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Lesbiche: Maggiore Incidenza di Abusi Sessuali Nell’Infanzia? #LGBT

Omossesualità Femminile: Maggiore Incidenza di Abusi Sessuali Nell'Infanzia?. - Immagine: © laurent hamels - Fotolia.comLesbiche e donne bi­sessuali riferiscono più del doppio di esperienze di vittimizzazione ed il triplo di episodi di abusi sessuali nell’infanzia.

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Alcuni studi dimostrano che il 50% di donne lesbiche ha subito abusi sessuali nell’infanzia: circa il doppio rispetto alle donne eterosessuali. (Balsam et al. 2005; Hughes et al. 2000).

Se le dinamiche relazionali di una famiglia e la non-conformità con il genere ses­suale sono già stabilite, l’abuso sessuale può causare il radicamento del distacco, dell’insicurezza dell’identità sessuale e della disidentificazione, che possono con­durre all’attrazione per lo stesso sesso. L’abuso sessuale può essere emotivo, ver­bale o fisico. Una ragazza che è fatta oggetto di inappropriati commenti sessuali, cui viene negata un’adeguata privacy o il cui padre ha tendenze voyeuristiche, nonostante non sia stata toccata è stata lo stesso violata sessualmente. (Peters & Cantrell 1991, Howard 1991)

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Tonda Huges, professore presso l’Università di Illinois a Chicago, ed i suoi col­laboratori hanno pubblicato sulla rivista Science i risultati di uno studio condotto su 34.635 giovani adulti (a partire dai venti anni di età), il 2% dei quali si identificava in una minoranza sessuale (lesbiche, gay, bisessuali), al fine di esaminare la relazione tra esperienze di vittimizzazione e disturbi relativi all’abuso di sostanze stupefacenti (Huges, T. at al. 2010).

Mediante interviste faccia a faccia, i ricercatori hanno raccolto dati circa loro eventuali passate esperienze di attività sessuali indesiderate, abbandono, violen­za fisica, aggressioni con armi per poi comparare gli effetti di questi episodi di vittimizzazione tra i quattro sottogruppi di identità sessuale in cui era stato diviso il campione: eterosessuali, lesbiche o gay, bisessuali, “non sicuri”.

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Dai risultati è emerso che, rispetto ai soggetti eterosessuali, lesbiche e donne bi­sessuali riferiscono più del doppio di esperienze di vittimizzazione ed il triplo di episodi di abusi sessuali nell’infanzia.

Anche i ricercatori Roberts e Sorensen (1999) hanno condotto una ricerca sulla diffusione di abusi sessuali nell’infanzia in particolare nella popolazione lesbica.

Ventidue questionari sono stati distribuiti attraverso il «Progetto Salute Lesbica» di Boston.

Le domande circa l’abuso sessuale infantile sono state:

sei mai stato molestato o aggredito sessualmente?

• se sì, chi ti ha molestato?

• a che età?

Un totale di 1.633 lesbiche ha restituito il questionario. Delle lesbiche intervistate, il 45,8% ha affermato di essere stata molestata o ses­sualmente aggredita. Tra queste donne, il 26,8% ha indicato di essere stata mole­stata prima dell’età di 12 anni e il 12,1% tra i 12 e i 18 anni.

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– La storia di Rebecca – 

Sono cresciuta in una famiglia un po’ all’antica – per usare un eufemismo – in cui la femmina è “schiava” del maschio. Mi sentivo la bambina invisibile: una bimba vissuta nell’ombra di un fratello più grande, venerato dai miei genitori. Già a tre anni avevo capito che essere maschio era “meglio”, più facile, più bello. Ai maschi tutto era dovuto e soprattutto permesso, così, pur sentendomi donna, cercavo di comportarmi da maschio, per poter godere degli stessi diritti… Ma non è andata così. Avevo un fratello, quattro anni più grande, a lui è stato davvero permesso tutto. Anche l’abuso sessuale sulla sorella. Su di me. Mi son portata dentro questo “segreto” per anni, finché, all’età di 30 anni ho deci­so di parlare e raccontare tutto. In famiglia non sono stata creduta. Il carnefice si è sentito così sicuro e tutelato da ammettere l’abuso, ma i miei genitori hanno smi­nuito il tutto e, messi di fronte alla possibilità di rimediare al loro errore, hanno continuato a fare la scelta sbagliata. Hanno ancora deciso di tutelare il maschio, il figlio. 

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 Io ho troncato i rapporti con quella che non considero più la mia famiglia e che in fondo non lo è mai stata. Fino a 26 anni ho sempre avuto rapporti con soli uomini, mi sono scoperta/ac­cettata lesbica a 30 anni, alla mia seconda storia sentimentale con una donna. Durante la prima relazione negavo l’evidenza: “Io non sono lesbica!”. Data la famiglia e il con­testo in cui vivevo, non riuscivo ad ammettere, prima di tutto con me stessa, di essere omosessuale, e che, quello che provavo era amore, un amore saffico. Entrambe ci definivamo amiche. A riprova della mia eterosessualità ho continua­to a frequentare dei maschi, poi, dopo due anni di “amicizia”, la presa di coscienza. Il bisogno di capire chi ero mi ha portato su una chat di “donne per donne” e lì ho trovato l’amore della mia vita. Lei mi ha spiegato e introdotto nel mondo lesbico, mi ha aiutato a trovare le ri­sposte che cercavo e soprattutto a trovare la forza per uscire dall’inferno che era il mio contesto familiare. I miei genitori non riuscendo ad accettare questa mia “condizione” hanno definito queste persone appartenenti ad una setta. Nel frattempo, dolorosamente, ho affrontato un percorso di psicoterapia che mi ha aiutata a rielaborare il trauma dell’abuso, ad accettare la mia omosessualità e soprattutto a scoprire di non essere io quella sbagliata.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il Testosterone Cala Se La Moglie dell’Amico è nei Paraggi

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Testosterone: I risultati suggeriscono che i livelli di testosterone nei maschi subiscano un calo quando questi interagiscono con la moglie di un caro amico

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Un nuovo studio della University of Missouri ha studiato l’influenza delle modificazione biologiche negli individui di sesso maschile sul comportamento sociale e le relazioni sentimentali. I risultati, pubblicati sulla rivista Human Nature, suggeriscono che i livelli di testosterone nei maschi adulti subiscano un calo quando questi interagiscono con la moglie di un caro amico.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Mark Flinn, professore di antropologia, spiega che le proposte di adulterio fatte da un uomo alla moglie di un amico sono relativamente rare rispetto alle molte occasioni di corteggiamento offerte dalle circostanze.

I livelli di testosterone degli uomini in genere aumentano quando stanno interagendo con una potenziale partner sessuale o con la compagna di un nemico. Tuttavia, i  risultati di questo studio suggeriscono che la mente maschile si sia evoluta per favorire una situazione in cui, tra amici, siano rispettati i legami di coppia stabili.

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In definitiva, sostiene Flinn, questi risultati mettono in luce come le persone si siano evolute per formare alleanze.

 I sociologi ritengono che la comprensione dei meccanismi biologici che impediscono ai maschi di competere per conquistare le mogli degli altri possono aiutare a comprendere come le persone collaborano in piccole realtà sociali come i quartieri, e in quelle più grandi come le città, fino a comprendere la collaborazione a livello globale.

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Secondo Flinn, a livello evolutivo, gli uomini che hanno costantemente tradito la fiducia degli amici, mettendo in pericolo la stabilità delle famiglie, possono avere causato uno svantaggio in termini di sopravvivenza per l’ intera comunità.

Infatti una comunità di uomini che non si fidano gli uni degli altri sarebbe fragile e vulnerabile agli attacchi esterni. I costi di una reputazione inaffidabile avrebbero superato i vantaggi di avere un maggiore numero di figli con la compagna di un amico.

 

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RAPPORTI INTERPERSONALI – AMORE & RELAZIONI INTERPERSONALI – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Insonnia: Lasciami Dormire Ancora

 

Che cos’è l’insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il suo rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o alla saggia follia dei sogni? (Marguerite Yourcenar)

Insonnia. Lasciami Dormire Ancora. - Immagine: © Johan Larson - Fotolia.com

Persone che dormono in media meno di sette ore hanno probabilità più alte di avere valori della pressione sanguina superiori alla norma.

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“Le ore di sonno devon essere: cinque al viandante, sei al mercante, sette allo studente e otto all’altra gente” dice il proverbio, e ancora “Andar presto a dormire e alzarsi presto chiude la porta a molte malattie”, quello che la saggezza popolare ci ricorda da tempo, la voce della nonna davanti al camino che racconta quello che la sue esperienza l’ha portata a conoscere, viene oggi sempre più confermato dalla ricerca.

Ad esempio, uno studio pubblicato nel Journal of Sleep Research da un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School di Boston ha evidenziato che donne e uomini che dormono regolarmente in media meno di sette ore hanno una probabilità più alta di avere valori della pressione sanguina superiori alla norma, rispetto ai coetanei che, a parità di stile di vita, dormono di più. Un buon sonno ristoratore magari più lungo anche di solo un’ora può aiutare a tenere sotto controllo i valori della pressione arteriosa, oltre a migliorare umore e memoria.

Secondo i ricercatori, infatti, riposare almeno sette ore inciderebbe sulla capacità dell’organismo di rispondere alle sollecitazione degli ormoni dello stress durante la giornata, avendo poi una ricaduta importante sulla regolazione della pressione sanguigna.

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Il Trattamento Cognitivo-Comportamentale dell' Insonnia - Recensione
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Alla ricerca hanno partecipato 22 uomini e donne con valori di pressione non eccessivamente alti ma vicini al livello soglia che hanno dichiarato di dormire meno di sette ore per notte. Nelle sei settimane di durata dello studio a 13 persone è stato chiesto di dormire almeno un ora in più, andando per esempio a letto prima tutte le sere, mentre a 9 è stato detto di mantenere le stesse abitudini sonno\veglia. I risultati hanno dimostrato che i valori di pressione sanguigna erano scesi tra gli 8 e i 14 mmHg solo grazie al piccolo cambiamento chiesto ai 13 partecipanti. In affiancamento alla terapia farmacologica a chi soffre di pressione altra potrebbero forse essere prescritte qualche ora di sonno un più?

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E ancora, secondo uno studio condotto dai ricercatori guidati da Timothy Roehrs, solo due ore di sonno in più a notte, almeno dieci invece delle tanto citate otto ridurrebbe la sensibilità al dolore e aumenterebbe il livello di attenzione e vigilanza. Solo due ore di sonno in più produrrebbero gli stessi effetti analgesici di 60 mg di codeina. Alla ricerca hanno partecipato 18 soggetti divisi in modo randomizzato in quattro gruppi differenti tra di loro per il numero di ore di sonno in un range tra quattro e dieci. I membri del gruppo delle 10 ore di sonno hanno mostrato una maggior tolleranza al dolore infatti hanno tenuto il dito su una fonte di calore il 25% più a lungo rispetto agli altri gruppi. Così di contro secondo i ricercatori l’aumentata sensibilità al dolore nelle persone stanche sarebbe da collegare direttamente alla loro mancanza di sonno.

Avete mai subìto la tortura dell’insonnia, quando si avverte ogni istante della notte, quando esistete solo voi al mondo, e il vostro dramma diventa il più importante della storia, di una storia ormai svuotata di senso, e che neppure più esiste, giacché sentite levarsi in voi le fiamme più spaventose, e la vostra esistenza vi appare come unica e sola in un mondo nato soltanto per portare a termine la vostra agonia? (Emil Cioran)

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 INSONNIA – SONNO –  STRESS 

 

BIBLIOGRAFIA:

Procastinazione: Differenze di Genere e Educazione

Procastinazione. Differenze Genere e Educazione. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.comProcrastinazione: una forma di fallimento autoregolato connesso a più bassi livelli di autostima, salute e benessere.

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Una delle leggi di Murphy recita: “Più efficienti si è nel procrastinare, meno efficienti si ha bisogno di essere in ogni altra cosa”. La procrastinazione si può definire come una decisione volontaria di ritardare il corso di un’azione, nonostante la consapevolezza che il ritardo potrebbe avere conseguenze negative. In sintesi, posticipiamo anche sapendo che è la scelta peggiore.

Lo studio di Steel e Ferrari (2012), rispettivamente delle università di Calcary e Chicago negli Stati Uniti, indaga le caratteristiche degli individui che avrebbero la tendenza a rimandare. Lo studio è stato condotto su un imponente campione di 16.413 soggetti, raccolto nell’arco di tre anni, di madrelingua inglese, reclutati attraverso internet. Le variabili prese in considerazione hanno riguardato: sesso, età, stato coniugale, numerosità del nucleo familiare, educazione e nazionalità.

La Tendenza alla Procrastinazione da Dove Origina?. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.com
Articolo Consigliato: La Tendenza alla Procrastinazione da Dove Origina?

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Era possibile accedere al questionario attraverso un sito online gratuito e senza fini pubblicitari. Ai partecipanti erano poi restituite informazioni riguardanti i livelli di procrastinazione e dei consigli per ridurli.

I risultati, emersi dalla ricerca, indicherebbero che la procrastinazione sarebbe maggiormente connessa a sesso, età stato coniugale e livello educativo. I procrastinatori sarebbero di sesso maschile, giovani, single, con una bassa scolarità.

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La procrastinazione, non indicherebbe una semplice tendenza a rimandare ciò di cui non si ha voglia, ma costituirebbe un tratto stabile di personalità, come già ipotizzato da Steel (2007); al test-retest reliability  la stabilità dei punteggi nelle somministrazioni successive (a circa 40 giorni), attestato a .73, sembrerebbe confermarlo.

La tendenza a rimandare, non avrebbe effetti negativi solo sugli studi, ma sarebbe anche associata a spese mediche più alte: i procrastinatori sarebbero dei pessimi pazienti, non seguendo le direttive dei medici o facendosi controllare solo quando la malattia è ad uno stato avanzato. Incorrerebbero poi in maggiori debiti economici, l’80% infatti ammette di non riuscire a risparmiare. In conclusione essere più cicala, che formica, come nella favola di Esopo, non avrebbe dei costi elevati solo per il singolo, ma anche per la sanità e la società.

 

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PROCRASTINAZIONE – TRATTI DI PERSONALITA’ – GENDER STUDIES 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Disturbo Borderline di Personalità: Una Cascata Emotiva

Edward Selby, Ph.D. Associate Professor at Rutgers University (New Jersey)

Francesca Martino, Psicologa Cognitiva

 

“Ho sempre sentito queste sensazioni. Non credo ci siano parole per descriverle esattamente, è una combinazione di ira furiosa, rabbia e dolore estremo. Queste si  mescolano insieme in quella che io chiamo “la Furia” … Sto iniziando ad imparare come trattarla, ma fino a poco tempo fa, gli unici modi che conoscevo per domarla erano il bere e le droghe. Prendevo  qualcosa, qualsiasi cosa, e se ne prendevo abbastanza, la Furia si placava. Il problema era che sarebbe sempre tornata, di solito più forte, e che avrebbe richiesto sempre più sostanze per ucciderla. Quello sarebbe stato sempre l’obiettivo: ucciderla”.

– James Frey, A Million Little Piece

 

Il Disturbo Borderline di Personalità - Una Cascata Emotiva - State of Mind
Il Disturbo Borderline di Personalità – Una Cascata Emotiva – State of Mind

Cascata Emotiva: La disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità potrebbe essere considerata il risultato di un uso intenso di ruminazione.

– ENGLISH VERSION –

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La disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità potrebbe essere il risultato di un uso intenso della ruminazione. Infatti, la tendenza a ruminare sulle emozioni negative aumenta la loro intensità e, a loro volta, le emozioni negative intense incrementano i livelli di ruminazione, creando così un circolo vizioso, chiamato Cascata Emotiva.                                                                                                              

Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è caratterizzato da emozioni negative intense, problematiche interpersonali e comportamenti impulsivi e discontrollati. L’instabilità emotiva e il discontrollo del comportamento sono caratteristiche centrali nel DBP (Linehan, 1993). La disregolazione emotiva è intesa come un’ intensa e veloce risposta agli stimoli emotivi e un lento ritorno all’attivazione di base. Il modello teorico suggerisce che l’instabilità emotiva sia responsabile dei comportamenti discontrallati del DBP, tra cui l’autolesionismo, l’aggressività, l’uso di sostanze e le abbuffate alimentari. Nonostante le ricerche abbiano fornito una parziale conferma di tale modello teorico, i meccanismi specifici che provocano la disregolazione emotiva ed elicitano i comportamenti impulsivi nel DBP non sono ancora chiari.

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Frank Yeomans: Understanding the BPD Mind (Interview)
Articolo Consigliato: Intervista a Frank Yeomans: Understanding the BPD Mind

Di recente, il Modello della Cascata Emotiva (MCE; Selby et al 2008; 2009) ha fornito una maggiore comprensione del DBP, soprattutto rispetto al rapporto tra disregolazione emotiva e comportamentale. Secondo il MCE, la ruminazione potrebbe svolgere un ruolo centrale nell’incrementare le emozioni negative e nel favorire il discontrollo del comportamento. In particolare, quando le persone con DBP sperimentano emozioni negative, inizierebbero automaticamente a rimuginare su queste con l’intenzione di regolare tale emotività intensa e sgradevole. C’è ormai un certo accordo nel definire la ruminazione come una strategia cognitiva disfunzionale di regolazione emotiva caratterizzata dalla tendenza a riflettere ripetutamente sulle cause e sulle conseguenze dell’ esperienza negativa (Nolen-Hoeksema, 1991).  Nonostante sia stato dimostrato come la ruminazione aumenti le emozioni, invece di ridurle, molte persone continuano ad utilizzarla perché credono, erroneamente, che ri-pensare agli eventi aumenti la loro comprensione della situazione e la possibilità di risolvere i problemi (Papageorgiou, 2001).

La disregolazione emotiva nel DBP potrebbe essere dunque il risultato di un uso intenso della ruminazione. Infatti, come la tendenza a ruminare sulle emozioni negative aumenta la loro intensità, così le emozioni negative intense, a loro volta, incrementano i livelli di ruminazione, creando dunque un circolo vizioso chiamato Cascata Emotiva.

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Al fine di interrompere questo ciclo, un individuo può adottare comportamenti disfunzionali che lo distraggono dai pensieri negativi. Questi comportamenti interrompono la cascata emotiva consentendo all’individuo di concentrarsi su altri stimoli intensi, come la quantità elevata di cibi in un’abbuffata, le azioni aggressive verso qualcuno, il dolore fisico e la vista del sangue nell’ autolesionismo. Questi comportamenti si rivelano efficaci nell’immediato (nel modificare/ridurre le emozioni negative) spiegando dunque le ragioni del loro frequente utilizzo, ma disfunzionali nel lungo periodo. Successivamente infatti, gli individui possono sperimentare nuove forme di ruminazione, derivanti dalla vergogna o dal senso di colpa per aver messo in atto comportamenti privi di controllo (come autolesionismo e/o abbuffate).

 Il MCE è stato studiato su popolazioni di studenti con tratti borderline (Selby et al 2008, 2009, 2012). In uno studio trasversale, i risultati hanno mostrato che la ruminazione (depressiva e rabbiosa) mediava tra le emozioni  negative e i comportamenti problematici, confermando il suo ruolo centrale nel favorire azioni impulsive e discontrollate in soggetti con tratti borderline in presenza di emozioni negative.  Inoltre, in uno studio longitudinale, alti livelli di emozioni spiacevoli e di ruminazione predicevano i comportamenti impulsivi dopo poche ore dall’ evento negativo.

 

In conclusione, il MCE è stato studiato ad oggi su popolazione sana. Nonostante siano state confermate nel DBP delle strategie cognitive disadattive di regolazione emotiva, come la ruminazione (Baer et al. 2011), la loro implicazione nel discontrollo del comportamento deve ancora essere dimostrata in campioni clinici. Attualmente in Italia si sta conducendo una ricerca finalizzata ad indagare il MCE nel DBP.

 

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DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – IMPULSIVITA’ – RIMUGINIO & RUMINAZIONE 

 

Bibliografia:

Mediazione Familiare e Separazione Coniugale

 

Mediazione Familiare e Separazione coniugale. -Immagine:© william87 - Fotolia.comLa mediazione familiare offre ai coniugi la possibilità di costruire uno spazio protetto di ascolto e di soluzione del conflitto.

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La mediazione familiare si è sviluppata per la prima volta negli Stati Uniti negli anni 70 e attualmente si sta diffondendo ovunque con l’intento di ridurre i danni indotti da separazioni coniugali molto conflittuali. La carte europea dei Mediatori Familiari (1992) la definisce così: “Un processo nel quale un terzo viene sollecitato dalle parte per affrontare la riorganizzazione resa necessaria dalla separazione nel rispetto del contesto legale esistente. La mediazione è un lavoro che mira a ristabilire la comunicazione fra i coniugi in vista della costruzione di un progetto relativo all’organizzazione delle relazioni dopo la separazione e il divorzio.

Lo scopo quindi dell’intervento sarebbe quello di aiutare genitori che si stanno separando in modo conflittuale a trovare strategie cooperative in quanto genitori. La mediazione offre ai coniugi la possibilità di costruire uno spazio protetto di ascolto e di soluzione del conflitto.

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Sono previsti anche interventi dopo la fase di mediazione, con l’obiettivo di sostenere le risorse genitoriali in coincidenza di eventi come l’adolescenza, la modificazione dell’assetto familiare (esempio: uno dei due ex coniugi si risposa), gestione di famiglie monoparentali.

Gruppi di Parola per Figli di Genitori Separati Una Risorsa alla Genitorialità. - Immagine: © Carlo Toffolo - Fotolia.com
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La mediazione si differenzia dalla psicoterapia di coppia poiché nel primo caso ci si occupa in modo specifico della valorizzazione delle risorse genitoriali dando per assodata una dissoluzione del legame di coppia mentre nel secondo caso ci si interessa direttamente alla dimensione coniugale e relazionale.

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Che formazione possiede il mediatore familiare?

Vi sono pareri diversi in base a quale debba essere la formazione di base del mediatore. In Italia attualmente non è stato approvato dal legislatore un percorso di studio obbligato per divenire mediatore, esistono però dei corsi specifici generalmente frequentati da: avvocati, psicologi e assistenti sociali.

Dove avviene la mediazione e quanto tempo dura?

La mediazione può essere pubblica, privata o collocata presso un Tribunale. Attualmente in Italia i mediatori che lavorano privatamente hanno maggiori occasioni di lavoro proprio collaborando con gli studi legali. I Tribunali per i minorenni e i Tribunali Ordinari quando decidono di prescrivere un percorso di mediazione inviano gli interessati presso i consultori e i centri di mediazione pubblici.

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Per quanto riguarda la durata vi è un accordo nel proporre un numero limitato di incontri, dagli 8 ai 12, che si estendono nell’arco di tempo compreso tra 4- 8 mesi sino ad un massimo di un anno.

Quali sono le tecniche adottate dal mediatore?

Durante il primo colloquio il mediatore spiegherà che il suo tentativo sarò quello di aiutare la coppia a trovare un accordo comune, senza che sia lui stesso a dover proporre delle soluzioni, li aiuterà a definire i campi di interesse e si occuperà del futuro più che del passato.

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Procederà poi con la raccolta delle informazioni più significative relative alla storia della coppie e ai motivi che hanno indotto la separazione, facendo in modo che tutte le informazioni siano condivise. Il primo compito del mediatore è quello di assumere il controllo nella definizione dell’elenco dei problemi da discutere. Il suo obiettivo è quello di far giungere la coppia ad una definizione congiunta di ciascun problema. È molto importante che la definizione avvenga in modo chiaro, non astratto e ben circoscritto.

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Durante questa prima fase è facile constatare nelle persone la convinzione che la causa della crisi coniugale sia qualcosa da attribuire all’altro (ad esempio: litigiosità, aggressività, troppa dipendenza dalla famiglia d’origine, tradimenti, indisponibilità alla vita sessuale ecc). Di conseguenza all’inizio ciascuna parte è fortemente convinta che la soluzione consista nel correggere questi comportamenti presenti nell’altro. Questo atteggiamento oltre ad essere scorretto dal punto di vista relazionale è anche inefficacie dal punto di vista operativo. Compito del mediatore, quindi, è anche quello di sottolineare proprio questo aspetto ai propri clienti, specificando che la mediazione è valida nella misura in cui i partner scelgono di assumersi degli impegni, nell’interesse loro e dei figli.

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Comunque una volta definiti i singoli argomenti da discutere si passa alla fase successiva, stabilendo i problemi da affrontare. Per ogni problema definito, il mediatore stimola i coniugi a trovarne una soluzione univoca o una possibile gamma di opzioni e gestisce la contrattazione fino a raggiungere un accordo. Non deve essere il mediatore a scegliere la soluzione che a lui pare più idonea, il suo compito è quello di fare in modo che i partner raggiungano una soluzione per loro accettabile. Quando è stato individuato un accordo su tutte le questioni si procede con la stesura dell’accordo.

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Tra le principali tecniche che il mediatore può utilizzare citiamo:

la normalizzazione, che serve a definire come risolvibile il problema che si sta affrontando, presentando la situazione come analoga a quella già vissuta da molte altre persone;

la reciprocità, che serve ad evidenziare le somiglianze tra le posizioni dei partner (esempio: “ho notato che entrambi desiderate essere ascoltati dall’altro”);

la sintesi, ovvero fare spesso il punto della situazione, sintetizzando di tanto in tanto ciò che è stato detto, ignorando i contenuti inutili e riaffermando gli obiettivi.

L’uso di tali tecniche ha come obiettivo quello di spostare lentamente  i partener dalla posizione conflittuale di partenza, aiutandoli a comprendere il punto di vista dell’altro attraverso l’acquisizione del principio di negoziazione, cedere qualcosa per ottenere qualcos’altro.

LEGGI: 

 GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – FAMIGLIA –  SOCETA’ & ANTROPOLOGIA – DIVORZIO

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BIBLIOGRAFIA:

• Haynes J. (1996), Introduzione alla mediazione familiare, Giuffrè, Milano.

• Vito A. (2009), La perizia nelle separazione, FrancoAngeli, Milano.

Depressione & Comunicazione Cellulare

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa depressione sarebbe riconducibile a un’alterazione delle modalità di comunicazione cellulare e della trasmissione del segnale neuronale.

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Un nuovo studio della University of Maryland School of Medicine e pubblicato su Nature Neuroscience suggerisce che la depressione sarebbe riconducibile a un’alterazione delle modalità di comunicazione cellulare e della trasmissione del segnale neuronale. Invece di focalizzarsi sui livelli di serotonina nel cervello, gli scienziati hanno scoperto che la trasmissione di segnali eccitatori tra le cellule neuronali (comunicazione cellulare) presenta delle anomalie in caso di depressione.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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La gran parte dei farmaci antidepressivi maggiormente in uso di questi tempi fanno riferimento ai cosidetti SSRI (selective serotonin reuptake inhibitor), farmaci che causano un minore riassorbimento cellulare della serotonina, favorendone quindi una maggior concentrazione nel cervello. Poiché molti pazienti traggono beneficio dall’incremento di serotonina a livello cerebrale, è da tempo in voga l’ipotesi che sia proprio un insufficiente livello di tale sostanza il substrato biologico della depressione. Tuttavia, in circa la metà dei casi la sintomatologia della depressione non è responsiva alla farmacoterapia con SSRI.

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Il primo risultato rilevante dello studio è che la serotonina avrebbe la capacità di potenziare la comunicazione cellulare neuronale, amplificando il segnale eccitatorio della trasmissione cellulare in alcune aree cerebrali importanti per il funzionamento cognitivo ed emotivo. Il passo successivo è stato chiedersi se tale funzione della serotonina giocasse un ruolo nell’azione terapeutica dei farmaci SSRI.

 I ricercatori hanno esaminato il cervello di topi che sono stati ripetutamente esposti a situazioni stressanti che hanno causato in tali animali anedonia, una significativa perdita di interesse e preferenza per le attività normalmente svolte piacevolmente. Per esempio, in condizioni normali i topi preferiscono bere acqua zuccherata rispetto ad acqua insapore; gli animali sottoposti a condizioni stressanti non mostravano più tale preferenza, segnale per l’appunto di anedonia secondo gli autori della ricerca. Da un confronto dell’attività cerebrale dei topi anedonici e normali, è emerso che non vi erano differenze nel livello di serotonina cerebrale quanto invece le connessioni eccitatorie rispondevano alla serotonina in modo marcatamente differente, con difficoltà nella trasmissione del segnale eccitatorio nel cervello dei topi depressi.

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Gli autori, pur riconoscendo la necessità di ulteriori approfondimenti e repliche dello studio, ritengono che il malfunzionamento delle connessioni eccitatorie neuronali sia uno dei fattori chiave nella genesi della depressione e che il recupero di una adeguata comunicazione cellulare a livello cerebrale possa essere fondamentale nel trattamento dei sintomi depressivi.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

DEPRESSIONE –  FARMACI ANTIDEPRESSIVI – NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le Basi Psicologiche dell’Etica #1: Jonathan Haidt

 

Le Basi Psicologiche dell’Etica #1: Le Ricerche di Jonathan Haidt
Prof. Jonathan Haidt

Jonathan Haidt e le basi psicologiche dell’etica. L’uomo è dotato di una intuizione morale che non dipende dal ragionamento.

Il sentimento etico, in quanto stato mentale e comportamentale, può essere oggetto di indagine scientifica e psicologica. Ci sono molte ricerche su questo argomento e tra le più famose ci sono delle ricerche di Jonathan Haidt. Da qualche anno, il prof. Jonathan Haidt, che insegna all’Università della Virginia, negli Stati Uniti, fa interessanti esperimenti di psicologia del senso morale. Per esempio, nell’anno 2001, sul quarto numero di quell’annata della Psychological Review, a pagina 814 apparve un articolo dallo strano titolo: “Il cane emotivo e la sua coda razionale”. L’articolo iniziava con una scena agitata:

“Julie e Mark sono fratello e sorella. Stanno viaggiando insieme in Francia durante le vacanze estive. Una notte sono soli in cabina vicino alla spiaggia. Decidono che potrebbe essere interessante e divertente provare a  fare l’amore. Almeno sarebbe una nuova esperienza per entrambi. Julie già prende la pillola per il controllo delle nascite, ma anche Mark usa un preservativo, giusto per essere sicuro. A entrambi piace aver fatto l’amore, ma decidono di non farlo mai più. Considereranno quella notte come un segreto speciale che li renderà perfino più prossimi l’uno all’altro. Cosa pensi di tutto questo? Era “ok” per loro fare l’amore?”

Questa vignetta è stata utilizzata per eseguire uno degli esperimenti psicologici concepiti da Jonathan Haidt. Qual è l’obiettivo di questo esperimento? Haidt fece leggere la vignetta a un certo numero di persone, partecipanti volontari. La gran maggioranza, subito dopo aver letto il brano, esprimeva repulsione, condanna, ribrezzo, o almeno disorientamento e/o perplessità. A questo punto, Jonathan Haidt chiedeva alle persone di giustificare i loro sentimenti di condanna o repulsione. Qui iniziava il nocciolo dell’esperimento. Secondo Jonathan Haidt nessuno riusciva a giustificare in maniera razionale i propri sentimenti di ripulsa. Naturalmente anche nell’articolo di Jonathan Haidt il termine “razionale” è utilizzato secondo il significato moderno di calcolo dei pro e dei contro, dell’utilità e della dannosità pubblica e privata dell’atto. Per questa morale utilitaria non c’è un atto di per sé malefico, un valore in sé, se non quello dell’oggettiva dannosità.

In breve, secondo Jonathan Haidt nessun partecipante seppe giustificare in maniera convincente la propria condanna. A chi invocò danni genetici per l’eventuale prole, si rispose che i due consanguinei avevano usato varie precauzioni. Altri invocavano invece problemi di tipo emotivo, ma gli si rispondeva che invece il rapporto sessuale incestuoso era stato gratificante e privo di conseguenze emotive negative.

Giudizio morale: una questione di stomaco. Immagine: © Andy Dean - Fotolia.com -
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I risultati di questo esperimento possono essere interpretati in molte maniere. Jonathan Haidt ne ha tratto la conclusione che l’uomo è dotato di una intuizione morale che non dipende dal ragionamento. La reazione affettiva, caratterizzata da immediatezza istantanea, da assenza di sforzo da parte dell’attenzione consapevole e prodotta in maniera automatica e non intenzionale era capace di predire molto meglio il giudizio morale di ogni ragionamento sui pro e contro prodotto a posteriori.

Attenzione. Jonathan Haidt non arriva a sostenere che esistano valori universali. Questa conclusione filosofica andrebbe al di là del suo esperimento, e della scienza tutta. Jonathan Haidt sostiene semmai che esiste una tendenza universale al giudizio morale immediato, che è differente dal ragionamento ponderato. Il giudizio morale è quindi un giudizio spontaneo e non pensato. Certo, è vero che i suoi contenuti possono variare a seconda delle culture e delle sensibilità, che essi possono essersi automatizzati dopo essere stati appresi (o dopo che siano stati inculcati, diranno alcuni spiriti critici) o perché essi sarebbero legati a certe predisposizioni biologiche o naturali.

Jonathan Haidt non si esprime subito sui contenuti morali, e sembra incline semmai a individuare una funzione morale spontanea e universale, dal contenuto però relativo.

Jonathan Haidt conclude il suo lavoro assumendo che ogni giudizio morale obbedisca a una sua particolare bilancia morale in sé giusta, sebbene solo parzialmente. Attenzione: il politeismo morale di Jonathan Haidt non cade nell’immoralismo, ma in una sorta di panmoralismo ecumenico, in cui tutti i valori sono altrettanto pieni di una loro onesta e sincera moralità e inoltre sembrano essere in grado di convivere quasi armonicamente.

È giusto notare che il pluralismo morale di Jonathan Haidt non diventa relativismo morale. Per Jonathan Haidt ogni individuo è sempre moralmente motivato, e questa moralità è un valore in sé che non rimanda a nient’altro, tanto meno a un calcolo utilitaristico. L’obiettivo del suo esperimento psicologico era proprio mostrare la natura auto-fondante della moralità. La moralità è quindi un’emozione che non si appoggia ad alcun calcolo razionale, ma è un valore in sé. E il pluralismo non diventa mai relativismo per due ragioni: perché Jonathan Haidt crede nella genuinità del sentimento morale, che per lui non è un inganno prodotto da stati mentali insensati, e perché per Haidt questa pluralità di valori non è infinita, ma si articola su quatto assi, a quatto ordini di valori:

1) Rifiuto della Sofferenza;

2) Reciprocità, Giustizia ed Equità;

3) Gerarchia, Rispetto e Dovere; 

4) Purezza e Contaminazione.

Jonathan Haidt si fida di quella che lui chiama l’intuizione morale dell’uomo, e su di essa fonda la sua visione dell’etica, visione che è al fondo tradizionalista in quanto per lui l’etica è un valore in sé e non il prodotto di una convenienza utilitarista. Dunque, per Jonathan Haidt l’intuizione è sinonimo di verità. Per questa strada Jonathan Haidt rimane all’interno dell’ordine morale, e si rifiuta di attribuire un peso ad obiettivi meta-morali come l’utilità. Ma c’è qualcosa di ancor più notevole. Jonathan Haidt ammette che i valori morali possano essere il prodotto dell’evoluzione, ma per lui questo rimane ininfluente. Che i doveri, che le motivazioni morali, o anzi che l’organo percettivo della moralità (che sia la coscienza?) siano un prodotto di un processo biologico evolutivo non costituisce motivo di dissacrazione o di perdita di senso per la moralità stessa.

Il sentire morale non diventa un futile inganno solo perché è frutto dell’evoluzione. Haidt rimane all’interno del gioco morale.
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Disarmare il Narcisista di Behary Wendy T.- Recensione

Recensione del Libro:

Disarmare il narcisista.

Sopravvivi all’egocentrico e migliora la tua vita

di Behary Wendy T.

(2012)

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Disarmare il Narcisista. Wendy T. Behary. ISC Editore (2012) Disarmare il Narcisista : un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

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Chi può dire di non avere mai incontrato nella propria vita un narcisista? Che sia il fratello, il fidanzato, il figlio, il collega di lavoro o una persona vicina a noi. Chi non si è almeno una volta sentito schiacciato? Chi non si è mai arrabbiato? Tutti abbiamo esperienza più o meno chiara di quanto sia difficile avere a che fare con un narcisista, di quanto sia difficile comunicare, farsi capire e ascoltare, rompere le difese che ostacolano un rapporto affettivo sereno, che ostacolano la “messa in circolo delle emozioni” .

Con 25 anni di formazione alle spalle e numerose certificazioni, Wendy Behary è fondatrice e direttrice del Cognitive Therapy Center del New Jersey e del The New Jersey Institute for Schema Therapy. E’ Presidente del comitato esecutivo della Società Internazionale di Schema Therapy (ISST).

Come esperta sul narcisismo ha pubblicato e collaborato alla redazione di numerosi testi scientifici sul tema. Tra questi anche Disarma il Narcisista” un manuale chiaro e pratico che ci aiuta passo passo a capire che “tipo” di narcisista abbiamo davanti e come poter superare gli ostacoli che nascono nella relazione, partendo dal presupposto che i nostri sforzi non devono andare nell’ottica del cambiamento del narcisista, ma piuttosto nell’ottica del cambiamento delle dinamiche della relazione.

Skyfall_James Bond. Locandina
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È un libro che fornisce sia ai terapeuti che ai pazienti diversi strumenti per migliorare la conoscenza di sé stessi e imparare a “disarmare” il narcisista,  imparando a gestire la relazione in modo più consapevole senza subire la personalità dell’altro. In questo libro Wendy Behary ci fornisce un importante kit di strumenti pratici che ci aiutano a capire come gestire le sfide emotive che subentrano quando ci relazioniamo con qualcuno che non si relaziona con noi, così come accade con il narcisista.

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Vincente in questo libro il fatto che l’autrice utilizza la cornice teorica sia della Schema therapy sia della neurobiologia interpersonale per far arrivare chiaro al lettore come il narcisista veda il mondo e quale sia la connessione tra relazioni interpersonali, mente e cervello. Ci spiega in modo comprensibile e semplice come le componenti biologiche combinate con le esperienze precoci possano plasmare in modo anche drammatico le nostre impressioni e le nostre credenze, e così diventa chiaro per il lettore come gli schemi maladattivi precoci possano essere simili a un boomerang che lo riporta spesso al punto di partenza nonostante i suoi sforzi.

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Molto bello il quadro che fa l’autrice del narcisista, un cavaliere maestro d’illusione, e molto utile l’esercizio presentato nella parte iniziale del libro che aiuta a identificare con quale tipo di narcisista si ha a che fare. Un importante riflettore viene posto sulla connessione emotiva come possibile via di soluzione della relazione, come motore per un cambiamento emotivo e mentale.

Il lettore è accompagnato nel capire come molto spesso gli ostacoli che gli impediscono di relazionarsi con il narcisista siano le proprie esperienze di vita e caratteristiche biologiche, e quindi i propri schemi. Molti sono gli strumenti, che con la lettura di questo libro, si acquisiscono per imparare a riconoscere e anticipare il momento in cui si rischia di cadere nei vecchi schemi maladattivi, dando maggior respiro e importanza alle sensazioni somatiche del momento.

Un passaggio verso l’apprendimento delle abilità di mindfulness come primo step del cambiamento, e tanti altri strumenti che accompagnano nel lungo e faticoso percorso di cambiamento della modalità di relazione, il confronto empatico, la compassione, lo stabilire dei limiti. E infine ancora l’autrice fa chiarezza su quali sono le strategie di comunicazioni maggiormente efficaci con il narcisista.

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Un libro sicuramente da leggere non solo per chi ha a che fare con un narcisista, ma poi chi non ha a che fare almeno con un narcisista, ma anche per chi ha voglia di fermarsi a riflettere sui propri schemi e intraprendere un viaggio pieno di possibili spunti e strumenti per la conoscenza del sé e per migliorare le proprie relazioni.

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BIBLIOGRAFIA:

Emozioni Positive & Salute nei Paesi Non Industrializzati

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Emozioni Positive & Salute Fisica nei Paesi Non Industrializzati. Secondo una nuova ricerca le emozioni avrebbero un impatto sulla salute fisica.

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Secondo una nuova ricerca pubblicata su Psychological Science in tutto il mondo le emozioni avrebbero un impatto sulla salute fisica. Con un campione di 150.000 persone provenienti da 142 diversi paesi l’obiettivo della ricerca era di verificare se le emozioni avessero un impatto o meno sulla salute delle persone.

Essere Ottimisti Conviene! Il Ruolo delle Illusioni. - Immagine: © Time
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Sarah Pressman (University of California, Irvine). In particolare, la connessione tra emozioni positive e salute fisica sarebbe più forte nei paesi con inferiore prodotto interno lordo, paesi non industrializzati.

Lo studio quindi dimostra che anche per le persone che vivono nei paesi non industrializzati più poveri, alle prese con carestie e indigenza, e la cui salute fisica di conseguenza viene impattata negativamente da tali condizioni, le emozioni positive avrebbero comunque una correlazione significativamente positiva con il benessere generale e la salute fisica.

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 Se uno studio su larga scala può dare spunti interessanti, gli stessi autori riconoscono alcuni punti di debolezza dello studio tra cui per esempio, l’aver indagato in modo semplicistico lo stato emotivo delle persone soltanto in riferimento al giorno precedente, e altre semplificazioni delle variabili relative al contesto più ampio.

Ad esempio, gli abitanti del Malawi sono definite nella ricerca tra i più povere considerando esclusivamente il criterio del prodotto interno lordo, non considerando che è uno dei pochi paesi africani che non ha mai vissuto una guerra civile dalla sua indipendenza e che ha a disposizione un esteso sistema di acqua potabile.

 

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SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – PSICOLOGIA POSITIVA 

 

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La Deprivazione di Sonno influenza l’Espressione Genica

Dario Catania.

Psichiatra e Psicoterapeuta, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

“Benedetto sia chi inventò il sonno, cappa che copre tutti gli umani pensieri, cibo che toglie la fame, acqua che estingue la sete, fuoco per cui fugge il freddo, freddo che tempra l’ardore, moneta generale con cui tutto si compra, bilancia e peso che rende eguale il re al pastore e il saggio allo zotico.”

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1605/15

La Deprivazione di Sonno influenza l’Espressione Genica. -Immagine:© Ljupco Smokovski - Fotolia.com Una quantità insufficiente di sonno si ripercuote su molti meccanismi fisiologici di reazione allo stress, sulla risposta immunitaria e su quella infiammatoria; tali modificazioni possono giustificare, almeno in parte, gli effetti negativi sullo stato di salute dell’individuo, associati ad una condizione di deprivazione di sonno. 

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Il sonno è una modificazione dello stato di coscienza che da sempre ha suscitato interesse nelle neuroscienze. Nonostante sia di dominio comune il fatto che tutti i mammiferi e anche gli uccelli dormano, ancora si dibatte su quelle che possano essere le principali funzioni del sonno.

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Le principali di queste funzioni, su cui esiste ormai un certo accordo, sono due: il consolidamento della memoria relativa ad informazioni apprese durante la veglia (attraverso meccanismi di plasticità sinaptica) e il ripristino di una condizione di omeostasi cerebrale (attraverso l’attivazione funzioni metaboliche cerebrali di natura specifica volte a compensare modificazioni  fisiologiche occorse durante la veglia).

Acido Folico e Disturbi dello Spettro Autistico. -Immagine: © PHOTOERICK - Fotolia.com
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Sebbene gli esseri umani siano capaci di deprivarsi di cibo, fino a lasciarsi praticamente morire, non sono in grado, parimenti, di vincere il loro bisogno di sonno.

Molte patologie psichiatriche, come i disturbi d’ansia o i disturbi dell’umore presentano dei pattern di sonno alterati rispetto ai soggetti normali, così come molti dei sintomi psichiatrici quali dispercezioni somato-sensoriali, fenomeni dissociativi, possono essere indotti da una deprivazione di sonno. Esistono anche molti dati in letteratura che evidenziano come una quantità insufficiente di sonno e una disregolazione del ritmo circadiano risultino associati ad alcune patologie, come l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari e i deficit cognitivi e dell’attenzione.

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Il meccanismo attraverso il quale un sonno disturbato possa determinare l’insorgenza di alterazioni di una generale condizione di benessere, non sono chiare e risultano in larga misura non esplorate.

Un recente studio (Effects of insufficient sleep on circadian rhythmicity and expression amplitude of the human blood transcriptome) pubblicato sul numero del 25 febbraio 2013 della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” (PNAS) tenta di fornire una prima risposta a questi interrogativi.

Alcune ricerche di laboratorio che hanno studiato volontari sani il cui sonno notturno era stato limitato a circa 4 ore per un periodo da 2 a 6 giorni, hanno identificato alcune variabili fisiologiche ed endocrine che possono mediare alcuni effetti negativi sulla salute, senza però  chiarire i meccanismi patogenetici specifici.

Ricerche effettuate su topi di laboratorio hanno invece evidenziato come la privazione di sonno sia associata ad importanti cambiamenti dell’espressione genica nel tessuto cerebrale, anche se il numero dei geni interessati varia ampiamente in relazione ai diversi studi e ai ceppi di animali utilizzati. Sembra che ci siano geni che vadano incontro ad una  up-regulation, ossia che funzionano di più e meglio, durante la veglia sostenuta (deprivazione totale acuta di sonno)  come quelli implicati nella plasticità sinaptica e nell’espressione delle Heat-Shock Proteins (proteine che intervengono in numerosi processi cellulari, in particolare la loro funzione è quella di mantenere la conformazione spaziale di altre proteine presenti nelle cellule). Sempre in condizioni di veglia sostenuta sono stati individuati geni che subiscono una down-regulation, ossia che riducono la trascrizione di proteine; si tratta soprattutto di geni coinvolti nella biosintesi di macromolecole e nella produzione di energia.

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Ciò che si evidenzia nei topi può verificarsi anche nell’uomo, questa è la conclusione a cui giunge la ricerca della Möller-Levet e dei suoi collaboratori dell’Università del Surrey di Guilford, nel Regno Unito, che hanno esposto 26 volontari sani ad 1 settimana di deprivazione di sonno (in media 5,7 ore per notte), seguita da 1 settimana di sonno sufficiente (in media 8,5 ore per notte).

Al termine di ogni settimana i ricercatori hanno effettuato 10 prelievi ematici per valutare i prodotti della trascrizione del genoma, su ogni individuo sottoposto ad una deprivazione totale di sonno per circa 40 ore, in una condizione sperimentale di luce, attività fisica, assunzione di cibo controllate. Lo studio ha evidenziato che ben 711 geni erano up- o down- regolati durante il periodo di sonno insufficiente.

In particolare una deprivazione di sonno:

riduce il numero di geni che hanno un profilo di espressione nell’arco delle 24 ore, caratterizzato da una fase di picco seguita da una fase di declino (i geni ad espressione circadiana si riducono da 1855 a 1481);

riduce l’ampiezza della espressione circadiana di questi geni;

aumenta di circa 7 volte il numero dei geni che la cui espressione è influenzata dalla assenza totale di  sonno per 40 ore (una analoga assenza totale di sonno, preceduta da una settimana di sonno normale, modifica l’espressione di un numero minore di geni).

I geni coinvolti nella deprivazione di sonno riguardano diverse famiglie, tra cui i geni che regolano i ritmi circadiani e l’omeostasi del sonno, i geni legati allo stress ossidativo legato alla formazione di radicali liberi e sostanze ossidanti (agenti chimici dannosi per le cellule), ed infine geni che regolano diversi processi metabolici.

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In conclusione una quantità insufficiente di sonno, condizione sperimentata da molti individui che vivono nelle società più industrializzate e in parte prodotta dalle trasformazioni dell’epoca post-moderna, si ripercuote su molti meccanismi fisiologici di reazione allo stress, sulla risposta immunitaria e su quella infiammatoria; tali modificazioni possono giustificare, almeno in parte, gli effetti negativi sullo stato di salute dell’individuo, associati ad una condizione di deprivazione di sonno. 

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SONNO  – GENETICA & PSICHE –  NEUROSCIENZE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Adolescenza: L’età degli Elefanti in Equilibrio Su un Filo

 

Di Emma Fadda

 

Adolescenza: L'età degli Elefanti in Equilibrio Su un Filo. -Immagine: © tiero - Fotolia.com

Possiamo immaginare l’adolescente come un elefante sospeso in equilibrio su un filo, dove cadere a volte è questione di un attimo e può essere estremamente doloroso se non si ha ancora a disposizione un buon paracadute.

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L’adolescenza è quella fase del ciclo vitale dell’essere umano in cui si verifica la transizione dallo stato del bambino a quello dell’adulto. Essa ricopre quindi un periodo lungo, mutevole da individuo a individuo, da cultura a cultura, che comporta modificazioni fisico-corporee e significativi cambiamenti psicologici.

L’adolescenza quindi, come ogni fase del ciclo di vita, richiede all’individuo di portare a termine un preciso compito di sviluppo, quello cioè di definire la propria identità in modo coerente, integrato e autonomo.

Tale difficile ma allo stesso tempo affascinante scopo può essere raggiunto solo attraversando una fase (quella adolescenziale) in cui il ragazzo da un lato gradualmente si rende autonomo e si differenzia dalla propria famiglia di origine, e dall’altro sperimenta se stesso, le sue capacità, risorse e limiti all’interno di contesti sociali, ruoli e situazioni sempre più differenti e variegati.

Autolesionismo-e-Adolescenza-“Non-Potevo-Farci-Nulla”. - Immagine: © Eky Chan - Fotolia.com
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Sperimentazione, differenziazione e identificazione rappresentano quindi quegli “strumenti del mestiere” attraverso cui i giovani, sulla scia dei processi maturativi fisici, cognitivi, morali e sociali che caratterizzano questa fase di vita, ricercano e danno coerenza al sé, definendo il proprio sistema di scopi e credenze, che guiderà le scelte di vita futura.

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I processi di maturazione adolescenziale coinvolgono prima di tutto il corpo, che “si trasforma” in un corpo adulto tanto nella forma quanto nelle risorse e nella funzione, aprendo la strada alla definizione della propria identità di genere e di una nuova esperienza di sé e della sessualità in termini di intimità con l’altro.

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Il ragazzo acquisisce un nuovo modo di porsi di fronte al mondo. I cambiamenti cognitivi che caratterizzano questa fase favoriscono l’introspezione, la maggiore predisposizione per la discussione, l’esercizio del pensiero come “oggetto” che si può manipolare, astrarre, usare per costruire teorie, per pensare il possibile, per mettersi nei panni degli altri.

Questa importante abilità, quella di leggere la mente dell’altro è ora possibile per l’adolescente, che matura quella sensibilità emotiva, quel linguaggio emotivo, che gli consente di “sentire” l’altro e non solo di vedere il suo comportamento. L’altro che non è più strumentale al soddisfacimento dei propri bisogni, ma diventa un contenitore di emozioni, sensazioni, idee, bisogni e scopi che devono essere legittimati. Ecco quindi che l’amicizia assume un nuovo valore, perché sostenuta dal desiderio di condividere, di stare insieme, di reciprocità, di rispetto dell’altro. Il mondo delle relazioni si rivoluziona, dalla famiglia alla rete sociale ed amicale.

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Un periodo, quello dell’adolescenza che visto così sembra quasi un’esplosione di accadimenti positivi. Purtroppo però “non sempre è oro quello che luccica” per cui frequentemente questa fase di passaggio avviene con impaccio, fatica e difficoltà.

Possiamo immaginare l’adolescente come un elefante sospeso in equilibrio su un filo, dove cadere a volte è questione di un attimo e può essere estremamente doloroso se non si ha ancora a disposizione un buon paracadute.Quel ragazzo un attimo prima è un bambino che vede improvvisamente e velocemente cambiare il suo corpo e la sua mente, che può sentirsi disorientato, confuso, spaventato e insoddisfatto di ciò che accade, o semplicemente ancora poco attrezzato per affrontarlo. Quel ragazzo che nel mettere alla prova le sue risorse e abilità non è ancora consapevole dei suoi limiti, e quindi fa degli errori, si mette in pericolo, confonde e spaventa chi ancora si prende cura di lui come se fosse un bambino.

L’adolescenza nasconde quindi tante insidie, dalle problematiche sempre più diffuse connesse al corpo e all’immagine corporea, all’uso e abuso di alcol e sostanze, ai rischi connessi ad un uso improprio del web, al cattivo rapporto con la scuola e alle conflittualità spesso forti all’interno della famiglia.

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Difficoltà che l’adolescente a volte e si ritrova a dover affrontare da solo, perché non sostenuto, non “visto” ma criticato e giudicato dal mondo degli adulti, in particolare dai genitori.

Adulti e genitori che dal canto loro si ritrovano spesso disarmati e confusi, inadeguati e preoccupati di fronte ad una fase di vita che loro stessi hanno affrontato, ma che spesso “non ricordano” o che a loro volta hanno dovuto affrontare da soli.

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L’adolescenza non è quindi solo una sfida per i giovani ma anche per i loro genitori, che sono chiamati ad acquisire ed allenare quell’abilità di stare vicini, sostenere, comprendere, ascoltare, ma allo stesso tempo stare lontani, lasciando la libertà ai loro figli di sperimentarsi in autonomia, a volte facendo degli errori, ma pur sempre riconoscendo negli adulti una “base sicura”.

LEGGI:

ADOLESCENTI –  GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ –  RAPPORTI INTERPERSONALI – FAMIGLIA

Mindfulness a Scuola & Minor Rischio Depressivo negli Adolescenti

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una ricerca mostra che i ragazzi che hanno seguito un training di mindfulness a scuola abbiano minori probabilità di sviluppare sintomi depressivi e ansiosi

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Una nuova ricerca belga pubblicata da poco sulla rivista Mindfulness si è occupata degli effetti della mindfulness sugli adolescenti. In particolare, sembrerebbe che i ragazzi che hanno seguito un programma di mindfulness a scuola riportino minori probabilità di sviluppare sintomi di depressione e ansia nei sei mesi successivi.

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Mentre diversi studi si sono già occupati di interventi di mindfulness in setting clinici (si vedano studi su mindfulness e ricadute depressive in popolazioni cliniche) lo studio in questione verifica gli effetti della pratica della mindfulness in un ampio campione (400 soggetti) di adolescenti in un setting scolastico.

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La misura di outcome consiste in un questionario riguardante sintomi ansioso-depressivi, che è stato somministrato prima del programma, alla fine e sei mesi dopo.

Al pre-test entrambi i gruppi- sperimentale e di controllo hanno presentato percentuali simili di studi che riportavano sintomi depressivi (21 e 24%); al termine del programma tale percentuale si è significativamente ridotta nel gruppo sperimentale sceso a 15% di studenti con sintomi depressivi, contro il 27% di soggetti nel gruppo di controllo.

 Tale differenza si è mantenuta anche nel follow-up a sei mesi dalla fine del programma di mindfulness: 16% nel gruppo sperimentale contro il 31% del gruppo di controllo riferivano sintomi depressivi.

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Il limite dello studio è che il gruppo di controllo non ha ricevuto alcun trattamento di nessun tipo, sarebbe stato metodologicmanete più corretto sottoporre il gruppo a trattamenti placebo, e ancora più interessante ad altri interventi psicologici per verificare la maggiore efficacia nel setting scolastico.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

MINDFULESS – DEPRESSIONE – ANSIA – ADOLESCENTI 

BIBLIOGRAFIA:

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #1

 

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 1

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

“Anche se hai già tirato con l’arco varie volte, continua a prestare attenzione al modo in cui sistemi la freccia, e a come tendi il filo.

Quando il principiante è consapevole delle sue necessità, finisce per essere più intelligente del saggio distratto.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.46]

 

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #1. - Immagine: © fabioberti.it - Fotolia.comNegli articoli che seguono si cercherà di entrare più nello specifico del “come”  possono essere realizzati gli obiettivi della terapia e del “come” deve comportarsi il terapeuta, nel rapporto comunicativo con il cliente, per raggiungerli.

Nell’affrontare questo argomento verranno sottointesi i principi di base del colloquio psicologico, i quali svolgono un ruolo al di là delle tecniche e immanente al modo di essere dello psicologo.

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Negli articoli precedenti sono stati definiti i principi di base che devono sostenere le azioni dello psicologo nel corso del colloquio psicologico e quali sono gli obiettivi da realizzare nel corso della prima sessione.

Negli articoli che seguono si cercherà di entrare più nello specifico del “come” tali obiettivi possono essere realizzati e del “come” deve comportarsi il terapeuta, nel rapporto comunicativo con il cliente, per raggiungerli. Nell’affrontare questo argomento verranno sottointesi i principi di base del colloquio psicologico, i quali svolgono un ruolo al di là delle tecniche e immanente al modo di essere dello psicologo.

Il Colloquio Psicologico:Cosa Fare nel Primo Colloquio #1. Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
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Queste tecniche, anche se apparentemente possono sembrare accorgimenti semplici o banali, sono estremamente importanti, esse rappresentano i mattoni con i quali si può costruire un rapporto di fiducia. Per questo motivo la loro rilevanza non deve essere sottovalutata e l’attenzione del psicologo deve essere sempre rivolta anche ai dettagli.

LA PREPARAZIONE DEL COLLOQUIO

“Sa che la preparazione è importante quanto l’azione

C’è sempre qualcosa che manca. E il guerriero approfitta dei momenti in cui il tempo si ferma per armarsi meglio.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.80]

 

Un buon colloquio si avvia attraverso la preparazione precedente all’incontro con il cliente.

Bisogna innanzitutto predisporre una corretta atmosfera in un ambiente con un clima interno confortevole. Il mobilio deve essere neutrale ma accogliente. E’ meglio eliminare qualsiasi fonte di distrazione come ad esempio documenti sparsi per la scrivania o elementi dell’arredo cosi particolari da poter raccogliere l’attenzione e l’interesse del cliente. Anche l’abbigliamento deve essere neutrale, in modo da poter essere accettato con maggior probabilità indipendentemente dalle caratteristiche culturali del cliente. In questo modo LO psicologo può divenire trasparente, uno specchio che riflette parole e sentimenti del cliente mostrandogli come appaiono, visti dall’esterno. Anche abitudini, gesti o tick devono essere evitati in quanto fonti di distrazione.

Prima di un colloquio il terapeuta ha un contatto preliminare con il paziente, solitamente telefonico. Già dalla telefonata si possono ottenere diverse informazioni sulla personalità del futuro paziente, informazioni alle quali, lo psicologo esperto, pone molta attenzione. Innanzitutto può direttamente telefonare il paziente oppure può chiamare una terza persona. Se telefona il futuro paziente si può avere un’idea su cosa ci si può aspettare nel corso del colloquio in base al tono di voce, al modo in cui parla e si presenta e, ovviamente, alle cose che dice.

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E’ sempre bene chiedere informazioni generali sul problema senza soffermarsi troppo tempo al telefono. Si deve fare capire che il telefono non sarà utilizzato come normale mezzo di comunicazione e che non potrà sfruttarlo per lunghi contatti. Se telefona una terza persona è importante capire in che rapporti è con il cliente, a meno che non si tratti di un ente o di un altro professionista, e tenere a mente in che modo presenta il problema. La comunicazione deve essere breve e deve terminare fissando un appuntamento ed accertandosi che sia chiara sia la data che l’ora del primo incontro.

Al momento dell’appuntamento, prima che il paziente entri, lo psicologo deve accertarsi di essere nelle condizioni migliori per accoglierlo ed ascoltarlo. Può essere utile a questo scopo prendere un momento di pausa prima della seduta successiva per liberare la mente da tutto ciò che non riguarda la sessione. Quando il cliente entra è bene che lo psicologo si alzi e si rechi ad accoglierlo, lo inviti ad entrare, gli indichi dove può lasciare la giacca e gli dica di accomodarsi dove desidera.

Tribolazioni. Di Roberto Lorenzini – No Conflict. -Immagine: © olly - Fotolia.com
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Lo psicologo si siederà nel posto rimasto libero senza frapporre la scrivania tra lui e il cliente, sistemandosi in posizione leggermente girata (non direttamente davanti al cliente) né troppo vicino né troppo. Nelle presentazioni lo psicologo può stringere la mano del cliente, ma può anche non farlo in relazione al tipo di persona che si trova davanti, dicendo il proprio nome e cognome omettendo il titolo di dottore. Dopo di ché si può avviare il colloquio.

Nei casi in cui il colloquio si tiene nel domicilio del cliente, lo psicologo può godere di alcuni  vantaggi ma deve anche controllare nuovi ostacoli. Se da un lato si possono ottenere molte informazioni sul suo stile di vita e sulla sua personalità, dall’altro può essere difficile trovare un luogo di intimità e privo di distrazioni. In ogni caso lo psicologo deve dare suggerimenti affinché si possa individuare tale luogo al sicuro da televisione, radio e da rumori di qualsiasi tipo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Shopping Compulsivo: I Love Shopping… Too Much!

di Francesca Soresi

Shopping Compulsivo: I Love Shopping… Too Much!. - Immagine: © elgusser - Fotolia.com  Un modello cognitivo-comportamentale del Compulsive Buying o Shopping Compulsivo

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In letteratura sono presenti pochi riferimenti relativi al disturbo dell’acquisto compulsivo (Compulsive Buying, CB) o shopping compulsivo e solo recentemente è diventato un tema di interesse per i ricercatori.

Stephen Kellett e Jessica V. Bolton (2009) hanno tentato di fornire un possibile modello cognitivo-comportamentale del disturbo dello shopping compulsivo al fine di stimolare una valutazione e un trattamento più adeguato dei pazienti che presentato le particolarità dello shopping compulsivo.

Gli autori hanno individuato in letteratura le principali caratteristiche, definendo quindi lo shopping compulsivo come essenzialmente caratterizzato da singoli comportamenti disadattivi ed estremi. L’atto dell’acquisto nello shopping compulsivo è sperimentato come un impulso incontrollabile e irresistibile, che comporta attività singole eccessive, costose e dispendiose in termini di tempo. Tipicamente è un comportamento messo in atto in risposta ad emozioni negative, dando origine così a difficoltà finanziarie, personali e/o sociali.

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EABCT 2011: Shopaholics! Fenomenologia dello Shopping Compulsivo
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In letteratura emerge che lo shopping compulsivo, a differenza di altri disturbi del controllo degli impulsi, come il gioco d’azzardo patologico o la tricotillomania (DSM-IV), sembra essere tollerato dalla società invece di essere seriamente considerato come possibile genesi di un disagio familiare, sociale ed individuale, significativo e potenzialmente cronico. Inoltre risulta che lo shopping compulsivo può essere facilmente mascherato come shopping, attività socialmente accettabile; inoltre non esistono segni fisici indicativi di un problema e comportamenti da shopping compulsivo isolati non risultano agli occhi degli altri immediatamente bizzarri o comunque evidenti.

Il modello presentato da Kellett e Bolton prevede quattro fasi distinte:

1. Fattori antecedenti: precoci esperienze di vita e ambiente familiare (abuso e/o maltrattamento, criticismo e/o perfezionismo genitoriale) che costituiscono fattori di vulnerabilità. Ad esempio genitori in difficoltà (ad esempio depressi o alcolizzati, solo per citare due casi) che ignorano i propri figli o che utilizzano soldi e regali come rinforzo positivo per elicitare comportamenti desiderati nei propri figli costituiscono le condizioni favorevole per porre le basi per un forte attaccamento al patrimonio, che in seguito potrebbe funzionare da strumento per creare e mantenere un senso di autodefinizione;

2. Trigger interni ed esterni: stati emotivi interni (depressione, ansia, senso di sé sgradevole) e stimoli esterni (pubblicità, interazioni con i negozi, utilizzo di carte di credito) che possono indurre a fare acquisti di impulso.

 3. Atto dell’acquisto: nel momento dell’acquisto i compratori compulsivi sperimentano un restringimento dei processi attentivi che sembra essere indicativo di uno stato mentale “assorbito” (stato alterato e dissociato della mente durante il quale l’elaborazione efficace delle informazioni è generalmente alterata) compromettendo qualsiasi processo cognitivo esecutivo/riflessivo, che facilita gli sforzi di autoregolazione efficace (ad esempio: “io sono consapevole di me stesso e delle mie vere motivazioni per l’acquisto di questo prodotto mentre sto considerando di comprarlo”). Durante uno stato dissociato/assorbito aumenta la responsività emotiva e si riduce il processo di elaborazione dell’informazione, favorendo così gli effetti positivi per il proprio umore dovuti all’acquisto. Si origina, quindi, un circuito di feedback positivo: “acquistare mi fa stare bene”. In questa fase si sperimentano stati emotivi come: sollievo, gratificazione, miglioramento dell’umore e dell’autostima, che risultano però temporanei.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Generalmente l’acquisto in questa fase viene fatto in solitudine poiché la presenza degli altri provoca irritazione e noia. Probabilmente perché, presupponendo che i compratori compulsivi ricerchino effettivamente uno stato di assorbimento, l’interazione con gli altri impedisce il raggiungimento di tale stato;

4. Post-acquisto: consapevolezza di un’incapacità di autoregolazione che determina emozioni come senso di colpa, vergogna, rimorso e disperazione, seguite da comportamenti specifici come nascondere l’acquisto o ignorarlo.

Il modello descrive lo shopping compulsivo come un circolo vizioso, in cui la fase finale, dove si sperimentano gli aspetti negativi dell’acquisto ed emerge lo schema disfunzionale che ha dato origine all’acquisto stesso “Sono sgradevole ed indesiderato”, pone le basi per i trigger emotivi e psicologici per l’inizio di un nuovo circolo, mantenendo così il disturbo. Lo shopping compulsivo può quindi auto-rinforzarsi nel corso del tempo.

La principale implicazione per il trattamento di questo disturbo è rappresentato dal fatto che lo shopping compulsivo potrebbe essere ri-concettualizzato come un fallimento cronico e ripetitivo nell’auto-regolazione, e quindi gli interventi psicologici possono regolare questo aspetto nel tentativo di favorire il cambiamento.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Somministrazione Cronica di Antidepressivi SSRI & Estinzione della Paura

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Ruolo degli antidepressivi SSRI nell’estinzione della paura “appresa”: Uno studio mostra che il trattamento cronico con SSRI inficia l’estinzione nei topi.

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L’estinzione, in termini comportamentali, implica non la distruzione delle originarie memorie di paura, quanto l’apprendimento di nuove informazioni e la creazione di associazioni alternative rispetto al legame iniziale tra stimolo condizionato e stimolo incondizionato, solitamente attravero procedure espositive. I ricercatori hanno somministrato a dei topi (precedentemente “condizionati” alla paura) citalopram (antidepressivo SSRI) e una soluzione salina a un gruppo di controllo per 22 e 9 giorni consecutivi.

 Dallo studio è emerso che la sommistrazione cronica (22 giorni consecutivi nei topi), ma non subcronica (9 giorni) ha inficiato il funzionamento del meccanismo comportamentale dell’estinzione della paura a seguito di esposizione a nuove esperienze.

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In letteratura è ampiamente riconosciuta l’efficacia della combinazione di antidepressivi SSRI e terapie cognitivo-comportamentali nel trattamento della depressione maggiore; nel caso di disturbi d’ansia potrebbe d’altro canto presentare effetti controindicati. Ulteriori trials clinici sono necessari per approfondire i risultati anche in soggetti umani e per spiegare il processo sotteso a tale risultato.

 

Somministrazione Cronica di SSRI & Estinzione della Paura_fig.1
Fig. 1 – Antidepressivi SSRI bloccano l’estinzione della paura nei topi.

 

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ANTIDEPRESSIVI – PAURA 

 

BIBLIOGRAFIA:

Hurting to Heal: a Documentary on Self Harm

 

Self Harm: Hurting to Heal

A film that explores the reasons for people engaging in self-harm behaviours,

who may be affected by it and what we can do to help.

 Courtesy of: HarmLESS Psychotherapy

Hurting to Heal – Introduction

The film explores the reasons for people engaging in self-harm behaviours, who may be affected by it and what we can do to help.

Produced by HarmLESS Psychotherapy and funded by the British Psychological Society’s Public Engagement Grants Hurting to Heal was launched on the 1 March to coincide with International Self-injury Awareness Day.

Every year around 250,000 people attend Accident and Emergency Departments across the UK due to self-inflicted injuries and/or self-poisoning. We know this is only the tip of the iceberg as many people never seek medical attention. Self-harm is a taboo subject and people struggle with the idea. Particularly in the caring environment, where the lack of clear protocols and training leave staff feeling ill-prepared to support people who engage in self-harming behaviours. With this film we hope to remove some of the myths around self-harm and engage people at a personal and human level.

The Psychiatrist & the Rockstar: interview with Sinead O’Connor
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In Hurting to Heal Lora Coyle, a person with lived experience of self-harm takes the viewer on an exploratory journey through the reasons that lead people to engage in self- harming behaviours and how we can offer support.
Maria said: “This film is an introduction to the topic of self-harm and helps to open the conversation around effective support systems for people affected. We want to improve understanding that self-harm is a manifestation of psychological distress and not necessarily a precursor to suicide”.

Hurting to Heal was produced by HarmLESS Psychotherapy in collaboration with Choose Life, The University of Edinburgh, Scottish Mental Health Association, Shared Strengths and NHS Lothian with a 2011 BPS Public Engagement Grant. Copies of the film are available free via www.harmlesspsychotherapy.com

 

SOURCE:

HarmLESS Psychotherapy is a Social Enterprise Mental Health Educational Service founded in 2011.
For more information E: [email protected] TL: 07557056049, W: www.harmlesspsychotherapy.com

 

 

 

 

 

Autismo e Vaccinazioni: oltre le Teorie del Complotto e gli Allarmismi

 

Autismo e Vaccinazioni: oltre le Teorie del Complotto e gli Allarmismi. - Immagine:  © Spectral-Design - Fotolia.com

La tentazione di farsi seguaci di uno o dell’altro schieramento può voler dire per un genitore chiamato a decidere se vaccinare o meno il proprio figlio, regalarsi, più o meno consapevolmente, l’illusione di una scelta facile e giusta. I genitori di bambini autistici sono spesso alla ricerca di una causa che spieghi i sintomi del figlio e dare la colpa ai vaccini sembra essere diventata una moda sostenuta da un forte desiderio di condivisione.

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E’ passato un anno dalla sentenza del Tribunale di Rimini che ha disposto il risarcimento da parte del Ministero della Salute a favore della famiglia del piccolo B. V. Il bambino secondo i genitori avrebbe iniziato a manifestare i primi sintomi di autismo in seguito alla somministrazione del vaccino trivalente  MPR. La sentenza ha dato loro ragione: esiste un nesso di causalità tra la vaccinazione anti Morbillo-Parotite-Rosolia (MPR) e l’autismo, così come dimostrato dal dott. Andrew  Wakefield in uno studio pubblicato nel 1998 sulla rivista medica specialistica Lancet. Peccato che dopo due anni il medico in questione sia stato radiato dall’albo britannico dei medici e la stessa rivista abbia  ritirato ufficialmente lo studio.

Acido Folico in Gravidanza e Autismo nei Bambini: Correlazioni
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Dura anche  la reazione del Board Scientifico del  Calendario Vaccinale per la Vita che ha preso proprio  le mosse dal ritiro dello studio sulla correlazione fra vaccino MPR e autismo per giudicare la sentenza un pericoloso ostacolo alla campagna vaccinale nazionale.

Consiglio solo agli appassionati di romanzi gialli di approfondire la vicenda, che rappresenta  uno dei contenziosi più rilevanti nella storia della medicina contemporanea.

Abbandoniamo quindi l’oscura vicenda per concentrarci sulle poche informazioni limpide e facilmente accessibili sul tema autismo e vaccini:

– I vaccini hanno ostacolato la diffusione di malattie mortali. Dal 2000 al 2008 la mortalità per morbillo è scesa del 78%.

-I vaccini, come tutti i farmaci, possono produrre effetti collaterali. Tra i più gravi l’encefalopatia (o encefalite), un’infiammazione del cervello che può causare danni permanenti.

– La legge 210/92 prevede il risarcimento dei danni da vaccino. Il giudizio medico di un nesso di causalità tra vaccino e la menomazione psico-fisica o la morte del soggetto spetta alla commissione medico ospedaliera.

– L’autismo è una sindrome comportamentale, pertanto un soggetto che manifesta una serie di comportamenti viene definito “autistico”.

– l’eziopatogenesi dell’autismo non è nota. Diversi sono i fattori che potrebbero determinare l’insorgere dell’autismo.

– I bambini colpiti da encefalite possono manifestare un quadro clinico comportamentale descrivibile come autismo.

– L’autismo si manifesta in età diverse da soggetto a soggetto, comunque entro i primi 3 anni di vita.

– Non esiste  alcun esame medico obiettivo in grado di chiarire senz’ombra di dubbio se una certa patologia sia di fatto un danno da vaccino.

 

Date queste premesse credo che la difficoltà nel maturare un’opinione in merito al legame tra autismo e vaccini dipenda dalla natura complessa del tema stesso ma credo che il dibattito sia legittimo.

Come si può concludere con certezza che una patologia che  fa il suo esordio negli anni successivi alla  nascita e che può essere causata da diversi fattori, anche in combinazione,  sia riconducibile all’evento vaccino in assenza di esami medici obiettivi che possano stabilire un nesso di causalità  tra i due fenomeni in questione?

Non ho certo le competenze specifiche per azzardare ipotesi di risposta a questo interrogativo ma indubbiamente la diagnosi di danno da vaccino non sembra un affare di semplice gestione e c’è ragione di pensare che il numero di casi riconosciuti  dal Ministero della Salute possa non corrispondere al dato di realtà. Ecco allora che il quadro si complica ulteriormente se vogliamo delegare alla legge dei grandi numeri l’espressione di un giudizio di significativa pericolosità dei vaccini.

Con maggior competenza posso invece affermare che  per la mente umana, in particolar  modo quella di un genitore, tollerare l’incertezza riguardo la salute del proprio figlio non è cosa semplice. Ecco allora la tentazione di affidarsi a pareri autorevoli, come quello del pediatra che liquida con superficiali rassicurazioni le nostre preoccupazioni o di medici pronti a rifilarci diverse teorie sull’inutilità se non pericolosità dei vaccini nonchè il ricorso a varie teorie del complotto che trovano nella rete il loro terreno più fertile.

La tentazione di farsi seguaci di uno o dell’altro schieramento può voler dire per un genitore chiamato a decidere se vaccinare o meno il proprio figlio, regalarsi, più o meno consapevolmente, l’illusione di una scelta facile e giusta. I genitori di bambini autistici sono spesso alla ricerca di una causa che spieghi i sintomi del figlio e dare la colpa ai vaccini sembra essere diventata una moda sostenuta da un forte desiderio di condivisione.

Citiamo dall’articolo de Il Fatto Quotidiano (in bibliografia):

Consultato telefonicamente dal fattoquotidiano.it, il professor Gabriel Levi, direttore dell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile all’Università La Sapienza di Roma, conferma che “allo stato attuale delle conoscenze non esiste alcuna causa accertata, diretta, esclusiva e sufficiente per l’autismo. Esistono fattori di varia natura, che possono concorrere a determinare una vulnerabilità neurologica”. Anche per il professore accade che “spesso i tribunali intervengono in cose in cui c’è una competenza scientifica nulla” . E spiega così la confusione: “I casi in cui c’è un minimo sospetto ragionevole, sono i casi che avevano accertato già precedentemente al vaccino dei segni neurologici indicativi. Il vaccino può aumentare la vulnerabilità neurologica, che significa assolutamente che determina l’autismo, tanto meno in maniera esclusiva”. “Nel caso di Rimini – prosegue – bisognerebbe prima dimostrare con evidenza certa che c’è stato un danno neurologico, poi bisognerebbe ricercare le altre concause che hanno agito nel determinare lo sviluppo autistico”.

 

Ossitocina: Una Possibile Cura per l'Autismo?. - Immagine: © IKO - Fotolia.com
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Tuttavia in 10 anni di lavoro di psicologa con gli autistici e le loro famiglie ho conosciuto molti genitori convinti che siano stati i vaccini a innescare la sintomatologia autistica e fatico a credere che siano tutti in errore. Conosco però solo un bambino a cui sia stato riconosciuto il danno da vaccino e concesso un risarcimento.

Come genitore (da 5 anni ormai) sento di meritare informazioni più dettagliate rispetto ai rischi e benefici dei vaccini nonchè una concreta  valutazione dello stato di salute del bambino accompagnata da un’accurata anamnesi familiare al fine di determinare la predisposizione a fattori di rischio per la manifestazione di reazioni avverse al vaccino. In verità sono invece i genitori a doversi esprimere circa la buona salute del figlio prima di sottoporsi all’iniezione compilando una checklist che ci chiede, tra le altre cose, se il bimbo sta bene il giorno del vaccino e se è allergico a qualche alimento, farmaco o vaccino. Non si tratta certo di quesiti semplici se rivolti a genitori di bambini di soli 2 mesi ma la legge prevede che il personale sanitario sia adeguatamente formato per rispondere a ogni dubbio e gestire i necessari approfondimenti nel caso in cui le risposte date lascino sospettare una o più controindicazioni al vaccino.

Pretendere dai vaccinatori un’adesione letterale a quanto previsto per legge concederebbe a noi genitori un maggior senso di padronanza della situazione perchè vaccinare i propri figli non dovrebbe essere un atto di fede ma un gesto consapevole.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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