già per la presenza di un “gene malevolo”, come è stato affermato in maniera fuorviante in talune occasioni – bensì per l’essersi avvalorata (grazie alle Neuroscienze) la prova della follia, seppur parziale, del criminale. A conferma, il Nuffield Council on Bioethics, Genetics and Human Behvior, è fermo, da tempo, nel sostenere come la presenza di un allele sfavorevole, sarebbe in grado di sollecitare una condotta violenta. Ancora, si potrebbe portare il caso della sentenza del Giudice per le Indagini Preliminari di Como, emessa maggio del 2011.

Le porte del processo, in quel caso, si spalancarono a seguito della condanna di una giovane donna, a venti anni di reclusione – inflitti con rito abbreviato – per il tentato assassinio della madre, e l’omicidio della sorella, i cui resti, carbonizzati, furono ritrovati due mesi dopo il delitto. Sottoposta a perizia, alla criminale venne riscontrato un vizio parziale di mente. Incapacità parziale accertata, però – lo si noti – non a seguito della somministrazione degli usuali test psichiatrici – bensì con ricorso alle accennate indagini neuropsicologiche, che evidenziarono la presenza di alleli significativamente associati “ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento”.

Gli esiti delle descritte perizie, dunque, non avevano fatto altro che avvalorare – vestendola di valore scientifico – l’ipotesi che le attività cognitive (controllo del comportamento, pianificazione, distinguo giusto/ingiusto), siano legate al funzionamento di specifiche strutture cerebrali, localizzate soprattutto nel lobo frontale. È in quella regione del cervello, pertanto, che risiederà la maggiore differenziazione tra soggetti sani e folli criminali, laddove una diversa densità dei neuroni, unitamente ad altri fattori, potrà segnare il passo tra l’azione coerente e quella delittuosa.

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È agevole affermare, allora, nel chiudere le maglie della rubrica, come sia la pronuncia triestina, che quella comasca, gridino con forza l’esigenza che il sistema penalistico italiano, si allinei allo standard d’oltreoceano, sempre più proteso all’ingresso nel processo di specifiche indagini sulla condizione psichica del reo, condotte mediante le più evolute tecniche peritali (indagini cromosomiche, diagnosi descrittive, risonanza magnetica dell’encefalo).

Il legale dell’individuo autore di un delitto particolarmente cruento, dunque, potrà inserire nel bagaglio difensivo, l’opportunità di far ricorso a perizie neuro scientifiche, tese ad ottenere – dati alla mano – la comminazione di sanzioni adeguate all’effettivo stato mentale riscontrato nell’assassino all’atto di uccidere, stante l’eventuale presenza di anomalie genetiche e biologiche, idonee ad influire in maniera non indifferente, sulla perpetrazione del crimine. E se – come sostiene il Dott. Nicholas Mackintosh, professore di psicologia sperimentale all’Università di Cambridge – avere “un cervello psicotico non costituisce una difesa generica contro un’accusa di reati penali”, sarà consentito azzardare l’ipotesi del delinearsi, mi si permetta l’assunto, di una “nuova” imputabilità, disegnata su misura del singolo individuo sottoposto a processo.

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BIBLIOGRAFIA:

Borderline Personality Disorder: An Emotional Cascade

Edward Selby, Ph.D. in Clinical Psychology
Francesca Martino, Cognitive Psychologist

 

“I’ve always felt these things. I don’t think there are any words that describe them exactly, but they are a combination of rage, anger, extreme pain. They mix together into what I call the Fury… I am starting to learn how to deal with it, but until recently, the only way I knew was through drinking and drugs. I took

something, whatever it was, and if I took enough of it, the Fury would subside. The problem was that it would always come back, usually stronger, and that would require more and stronger substances to kill it, and that was always the goal, to kill it”         

 

                                                                                                                                – James Frey, A Million Little Pieces 


 

Borderline Personality Disorder - An Emotional Cascade - State of Mind
Borderline Personality Disorder – An Emotional Cascade – State of Mind

Emotion dysregulation in BPD may then be a result of an intense use of rumination. Yet the tendency to ruminate on negative emotions increases them, which in turn increase levels of rumination, leading to a vicious and repetitive cycle, which is called an Emotional Cascade. 

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Borderline personality disorder (BPD) is characterized by patterns of intense and negative emotions, interpersonal difficulties, and maladaptive impulsive behaviors. Emotional dysregulation and behavioral dyscontrol are central features of BPD (Linehan, 1993).

Emotional dysregulation includes intense emotional reactivity and sensitivity to stimuli, and slow return to emotional baseline. Research suggests that emotional instability may drive behavioral dyscontrol in BPD, including self-harm, aggression, substance use or binge eating. Although current research provides preliminary evidence for this model, specific mechanisms that cause emotion dysregulation and incite impulsive behaviors in BPD are still unclear.

Frank Yeomans: Understanding the BPD Mind (Interview)
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Recently, the Emotional Cascade Model (ECM; Selby et al. 2008; 2009) has provided incremental understanding of BPD, especially with regard to the relationship between emotional and behavioral dysregulation. According to the ECM, rumination could play a central role in increasing negative emotions and in enhancing behavioral dyscontrol.  In detail, when people with BPD experience negative emotions they may automatically start to ruminate on them, with the intention of regulating such negative and unpleasant emotionality.  

It is already known that rumination is a maladaptive cognitive strategy to regulate affects and consist of thinking repetitively about the causes and consequences of negative emotional experience (Nolen-Hoeksema, 1991). Even though rumination has been demonstrated to increase negative emotions instead of reduce it, many people continue to do it because they believe, incorrectly, that re-thinking about events will increase their understanding of the situation and aid in problem-solving (Papageorgiou, 2001).

Emotion dysregulation in BPD may then be a result of an intense use of rumination. Yet the tendency to ruminate on negative emotions increases them, which in turn increase levels of rumination, leading to a vicious and repetitive cycle, which is called an Emotional Cascade. 

In order to ‘‘break-up’’ this loop, an individual may engage in behavior that distracts him/her from emotional thoughts. These behaviors may inhibit this cycle by allowing an individual to focus on the alternate physical and emotional stimuli associated with the behavior, such as taste or chewing in binge-eating, impulsive and aggressive actions toward someone, physical pain and sight of blood in self-harm. The results of engaging in one of these behaviors are effective in altering affect, even though the effects may only last for a short time, which explains why many of these behaviors may become habitual.  Following the behavior, individuals may experience another rumination cycle until later, resulting from shame or guilt for engaging in previous dyscontrolled behaviors (as in binging and purging).

The ECM has previously been studied in students with BPD traits (Selby et al 2008, 2009, 2012). In a cross sectional study, findings showed that general rumination (depressive and angry) was the mediator between negative emotions and behaviors, confirming its central role in leading impulsive and dyscrontrolled actions when people with BPD traits experience unpleasant feelings.  Moreover, in a longitudinal study, high levels of negative emotions and rumination have been found to predict impulsive behaviors after few hours from the events.

In conclusion, the ECM have been confirmed in healthy samples. Even dough maladaptive cognitive strategies to regulate emotions, such as rumination, have been found in BPD (Baer et al. 2011), their implication in behavioural dyscontrol still need to be proved in clinical population. Actually, in Italy a research aimed to investigate the ECM in BPD has been conducting.

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REFERENCES:

 

Cibo, Restrizione Alimentare & Senso di Colpa

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il senso di colpa successivo all’aver mangiato troppo cibo incoraggia a rinnovare le promesse di sobrietà alimentare.

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Sembra che le persone che si definiscono “a dieta” siano un gruppo complessivamente infelice: di solito infatti hanno un alto punteggio nelle scale di depressione e ansia e bassa autostima. Un nuovo studio fornisce un indizio sul perché.

Jessie de Witt Huberts ed i suoi colleghi hanno testato tre gruppi di studentesse e hanno identificato la categoria dei restrained eaters, cioè coloro che più spesso sono a dieta e che si preoccupano costantemente di ciò che mangiano. Questi mangerebbero in realtà tanto quanto gli altri ma sperimentando molto più spesso, soprattutto in relazione a mangiare, il senso di colpa. In sostanza, si tratta di persone continuamente preoccupate di fallire, che si privano coscientemente dei piaceri del cibo.

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia. - Immagine: © bobyramone - Fotolia.com
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La ricerca si è svolta in tre studi che hanno seguito una procedura analoga. Decine di studentesse sono state invitate a un laboratorio per prendere parte a quella che pensavano fosse una degustazione di cibo per una catena di supermercati. Sono state lasciate sole per dieci minuti ad assaggiare un cibo ad alto e uno a basso contenuto calorico, come ad esempio patatine e frutta. Poi sono state interrogate sulle loro emozioni, compreso il senso di colpa, e sul loro atteggiamento nei confronti del cibo, tra cui la frequenza con cui sono a dieta e quanto spesso si preoccupano di quello che stanno mangiando.

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I ricercatori hanno scoperto che i restrained eaters avevano mangiato tanto quanto gli altri partecipanti, sia in termini di quantità che di contenuto calorico; ciò che li differenziava era però lo stato emotivo sperimentato a seguito della degustazione, infatti questi si erano sentiti più colpevoli, soprattutto a causa della loro indulgenza nello sperimentare il cibo proposto.

I risultati sono insufficienti a stabilire una relazione causale tra l’essere un restrained eaters e il provare sensi di colpa, ma possono aiutarci a capire perché mangiatori più sobri tendono a soffrire di problemi psicologici e perché tendono a sviluppare abitudini alimentari problematiche. Sembra infatti che siano bloccati in un circolo vizioso in cui il senso di colpa successivo all’aver mangiato troppo probabilmente li incoraggia a rinnovare le loro promesse di sobrietà alimentare; il non riuscire a mantenerle rinforza il senso di colpa che sarà di volta in volta sempre più intenso.

Dato che il 45 % delle ragazze attualmente riferisce di essere a dieta, i ricercatori pensano che sia imperativo imparare di più sui restrained eaters e sugli esiti negativi del loro comportamento.

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ALIMENTAZIONE – ATTIVITA’ FISICA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il seminario avanzato della Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman

 

CRONACHE LONDINESI #2:

 Il seminario avanzato della Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman

Reportage dal Anne Freud Centre di Londra, dove si tiene in questi giorni il modulo Advanced del training della Terapia Basata sulla Mentalizzazione

Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman - Advanced Course MBT - STATE OF MIND
Londra: la casa di Sigmund e Anne Freud, a pochi passi dal Anne Freud Centre, dove si tiene in questi giorni il modulo Advanced del training per la Terapia Basata sulla Mentalizzazione (MBT) di Peter Fonagy e Anthony Bateman.

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In questo inizio di seminario sulla MBT (Mentalization Based Therapy) Peter Fonagy ha ucciso Freud. E lo ha fatto nell’Anna Freud Institute, al numero 12 di Maresfield Gardens, una silenziosa strada di Londra. Siamo a pochi metri dal numero 20, dove Freud ebbe il suo ultimo indirizzo su questo pianeta, e nell’Istituto che porta il nome della figlia del padre della psicoanalisi e Fonagy ci dice che il modello pulsionale di Freud “has little evidence.

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Lo fa durante una delle sue esposizioni delle basi teoriche della MBT, in cui, come spesso fa, Fonagy collega la mentalizzazione a ricerche neuroscientifiche e neuropsicologiche sull’apprendimento e sulla comunicazione. A mio parere questa tendenza di Fonagy a chiamare in soccorso i dati della neurologia e psicologia dell’apprendimento a favore della sua teoria non è tra le sue cose migliori. Mi paiono collegamenti un po’ forzati, sono più una cornice generale che prove a favore, ma lui tende a presentarle così, come conferme del suo modello.

Terapia Dinamica Interpersonale Breve. Lemma A., Target M., Fonagy P.. Raffaello Cortina Editore, 2012
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O forse proprio questo è l’obiettivo di Fonagy: collegare la sua teoria alle ricerche sull’apprendimento infantile e sganciarla definitivamente dalle teorie di Freud. In questo modo Fonagy si può permettere quel divorzio da Freud che era già intuibile qualche anno fa, quando avevo affrontato il primo livello del corso MBT. Tutto questo però lo avevo già sentito. È destino che a ogni seminario MBT io mi debba sorbire le chiacchiere che servono a Fonagy per liberarsi dell’ombra di Freud? A quanto pare si, e così se ne va l’intera mattinata.

Nel pomeriggio si fa finalmente un po’ di pratica. Però la si fa subito, senza preamboli. Non c’è quella spiegazione passo per passo della tecnica MBT che attendevo ardentemente. La tecnica è affidata al manuale: “Guida pratica al trattamento basato sulla mentalizzazione. Per il disturbo borderline della personalità di Anthony Bateman e Peter Fonagy, pubblicato da Cortina nel 2010. Altra fregatura.

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Ci fanno assistere a un video di Bateman in seduta con una giovane paziente. Con l’inglese me la cavo, ma comprendere i video (così come la TV o il cinema) è un’impresa peggiore che capire cosa dicono le persone in carne e ossa. Arrivo a capire che la signorina in questione è la solita border che litiga con mezzo mondo: madre, fidanzato ed ex-fidanzato. E Bateman che fa? Interloquisce spesso e chiede continuamente alla paziente chiarimenti. Cosa pensava, cosa sentiva, perché pensava di avere sentito questa emozione nell’incontro con la madre, perché pensava di avere sentito quell’altra emozione nell’incontro col suo ex, e cosa presumibilmente pensava e sentiva la madre e cosa presumibilmente pensava e sentiva il suo ex. E così via.

Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011
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Insomma, un gran lavoro di chiarificazione di pensieri ed emozioni, attraverso una tecnica che mi pare tendenzialmente rapsodica e non troppo direttiva (è il paziente che sceglie gli argomenti, i problemi e le situazioni da discutere) ma incalzante (è previsto che il terapeuta interrompa anche spesso il paziente). La tecnica si articola in varie domande così classificate:

Empatia e supporto: “Vedo che si sente male”

Chiarificazione ed elaborazione: “Vedo che si sente ferito e mi chiedo: come mai?”

Intervento di mentalizzazione di base: “Vedo che si sente male e questo deve rendere difficile per lei venire a trovarmi / stare con me oggi” (dipende dal livello di attivazione affettiva che si desidera raggiungere)

Interventi di mentalizzazione di transfert: “Vedo che si sente male e questo mi ricorda di come spesso lei reagisce quando lei sente che qualcuno non fa esattamente quello che lei vuole che faccia”

L’ultimo intervento è una concessione alla teoria dinamica, ma Bateman e Fonagy raccomandano di usarlo con cautela.

Lo Specchio Riflessivo (Psicoterapia e Video Feedback) - Immagine: © skvoor - Fotolia.com -
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Visto il video, lo valutiamo in gruppo usando una scala di aderenza. Qui mi rendo conto di come i miei colleghi di corso siano tutti di formazione dinamica. C’è un gran parlare di transfert e di ricerca disperata di interpretazioni di transfert, per arrivare alla conclusione sconsolata che nel video Bateman non fa nemmeno un intervento di transfert che sia uno.

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Sono tutti delusissimi: volevano il transfert e hanno trovato la MBT! Ma che si aspettavano? Certo che la confusione regna sovrana. Ci si meraviglia tanto della quantità –a parere dei miei colleghi eccessiva per non dire spropositata- di interruzioni che Bateman infligge alla paziente. Si definisce il lavoro di Bateman con la paziente “very cognitive” mentre per me lo è poco, visto che ci si limita solo all’accertamento di pensieri ed emozioni.

Ma forse con pazienti così impulsivi -per non dire “incazzosi”- come i border la tecnica di Fonagy è adatta. Insomma, sono tutti degli psicoanalisti e Fonagy li sta spellando vivi. Il tutto per me è affascinante, anche se, lo confesso, va a finire che molte cose le sapevo già fare. Va sempre così ai seminari MBT.

Infine mi fanno girare un video con un’attrice. Sul serio. L’esercitazione finale consiste in un seduta con una paziente border simulata da un’attrice. Devo dire che l’attrice era bravissima. Pazzesco, mi hanno filmato con un’attrice. Questi mentalizzatori sono degli esaltati. Domani mi valuteranno la prestazione cinematografica. Insomma, finale hollywoodiano.

Vedremo come va a finire. Non so cosa pensare. Anzi, lo so. Voglio l’Oscar. Anzi, ne voglio tre. Come Daniel Day-Lewis.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Disturbo Ossessivo Compulsivo – Perseguitati dai Dubbi

 

Disturbo Ossessivo Compulsivo - Perseguitati dai Dubbi. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

Un dialogo interno, fatto di domande senza risposte certe, che porta la persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo a incessanti controlli.

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Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio, così diceva Bertolt Brecht e se questo è vero per tutti noi lo è ancor di più per chi soffre di Disturbo Ossessivo Compulsivo. Queste persone, costantemente attanagliate dall’incertezza e da una scarsa fiducia nella propria memoria si domandano più volte al giorno se hanno chiuso la macchina, se hanno spento il gas, se hanno mandato quella mail importante ecc… Questo continuo dialogo interno, fatto di domande senza risposte certe, porta la persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo ad attuare incessanti comportamenti di controllo per verificare di aver fatto tutto a dovere. La persona si trova così intrappolata in un circolo vizioso di dubbi, ansia e controllo.

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Il disputing delle idee ossessive e delle compulsioni. - Immagine: © fotocomo - Fotolia.com
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Da anni la terapia cognitivo comportamentale è considerata il trattamento di eccellenza per il disturbo ossessivo compulsivo. Tra le diverse metodologie cui si riferisce questo approccio vi è l’esposizione e prevenzione della risposta (exposure prevention response, ERP). I soggetti in pratica, dopo un intervento psicoeducativo sulla gestione dell’ansia, vengono esposti a stimoli per loro ansiogeni (ad esempio un dubbio sull’aver chiuso la porta di casa o il dover toccar un oggetto sporco) e si chiede loro di tollerare l’ansia indotta dall’incertezza senza attuare comportamenti compulsivi (ad esempio controllare la porta o lavarsi le mani).

Adam Radomsky e altri ricercatori canadesi della Concordia University hanno tuttavia constatato che non tutti i pazienti riescono ad applicare con efficacia questa tecnica, seppur molto valida, ed hanno così sviluppato un nuovo protocollo di trattamento per il disturbo ossessivo compulsivo.

 Tale approccio prende il via dall’osservazione e accertamento dell’enorme senso di responsabilità che spinge gli individui con disturbo ossessivo compulsivo a controllare in modo compulsivo il proprio ambiente. Inoltre, i continui controlli effettuati dai pazienti con disturbo ossessivo compulsivo, sottolinea Radomsky, producono via via una diminuzione della fiducia che il soggetto ha in se stesso e soprattutto nella propria memoria, il che aumenta l’incertezza inducendo sempre maggiori dubbi e quindi ansie e di nuovo controlli. Secondo Radomsky tale ciclo potrebbe essere spezzato sgonfiando i sentimenti di responsabilità personale spropositati e riducendo la catastrofizzazione dei soggetti con disturbo ossessivo compulsivo.

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I ricercatori canadesi si focalizzano quindi più sui processi mentali che sul comportamento compulsivo, andando a ristrutturare le credenze dei soggetti riguardo la percezione della propria responsabilità personale, la fiducia nella propria memoria e la tendenza alla catastrofizzazione. Tutto ciò permetterà di ridurre le insicurezze e i sentimenti di colpa che tormentano i DOC.

Gli autori, dopo aver sviluppato il modello teorico attorno al quale si struttura il nuovo protocollo di intervento, stanno ora sperimentando “sul campo” questo nuovo approccio per verificarne la reale applicabilità ed efficacia.

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DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO – ANSIA – PSICOTERAPIA COGNITIVA 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Epigenetica e Adattamento all’Ambiente

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La epigenetica introduce una nuova componente: la trasmissione trans-generazionale di cambiamenti nella regolazione dell’espressione genica.

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Nel XVIII secolo il Jean-Baptiste Lamarck, naturalista francese, elaborò la prima teoria dell’evoluzione degli organismi viventi basata sull’adattamento e sulla eredità dei caratteri acquisiti, secondo la quale gli organismi, così come si presentavano, fossero il risultato di un processo graduale di modificazione che avveniva sotto la pressione delle condizioni ambientali: per esempio, il collo allungato delle giraffe sarebbe la conseguenza dello sforzo cumulativo, attraverso le generazioni, di raggiungere le foglie appena fuori della loro portata. Questa teoria evoluzionista è stata in gran parte abbandonata con l’arrivo delle moderne teorie genetiche che spiegano la trasmissione da una generazione all’altra della maggior parte dei tratti importanti e di molte malattie.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Tuttavia, gli effetti cross-generazionali di traumi, disturbi dell’umore e dipendenze sono facilmente osservabili e oggetto di studio da parte di molti ricercatori che li hanno per lo più attribuiti alle modalità relazionali utilizzate dai genitori nei confronti dei figli.

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Nel nuovo numero di Biological Psychiatry, un team di ricercatori della University of Zurich and Swiss Federal Institute of Technology argomenta come l’emergere del campo dell’ epigenetica abbia introdotto un nuovo componente in questa discussione: la trasmissione trans-generazionale di cambiamenti nella regolazione dell’espressione genica.

La trasmissione genetica dei caratteri riflette alterazioni nella struttura genetica, cioè delle coppie di basi che formano il DNA. L’ epigenetica, invece, interessa processi cellulari che non alterano la struttura del DNA, bensì la misura in cui vengono convertiti i singoli geni in RNA messaggero. Questi cambiamenti possono verificarsi in qualsiasi cellula del corpo, ma quando si verificano nelle cellule germinali (spermatozoi o uova), le modifiche possono essere trasferite alla generazione successiva.

 I cambiamenti nella struttura del DNA sono eventi casuali che acquistano significato funzionale nel contesto del darwiniano processo di selezione naturale. Diversamente, le reazioni epigenetiche ad ambienti specifici sono progettate per consentire all’organismo di far fronte al contesto. Quando queste caratteristiche vengono trasmesse alla generazione successiva gli permettono un adattamento a quello specifico ambiente. I problemi sorgono quando i processi epigenetici danno luogo a tratti che non risultano essere adattativi per la prole o quando l’ambiente è cambiato.

John Krystal, direttore di Biological Psychiatry, suggerisce che forse i processi epigenetici potrebbero essere invertiti più facilmente di tratti genetici.

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GENETICA & PSICHE – SOCIETA’ & PSICHE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Corso di Perfezionamento CBT in Sessuologia – Parte 4

 

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LEGGI:

PARTE 1PARTE 2PARTE 3

La chiusura del Corso è caratterizzata  da un duetto d’eccezione, la Dr.ssa Cecilia Volpi e il Dr. Antonio Fenelli che hanno tenuto lezione insieme, come in un passo a due di danza classica,  in cui due corpi in movimento si coordinano in modo armonioso, enfatizzando uno la bellezza e l’eleganza dell’altro.

La Dr.ssa Volpi ha trattato il tema della Costruzione dell’identità di Genere e del Transessulismo, iniziando con una disamina del concetto di Identità: questo concetto più genericamente  risponde alla domanda “chi siamo?”, così come il concetto di Identità Sessuale risponde alla domanda “cosa siamo?” , fino all’Identità di Ruolo che risponde alla domanda “cosa facciamo?.  Altrettanto genericamente verrebbe semplice pensare di dare una risposta ad ognuna di queste domante! In realtà, scopriamo con un breve e divertente esercizio, che elencare i motivi del perché ci sentiamo “femmine” o “maschi” diventa la prova lampante di quanto l’ovvio alle volte ci inganni e, entrando nello specifico, ci si rende conto della complessità sottesa in ciascuna domanda e della difficoltà a farne una chiara distinzione.

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Iniziamo con la definizione di Identità Sessuale, quale consapevolezza intima e profonda di appartenere ad un certo sesso, in cui fattori biologici e contesto ambientale interagiscono, facendo si che l’individuo crescendo costruisca la propria Identità Sessuale e Personale.

Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile. - Immagine: © beaubelle - Fotolia.com
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Viene poi illustrato il processo di differenziazione sessuale, sia dal punto di vista biologico che psicosociale ed appare subito evidente quanto la comunicazione sociale e l’apprendimento siano fondamentali nel determinare il comportamento sessuale, così come dimostrato per esempio da uno studio (Money e Ehrhardt, 1972) che mostra come i genitori tendano ad assumere comportamenti diversi a seconda del sesso di appartenenza dei figli, pur pensando di comportarsi esattamente allo stesso modo; difficile diventa stabilire quanto dipenda dai nostri geni e quanto da ciò che abbiamo “imparato”: “il fatto che io lavi i piatti non dipende dalla genetica, ma dalla cultura!”.

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Money (1978) definisce l’identità sessuale come un  “progetto” che parte dal corredo cromosomico XX o XY, che si attua con lo sviluppo e l’“organizzazione” dell’individuo e, in tal senso, oltre al criterio organizzativo affidato essenzialmente agli ormoni sessuali fin dalla nascita, si lascia spazio ai processi organizzativi diversi, che determinano un differente e più complesso senso di sé con la consapevolezza profonda dell’appartenenza ad un “genere sessuale”.

Risulta evidente come  la differenza tra sesso genetico (l’apparire), identità di genere (l’essere)  e identità di ruolo (il fare) risulti poco chiara, se non alle volte confondente, per cui si può ragionevolmente supporre che il processo di costruzione dell’identità di genere avvenga all’interno del più ampio percorso della costruzione dell’identità personale e pertanto sia costantemente soggetto a fenomeni di falsificazione e conferma (Volpi).  Non sempre il fare, l’apparire e l’essere coincidono (pensiamo ad un bimbo che gioca con le bambole), ed è per questo possibile, auspicando una minore rigidità, osservare un continuum che lega l’identità maschile e l’identità femminile, al di là dei ruoli.

L’acquisizione della nostra identità di genere è un processo che non ha mai fine e rispetto al quale dobbiamo sempre negoziare e rinegoziare sia la dimensione intrapsichica che relazionale (Argentieri, 1996).

E’ così che inizia il capitolo sul Transessualismo: nonostante le testimonianze giunte dalla storia greca e romana, è necessario attendere il 1800 perché vengano pubblicati i primi lavori scientifici in cui vengono descritti casi di persone con discrepanza tra sesso genetico e sesso percepito: si pensava fossero persone sbagliate, ma sbagliate in cosa? Abbiamo sempre scelto di dire che è sbagliata la mente che non si adegua al soma! Il termine Transessuale viene utilizzato per la prima volta da D.O. Cauldwell nel 1949, ma il merito di aver correttamente inquadrato il problema spetta a H. Benjamin in un articolo del  1953 uscito sulla rivista “International Journal of Sexology”. Fu così che nel 1951 si realizzò il primo caso di adeguamento somatico dal punto di vista chirurgico, per cui George diventò Cristina e con il 1968 esce uno dei primi testi di ricerca sul transessualismo, “Sex and Gender” di uno psicoanalista americano, iniziandosi così a delineare la differenza tra sesso (biologico) e genere (complesso).

Per quando riguarda l’inquadramento diagnostico del Transessualismo, dobbiamo aspettare il 1980, quando il DSM lo inserisce tra i disturbi psicosessuali in una sezione riguardante i disturbi dell’Identità di Genere. 

Inoltre, controversa risulta l’eziopatogenesi del transessualismo: come si possono definire le “cause” di un fenomeno così complesso? Considerando che l’Identità Sessuale è frutto di un percorso, ciò che potremmo osservare sarà il risultato possibile di tale percorso, derivante dall’incontro fra le risorse dell’individuo e quelle del contesto verso una soluzione: il transessualismo rappresenta quindi solo una delle infinite possibilità.

Grazie all’esperienza della Dr.ssa Volpi e ad alcuni stralci del famoso film “Mery per sempre” del 1989, emerge la difficoltà a utilizzare le classificazioni diagnostiche, a tratti ostili, tanto più se si parla di “disturbo”, senza tenere conto di quanto disturbato è ciò che avviene nel sociale  nei confronti di queste persone. Il transessuale giunge in terapia assolutamente consapevole del suo problema, già dalla pubertà ha iniziato a capire che “questo corpo non va bene … io mi sono sempre sentito maschio!”. Per questi motivi,  una diagnosi va fatta in relazione allo stato di salute mentale, ad una eventuale sofferenza e a disturbi psicologici, non al modo di percepirsi e sentirsi; l’attenzione è rivolta a proteggere la persona, non rispetto al suo sentirsi transessuale, ma per verificare lo stato di salute mentale che potrebbe, se disturbato, condurlo ad un iter irreversibile.

Anche per questo motivo la legge 164 del 1982, che regolamenta l’intervento di “adeguamento dei caratteri sessuali”, con rettificazione anagrafica,  prevede a seguito della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso che il giudice istruttore disponga l’acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni “psicosessuali” della persona che ne fa richiesta. Seppur nel tentativo di “normalizzare” molte situazioni difficili, è innegabile che dal punto di vista legislativo molte questioni restano aperte, ma soprattutto, sembra mancare, come sottolinea la Dr.ssa Volpi, il rispetto per il “diritto all’Identità Sessuale” peraltro sancito dall’articolo 8 della convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Per esempio, non è chiaro chi possa effettuare la perizia, così come è lesa la libera scelta dell’individuo, che non ha altra possibilità per la rettificazione anagrafica se non quella dell’adeguamento medico-chirurgico (non solo estetico), un intervento di rilevante entità.

Dal punto di vista Terapeutico, si è ben lontani per fortuna, dalla prime terapie definite “dissuasive”, cioè volte a convincere le persone “che non erano quello che sentivano di essere”.

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È il “corpo” che portano in terapia, quel corpo così odiato, temuto, negato, ed è del corpo che coerentemente si inizia a parlare, così come sottolinea la Dr.ssa Volpi, che presenta poi un percorso terapeutico in ottica costruttivista il cui filo conduttore è permettere all’individuo di affrontare l’iter con meno sofferenza emotiva possibile, “conoscendo” ed “esplorando” l’inesplorato: si inizia dall’ Accettazione dell’identità transessuale da parte del terapeuta, fino a giungere alle scelte del cambiamento vero e proprio, sentito, consapevole a questo punto, e tanto desiderato.

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Il Dr. Fenelli ha invece iniziato la lezione con una disamina del concetto di Resistenza, termine che in senso generico indica l’azione e il fatto di resistere mediante una qualunque forma di opposizione attiva o passiva, ed è utilizzato in diversi ambiti con connotazioni diverse.

Dal punto di vista psicoterapeutico, nei vari modelli psicopatologici e psicoterapeutici il concetto di resistenza è ricco di significati e di metafore ed è solitamente ascrivibile a un soggetto in cerca di cure per le sue sofferenze, che però mette in atto una sorta di opposizione, di riluttanza e fatica ad abbandonare vecchi e consolidati stili di tipo difensivo che gli permettono un certa forma di “sicurezza”.

Dopo una carrellata dei diversi approcci teorici e del loro modo di definire e trattare le resistenze, delle diverse modalità con cui queste resistenze possono manifestarsi, si sottolinea come in ottica costruttivista il non cambiamento non è più ascrivibile alla resistenza, alla volontà di non cambiare, alla paura di farlo o all’assenza di risorse per farlo. L’indagine in tal senso è orientata all’analisi delle rappresentazioni, dei sistemi di credenze e di significati attraverso cui il paziente costruisce la sua realtà sociale (e quindi anche la terapia).  In tal senso è utile che il terapeuta si interroghi sul tipo di relazione che sta costruendo con il paziente, per cui  la resistenza diventa l’espressione di un empasse nell’ambito del processo di costruzione di significato, significati che possono poi generare persistenza o cambiamento.

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Banalmente vediamo come in una simulata, ricordiamo in un corso di sessuologia, possa succedere che i due attori (terapeuta e paziente) non parlino di sesso: quale migliore esempio di resistenza in questo senso?

Si entra poi nello specifico delle possibili problematiche che si possono riscontare all’interno di un trattamento, delineando gli elementi che le caratterizzano, biologici, cognitivo, emotivi e contestuali, sottolineando ancora una volta l’importanza di considerarle sempre all’interno della relazione; fino alla conclusione dell’incontro con esercitazioni e supervisioni preziosissime, accompagnate da una riflessione importante  su quella che viene definita “la fine della terapia”,  sulla quale probabilmente non ci si è mai soffermati sufficientemente e scientificamente.

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BIBLIOGRAFIA:

  • L. Frugeri, (1990) Dalla individuazione di resistenza alla costruzione di differenze. Riflessioni sui processi di persistenza e cambiamento in Psicoterapia, Psicobiettivo, X(3):29-46 (DOWNLOAD FILE DOC)
  • C. Volpi, Il Transessualismo: un modello interpretativo e terapeutico in ottica Costruttivista
  • C. Volpi, Al di là dello specchio (I disturbi dell’identità di genere): Materiale Lezione

Dalla Riserva Cognitiva alla Riserva Comportamentale

Dalla Riserva Cognitiva alla Riserva Comportamentale:

Quando la Scolarità ci Preserva il Carattere

 

Dalla Riserva Cognitiva alla Riserva Comportamentale. -Immagine:© EnryPix - Fotolia.comUn più elevato livello di istruzione può ritardare l’esordio di alterazioni comportamentali di tipo disinibitorio in pazienti affetti da demenza frontotemporale.

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Studiare di più, raggiungere importanti traguardi lavorativi, dedicarsi a variegate attività nel tempo libero sono tutti fattori che ci consentono di ritardare l’insorgere di patologie dementigene, compensando, almeno inizialmente, il danno cerebrale strutturale da esse derivante. Tale meccanismo di compensazione, noto con il termine di riserva cognitiva, è stato indagato sperimentalmente soprattutto nella demenza di Alzheimer. Si è dimostrato come, ad esempio, a parità di decadimento cognitivo, pazienti con livelli educativi più elevati sottendano danni cerebrali maggiori rispetto a soggetti meno istruiti.

Di recente tali ricerche sono state estese anche alla demenza frontotemporale, un calderone di neuropatologie ingravescenti non-Alzheimer, che, come suggerisce il nome, esibisce un focale coinvolgimento dei lobi frontali e temporali del cervello.A differenza della più comune sintomatologia alzheimeriana, in cui sono i deficit di memoria a farla da padrone sul generale assetto cognitivo, la demenza frontotemporale appare altamente eterogenea nelle sue manifestazioni cliniche, in particolare nella sua variante comportamentale. Molti pazienti, infatti, esibiscono alterazioni del comportamento collocabili su un continuum che va dall’apatia alla disinibizione, in assenza di una chiara categorizzazione clinica.

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it! - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com
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Consapevole della qualificazione spesso solo descrittiva di tale sintomatologia, qualche mese fa un gruppo di ricerca, coordinato dal Prof. Alessandro Padovani dell’Università degli Studi di Brescia, aveva identificato i fenotipi comportamentali e le strutture cerebrali ad essi associate in un campione di pazienti affetti da demenza frontotemporale a variante comportamentale. Il risultato era stato l’individuazione di quattro fattori comportamentali predominanti – disinibito, apatico, aggressivo e linguistico – nonché l’evidenza di un’associazione neuropatologica fattore-specifica.

A pochi mesi dalla categorizzazione fenotipica di tali alterazioni comportamentali, lo stesso gruppo di ricerca, coordinato questa volta dalla Dott.ssa Barbara Borroni, si pone un’interessante domanda sperimentale: se è vero che questi cambiamenti di personalità sono correlati al deterioramento di specifici network o regioni cerebrali, è possibile che anche i disturbi comportamentali – e non solo le funzioni cognitive – vengano modulati da meccanismi di riserva?

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Sono state, così, analizzate le acquisizioni SPECT (Tomografia Computerizzata ad Emissione di Fotoni Singoli) di 102 pazienti affetti da demenza frontotemporale a variante comportamentale, di cui 52 con un livello di istruzione basso (meno di 5 anni di scolarità) e 50 con un livello di istruzione alto (più di 5 anni di scolarità), ipotizzando una vicinanza teorica dell’educazione scolastica all’indice di riserva cognitiva. Grazie alla possibile comparabilità dal punto di vista demografico, neuropsicologico e neuropsichiatrico, questi soggetti hanno consentito di evidenziare in generale una correlazione positiva tra i livelli di scolarità e l’ipoperfusione frontotemporale soggiacente. Attraverso un’analisi differenziata dei quattro fattori comportamentali predominanti, tuttavia, i ricercatori hanno scoperto che solo il fenotipo disinibito è in grado di usufruire dei meccanismi compensatori di riserva. Questi pazienti, infatti, mostrano un’ipoperfusione frontale e sottocorticale più elevata se maggiormente istruiti, evidenza non riscontrata nelle altre varianti comportamentali.

Gli autori hanno, pertanto, ipotizzato l’esistenza di un meccanismo di riserva comportamentale – almeno per le alterazioni di tipo disinibitorio – e suggerito la necessità di estendere la teoria cognitiva ad un approccio multi-modale di riserva. La possibilità di modulare i network neurali attraverso fattori ambientali, infatti, aprirebbe la strada a nuove strategie terapeutiche, estendendone l’applicazione a diverse sindromi neuropsichiatriche oltre che ai soli disturbi cognitivi.

Tale risultato incoraggia, inoltre, la riflessione sugli interventi preventivi. Stimolare maggiormente le future generazioni sulle attività scolastiche ed extra-scolastiche, nonché favorire un dinamismo occupazionale di stampo americano, potrebbe diminuire il carico economico e sociale derivante dalla progressiva diffusione delle demenze?

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BIBLIOGRAFIA:

Peter Fonagy – La Mentalization Based Therapy – MBT

CRONACHE LONDINESI #1

La Mentalization Based Therapy di Peter Fonagy:

Il corso all’Anna Freud Institute di Londra

 

La Mentalisation Based Therapy di Peter Fonagy- il corso all’Anna Freud Institute di Londra. -Immagine:© Mopic - Fotolia.com

Il lavoro terapeutico di Fonagy appare, dal punto di vista tecnico, un continuo incoraggiare il paziente a mentalizzare, cioè a riflettere sui propri stati di sofferenza emotiva e sui propri impulsi per fornire loro un significato che è al fondo cognitivo: ragionare sul perché si percepiscano certe emozioni o certi impulsi, rielaborarli in termini di pensieri, e cioè credenze cognitive.

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Qualche anno fa ho affrontato al Freud Institute di Francoforte il primo livello di addestramento nella Mentalisation Based Therapy (MBT) di Peter Fonagy e mi accingo, in questi giorni a Londra all’Anna Freud Institute, a tuffarmi nel livello avanzato (advanced) di questa terapia. Domani e dopodomani cercherò di trasmettervi le mie impressioni. Oggi invece rievoco brevemente quel mio primo addestramento.

Mentalizzazione
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A Francoforte eravamo una trentina di allievi, seguiti da Peter Fonagy e Anthony Bateman. Il corso, vi dirò, era soprattutto teorico, con tante diapositive su questa mentalizzazione. Concetto che mi pareva molto simile alla metacognizione di cui tanto si parla in campo cognitivo. Ricordo anche che chiesi a Fonagy quale fosse la differenza. La riposta fu comprensibilmente non molto dettagliata, dato il poco tempo a disposizione: la mentalizzazione –disse Fonagy- è più ampia della metacognizione. 

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Il che in parte è vero. Ciò che interessa è in cosa consiste questa maggiore ampiezza. Dal ciò che diceva il corso, appariva che la mentalizzazione finiva per coincidere con gran parte dell’attività cognitiva stessa. Sembrava quasi che Fonagy avesse improvvisamente scoperto che l’attività mentale è fatta di stati intenzionali in cui l’informazione è elaborata in termini di scopi. La cosa mi lasciava quasi a bocca aperta, perché mi pareva la base del modello cognitivo. Non potevo fare a meno di dirmi: sono venuto fino a Francoforte per sentirmi dire quel che ogni studente di terapia cognitiva sa dalla prima lezione del suo corso?

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La reazione degli allievi non cognitivisti (su trenta presenti eravamo solo due terapeuti cognitivi) era altrettanto sbalordita, ma in senso opposto al mio. Dov’era l’inconscio, dov’era il transfert, dov’erano i conflitti? Tutto sparito. Teniamo conto che il modello di Fonagy, la MBT, nasce e cresce in ambiente psicodinamico. E teniamo conto che in questo ambiente Fonagy arriva a raccomandare l’astensione dalle interpretazioni di transfert. Queste intepretazioni, diceva Fonagy, sono potenzialmente dannose per il paziente affetto da disturbo di personalità. Lo fanno sentire invaso e giudicato e gli generano sentimenti di rabbi e dolore che perpetuano la sua sofferenza. Dunque niente interpretazioni di transfert. E allora che si fa?

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In Fonagy le interpretazioni di transfert sono sostituite da un continuo stimolo a mentalizzare, ovvero il paziente è costantemente incoraggiato a riflettere su ogni suo impulso rabbioso per comprenderne il processo intenzionale che ne sta alla base. Ovvero la sua base cognitiva: perché sei arrabbiato? Cosa ti ha fatto arrabbiare? Come pensi di reagire? E perché questa reazione ti sembra conveniente? E così via.

La Funzione Riflessiva nel Paziente e nel Terapeuta. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Qualcosa che somiglia molto alla parte di accertamento delle credenze cognitive, e che Fonagy chiama: promozione della mentalizzazione. Questo intervento è adatto, nella sua semplicità, al paziente con disturbo di personalità, in quanto incrementa la sua capacità di regolare i suoi stati emotivi invece di agirli immediatamente e impulsivamente. Infatti Fonagy, come tutti i maggiori teorici dei disturbi di  personalità (ovvero Otto Kernberg, Marsha Linehan, Giovanni Liotti e Antonio Semerari) concepisce l’attività mentale consapevole come una attività di secondo livello che regola la valutazione primaria della realtà che avviene a livello emotivo.

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La valutazione razionale diretta si svolge sia direttamente sulla realtà, in parallelo con quella emotiva, sia in forma di supervisione di secondo livello sulla valutazione emotiva stessa. Fonagy e Linehan definiscono questa funzione “regolazione degli stati emotivi”. Quest’ultima espressione è una descrizione prudente e ragionevole delle facoltà e dei limiti della ragione, una formulazione frutto della crescente consapevolezza che gli stati emotivi sono influenzabili dal pensiero cosciente, ma mai del tutto manipolabili a piacimento. Forse in questo senso Fonagy può continuare a considerarsi psicodinamico: per questa residua attenzione ai limiti della padroneggiabilità degli stati emotivi. Ma anche nel cognitivismo clinico ormai è nozione comune che non possiamo modificare a piacimento le nostre emozioni pensando pensieri diversi.

Insomma il lavoro terapeutico di Fonagy appare, dal punto di vista tecnico, un continuo incoraggiare il paziente a mentalizzare, cioè a riflettere sui propri stati di sofferenza emotiva e sui propri impulsi per fornire loro un significato che è al fondo cognitivo: ragionare sul perché si percepiscano certe emozioni o certi impulsi, rielaborarli in termini di pensieri, e cioè credenze cognitive. Il tutto legato al qui e ora piuttosto che alla ricerca di ragioni nel passato. 

Questa è la teoria. Il secondo livello della MBT che sto per affrontare dovrebbe passare maggiormente alla pratica. Vi farò sapere.

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PSICOANALISI

Il Colloquio Psicologico: Cosa Fare nel Primo Colloquio #1

COSA FARE NEL PRIMO COLLOQUIO

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

Il Colloquio Psicologico:Cosa Fare nel Primo Colloquio #1. Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com

I principi di base esposti negli articoli precedenti devono essere applicati nel corso del colloquio psicologico. Per fare ciò è necessario, innanzitutto, capire cosa si deve ottenere dal terapia, e come si può ottenerlo.

In questo capitolo verranno sintetizzate le tappe che devono essere percorse nella preparazione e nello svolgimento del primo colloquio. Nella realizzazione di ciascuno di questi punti lo psicologo ha il compito di rispettare i principi di base. Alcuni di questi posseggono un proprio momento di realizzazione ben definito, altri sono maggiormente pervasivi delle diverse tappe della terapia. Con l’esperienza la realizzazione di questi principi perderà il sapore tecnicistico e meccanico per diventare un processo del tutto naturale, appartenente al modo di essere dello psicologo.

Fine e Glasser [1996] hanno stilato un elenco di informazioni che devono essere conosciute al termine del colloquio. Il raggiungimento di un quadro generale mediante la conoscenza di tali informazioni è l’obiettivo principale, assieme alla costruzione di un rapporto di fiducia, del primo colloquio.

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E’ utile controllare questa lista sia prima che dopo il colloquio per capire quali obiettivi sono stati raggiunti e quali no, quali sono stati affrontati e quali sono stati celati per essere esposti più avanti nella terapia. Se lo psicologo si rende conto di non aver approfondito alcuni aspetti è bene che lo ricordi per affrontarli nelle sessioni successive. Allo stesso tempo, però, può decidere spontaneamente di rinviare alcuni argomenti a momenti della terapia in cui il rapporto con il cliente si sia già fortificato. Il Colloquio Psicologico – I Principi della Comunicazione Terapeutica #2. - Immagine: © olly - Fotolia.com

“ Un guerriero della luce ha bisogno di pazienza e rapidità allo stesso tempo.

I due maggiori errori di una strategia sono: agire prima del tempo e farsi sfuggire l’occasione. Per evitarli, il guerriero della luce tratta ogni situazione come se fosse unica, e non applica formule, ricette, o risoluzioni altrui.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.61]

Sta all’esperienza del professionista capire quali informazioni è meglio conoscere subito, quali, tra quelle tralasciate, è importante recuperare e secondo quali tempi.

In questo articolo e in quelli che seguiranno verranno descritti le singole componenti di informazioni che devono essere lo scheletro degli obiettivi di conoscenza del primo colloquio.

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DESCRIZIONE DEL CLIENTE

“Senza mostrare paura o vigliaccheria, cerca di scoprire perché l’altro vuole la lotta; quali cose lo hanno spinto a lasciare il paese e a cercare lui per un duello.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.87]

Dal primo colloquio noi dobbiamo ottenere una descrizione completa del cliente che possa servire da cornice per inquadrare in quali dinamiche si è costruito il problema.

Quando una persona affronta un colloquio psicologico vi conduce all’interno tre tipi di informazioni su di sé: informazioni formali, informazioni sui propri modelli comportamentali e di comunicazione e informazioni sulle proprie convinzioni, pregiudizi e valori. 

Le informazioni formali che vengono raccolte nel corso del colloquio possono essere di tre tipi. Le informazioni essenziali comprendono: nome e indirizzo, composizione della famiglia, età anagrafica del cliente e dei componenti del nucleo familiare, reddito (soprattutto se il professionista lavora per qualche ente sociale), durata di permanenza nel luogo di residenza, ragioni che hanno spinto a cercare aiuto ecc… Come si può osservare rappresentano più che altro dei dati di base che permettono un inquadramento molto generale della situazione.Vengono spesso raccolti attraverso un questionario somministrato all’inizio o alla fine del colloquio in modo che questa formalità non interrompa in alcun modo il flusso del discorso.

Le informazioni sull’ambiente di vita sono un altro punto centrale della descrizione del cliente perché influiscono profondamente sul suo comportamento e, quindi, sul suo problema.Queste informazioni sono risultate essere centrali quando si lavora con persone che percepiscono redditi molto bassi o che appartengono a minoranze. In particolar modo ci si propone di raggiungere una valutazione delle caratteristiche sia del proprio ambiente fisico, sia del proprio ambiente sociale e di determinare in che misura questi hanno contribuito, e stanno contribuendo, alle dinamiche di sostegno dei comportamenti problematici. E’ importante capire in questa fase in quali condizioni versa la rete di relazioni sociali del cliente e come le persone a lui più vicine si sono rapportate con il suo problema, se hanno accettato o meno la sua definizione di quest’ultimo.

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Infine, un altro gruppo di informazioni rilevanti è quello che riguarda la storia personale del cliente. Anche se nel corso del colloquio è bene cercare di evitare che il cliente divaghi eccessivamente dal nucleo del problema, è utile recepire il maggior numero di informazioni possibili sugli eventi importanti della vita del soggetto, soprattutto quelli che lui stesso descrive come rilevanti, quelli che tratta con leggerezza e quelli di cui non vuole parlare. Queste informazioni possono essere molto utili all’analisi delle dinamiche comportamentali alla base del problema. Alcune di queste, ritenute particolarmente rilevanti da questo punto di vista, potrebbero divenire oggetto di analisi più avanti nella terapia.

Ascoltando e osservando il cliente, lo psicologo può recepire informazioni sui suoi modelli comportamentali e comunicativi, che probabilmente rivestono un ruolo importante nel mantenimento del problema. L’obiettivo del terapeuta è quello di aiutare il cliente a spostarsi da questi modelli verso stili comportamentali più produttivi e meno problematici.

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Osservare quali siano i comportamenti centrali nella definizione del problema è utile non solo alla diagnosi scritta ma anche per comprendere dove si può intervenire per rompere quel circuito di rinforzi che mantengono il disturbo, dove si può intervenire per portare al cambiamento. Ovviamente in questa prima fase l’interesse dello psicologo è quello di capire prima che di cambiare. Non si può saltare immediatamente alle conclusioni, ma registrare queste informazioni, sottolineando nella propria mente quelle che intuito ed esperienza mettono in rilievo come centrali rispetto alle altre.

Infine, la descrizione del cliente si completa con le informazioni sulle sue convinzioni, valori pregiudizi e sul suo modo di pensare e organizzare i dati provenienti dall’universo caotico rappresentato dall’ambiente che lo circonda. Si è già accennato a come i canali comunicativi di emozioni, comportamenti e cognizioni siano in parte interdipendenti e in parte indipendenti tra loro e di come sia necessario prenderli tutti in considerazione per avere una quadro generale del “tutto” problematico. Per questo motivo la stessa attenzione posta nell’analisi dei comportamenti deve essere usata quando si parla di analisi delle convinzioni.

L’interesse del professionista, a questo livello, non si può fermare alle credenze del cliente senza esplorare come costui elabora le informazioni dell’universo caotico, in particolare valutando il livello di strutturazione e di astrazione del suo pensiero e l’utilizzo di una logica lineare o circolare [Sternberg, 1994].

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L’atteggiamento con cui lo psicologo si rapporta alle informazioni tratte dal colloquio psicologico è quello di colui che raccoglie elementi ora, per una selezione futura di quali aspetti trattare. La fase di descrizione del cliente non è una fase in cui si cerca di cambiarlo, solo dopo aver un quadro ben definito delle parti del “tutto” si può pensare a come intervenire su ciascuna.

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DESCRIZIONE DEI PRIMI MOMENTI DEL COLLOQUIO

Durante il colloquio è necessario analizzare con particolare cura i primi momenti della comunicazione con il paziente. Ciò permette di recepire i segnali riguardanti il comportamento dei pazienti e il loro atteggiamento nei confronti del terapia e del terapeuta. Grazie a questi primi momenti lo psicologo è in grado di avere un’ idea su come il paziente affronterà la relazione sociale con lui e di come dovrà intervenire per riuscire a stabilire un rapporto di fiducia.

Inoltre questi primi momenti servono anche per conoscere i propri pregiudizi che si attivano nei confronti del cliente, capire cosa li ha generati ed essere in grado di distaccarsi da loro per mantenere una visione oggettiva e la capacità di trasmettere un senso di accettazione completa.

Questo non vuol dire che le intuizioni emerse dopo pochi minuti di colloquio debbano essere scartate, anzi è bene che siano tenute a mente e che siano oggetto di future riflessioni.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La meditazione Tong Len e il paziente oncologico

 

La meditazione Tong Len e il paziente oncologico. - Immagine: © Rido - Fotolia.comAl via all’Ausl di Bologna la prima sperimentazione di una pratica meditativa tibetana, Tong Len, per la cura delle patologie oncologiche.

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Il comitato etico dell’Ausl ha approvato la sperimentazione e il direttore sanitario Massimo Annichiarico ha firmato la delibera che autorizza il progetto.

La pratica Tong Len “pratica del prendere e del dare” è una pratica meditativa tibetana in cui il meditatore sviluppa una grande compassione prendendo su di sé la sofferenza e le cause della sofferenza altrui, andando a lavorare in modo indiretto sul proprio pensiero egocentrico ed egoista.

La sperimentazione partirà a febbraio e sarà condotta dall’equipe del Dr. Gioacchino Pagliaro, direttore di Psicologia Clinica dell’Ospedale Bellaria di Bologna.

Un ponte tra pratica meditativa orientale e medicina occidentale, la prima volta che il Tong Len viene utilizzato clinicamente e che se ne valutano gli esiti nella cura di patologie oncologiche.

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Pillole di…… Meditazione. - Immagine: © rudall30 - Fotolia.com
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Nei prossimi giorni verranno selezionati 80 pazienti del reparto di oncologia dell’Ospedale Bellaria. Tutto il campione continuerà ad essere sottoposto al normale processo di cura, mentre solo 40 di loro saranno i soggetti\oggetto della meditazione Tong Len, così da poter valutare le differenze tra i due sottogruppi. I 15 meditatori esperti che prenderanno parte allo studio non conosceranno i nomi di chi farà parte del gruppo dei pazienti per i quali praticheranno il Tong Len, ma avranno solo una scheda con le iniziali del paziente il tipo di patologia che ha e alcuni valori del sangue.

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Lo studio durerà tre mesi e sono previste valutazioni follow up a tre e a cinque anni. Verranno valutati alcuni indicatori ematochimici per monitorare gli eventuali cambiamenti nello stato di salute dei pazienti insieme agli eventuali miglioramenti dei livelli di ansia e stress e qualità della vita percepita. Misurazioni che verranno fatte prima dell’inizio della sperimentazione in corso e a 3 e 5 anni. Durante lo studio i 15 meditatori terranno un diario per annotarsi eventuali dettagli e particolari della pratica, così come agli 80 pazienti verrà chiesto di tenere un diario in cui annotare l’andamento della giornata.

Ad oggi non esiste letteratura scientifica in questo particolare campo, sarà un viaggio una scoperta tutta da seguire.

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MEDITAZIONE – ACCETTAZIONE DELLA MALATTIA – MINDFULNESS

 

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