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Educazione Prescolare e benefici per l’Individuo e la Società

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I bambini che hanno potuto godere di un’ educazione prescolare, hanno avuto un maggiore rendimento scolastico, che si è tradotto poi in ottimi risultati successivi.

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Craig Ramey, un pioniere nella comprensione dei fattori che contribuiscono allo sviluppo cognitivo precoce nei bambini, è professore e ricercatore presso il Virginia Tech Carilion Research Institute e direttore scientifico al Louisiana Department of Education nel prekindergarten program. E’ inoltre il creatore e fondatore di un decennale studio scientifico, l’Abecedarian Project, sui potenziali benefici dell’educazione nella prima infanzia per i bambini economicamente svantaggiati e a rischio di ritardo nello sviluppo o di insuccesso scolastico.

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Lo studio controllato ha avuto inizio nel 1972 e i risultati del progetto, pubblicati recentemente nella rivista Developmental Psychology, hanno mostrato la correlazione positiva tra accesso all’educazione prescolare e successi scolastici e lavorativi nell’età adulta. 

I bambini del gruppo sperimentale inseriti nell’Abecedarian Project, nati tra il 1972 e il 1977 e provenienti da famiglie a basso reddito, hanno goduto di un intervento educativo di alta qualità e a tempo pieno fino all’età di 5 anni: l’intervento educativo era personalizzato per ogni bambino e l’attività formativa – incentrata sulle aree della socialità, emotività e dello sviluppo cognitivo, con particolare attenzione al linguaggio – consisteva in “giochi” che veniamo incorporati nelle attività quotidiane del bambino.

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Qualche decennio più tardi i partecipanti al gruppo sperimentale mostravano differenze significative rispetto al gruppo di controllo nella maggiore probabilità di avere un impiego fisso e minore probabilità di aver usato assistenza pubblica.

I follow-up negli studi infatti hanno costantemente dimostrato che i bambini che hanno potuto godere dell’educazione scolastica precoce hanno avuto un maggiore rendimento scolastico, che si è tradotto poi in ottimi risultati scolastici successivi.

Dal momento in cui un bambino entra all’asilo, sostiene Ramey, comincia il suo cammino verso l’autorealizzazione. Quando i bambini sono preparati, i loro primi successi portano ad altri successi. Ma se non sono preparati possono ritrovarsi a cominciare una lotta che durerà anche tutta la vita: la spirale può essere verso l’alto, oppure verso il basso.

Ramey ha recentemente espresso tutta la sua approvazione all’appello del presidente americano Obama in favore dell’accesso universale e garantito all’educazione prescolare di qualità.

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BIBLIOGRAFIA:

BRP: Bridge Between Research and Practice: Presentazione dei Candidati Selezionati.

 

The Bridge Between Research and Practice (BRP)

Presentazione dei Candidati Selezionati

 

The Bridge between Research and Practice (BRP) Exchange ProgramIl progetto BRP (Bridge between Research and Practice) Project nasce dalla partnership tra Studi Cognitivi – Cognitive Therapy School and Research Institute (Milano, Italy) e Open Minds – Center for Mental Health Research (Cluji-Napoca, Romania).

 

GUARDA IL PROGRAMMA DELLO SCAMBIO

Il BRP Project è stato costruito per facilitare l’acquisizione e lo sviluppo di competenze pratiche e di ricerca tra gli studenti di istituti di alta formazione e ricerca nel campo della psicologia e della salute mentale. Il BRP offre agli studenti una possibilità unica nello sviluppo professionale e nell’arricchimento della propria rete di collaboratori internazionali.

 

Il BRP Project si fonda sullo scambio di formazione e sulla cooperazione progettuale tra enti internazionali.

Il pilastri su cui poggia sono:

(1) psicoterapia come scienza,

(2) sviluppo tecnologico in psicoterapia,

(3) promozione sociale di psicoterapie efficaci e superamento delle barriere dello stigma,

(4) alta formazione,

(5) cooperazione internazionale.

Numerosi studenti delle scuole di specializzazione “Studi Cognitivi”, “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca”, “Scuola Cognitiva di Firenze” hanno partecipato al bando. Di seguito una breve presentazione dei candidati che sono stati selezionati:

 

Elena MannelliElena Mannelli: Iscritta al III anno della Scuola Cognitiva di Firenze. Laureata presso la Facoltà di Psicologia di Firenze nel febbraio 2010 in Psicologia Clinica attualmente svolge il tirocinio presso la struttura Poggio Sereno dove si occupa principalmente di Disturbo Ossessivo Compulsivo. Esercita la libera professione come psicologa ad Arezzo dove svolge valutazioni psicodiagnostiche e sostegno psicologico.

 

Michela MuggeoMichela Muggeo: iscritta al IV anno della scuola di psicoterapia “Studi Cognitivi” di Milano. Laureata in Psicologia Clinica presso l’Università Cattolica di Milano, ho svolto molteplici esperienze internazionali nel campo della ricerca sui fattori cognitivi ed emotivi implicati nella trasmissione dell’ansia intergenerazionale. Attualmente gli interessi sono rivolti alla doppia diagnosi psichiatrica e, più in generale, ai disturbi di personalità.

 

Francesca Martino Francesca Martino: iscritta al 4 anno della scuola “Studi Cognitivi” di Modena. Laureata nel 2007 in Psicologia Cognitiva Applicata presso l’Università di Bologna. Professione: Psicologa clinica, libero professionista e ricercatrice a progetto presso l’Istituto di Psichiatria di Bologna nell’area del Disturbo Borderline di Personalità.

 

 

Chiara Caruso Chiara Caruso: laureata in Psicologia Cognitiva con una tesi in Psicolinguistica e sto terminando il Dottorato di Ricerca in Neuroscienze presso la School of Advanced Studies di Chieti. Frequenta la Scuola di formazione in Psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto. Attualmente si occupa di comprensione del linguaggio e cognizione numerica in collaborazione con l’Università di Newcastle (UK). Nel suo campo di interesse rientra il funzionamento mentale attraverso lo studio dei deficit neuropsicologici e della psicopatologia.

 

 

Storie di Terapie #22 – Simone, Quanta Intelligenza Sprecata

 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione 

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Storie di Terapie #22 - Simone, Quanta Intelligenza Sprecata. - Immagine: © Mr Korn Flakes - Fotolia.com

Storie di Terapie #22 – Simone, trentadue anni e fa uso di ogni tipo di droga da quando ne aveva quindici. La cocaina è la sua preferita.

Un mio fermo proposito è quello di non prendere in trattamento i tossicodipendenti. Mi rendo conto che non dipende da loro, che si limitano ad avere una malattia come un’altra, ma da me e dai miei pregiudizi. Ma dico tanto agli altri di accettarsi per come si è, che  qualcosa voglio fare anch’io. E poi, i pregiudizi sono una grazia, si risparmia la fatica di giudicare ogni volta, senza di essi saremmo sempre come appena sbarcati su un pianeta sconosciuto.

Insomma, io ho il pregiudizio che i tossici siano bugiardi, ingannatori, senza nessuna volontà di guarire e sostanzialmente viziati più che malati.

Simone non poteva iniziare peggio. Dopo aver superato le mie riluttanze e a causa delle  pressioni di un collega che ha in trattamento la moglie, gli fisso un appuntamento a cui non si presenta. Lo stesso avviene al secondo appuntamento: dopo aver citofonato non sale,  sostenendo di essersi perso nel palazzo, evidente bugia. Finalmente, la terza volta riusciamo a sederci uno  di fronte all’altro.

Ha trentadue anni e fa uso di ogni tipo di droga  da quando ne aveva quindici. La cocaina è la sua preferita e, nei periodi buoni, ne tira una quantità che lui stesso dice essere esagerata, ovvero 10 gr/die che scrivo anche per esteso, tanto è incredibile: dieci grammi al giorno!

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E’ assolutamente evidente che occorre stare in un giro di spaccio forte, per procurarsi i soldi necessari. Simone ha, dalla sua, un’ottima intelligenza, affatto deteriorata, che lo ha portato a pochi esami dalla laurea in giurisprudenza, che conta di prendere dopo la terapia.

E’ un giovane piccolo, con un naso a becco d’aquila, muscoloso e compatto. Capelli neri e occhi neri, da cocker triste.

Il nostro incontro avviene di mercoledì ed il sabato successivo si sposerà con Alessia, sua compagna da 15 anni assolutamente non tossicodipendente, ma evidentemente dipendente se ancora resta a sopportare l’insopportabile al suo fianco. Simone ed Alessia hanno in progetto di lasciare l’Italia e di aprire un ristorante in Sudamerica.

Perché proprio ora Simone chiede aiuto?

Storie di terapie #2: Un Pomeriggio con il Demonio. - Immagine: © lineartestpilot - Fotolia.com -
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Si consideri che, della farmacocinetica delle sostanze e dell’evoluzione della tossicodipendenza, ne sa indubbiamente più di me. Nel corso della breve terapia mi capiterà un paio di volte di chiedergli una consulenza farmacologica rispetto ad altri pazienti.

Simone ha paura di impazzire, si rende conto che la sua paranoia sta aumentando e inizia a coinvolgere anche Alessia. Questo è stato il campanello d’allarme. Non vuole assolutamente farmaci, perché ha visto altri amici “rincoglionirsi” completamente prendendo medicine e non è disposto a trattare. Sono molto in dubbio dell’efficacia di un intervento senza farmaci, ma lui mi rassicura, dicendomi che intanto sarebbero inutili perché i suoi enzimi epatici, abituati a ben altro, li inattiverebbero all’istante e poi che è intelligente e anch’io gli sembro tale e dunque con le parole ce la faremo.

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La paranoia accompagna tutti i cocainomani di livello e lui la conosce bene. Non è solo un pensiero, vede dei serpenti che gli si attorcigliano alle gambe fin oltre il ginocchio e lo tirano a terra, sente delle voci che gli dicono “ bastardo, assassino, infame recchione”. Le allucinazioni sono moltiplicate dall’assunzione anche di dosi minime, ma lui le riconosce come tali, le ignora senza dar loro importanza e ciò mi  sembra una capacità metacognitiva fuori dal comune. Forse davvero possiamo fare qualcosa di buono, ma la voglia di dargli un po’ di neurolettici è forte. Non sono i serpenti o le voci a spaventare Simone, quelli li ha messi nel conto. L’angoscia di impazzire l’ha provata quando ha pensato che Alessia potesse essere d’accordo con i suoi creditori e volesse consegnarlo a loro. In quel momento si è detto “sto diventando irrimediabilmente matto” ed ha deciso di smettere. Indubbiamente la sua intelligenza brillante e la sua spregiudicatezza mi hanno conquistato. Inoltre il narciso che è in lui deve aver fatto l’occhietto a quello che è in me, occorre stare in guardia.

La faccenda con i creditori risale a circa un anno prima: i suoi fornitori all’ingrosso incassano da lui circa duecentomila euro al mese da una decina di anni quando, un ritardato pagamento di cinquemila euro da parte sua, li ha allarmati senza motivo. Simone aveva solo una difficoltà sui contanti, per ritardati pagamenti dei suoi clienti. I creditori gli  hanno fatto pressioni e poi gli hanno dato un ultimatum di settantadue ore, dopo le quali avrebbero avvertito la madre. Questa mancanza di fiducia dopo anni di collaborazione e l’affronto alla famiglia hanno scatenato un rancore profondo. Simone ha acquistato una pistola ed ha gambizzato uno dei due soci spaventando a morte l’altro. Da allora le paranoie si sono moltiplicate.

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Simone non è alla sua prima esperienza psicoterapeutica. La prima è durata due anni, tra i diciassette e i diciannove. La ricorda con piacere, ma la ritiene la causa di tutti i suoi mali successivi. Vi fu costretto dalla madre, che lo scoprì mentre fumava una canna con un suo amico. Lo psicologo era bravo e comprensivo e frugò abbondantemente nel suo passato. Simone dice che “scoprirono tante cose, generando dentro di sè un gran disordine, che non è più stato rimesso a posto”: un avvertimento su come muovermi.

 Lui dice che, fino ad allora, era stato un ragazzo di strada che sapeva farsi rispettare senza essere inutilmente prepotente, non aveva paura di niente e aveva le idee chiare. Dopo la terapia era pieno di insicurezze, si sentiva fragile e incapace di affermarsi.

Questa prima terapia era stata ampiamente incentrata sulle molestie subite da un cugino, figlio di un fratello della madre,  di sei  anni più grande di lui, che  aveva iniziato a imporgli pratiche sessuali passive prima e poi anche attive dalle età di sette fino ai quattordici anni. Simone è convinto che anche altri cuginetti abbiano subito le stesse attenzioni, ma nessuno dei vari genitori ha mai preso sul serio le proteste dei bambini, che non volevano andare mai a casa del cugino più grande.

La madre, ad esempio, gli disse chiaramente che erano cose che succedevano  di frequente e che non c’era nulla di grave, doveva solo dimenticare.

In verità, Simone ha incluso nel rancore anche i genitori, che non lo hanno protetto e non ha affatto dimenticato. Ancora oggi medita vendetta. Progetta di recarsi in Giappone dove vive attualmente il cugino, diventato un famoso architetto, e di ucciderlo con una overdose di cocaina. Lo ritiene colpevole del suicidio di Irma, un’altra cuginetta che si tolse la vita a sedici anni, gettandosi dalla finestra della casa incriminata.

La famiglia di Simone era una tipica famiglia del proletariato metropolitano, di solida fede comunista. Il padre Mario, operaio,  era spesso fuori casa, per lavori in tutta l’Italia Centrale. A casa era una autorità indiscussa e temuta, soprattutto quando esagerava con il vino. Nel quartiere era conosciuto come un uomo duro che si faceva rispettare e ciò garantiva una sorta di intoccabilità a lui e alla madre, che rimaneva sola per lunghi periodi. Marta, la madre, era stata bidella alle elementari fino alla nascita di Simone, poi si era dedicata alla famiglia e solo saltuariamente faceva le pulizie nelle case dei signori, voleva  avere tempo di stare appresso al figlio, che vedeva crescere sano tra le mille insidie in agguato in una periferia romana come quella di Tor Pignattara.

Simone attribuì alla propria malizia e all’esperienza che stava vivendo in quel periodo di sottomissione sessuale al cugino, un cattivo pensiero che fece a tredici anni. Per un periodo di sei mesi, la mamma non si lamentò come di consueto di non riuscire ad arrivare a fine mese e aveva comprato per sé un vestito bianco con fiori di tutti i colori che la facevano bellissima. Era più bella e sorridente ed emanava un profumo di primavera che gli era rimasto in testa. Quel periodo luminoso fu interrotto da una sbronza violenta del padre che spedì la moglie in ospedale causandole l’aborto di quello che sarebbe dovuto essere il suo fratellino. Dopo il ricovero, Marta smise di andare a servizio presso un ingegnere e i problemi economici ricominciarono daccapo.

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Simone decise che avrebbe guadagnato tanto da non mandare più sua madre a servizio e il padre non l’avrebbe più picchiata. Per questo aveva iniziato a fare consegne per quelli che, ad un certo punto, lo avevano minacciato di coinvolgere proprio la madre.

Il lavoro con Simone prese due direzioni. La prima, il perseguimento dell’astinenza dalla sostanza, anche attraverso misure logistiche come il trasferimento fuori Roma, lontano dal suo ambiente, in una casa in campagna di una amica di Alessia. Prendemmo in considerazione anche l’ipotesi della comunità terapeutica, ma le esperienze di alcuni  amici ce la fecero escludere, trattandosi di soluzione solo temporanea senza risultati stabili.

Storie di Terapie #16 – L’impalpabile Marisa. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.com
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L’altro tema importante, su cui all’inizio non avevo prestato sufficiente attenzione, era la dipendenza da Alessia, peraltro ricambiata. Simone, quando non era in compagnia di Alessia, perché lei lavorava, si sentiva del tutto annientato. Nel senso etimologico, di fatto un niente. Spesso non si alzava dal letto, non cucinava e neppure mangiava. L’unica attività era la ricerca di cocaina ma, se questa era impossibile, restava il nulla assoluto. Solo la madre riusciva in parte a compensare l’assenza di Alessia.

Conosco personalmente quel vissuto, in cui un’assenza assorbe in sé l’universo, rendendolo desertico e inutile. Non ne conosco invece la cura, se non la distrazione del fare. Così, lanciai Simone in una serie di attività organizzative preparatorie del progetto “ristorante in Sudamerica”: il recupero dei soldi che molti consumatori gli dovevano o la chiusura della vertenza con i suoi fornitori.

Un giorno Alessia lo accompagnò a studio con, sul volto, i segni di numerose percosse ed un’ infinita disperazione. Aveva trovato nella cassetta dello sciacquone una busta con 500 grammi di cocaina e, convinta che Simone avesse ricominciato, l’aveva svuotata nel gabinetto. In realtà si trattava di ventimila euro di roba che alcuni amici avevano raccolto perché lui li restituisse ai suoi creditori, chiudesse il conto con loro e fosse finalmente libero. Alla vista dei ventimila euro sul fondo del water Simone aveva perso la testa e, per la prima volta, picchiato Alessia. Poi si era sentito come il padre e aveva persino deciso di farla finita. Alessia, riavutasi, aveva preso a consolarlo e tutto era rientrato. Stavano insieme, davanti a me, a parlarmi dei loro sogni sudamericani.

L’ultima parte  del lavoro psicoterapeutico si orientò, soprattutto, nella ricostruzione di un’ identità di Simone diversa da quella del tossico spacciatore. Riscopriva una serie di interessi e capacità che facevano di lui un ragazzo brillante, intelligente e generoso. In passato aveva davvero creduto ad una specie di etica malavitosa, che mette in primo piano alcuni valori come la famiglia e l’amicizia. Sembrava una sorta di primo Vallanzasca, che combatte per la libertà dei deboli ma, guardandosi intorno, non trovava più nulla se non la venerazione del denaro. Era un uomo deluso che, da bambino abusato, aveva reagito costruendosi un immagine di duro che difende i deboli anche se non sempre con mezzi leciti. Ma non c’era riuscito. Era uno spacciatore di morte. Incapace di fare a meno della sostanza e sull’orlo della follia che aveva conosciuto anche  in molti suoi amici, di cui aveva pagate le costose e inutili cure.

 Decise di accelerare i tempi della laurea per poi mettersi a fare gratuitamente l’avvocato dei diseredati. Per togliersi dall’ambiente romano, troppo denso di tentazioni, chiese il trasferimento presso un’altra Università ed io mi spesi personalmente perché lo ottenesse.

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Un giorno arrivò in seduta di nuovo accompagnato da Alessia, si sentiva più minacciato del solito e temeva a girare da solo. L’allarme era stato generato dalla proposta ricevuta da un amico di avere un incontro chiarificatore e definitivo con i suoi creditori. Era in dubbio se accettare o meno e voleva decidere la strategia con me ed Alessia. Aveva due argomentazioni contrapposte. Da un lato sembrava evidentemente una trappola e dunque non bisognava andarci. Dall’altro era troppo evidentemente una trappola per essere veramente tale. La regola che vige in strada è che le cose non si annunciano mai, si fanno. Non andare sarebbe stato segno di viltà infamante e, magari, un’occasione perduta per porre fine alla questione.

Mi chiedeva un consiglio, ma io pensai che non è mio compito consigliare e che non conoscevo le regole dell’ambiente per poter fare previsioni sensate. Ero sensibile alla paura di Simone e di Alessia e considerai perfino di  accompagnarli all’incontro. Nella mia fantasia diventavo il garante dell’ordine e del buon senso e tutto si sarebbe sistemato. Poi avrei ricevuto un invito dal loro hotel in Sudamerica. Non so se sia stata la vergogna di dover poi confessare una tale violazione armata del setting al mio gruppo di supervisione o, più semplicemente, la mia antica vigliaccheria, ma i pensieri non si tradussero in parole. Per fortuna. Concordammo di non andare all’appuntamento. Il noi, che comprendeva loro due e me, era ormai consolidato. Non avrei mai immaginato che di lì a qualche giorno avrei iniziato a parlare per telefono usando circonlocuzioni, nella certezza di essere spiato.

Storie di Terapia #13. L'analitica Stefania. - Immagine: © Andrii Muzyka - Fotolia.com
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La paranoia si attacca. La vigliaccheria invece è genetica. Ho aspettato con apprensione l’incontro successivo perché temevo che avesse finito per andarci, per non mostrarsi timoroso, magari portandosi appresso “il ferro” che non sa usare e diventa un pericoloso boomerang. Invece, una mattina alle sei squilla il cellulare con un numero sconosciuto. Rispondo. E’ Alessia singhiozzante. Il sangue nelle vene mi rallenta pericolosamente ed ho la pelle d’oca. Alessia mi grida che lo stanno portando via. Lui, mi dice, è spaventatissimo e nessuno capisce cosa stia succedendo. Non saprà per giorni perché lo abbiano arrestato e non può in alcun modo comunicare con me. Offro la mia disponibilità per visitarlo in carcere. Le notizie mi arrivano per sms da un cellulare ignoto. Non è possibile vederlo, sta in isolamento. E’ disperato e vuole morire. Sembra un pulcino chiuso  in gabbia con un gatto famelico. Temo che riviva l’esperienza con il cugino, per esorcizzare la quale aveva cercato di diventare un duro.

A me resta solo un problema organizzativo. La cartella di Simone dove la metto? Tra i drop-out? Ma un arresto può essere considerato una resistenza agita? Oppure tra i successi? Che, onestamente, non mi sembra, nonostante il ripetersi di sms di ringraziamento da parte di Alessia.

Preferisco che stia tra le terapie in sospeso che, in stand-by, possono riprendere senza lista d’attesa.

Una copia però la metto anche nello scaffale “violazioni del setting” .

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: 

“STORIE DI TERAPIE” – DROGHE & ALLUCINOGENI – PARANOIA – VIOLENZA – RELAZIONI INTERPERSONALI – ESPERIENZE TRAUMATICHE 

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E09 Amy & Jake

 

In Treatment – Psicoterapia in TV

NONA PUNTATA

Amy & Jake

LEGGI L’INTRODUZIONE

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E09 Amy & JakeUn quadro raggelante, che demitizza completamente il terapeuta e lo rende debole come i suoi pazienti. O meglio, più debole.

LEGGI: LA PRIMA SEDUTA DI AMY & JAKE

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT

Puntata terribile e tristissima, in cui tutto il malessere di Paul Weston risalta in primo piano. Ma prima di tutto questo l’intelligenza drammatica degli sceneggiatori aveva piazzato un inizio ingannevolmente ottimista. La coppia litigiosa e in crisi aveva iniziato l’incontro in maniera promettente, con grande volontà di capirsi e comprendersi. Amy desiderosa di comprendere il desiderio di paternità di Jake, Jake in grado di capire le difficoltà della gravidanza di Amy.

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Ma è un’estate di San Martino che dura poco. La seduta si interrompe anticipatamente per un malessere fisico di Amy che fa temere un aborto spontaneo.Non basta. Nella scena rimasta inaspettatamente vuota va in scena la crisi di un’altra coppia: quella tra Paul e sua moglie Kate. Crisi grave, con Kate che confessa di vedere un altro e che, dopo un attimo di smarrimento, rinfaccia a Paul tutta la sua insoddisfazione.

La coppia in terapia: tra processi di appartenenza e separazione. - Immagine: © ashumskiy - Fotolia.com
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È chiaro che Paul ormai vive solo per il suo lavoro, che in famiglia è un marito e un padre a dir poco assente. Un vecchio senza energie, lo definisce Kate. Qualcuno che non investe più nulla nella famiglia e che ormai vive una sua vita parallela con i pazienti e la psicoterapia, tutto chiuso nel suo studio.

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Un quadro raggelante, che demitizza completamente il terapeuta e lo rende debole come i suoi pazienti. O meglio, più debole. L’effetto è straniante e traumatico, almeno per me. Atterrisce vedere questo terapeuta così sofferente e incapace di maneggiare il proprio dolore emotivo.

Per Paul mi viene in mente il termine “burn-out”, ma al contrario: Paul non mostra il tipico logoramento della passione e motivazione per il lavoro delle persone “bruciate” per il loro mestiere (burn-out significa proprio questo). Non mostra frustrazione, insoddisfazione, cinismo e desiderio di fuga dalla sua attività. Non mostra un tale grado di estraneità per il proprio lavoro da sconfinare nella depersonalizzazione.

Al contrario, sembra così immerso nella psicoterapia da non accorgersi quanto male vada la sua vita fuori dal lavoro. In ufficio è tonico, autorevole. Può fare errori, ma è sempre energico. È fuori dal lavoro che Paul sta diventando un uomo privo di passione. Vero è che in condizioni di burn-out può anche succedere che i terapeuti si facciano un carico eccessivo dei problemi delle persone a cui badano, non riuscendo così più a discernere tra la propria vita e la loro attività (Leiter, Maslach, 2000).

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Uno degli strumenti più diffusi per misurare il burn-out è il Maslach Burnout Inventory (MBI), sviluppato da Christina Maslach insieme alla sua collega Susan Jackson (Maslach, Jackson, 1981), un questionario di 22 domande. L’MBI è un questionario multidimensionale che misura tre diversi campi del burn-out:

  • l’esaurimento emotivo
  • la depersonalizzazione
  • la mancanza di realizzazione personale

Purtroppo Paul sembra averne davvero bisogno. Per fortuna che la settimana lavorativa è finita. Lo attende il suo supervisore, la terribile Gina.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Leiter M.P., Maslach C., (2000) Preventing burnout and building engagement. Jossey-Bass, San Francisco (tr. it.: OCS Organizational Checkup System. Come prevenire il burnout e costruire l’impegno. O.S. Organizzazioni Speciali, Firenze, 2005).
  • Maslach C., Jackson S.E., (1981) MBI: Maslach Burnout Inventory. Consulting Psychologists Press, Palo Alto, CA (tr. it. a cura di Sirigatti S., Stefanile S., (1993) MBI Maslach Burnout Inventory. Adattamento italiano. O.S. Organizzazioni Speciali, Firenze).

Ken Robinson: la scuola uccide la creatività? (Ted Talk)

 

Ken Robinson dice che la scuola uccide la creatività (TED Talk)

Sir Ken Robinson espone una divertente e toccante argomentazione a favore della creazione di un sistema educativo che nutra la creatività (anziché metterla a repentaglio).

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TRADUZIONE (a cura di Katja Comploj):

Buon giorno. Come state? È stato meraviglioso, no? Sono rimasto stravolto da tutto quanto. Infatti, me ne vado. (Risate) Sono emerse tre tematiche durante la conferenza, che sono attinenti a quello di cui vorrei parlare. La prima è l’evidenza straordinaria della creatività umana in tutte le presentazioni che abbiamo visto e in tutte le persone qui. La sua diversità, la sua varietà. La seconda è che ci troviamo in una situazione nella quale non abbiamo idea di quello che succederà in futuro. Non abbiamo idea di come si svilupperà.

Ho un interesse per l’istruzione, per l’educazione. A dir il vero, mi sembra che tutti abbiamo un interesse per l’educazione. O no? Lo trovo molto interessante. Se sei ad una festa e dici che lavori nell’ambito educativo – francamente, non vai spesso alle feste, se lavori in questo settore. (Risate) Non ti chiamano proprio. E, curiosamente, non verrai più reinvitato. Che strano. Se invece lo sei e dici a qualcuno, sai com’è, ti chiedono, “Che lavoro fai?” e tu rispondi che insegni, vedi subito come diventano pallidi in faccia. Pensano “Oh mio Dio, perché proprio a me? … L’unica serata libera in tutta la settimana”. (Risate) Ma se tu chiedi dei loro studi ti attaccano al muro. Perché è qualcosa che ci tocca profondamente, vero? Un po’ come la religione, i soldi e altre cose. Ho un grande interesse per l’educazione e credo che lo abbiamo tutti. Perché ci riguarda un sacco, in parte perché è l’educazione che dovrebbe prepararci per questo futuro incerto. Se ci pensate, i bambini che cominciano ad andare a scuola quest’anno andranno in pensione nel 2065. Nessuno ha la più pallida idea – nonostante tutte le considerazioni esperte presentate in questi quattro giorni – come sarà il mondo tra cinque anni. Eppure abbiamo il compito di preparare i nostri figli per esso. Per cui l’imprevedibilità, io credo, è straordinaria.

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E la terza cosa è che siamo tutti d’accordo, nonostante tutto, sulla davvero straordinaria capacità che i bambini hanno, le loro capacità di innovazione. Sirena l’altra sera era magnifica, no? Solo a vedere che cosa riesce a fare. Lei è eccezionale, però credo che lei non sia, per così dire, un’eccezione tra tutti i bambini. Ciò che qui abbiamo è una persona estremamente dedicata che ha scoperto un talento. E sono convinto che tutti i bambini hanno enormi talenti. E noi li sprechiamo, senza pietà. Quindi voglio parlare di educazione e voglio parlare di creatività. Il mio argomento è che la creatività è tanto importante quanto l’alfabetizzazione e le dovremmo trattare alla pari. (Applausi) Grazie. Tutto qua. Grazie mille. (Risate) Dunque, 15 minuti ancora … Beh, sono nato – no. (Risate)

Recentemente ho sentito una bella storia – amo raccontarla – di una ragazzina durante una lezione di disegno. Aveva 6 anni, era seduta in fondo e disegnava. L’insegnante diceva che questa ragazzina di solito non stava attenta, ma in questa lezione invece sì. L’insegnante era affascinata, andò da lei e le chiese: “Che cosa stai disegnando?”. E la ragazzina rispose: “Sto disegnando Dio”. E l’insegnante disse: “Ma nessuno sa che aspetto abbia”. E la ragazzina: “Lo sapranno tra poco”. (Risate)

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Quando mio figlio aveva quattro anni in Inghilterra – a essere sincero aveva quattro anni ovunque. (Risate) A voler essere rigorosi, quell’anno aveva quattro anni in qualsiasi posto andasse. Partecipava al teatrino della Natività. Vi ricordate la storia? Era una grande storia. Mel Gibson fece il sequel. Forse l’avete visto: “Natività II”. Comunque, James faceva la parte di Giuseppe e noi ne eravamo entusiasti. La consideravamo una delle parti più importanti. Riempimmo il posto con sostenitori in T-shirt: “James Robinson È Giuseppe!”. (Risate) Non doveva dire niente, ma conoscete la parte dove entrano i tre Re. Entrano portando i regali, portano oro, franchincenso e mirra. È successo davvero. Eravamo lì seduti e credo che si fossero scambiati i posti, perché dopo abbiamo parlato con il ragazzino e abbiamo detto “Ti va bene così?” e lui: “Sì, perché, che c’è che non va?”. Si erano semplicemente cambiati di posto, tutto qua. Comunque, i tre ragazzi entrarono, quattrenni con tovagliolini in testa, posarono queste scatole per terra e il primo ragazzino disse: “Vi porto oro”. E il secondo ragazzino disse: “Vi porto mirra”. E il terzo ragazzino disse: “Questo l’ha mandato Frank!”. (Risate)

Ciò che queste cose hanno in comune è che i bambini si buttano. Se non sanno qualcosa, ci provano. Giusto? Non hanno paura di sbagliare. Ora, non voglio dire che sbagliare è uguale a essere creativi. Ciò che sappiamo è che se non sei preparato a sbagliare, non ti verrà mai in mente qualcosa di originale. Se non sei preparato a sbagliare. E quando diventano adulti la maggior parte di loro ha perso quella capacità. Sono diventati terrorizzati di sbagliare. E noi gestiamo le nostre aziende in quel modo, stigmatizziamo errori. E abbiamo sistemi nazionali d’istruzione dove gli errori sono la cosa più grave che puoi fare. E il risultato è che stiamo educando le persone escludendole dalla loro capacità creativa. Picasso una volta disse che tutti i bambini nascono artisti. Il problema è rimanerlo anche da adulti. Io sono convinto che non diventiamo creativi, ma che disimpariamo ad esserlo. O piuttosto, ci insegnano a non esserlo. Dunque perché è così?

Ho vissuto a Stratford-on Avon fino a cinque anni fa. Ci siamo trasferiti da Stratford a Los Angeles. Vi potete immaginare quanto sia stato facile il trasferimento. (Risate) Veramente, abitavamo in un posto di nome Snitterfield, appena fuori Stratford, il posto dove nacque il padre di Shakespeare. Vi viene in mente qualcosa? A me sì. Non pensate al fatto che Shakespeare aveva un padre. No? Davvero? Perché non vien da pensare a Shakespeare come ragazzino, o sì? Shakespeare a sette anni? Io non ci ho mai pensato. Avrà pur avuto sette anni un tempo. Sarà stato nella lezione d’inglese di qualcuno, no? (Risate) Quanto sarebbe seccante? “Più impegno”. Essere mandato a letto dal papà che dice: “Vai a letto, ora!”, a William Shakespeare, “e metti via la penna. E smettila di parlare così, confonde la gente”. (Risate)

Comunque, ci siamo trasferiti da Stratfort a Los Angeles e vorrei dire qualcosa sul trasferimento. Mio figlio non voleva venire. Ho due figli. Lui ha 21 anni ora, mia figlia 16. Lui non voleva venire a Los Angeles. Gli piaceva ma aveva una ragazza in Inghilterra. Era l’amore della sua vita, Sarah. La conosceva da un mese. Festeggiavano già il loro quarto anniversario. Perché è un lungo periodo a 16 anni. Lui era abbastanza lunatico in aereo e disse: “Non troverò mai più una ragazza come Sarah”. E noi eravamo piuttosto contenti, francamente. Lei era la nostra ragione principale per lasciare il Paese. (Risate)

Ma c’è una cosa che ti colpisce quando ti trasferisci in America e se viaggi per il mondo: ogni sistema di istruzione ha la stessa gerarchia di materie. Ognuno. Non importa dove vai. Credi che sia diverso, ma non lo è. In cima ci sono le scienze matematiche e le lingue, poi le discipline umanistiche e in fondo l’arte. Ovunque nel mondo. E, più o meno, anche all’interno di ogni sistema. Esiste una gerarchia nelle arti. L’arte e la musica occupano una posizione più alta nelle scuole rispetto a recitazione e danza. Non esiste sistema educativo sul pianeta che insegni danza ai bambini ogni giorno, così come insegniamo la matematica. Perché? Perché no? Credo che sia importante. Credo che la matematica sia molto importante, ma altrettanto la danza. I bambini ballano tutto il tempo se possono, noi tutti lo facciamo. Abbiamo tutti un corpo, o no? Mi sono perso qualcosa? (Risate) In verità, ciò che succede è che, quando i bambini crescono, noi iniziamo a educarli progressivamente dalla pancia in su. E poi ci focalizziamo sulle loro teste. E leggermente verso una parte.

Se tu visitassi il sistema educativo da alieno e ti chiedessi “A che serve la pubblica istruzione?” credo che dovresti concludere – vedendo il risultato, chi ha successo in questo sistema, chi fa tutto quel che deve, chi viene onorato, chi sono i vincitori – credo che dovresti concludere che lo scopo dell’istruzione pubblica in tutto il mondo sia quello di produrre professori universitari. O no? Loro sono le persone che stanno in cima. E io ero uno di loro, quindi. (Risate) A me piacciono i professori universitari, ma non li dovremmo considerare come il risultato più alto raggiungibile. Sono solo una forma di vita, un’altra forma di vita. Ma sono piuttosto curiosi e lo dico con affetto per loro. C’è qualcosa di curioso nei professori, per quel che è la mia esperienza – non tutti, ma di solito – vivono nella loro testa. Vivono lassù e leggermente da una parte. Sono scorporati, avete presente, quasi in senso letterale. Vedono i loro corpi come un mezzo di trasporto per le loro teste, no? (Risate) È un modo per portare le loro teste ai meeting. Se volete una prova concreta di esperienze extracorporee andate ad una conferenza di accademici attempati e fate un salto nella discoteca, all’ultima sera. (Risate) E lo vedrete, uomini e donne adulti scuotersi incontrollabilmente, fuori tempo, aspettando che finisca per andare a casa e scriverne qualcosa.

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Il nostro sistema educativo è basato sull’idea di abilità accademiche. E c’è una ragione. Tutto il sistema è stato inventato – in tutto il mondo non c’erano scuole pubbliche prima del XIX secolo. Furono create per venire incontro ai fabbisogni industriali. Quindi la gerarchia è fondata su due idee. Numero uno: che le discipline più utili per il lavoro sono in cima. Voi probabilmente siete stati benignamente allontanati da cose che vi piacevano da bambini a scuola, sulla base che non avreste mai trovato un lavoro facendo quello, no? Non fare musica, non diventerai un musicista; non fare arte, non sarai un artista. Avvisi benevoli – ma ora profondamente sbagliati. Il mondo intero è in subbuglio. E, punto secondo, è l’abilità accademica che oggi domina la nostra idea d’intelligenza, perché le università hanno creato il sistema a loro immagine. Se ci pensate, tutto il sistema della pubblica istruzione, in tutto il mondo, si concentra sull’ammissione all’università. E la conseguenza è che tante persone di talento, persone brillanti, creative, credono di non esserlo. Perché la cosa per la quale erano bravi a scuola non le si dava valore, o era perfino stigmatizzata. E credo che non ci possiamo permettere di andare avanti così.

Nei prossimi 30 anni, secondo l’UNESCO, si laureeranno più persone al mondo di tutte quelle che si sono laureate dall’inizio della storia. Più persone, ed è la combinazione di tutte le cose delle quali abbiamo parlato, la tecnologia e il suo effetto di cambiamento sul lavoro e la demografia e il grande incremento della popolazione. Ad un tratto i titoli di studio non valgono nulla, non è vero? Quando ero studente, se avevi una laurea avevi un lavoro. Se non avevi un lavoro era perché non ne volevi uno. E io, francamente, non ne volevo uno. (Risate) Ma oggi giovani con una laurea in tasca spesso sono a casa a giocare con i videogame, perché ti serve la laurea specialistica dove prima ti serviva quella normale e adesso ti serve il PhD per l’altra. È un processo di inflazione accademica. E ci indica che tutta la struttura educativa si sta spostando sotto i nostri piedi. Dobbiamo ripensare radicalmente la nostra idea di intelligenza.

Sappiamo tre cose sull’intelligenza. Anzitutto, che è varia. Pensiamo il mondo in tutti i modi nei quali lo percepiamo. Riflettiamo visualmente, uditivamente, cinesteticamente. Pensiamo in modo astratto, in movimenti. Secondo, l’intelligenza è dinamica. Se guardiamo le interazioni di un cervello umano, come abbiamo sentito ieri da alcune presentazioni, l’intelligenza è meravigliosamente interattiva. Il cervello non è suddiviso in compartimenti. Infatti, la creatività – che io definisco come il processo che porta ad idee originali di valore – si manifesta spesso tramite l’interazione di modi differenti di vedere le cose.

Il cervello stesso lo fa intenzionalmente – c’è un fascio di nervi che connette le due parti del cervello chiamato corpus callosum. È più ampio nelle donne. Riagganciandomi al discorso di Helen di ieri, credo che sia per questo che le donne sono migliori nel multitasking. Perché lo siete. Ci sono un sacco di ricerche, ma lo so anche dalla mia esperienza personale. Quando mia moglie cucina – cosa che non accade spesso, per fortuna. (Risate) Sapete, lei sta facendo – no, è brava in alcune cose – ma se cucina, parla al telefono, parla con i bambini, tinge il soffitto, fa un intervento a cuore aperto. Se cucino io, la porta è chiusa, i bambini sono fuori, il telefono deve aspettare e se lei entra mi irrita. Dico, “Terry, per favore, sto cercando di friggere un uovo. Lasciami stare”. (Risate) A proposito, conoscete quel vecchio detto filosofico, se nella foresta cade un albero e nessuno lo sente, è accaduto veramente? Vi ricordate quella vecchia battuta? Ho visto una T-shirt poco fa con sopra: “Se un uomo dice quel che pensa in una foresta, e nessuna donna lo sente, ha ancora torto?”. (Risate)

E la terza cosa sull’intelligenza è che è distinta. Sto scrivendo un nuovo libro chiamato “Epiphany”, che si basa su una serie di interviste di persone su come hanno scoperto il loro talento. Mi affascina come le persone ci sono arrivate. Nasce da una conversazione che ho avuto con una donna meravigliosa, che tante persone non conoscono, si chiama Gillian Lynne, ne avete sentito parlare? Alcuni sì. È una coreografa e tutti conoscono i suoi lavori. Ha fatto “Cats” e “Phantom of the Opera”. Lei è meravigliosa. Sono stato tra i dirigenti del Royal Ballet, in Inghilterra, come potete vedere. Comunque, abbiamo pranzato insieme un giorno e ho detto “Gillian, come sei diventata ballerina?”. E lei disse, era interessante, quando lei era a scuola era davvero senza speranza. E la sua scuola, negli anni 30, scrisse ai genitori e disse, “Crediamo che Gillian abbia problemi di apprendimento”. Non era capace di concentrarsi, diventava nervosa. Oggi direbbero che ha l’ADHD [Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività]. Non credete? Ma siamo attorno al 1930 e l’ADHD non l’avevano ancora inventata. Non era una condizione disponibile allora. (Risate) La gente non sapeva che poteva averla.

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Comunque, andò a farsi vedere da questo specialista. Stanza in legno di rovere … Ed era là con sua madre, era stata accompagnata e fatta accomodare su una sedia e alla fine stette seduta sulle sue mani per 20 minuti, mentre quell’uomo parlò con la madre di tutti i problemi che Gillian aveva a scuola. E alla fine – perché disturbava la gente, portava il compito in ritardo e così via, era una bambina di appena 8 anni – alla fine, il medico si sedette vicino a Gillian e disse: “Gillian, ho ascoltato tutte quelle cose che tua madre mi ha detto e le devo parlare a quattr’occhi”. Le disse: “Aspettaci qua, non ci metteremo molto”. E se ne andarono. Ma quando lasciarono la stanza egli accese la radio appoggiata sulla scrivania. E quando erano fuori dalla stanza disse alla madre, “Ora la guardi”. E appena se n’erano andati, lei disse, lei era in piedi e si muoveva con la musica. E la guardarono per qualche minuto ed egli disse a sua madre, “Signora Lynne, Gilian non è malata, è una danzatrice. La porti a una scuola di danza”.

Io chiesi “E poi?” e lei mi disse: “Lo fece. Non ti puoi immaginare quanto era bello. Entravamo in quella stanza ed era piena di gente come me. Gente incapace di stare ferma. Gente che si doveva muovere per pensare”. Ballavano balletto, tap, jazz danza moderna e contemporanea. Alla fine fece un’audizione per il Royal Ballet School, diventò una solista ed ebbe una splendida carriera al Royal Ballet. E infine si diplomò alla Royal Ballet School, fondò una sua company, la Gillian Lynne Dance Company, e conobbe Andrew Lloyd Weber. Lei è stata responsabile di alcune tra le più famose produzioni del teatro musicale della storia, ha portato diletto a milioni di persone ed è multi-milionaria. Un altro le avrebbe somministrato qualche farmaco e detto di calmarsi. Ora, credo – (Applausi)

Credo che il punto sia questo: Al Gore l’altra sera ha parlato di ecologia e della rivoluzione partita da Rachel Carson. Credo che la nostra unica speranza per il futuro sia di adottare una nuova concezione di ecologia umana, nella quale cominciare a ricostruire la nostra concezione della ricchezza delle capacità  umane. Il nostro sistema educativo ha sfruttato le nostre teste come noi abbiamo sfruttato la terra: per strapparle una particolare risorsa. E per il futuro non ci servirà. Dobbiamo ripensare i principi fondamentali sui quali educhiamo i nostri figli. C’è una magnifica citazione di Jonas Salk, disse: “Se tutti gli insetti scomparissero dalla Terra, entro 50 anni tutta la vita sulla Terra finirebbe. Se tutti gli esseri umani scomparissero dalla Terra, entro 50 anni tutte le forme di vita fiorirebbero”. E ha ragione.

Ciò che TED celebra è il dono dell’immaginazione umana. Dobbiamo fare attenzione ad usare questo dono saggiamente ed evitare alcuni degli scenari dei quali abbiamo parlato. E lo faremo solo se sapremo vedere le nostre capacità creative per la ricchezza che sono e se sapremo vedere i nostri figli per la speranza che sono. Il nostro compito è di educarli nella loro interezza affinché possano affrontare il loro futuro. Forse noi non vedremo questo futuro, ma loro sì. E il nostro compito è di aiutarli a farne qualcosa. Grazie mille.

 

Copyright: Video e testo riprodotti su Licenza Creative Commons 3.0 – Autore: TED Talks

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Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile.

Luca Sperandeo – Dottore in Giurisprudenza abilitato al patrocinio (Ordine degli Avvocati di Milano)
Andrea Bassanini – Psicologo, Psicoterapeuta in formazione. 

 

Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile. - Immagine: © beaubelle - Fotolia.com

La Suprema Corte ha stabilito che il danno per lo sviluppo del minore affidato a un nucleo familiare omosessuale non può essere presunto ma deve essere provato in concreta, basandosi su certezze cliniche o massime d’esperienza.

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E’ di qualche settimane fa la sentenza (n. 601/2013) con cui la Corte di Cassazione ha affrontando la questione relativa all’effettiva incidenza pregiudizievole dell’omosessualità del genitore affidatario nei confronti del figlio minorenne.

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Così come già rilevato su State of Mind da Giovanni Maria Ruggiero, allo stato attuale: “Nessun parametro psicologico o evolutivo ci ha mostrato numeri che dimostrino che per i bambini sia controindicato crescere con genitori omosessuali”.

Ragionando sul medesimo principio, la Suprema Corte ha stabilito che il danno per lo sviluppo del minore affidato a un nucleo familiare omosessuale non può essere presunto ma deve essere provato in concreta, basandosi su certezze cliniche o massime d’esperienza.

Lo scenario nel quale si colloca la sentenza n. 601/2013 si caratterizza per la presenza di tre elementi distintivi: la violenza, l’elemento culturale-religioso e l’omosessualità.

Il minore, al centro del caso in esame, era conteso tra il padre (di religione mussulmana) e la madre (ex tossicodipendente, legata da una relazione sentimentale con l’educatrice della comunità di recupero che l’aveva ospitata, con la quale successivamente aveva intrapreso una convivenza), immerso in una realtà resa ancora più complessa e delicata dall’aggressione della convivente della madre, ad opera del padre, avvenuta sotto gli occhi del figlio.

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La Corte di Cassazione si è dovuta calare nella fattispecie concreta, sgomberando dal campo qualsiasi sorta di “pregiudizio” e cercando di stabilire quale incidenza, in termini di disagio, avessero potuto provocare nel minore la violenza paterna e l’omosessualità materna.

La stessa rilevava che solo la condotta paterna aveva causato provate ripercussioni negative nel minore (“aveva assistito a un episodio di violenza agita dal padre ai danni della convivente della madre, che aveva provocato in lui un sentimento di rabbia nei confronti del genitore”), mentre non era stata dimostrata in alcun modo la dannosità del contesto familiare materno.

Sicuramente la sentenza in esame, a dispetto del clamore generato, non rappresenta quel punto di svolta, in tema di affidamento dei minori, osannato da alcuni e osteggiato da altri.

Infatti, i giudici di legittimità si sono limitati ad invocare per il caso concreto l’applicazione della regola generale dell’onere della prova, secondo la quale non può essere data per scontata la dannosità per il minore di un contesto familiare omosessuale, in assenza di prove basate su certezze scientifiche o dati d’esperienza.

Crediamo che tale aspetto sia cruciale rispetto a ciò che culturalmente o dogmaticamente possa essere interpretato come principio a favore/sfavore del contesto omosessuale. Spesso la dannosità per il minore viene data per assodata in questi casi, considerando poco o scarsamente le caratteristiche psichiche dei membri del sistema familiare. Sembra, infatti, che l’omosessualità nasconda e oscuri tutto il resto delle caratteristiche del sistema/famiglia, soprattutto le risorse e gli aspetto protettivi e della coppia genitoriale e della famiglia in sé.

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Insomma, in questa sentenza, la Corte non esclude in linea di principio la possibilità che si possa formare una prova a sostegno della tesi sugli effetti dannosi di un nucleo familiare omosessuale, tuttavia, constata che nel caso di specie tale prova non è stata fornita.

La Suprema Corte si è pronunciata rilevando che le richieste del padre muovevano dal mero pregiudizio (presupposto ma non provato) che il vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale fosse di per sé dannoso per l’equilibrato sviluppo del minore, cercando di far passare per assodato un elemento che invece doveva essere dimostrato.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Pur ridimensionando la portata innovativa della sentenza n. 601/2013, è interessante rilevare come la pronuncia della Corte di Cassazione abbia aperto uno spiraglio riguardo all’ampliamento del concetto di famiglia, ponendosi in contrasto con quanto stabilito dall’art. 29 della Costituzione (che identifica la famiglia soltanto in quella società naturale fondata sul matrimonio) e riconoscendo implicitamente che anche un nucleo familiare composto da soggetti del medesimo sesso possa essere qualificato come famiglia.

Una tale lettura potrebbe rappresentare un primo passo verso il riconoscimento dei matrimoni tra soggetti omosessuali, considerato che il disposto dell’art. 8 della C.E.D.U. si presta a un’interpretazione estensiva della nozione di famiglia in grado di ricomprendere anche la relazione stabile di una coppia omosessuale.

Tale orientamento, infatti, potrebbe concretizzarsi in un incentivo per il legislatore a dettare principi e criteri direttivi in materia, mirando sia a una regolamentazione giuridica delle coppie omosessuali sia all’eventuale apertura alle adozioni di minori a favore delle stesse, in accordo con i diritti fondamentali stabiliti dalla Corte Europea.

Con la sentenza in esame la Cassazione non si è fatta portatrice di una corrente giurisprudenziale innovativa, bensì, ha manifestato l’esigenza e l’auspicio di un intervento chiarificatore da parte del legislatore.

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Tribolazioni 01 – No Conflict. Monografia Psicologica di Roberto Lorenzini

 

 

Intelligenza: la leggenda del Qi? Da sfatare!

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le variazioni più importanti nelle performance sono dovute principalmente a tre componenti: memoria a breve termine, ragionamento e capacità di verbalizzazione. Tuttavia nessuna componente da sola può spiegare il QI.

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Un nuovo studio condotto da Adrian Owen del Western’s Brain and  Mind Institute è pronto a sfatare la leggenda del QI (Quoziente Intellettivo).  La ricerca ha coinvolto oltre 100 mila persone da tutto il mondo, che hanno potuto partecipare attraverso il web. I volontari hanno eseguito 12 test cognitivi che indagavano la memoria, l’attenzione, le capacità di ragionamento e di pianificazione; inoltre erano invitati a compilare un questionario che esplorava le abitudini, lo stile di vita e la situazione socioeconomica e familiare.

Intelligenza? Una questione di Ormoni. - Immagine:© Yuri Arcurs - Fotolia.com
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I risultati ottenuti dai molteplici dati a disposizione hanno messo in luce che le variazioni più importanti nelle performance sono dovute principalmente a tre componenti, ovvero la memoria a breve termine, il ragionamento e la capacità di verbalizzazione. Tuttavia nessuna componente da sola può spiegare il QI.

Il ricercatore ha inoltre sottoposto alcuni soggetti a risonanza magnetica funzionale (fRMI), osservando che le differenze nelle abilità cognitive corrispondono a circuiti cerebrali tra loro differenti. Gli ampi dati hanno reso possibile la valutazione di caratteristiche come l’età, il sesso o le abitudini (ad esempio il gioco on-line) e come esse possano influenzare le capacità cerebrali: l’avanzare degli anni ad esempio incide sul ragionamento e la memoria, il fumo impatta negativamente sulla capacità di verbalizzazione e sulla memoria a breve termine, l’ansia mina in maniera prevalente  la memoria a breve termine, mentre i videogiochi parrebbero favorire il ragionamento e la memoria a breve termine.

Attualmente lo studio sta proseguendo con versioni  nuove del test, a cui si può registrare andando sul seguente sito: www.cambridgebrainscience.com/theIQchallenge. Tuttavia le finalità ultime dello studio non sono state rese note dagli autori per evitare che i risultati dei test possano essere falsati dalle aspettative dei partecipanti.

Un altro studio sembra avvalorare i risultati ottenuti citati precedentemente, infatti Kou Murayama, uno psicologo dell’Università di Monaco, afferma che le capacità matematiche non dipendono dal QI, ma dal grado di motivazione ad apprendere numeri e le operazioni.

La ricerca è stata condotta su 3.500 bambini delle elementari ed ha mostrato che l’intelligenza è effettivamente importante nei primi momenti dell’apprendimento delle competenze di una materia; ma in seguito, per il raggiungimento di alcuni traguardi, ciò che diviene necessario è una buona motivazione e un elevato interesse per la materia che si sta apprendendo, associati ad autostima e capacità nello studio. Gli insegnanti, quindi, potrebbero tenere conto di questi fattori in modo da far progredire gli allievi nello studio nel modo migliore e più sereno possibile.

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BIBLIOGRAFIA:

Andare al lavoro ammalati… andare al lavoro, finché c’è!

 

Finito il dì, col Sol che se ne va.

Andiam a casa a riposar, laggiù ci aspetta il focolar.
Perciò, cantiam.
Per la strada prender sempre un’ascia a fian, fischiando andiam.
Il bosco appar già pieno di mister.
Lassù la Luna apparirà, il buon, cammin ci mostrerà.
Cantiam, che l’Orco non verrà, ma tu, gira dal bosco ner.
Cantiam, fischiam, vogliam, cantar, fischiar, vogliam

 

Andare al lavoro ammalati… andare al lavoro, finché c’è. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

Crisi del lavoro al giorno d’oggi. Quali effetti sulla nostra salute psicofisica? Andare al lavoro ammalati… andare al lavoro, finché c’è!

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Il lavoro, tema centrale di questo periodo chi ce l’ha, chi non ce l’ha, chi proprio non riesce a trovarlo, chi ancora non sa cosa fare, chi ha il contratto in scadenza, chi da sempre ha lavorato a progetto, chi del lavoro ne fa la propria vita, chi è in cassa integrazione e si chiede per quanto… ma quali le possibili ripercussioni sulla nostra salute psicofisiologica?

In un report del Chartered Institute of Personnel and Development si evidenzia come un terzo dei 670 datori di lavoro interpellati ammette di aver riscontrato una netta diminuzione delle assenze dei propri dipendenti nel corso dell’ultimo anno.

Questi dati che potrebbero sembrare positivi ad una prima occhiata nascondono secondo gli esperti un chiaro segnale di ansia che ha paradossalmente ripercussioni sulla qualità ed efficacia del lavoro stesso.

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Infatti, andare al lavoro malati predispone anche i colleghi al rischio di “contagio”, l’efficacia nel proprio lavoro diminuisce e aumenta anche il rischio di commettere errori e oltretutto fa allungare i tempi di recupero.

Precario il Lavoro, Stabile l'Ansia - Il Ritratto Psicologico di una Generazione. - Immagine: © nuvolanevicata - Fotolia.com
Articolo consigliato: Precario il Lavoro, Stabile l’Ansia – Il Ritratto Psicologico di una Generazione.

Sicuramente oggi questo dato più che un segnale di attaccamento al lavoro e di eccessiva doverizzazione dovrà forse essere letto come la paura delle persone di perdere il posto di lavoro tanto agognato rimanendo a casa per malattia troppo a lungo. Con la crisi la paura di perdere il lavoro, la paura di non farcela, la paura e a volte la realtà di non arrivare a fine mese sono diventati “fantasmi” reali nella vita di molti.

In Europa la depressione colpisce il 38,2 % degli individui, ovviamente non tutti i casi sono collegati alla crisi, alla perdita di lavoro e alla perdita del ruolo lavorativo. Ad oggi però l’organizzazione mondiale della sanità rileva un aumento di casi di depressione tra i giovani che faticano sempre di più a trovare un lavoro e tra i cinquantenni che rischiano di perdere il lavoro senza avere davanti alcuna possibile prospettiva di riqualificazione o rioccupazione.

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 “Gli uomini sono più a rischio per il ruolo che hanno all’interno del nucleo familiare – spiega Marialori Zaccaria, presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio – Si sentono i capifamiglia e soffrono di più in caso di perdita del lavoro. Subentra una crisi di identità.”

 

Sempre più giovani si ammalano proprio perché in piena crisi economica trovano molte difficoltà nel realizzare i loro sogni, si trovano senza speranza, non vedono alcuna possibilità di costruirsi un futuro, non sentono l’esistenza di uno spazio per loro. Si sentono troppo spesso senza punti di riferimento, senza carte da spendere in un mercato del lavoro fin troppo chiuso.

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ANSIA – PSICOLOGIA DEL LAVORO – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

Acido Folico in Gravidanza e Autismo nei Bambini: Correlazioni

Di Dario Catania.
Psichiatra e Psicoterapeuta, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

Acido Folico e Disturbi dello Spettro Autistico. -Immagine: © PHOTOERICK - Fotolia.comLe donne che hanno assunto acido folico nei primi stadi della gravidanza hanno mostrato una diminuzione del 40% del rischio di avere un figlio con diagnosi di disturbo autistico, secondo i criteri del DSM IV-TR. Per primi stadi si intende il periodo che va da 4 settimane prima a 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza.

I disturbi dello Spettro Autistico rappresentano un gruppo di condizioni psicopatologiche in cui le competenze sociali attese, lo sviluppo del linguaggio e le modalità di comportamento non evolvono in modo appropriato o si alterano fino a perdersi nell’infanzia, causando una grave e precoce disfunzione persistente.

Questi disturbi generalizzati dello sviluppo, inizialmente considerati di origine psicosociale e psicodinamica, riconoscono un’eziologia di tipo multifattoriale, con numerose prove a favore di un substrato biologico legato ad alterazioni precoci del neurosviluppo. Al momento non si conoscono strategie di prevenzione primaria rispetto a questi disturbi.

Ossitocina: Una Possibile Cura per l'Autismo?. - Immagine: © IKO - Fotolia.com
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L’assunzione di acido folico, una vitamina del gruppo B, prima del concepimento e nei mesi iniziali di gravidanza risulta una efficace strategia di prevenzione per i disturbi  legati alle malformazioni conseguenti alla mancata fusione del tubo neurale, quella struttura embrionale da cui avrà origine, nel corso dello sviluppo, il sistema nervoso.

Nessuno studio ha evidenziato se l’assunzione di questa vitamina possa essere efficace nella prevenzione di altri disturbi del neurosviluppo.

Un gruppo di ricercatori norvegesi ha pubblicato sul numero 13 di febbraio, della rivista “JAMA”, un interessante e originale studio condotto su un campione di 85176 madri norvegesi e rispettivi figli, nati tra il 2002 e il 2008. Le madri del gruppo sono state reclutate nello studio a partire dalla 18a settimana di gravidanza (prima ecografia) fino al parto, dopodiché sono stati monitorati i rispettivi figli, in un lungo follow-up che si è concluso il 31 marzo 2012. Obiettivo di questa ricerca è stato valutare se l’assunzione di acido folico prima del concepimento possa ridurre il rischio di insorgenza di un disturbo dello spettro autistico nell’infanzia (Disturbo Autistico, Sindrome di Asperger e Disturbi Pervasivi dello Sviluppo non altrimenti specificati).

Alla fine del periodo di follow-up 270 bambini (0,32%) hanno ricevuto una diagnosi di disturbo dello spettro autistico e precisamente sono stati riscontrati 114 casi di Disturbo Autistico (0,13%), 56 casi di Sindrome di Asperger (0,07%) e 100 con diagnosi di Disturbi Pervasivi dello Sviluppo non altrimenti specificati (0,12%).

Solo 64 delle 61042 madri che avevano assunto acido folico prima della gravidanza hanno concepito un bambino con diagnosi di Disturbo Autistico (0,10%); nelle 24134 madri che non avevano assunto il supporto di acido folico, i casi di Disturbo Autistico sono stati 50 (0,21%).

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L’Odds Ratio (OR), misura statistica utilizzata per definire il rapporto di causa-effetto tra due eventi, per esempio tra un fattore di rischio e una malattia, per i bambini esposti ad acido folico è risultato pari a 0,61; ciò significa che l’evento studiato rappresenta un fattore di protezione.

L’esiguità dei dati numerici relativamente ai casi di Sindrome di Asperger e a quelli di Disturbo pervasivo dello sviluppo non ha permesso di giungere a risultati simili.

In conclusione, le donne che hanno assunto acido folico nei primi stadi della gravidanza hanno mostrato una diminuzione del 40% del rischio di avere un figlio con diagnosi di disturbo autistico, secondo i criteri del DSM IV-TR. Per primi stadi si intende il periodo che va da 4 settimane prima a 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza.

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Preparare alla Scuola il Bambino con Autismo - Recensione
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Lo studio certamente presenta alcune limitazioni che possono avere influenzato i risultati, prima fra tutte il fatto che il campione di donne selezionato presentava caratteristiche sociodemografiche poco rappresentative della popolazione generale: madri alla prima gravidanza, età media elevata, elevato livello d’istruzione, non fumatrici. Altro limite riguarda la diagnosi dei sottotipi di disturbo dello spettro autistico, che in alcuni recenti studi è stata considerata non avere elevata affidabilità, motivo per cui i criteri diagnostici potrebbero essere significativamente modificati nella quinta edizione del DSM, in uscita a maggio 2013.

Se da un lato è evidente che l’assunzione di acido folico nel periodo compreso tra 4 settimane prima del concepimento e 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza è associato ad un minor rischio di Disturbo Autistico, non è possibile, al momento, stabilire alcun rapporto di causalità tra il disturbo e l’uso di questa vitamina del gruppo B. Certamente sarà necessario replicare questi risultati e studiare ulteriormente l’influenza di fattori genetici e biologici nello sviluppo di questa patologia per poter spiegare in modo esaustivo il ruolo e l’importanza dell’assunzione di acido folico in relazione a questi disturbi.

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 DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO –  BAMBINI –  GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Amore: Il cuore di chi si ama va allo stesso ritmo

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Uno studio condotto da ricercatori dell’Università della California rivela che il cuore di mariti, mogli e fidanzati ha lo stesso ritmo.

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Il professore di psicologia Emilio Ferrer responsabile della ricerca ha monitorato 32 coppie in relazioni romantiche. I soggetti volontari venivano fatti sedere a circa un metro di distanza e venivano  agganciati a specifici macchinari che misuravano la pressione, battito cardiaco e ritmo di respirazione.

I risultati mostrano che il battito cardiaco dei membri della stessa coppia era all’unisono, così come il ritmo dell’inspirazione e dell’espirazione dell’aria. I risultati non sono stati replicati  quando i due soggetti monitorati non facevano parte della coppia originaria: i volontari non mostravano sincronizzazione.

 

MONOGRAFIA: LA RELAZIONE DI COPPIA 

La connessione tra due persone va oltre il piano emotivo, ma è fisiologica. Per concludere, come ultimo risultato è stato visto che sono soprattutto le donne ad adeguare la loro respirazione e il loro battito cardiaco a quello dell’uomo e probabilmente la spiegazione di ciò è che hanno più empatia.

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Abstract

A host of theoretical frameworks suggest associations of physiological signals between two individuals within a romantic relationship. However, few studies have provided empirical evidence of such associations using physiological reactivity from both partners in the dyad. In this study we use measures of respiration and heart rate from romantic partners recorded across three laboratory tasks. We examine the interrelations of each measure between both dyad members using coupled linear oscillators (Boker & Nesselroade, 2002). These models were used to capture oscillations in respiration and heart rate, and to examine interdependence in the physiological signals between both partners. Results show that associations were detectable within all three tasks, with different patterns of coupling within each task. Discussion centers on ways to investigate the synchrony of physiological responses across within relationships, including the promises of and obstacles for doing so.

 

MONOGRAFIA: LA RELAZIONE DI COPPIA 

BIBLIOGRAFIA:

Trattare l’ ansia infantile con il computer: si può!

di Antonio Ascolese

Trattare l’ansia infantile con il computer: Si può!. - Immagine: © sunabesyou - Fotolia.com

Il tema dell’ ansia infantile meriterebbe maggiore approfondimento. Infatti, i dati indicano che un bambino su otto ne soffre.

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Quello con pazienti pediatrici affetti da disturbi d’ansia (ansia infantile), è un trattamento che meriterebbe maggiore approfondimento nell’ambito della ricerca clinica. Infatti, stando ai dati dell’ “Anxiety and Depression Association of America”, un bambino su otto soffre di ansia infantile.

Spesso, inoltre, questi disturbi perdurano anche durante l’età adulta e, un intervento precoce, permetterebbe una riduzione di tali sviluppi. Per evitare le terapie a base farmacologica con i bambini, inoltre, la ricerca di trattamenti alternativi si fa sempre più urgente.

Cercando di andare incontro a queste esigenze, il team dell’università di Tel Aviv, guidato dal professor Yair Bar-Haim, ha condotto un’interessante ricerca per testare e verificare la validità di un nuovo trattamento.

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In realtà si tratta di un trattamento già presentato in letteratura e già utilizzato nella pratica clinica, anche se limitatamente ai soli pazienti adulti: si tratta della tecnica ABM (Attention Bias Modification), basata sull’uso di un programma al computer. Per la prima volta, i ricercatori di Tel Aviv hanno provato questo programma per allontanare i bambini dalla loro tendenza a soffermarsi sulle possibili minacce e per intervenire sui loro modelli di pensiero. 

L’intento del professor Bar-Haim è quello di validare un sistema di cura alternativo, che sfrutti la familiarità dei bambini all’utilizzo del computer, evitando loro i possibili effetti negativi dovuti all’uso di medicinali e riducendo la necessità di personale altamente formato per la cura.

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Progetto iSpectrum: un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismo
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Alla base di questo metodo c’è il tentativo di trasformare il test dot-probe in una terapia. Questo test richiede al soggetto di dirigere l’attenzione verso un punto che compare in una determinata posizione sullo schermo di un computer. Questi punti appaiono immediatamente dopo uno stimolo (parole o immagini) dal contenuto minaccioso o neutro. I bias attentivi sono valutati misurando la velocità di risposta, mediante la pressione di un tasto, all’apparizione del punto nella posizione occupata da uno stimolo.

I risultati di questo test confermano che i soggetti con ansia infantile dirigono costantemente la loro attenzione verso gli stimoli a contenuto minaccioso, mentre i soggetti di controllo, tendono a volgere l’attenzione lontano da tali parole. Tutte le persone ansiose, infatti, hanno una forte sensibilità nella percezione delle minacce: è proprio questa sensibilità che genera e mantiene l’ansia.

 Per trasformare il test dot-probe in terapia, la posizione in cui appaiono i punti viene manipolata, in modo che questi appaiano più frequentemente nella posizione delle parole neutrali. Gradualmente, il paziente inizia a soffermarsi su queste parole, riuscendo così a normalizzare il bias attentivo e riducendo la propria ansia.

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La ricerca del gruppo del professor Bar-Haim ha testato questo trattamento su un campione di 40 pazienti pediatrici con disturbi d’ansia in corso, divisi in tre gruppi sperimentali: il primo ha ricevuto il trattamento ABM, il secondo è un gruppo placebo, dove il punto è apparso in maniera bilanciata tra immagini minacciose e neutre, il terzo è un altro gruppo di controllo, in cui ai pazienti sono stati mostrati solo stimoli neutri. Il trattamento prevedeva una seduta a settimana per quattro settimane consecutive, per un totale di 480 prove per ogni paziente.

Serious Games: un motore per modificare le relazioni umane. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.com
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Il livello di ansia nei bambini è stato misurato prima e dopo il trattamento, tramite interviste e questionari. Nei due gruppi di controllo non sono stati rilevati cambiamenti significativi nel bias dei pazienti. Nel gruppo che ha seguito il trattamento ABM, invece, sono state rilevate molteplici differenze significative nel bias attentivo dei partecipanti: circa il 33 per cento dei pazienti di questo gruppo, infatti, non ha più presentato alcun criterio diagnostico del disturbo d’ansia.

Questi risultati, a supporto delle ipotesi dei ricercatori, hanno attirato l’attenzione verso questo trattamento, giustificando la necessità di nuove indagini, per meglio approfondire l’ABM utilizzato con pazienti pediatrici: al momento, oltre 20 centri in tutto il mondo stanno sperimentando questa tecnica che richiede l’uso del computer da parte dei pazienti.

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ANSIA – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA – ATTENZIONE – BAMBINI

 

 

Bibliografia

Corso di Perfezionamento CBT in Sessuologia – Parte 3


Il setting del colloquio e l’atteggiamento del professionista dovranno trasmettere fin dall’inizio una certa quota di freschezza, apertura e disponibilità a parlare di sessualità e gli altri ingredienti fondamentali sono la riservatezza, il rispetto e il focalizzarci sul tema.

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La data del 15-09-2012 segna la ripresa delle danze del Master di Sessuologia presso Studi Cognitivi di Modena. Le luci inizialmente sono puntate sul tema del  trattamento delle disfunzione sessuali femminili affrontato dalla Dr.ssa Anna Franca. Una disfunzione sessuale è caratterizzata da un’anomalia del processo che sottende il ciclo di risposta sessuale  (desiderio- eccitazione- orgasmo- risoluzione) o dal dolore associato al rapporto sessuale. In sessualità parliamo di disfunzioni, di alterata funzionalità e non di disturbo.

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 DISTURBI SESSUALI – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI –

Durante questo primo incontro viene messa il luce l’importanza di come parlare di sessualità voglia dire parlare di aspetti fisici, affettivi, intellettivi e sociali della persona. Si pone quindi l’accento su come costruire le varie fasi di un’anamnesi sessuologica.

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L’anamnesi sessuale implica un uso di termini e di un linguaggio da parte del terapeuta che deve  ben scegliere per evitare connotazioni di  banalizzazione, negazione, tecnicizzazione e psichiatrizzazione.  Si parte con il creare attraverso il colloquio terapeutico  una fotografia della situazione attuale del sintomo  e poi si costruisce  la storia di vita del soggetto e della coppia. I soggetti solitamente si sentono  imbarazzati, temono il giudizio, hanno sentimenti di colpa e vergogna, di inadeguatezza, di ansia che creano una barriera alla comunicazione. Nelle prime fasi l’obiettivo è ridurre l’ansia e l’imbarazzo, trasmettendo comprensione per la difficoltà che affronta il paziente nell’esaminare col medico aspetti delicati e intimi della propria vita. Ostacoli più specifici nascono dall’età e dal sesso dell’assistito. Fattori importanti per il formarsi di disfunzioni sono le precedenti esperienze, la presenza di  aspettative negative, l’ansia da prestazione, la tendenza al controllo, rimuginii, depressione e dolore.  Il setting del colloquio e l’atteggiamento del professionista dovranno trasmettere fin dall’inizio una certa quota di freschezza, apertura e disponibilità a parlare di sessualità e gli altri ingredienti fondamentali sono la riservatezza, il rispetto e il focalizzarci sul tema. Come consuetudine va restituita  la sua diagnosi al singolo o alla coppia attraverso una lettura integrata degli elementi organici, emotivi, cognitivi, comportamentali e relazionali.

Corso di Perfezionamento Cognitivo-Comportamentale in Sessuologia
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La diagnosi deve specificare se si tratta di una disfunzione  permanete  (se la disfunzione è presente fin dall’inizio dell’attività sessuale) o acquisita, se è caratterizzata da un sintomo generalizzato o situazionale (legato a particolari attività, situazioni) e se è dovuta a fattori psicologici, fisici o una combinazione dei due elementi. Vengono definiti alcuni fattori predisponenti (ad es: un’educazione repressiva, l’inadeguatezza delle informazioni sulla sessualità, esperienze sessuali precoci e traumatizzanti), i fattori precipitanti (ad  es.: la  nascita di un figlio, le discordie coniugali,  l’invecchiamento, le disfunzioni del partner) e fattori di mantenimento (ad es.: le ansie da performance, anticipazione di fallimenti, scarsa comunicazione della coppia, la paura dell’intimità) (Hartow, 1985).

Nell’analizzare in dettaglio i vari tipi di terapie possiamo riassumere che per quanto riguarda l’inibizione dell’ eccitazione sessuale lo scopo è quello di ridurre l’ansia durante le fasi dell’eccitamento che inibisce la donna, per quanto concerne l’inibizione dell’orgasmo femminile l’obiettivo è modificare la tendenza ad osservare le sensazioni pre-orgasmiche in modo ossessivo, incrementare sentimenti erotici e ampliare le fantasie erotiche. Per il vaginismo funzionale lo scopo è di evitare spasmi involontari della muscolatura del terzo esterno vaginale attraverso una desensibilizzazione sistematica in vivo. Quando parliamo di vaginismo dobbiamo capire e far descrivere alla persona cosa intende per il dolore, e cosa pensa possa accadere.

Si apre poi  il sipario anche sul tema handicap e sessualità. Le persone con handicap hanno pulsioni, sensazioni di natura sessuale come la maggior parte delle persone li differenzia solo l’espressione, la traduzione in comportamento con cui le persone cercano di soddisfare i loro bisogni. Vi sono poi persone con handicap fisici o psichici che non hanno problemi sessuali.

In base al tipo di handicap possono presentarsi più o meno problematiche in tale sfera. Si sottolinea nei soggetti con handicap una possibile difficoltà di comprensione degli impulsi, una difficoltà da parte di operatori/familiari ad accompagnare le persone in questa crescita.

L’obiettivo di un intervento è fare maturare la persona con handicap per quanto è consentito o possibile prima di tutto sul piano dell’autoconsapevolezza personale e  delle capacità relazionali,  in generale favorire uno sviluppo psicoaffettivo tale per cui abbia un significato pensare, sviluppare  e vivere la sessualità.

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L’incontro successivo condotto dalla Dr.ssa Anna Franca è stato un viaggio all’interno della sessualità nelle diverse fasi di vita del singolo e della coppia, dal momento del concepimento fino all’invecchiamento, analizzando lo sviluppo e la variazioni della sessualità dai primi  innamoramenti alle diverse fasi di cambiamento durante la gravidanza. In modo particolare vengono descritti  interventi di training razionale-emotivo nella preparazione al parto precisando che la gestante non è da considerarsi una paziente quindi il percorso mira a sviluppare e acquisire le capacità di vivere le emozioni il più possibile positive in una situazione coinvolgente come quella della gravidanza e parto. Lo scopo di tale intervento è eliminare errori di percezione, interpretazioni e valutazioni che possono mantenere stati di ansia, depressione e ostilità.

 

 Vengono organizzati in modo particolare tre moduli: modulo ristrutturazione cognitiva razionale, modulo addestramento assertivo e modulo rilassamento ( Di Pietro, 1984).  Sulla scia del tema della gravidanza vengono approfondite altre tematiche associate. Si descrivono le distinzioni tra baby blues, depressione post partum e psicosi post partum  (Linee Guida per la prevenzione e la cura dei disturbi psichiatrici delle donne dopo il parto  a cura di Ghisletta, marzo 2004), ponendo in modo particolare l’accento sull’esperienza dell’interruzione volontaria di gravidanza e  sull’interruzione spontanea di gravidanza e quindi sugli interventi adeguati. La Sindrome Post Abortiva (S.P.A) viene considerata all’interno dei Post Traumatic Distress Disorder è annoverato tra gli eventi traumatici perché produce un marcato stress tale da creare dei disturbi alla vita psichica.

A seguire viene posto il riflettore sul disturbo del desiderio maschile e femminile e  sull’ intervento sessuologico di coppia, incontro condotto dalla Dr. Rebecchi e dalla Dr.ssa Chiappelli.

Il Desiderio o interesse sessuale è un sentimento che include il desiderio di avere un’esperienza sessuale, di sentirsi recettivi ai preliminari sessuali del partner e il fantasticare sul fare sesso.

La relazione intima ed intensa nella quale sono in gioco gli affetti, i desideri e soprattutto i bisogni, può essere tanto temuta da soffocare ogni slancio verso di essa, nella paura di un disconoscimento o della perdita dell’oggetto nel quale molto si è investito. Il desiderio per esistere e mantenersi deve potersi fondare su una prospettiva relazionale del piacere. In Disorders of Sexual Desire (1979), Helen Kaplan affronta il tema dell’ inibizione del desiderio sessuale da un punto di vista clinico. Le turbe del desiderio sessuale vengono così classificate in primarie e secondarie.  L’Inibizione primaria è condizione rara, che si associa ad una storia di asessualità che si estende a tutta la vita del soggetto, l’Inibizione secondaria è invece caratterizzata dalla sua comparsa dopo un normale sviluppo sessuale nella storia del paziente. Vi sono  persone nelle quali l’appetito sessuale è debole per caratteristiche costituzionali, cosicché esse non si sentono disturbate dalla scarsa frequenza dei loro rapporti sessuali, che avvengono per la pressione di richieste o circostanze esterne (Simonelli, 1996).

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Nell’uomo e nella donna gli oggetti del desiderio vengono condizionati e influenzati dall’esperienza personale. I disturbi del desiderio ci possono essere divisi in modo particolare in due gruppi: il desiderio sessuale basso e l’avversione sessuale.

Nel primo i criteri diagnostici fanno riferimento a carenti o assenti fantasie sessuali e desiderio di attività sessuale persistente o ricorrente. Le anomalie causano disagio o difficoltà interpersonali, possono emergere in comorbilità con stati depressivi, con disturbo d’ansia ansia, disturbi alimentari. Il disturbo da avversione sessuale rappresenta una persistente o ricorrente estrema avversione ed evitamento di tutti o quasi i contatti sessuali genitali con il partner. Il soggetto descrive ansia, timore e disgusto davanti ad un opportunità sessuale. Davanti a tali disagi bisogna indagare la percezione individuale  e la valutazione del problema nella coppia.  Kaplan oltre a descrivere le cause organiche parla di cause immediate, come ad esempio la rabbia per problemi situazionali e cause remote come la paura delle prestazioni  sessuali, la paura del rifiuto, la paura dell’ intimità e l’ostilità. Il basso desiderio può essere sostenuto dalla difficoltà di elaborazione degli stimoli,  da distorsioni cognitive, dalla  mancanza di repertori comportamentali e da un ambiente stressante e scarsamente rinforzante.

Corso di Perfezionamento Cognitivo-Comportamentale in Sessuologia
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Il sintomo sessuale è mantenuto e da diversi fattori organici, ambientale e individuali e relazionali. Nel parlare di disfunzioni sessuali di coppia bisogna capire le dinamiche relazionale oltre agli aspetti eziologici e patogenetici è necessario approfondire la comunicazione della coppia: analizzare i tre interlocutori su cui lavorare cioè i singoli e la nostra coppia (Satir, 1988). La coppia è formata da due individui ciascuno dei quali ha credenze e scopi organizzati gerarchicamente. L’assesment implica colloqui congiunti, individuali e quindi un attenta osservazione delle dinamiche relazionali. Nei colloqui  individuali (Baucom & Epstein 1997; Dattilo & Padesky 1996) e relazionali, bisogna analizzare le motivazioni di entrambi i coniugi, fare un accurata anamnesi sessuale di ogni partner (Pasini) e capire l’esordio, la storia del problema e la descrizione del problema qui e ora. La funzione della terapia coppia è fare emergere le  credenze teorie sulla sessualità dei soggetti, le loro emozioni rispetto a ciò emozioni al fine di costruire uno schema del circolo vizioso individuale di mantenimento e relazionale. Le coppie stressate hanno pochi scambi positivi minori, nullificano l’impatto degli aspetti positivi e si focalizzano su quelli negativi, reagendo immediatamente ( Boussod  e Jacobson 1986).

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La sessualità umana è un fenomeno estremamente complesso, è necessario spaziare dall’antropologia alla biologia dalla psicologia alla etologia alla sociologia. Le disfunzioni sessuali si manifestano con forte impronta somatica, nella maggior parte  dei casi il disagio è legato ad una “disfunzione” del corpo e la sofferenza provata è attribuita al deficit somatico come stato di sofferenza di un organismo in toto. Nel trattamento delle disfunzioni sessuali si pone il problema diagnostico centrato sull’aspetto biologico o psicologico o bio psicologica. Bisogna capire il legame esistente tra la manifestazione somatica e quella emotiva. Importante, quindi, la collaborazione tra con specialisti andrologi, ginecologi, endocrinologi, chirurghi. Quindi, è necessario per i terapisti oltre alla conoscenza dei processi psicologici anche dei processi biologico implicati.

Il decimo incontro del Master  ha voluto infatti dare spazio al Dr. Carani, endocrinologo e al Dr. Pescatori, urologo. Si parla dell’identità sessuale e dei disordini dello sviluppo sessuale dalla prospettiva medica. Si parla si sesso cromosomico, gonatico, fenotipico, ipotalamico e psicosociale prima di addentrarci nella indicazioni e controindicazione della terapia ormonale e dell’intervento chirurgico. Il percorso psicologico parallelo e integrato con tutto il percorso di adeguamento medico chirurgico. Si sviluppa secondo modalità individuate caso per caso e mira alla verifica dell’assunzione della responsabilità della propria scelta, a sostenere e elaborare le modificazioni ormonali, somatiche nonché le esperienze relazionali e sociali del soggetto. Parallelamente si mira all’elaborazione del conflitto d’indentità e dei conflitti cognitivi ed emotivi che si presentano durante il percorso.

“L’acquisizione della nostra identità di genere è un processo che non ha mai fine, rispetto alla quale noi dobbiamo negoziare continuamente sia la dimensione intrapsichica che relazionale” ( Argentieri, 1996).

 

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Bibliografia:

Mentire: può La Pratica Perfezionare L’Inganno?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Con un po’ di pratica, è possibile imparare a dire una bugia indistinguibile dalla verità? 

A chi non è mai capitato di dire una bugia? E a chi non è mai capitato, successivamente, di non ricordare la bugia detta e mettersi così nei guai? In realtà mentire, da un punto di vista cognitivo, è un processo assai complicato: nell’inventare una bugia, infatti, creiamo un’ informazione falsa che viene elaborata solo dopo aver mentalmente soppresso un’informazione vera.

Vari studi hanno dimostrato che, da un punto di vista cognitivo, le persone generalmente spendono maggiori risorse, impiegano più tempo e fanno più errori nel dire una bugia, rispetto al dire la verità, proprio perché in possesso di due informazioni contrastanti. Recentemente, anche la ricerca in neuroscienze cognitive conferma questa ipotesi: mentire impiega più regioni del cervello che sono coinvolte nel controllo cognitivo come la corteccia prefrontale dorsolaterale e la parte anteriore della corteccia cingolata.

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Mentire richiede dunque una maggiore quantità di controllo cognitivo rispetto al raccontare la verità. Tuttavia, se il dispendio cognitivo di risorse quando si dice una bugia possa essere intenzionalmente ridotto, risulta essere una questione ancora aperta da un punto di vista scientifico: con un po’ di pratica, si potrebbe imparare a dire una bugia che potrebbe essere indistinguibile dalla verità? 

Una recente ricerca della New Northwestern University ha messo in luce che, essendo la menzogna più malleabile di quanto si pensasse, attraverso formazione e pratica, l’arte dell’inganno può essere perfezionata.

 

I Volti della Menzogna, di Paul Ekman – L’arte di mentire senza farsi scoprire.

Psicologia delle emozioni: Lie to Me, Cal Lightman come Paul Ekman?

Scopo dei ricercatori, in questo studio, è stato infatti esaminare se, quando siamo addestrati a mentire, il compito di dire una bugia risulta più automatico e meno impegnativo. A tal fine hanno sottoposto al campione del loro studio, composto da 48 partecipanti, un compito basato sul Paradigma di Differenziazione dell’Inganno (Differentiation of Deception Paradigm, DDP). Questo compito, il cui scopo è valutare i tempi di reazione dei partecipanti nel rispondere e gli errori commessi, è diviso in due parti: nella prima vengono elencate delle frasi a cui i partecipanti devono rispondere in maniera sincera (rispondendo “me stesso” se le informazioni nella frase si riferiscono al paziente e “altri” se le informazioni nella frase letta si riferiscono ad altre persone), nella seconda parte del compito viene invece chiesto ai partecipanti di mentire al successivo blocco di affermazioni, invertendo le risposte “me stesso” e “altri”. Come baseline, ai partecipanti dello studio, viene somministrata una prima prova di DDP.

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I partecipanti vengono successivamente divisi in tre gruppi: di controllo, con istruzioni e con training.  Dopo la baseline, il gruppo di controllo ha visionato un video della durata di 15 minuti, ripetendo poi ancora un compito di DDP. A seguito della baseline, nel gruppo con istruzioni, è stato semplicemente detto di accelerare e fare meno errori nel dare le risposte false, senza dar loro il tempo per esercitarsi, ed è stato poi somministrato un altro compito di DDP.  Nel gruppo con training, invece, è stata effettuata una sessione di formazione sul come fornire risposte più veloci senza fare errori, dando poi ai soggetti del tempo per esercitarsi. Dopo il training, anche questo gruppo ha effettuato un’altra prova di DDP.

I risultati hanno mostrato che l’istruzione da sola ha ridotto significativamente il tempo di reazione e gli errori dei partecipanti nel dare risposte ingannevoli. Tuttavia, le differenze nei tempi di reazione e negli errori tra le risposte ingannevoli e veritiere sono state del tutto cancellate solo nel gruppo con training. Il risultato suggerisce dunque che le l’inganno è malleabile e può essere controllato volontariamente con l’intenzione.

Nel prendere atto comunque dei limiti della ricerca, non si può ignorare l’impatto di questi risultati, soprattutto nel campo della psicologia della testimonianza. Attraverso un’adeguata preparazione, un testimone può essere in grado di mentire senza difficoltà?

Il dubbio è così importate che non si può non sperare in future ricerche sul tema. Nel frattempo … se avete proprio bisogno di dire una bugia, per lo meno esercitatevi un po’ prima di farlo!

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NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:


Sonno REM e Sogno? La teoria di Hobson.

 

Sonno REM e Sogno? Una forma primitiva di coscienza!

La teoria di Hobson.

Sonno REM e Sogno? La teoria di Hobson. - Immagine: © yanlev - Fotolia.com

Hobson osserva come siano ormai noti i meccanismi cerebrali attivi durante il sonno, in pratica sappiamo “come” si dorme ma  non è ancora del tutto chiaro “perché” il nostro cervello necessiti di dormire.

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La funzione del sonno e quella dell’attività onirica che lo caratterizza, hanno interessato e affascinato fin dall’antichità filosofi, studiosi, scienziati e ricercatori.

La domanda “Perché dormiamo?” ha stimolato la creazione di molte affascinanti teorie, inoltre le qualità bizzarre ed evanescenti del sogno hanno suscitato ipotesi e speculazioni tra le più disparate riguardo la sua origine e il suo significato.

Tra le teorie più celebri e conosciute vi è certamente l’ipotesi freudiana secondo la quale i sogni, rappresenterebbero quel particolare spazio entro il quale trovano appagamento i desideri relegati nell’inconscio, rimossi o inaccettabili entro la nostra dimensione cosciente di veglia.

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Grazie alle crescenti ricerche scientifiche sui substrati neurali del sonno, negli anni ’60 fu scoperta una fase di esso, caratterizzata da rapidi movimenti oculari (REM), che si osservò avere la più alta correlazione (anche se non esclusiva) con l’attività del sognare.

Grazie a questi studi sono comparse all’orizzonte nuove interessanti teorie che hanno associato al sonno REM delle specifiche funzioni tra cui la regolazione omeostatica della temperatura e del peso corporei, il mantenimento dell’integrità dell’equilibrio psicologico e della salute mentale, la mediazione dei processi di apprendimento.

Psicoanalisi analisi dei sogni - © rolffimages - Fotolia.com -
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Tra le ipotesi più innovative e intriganti ritroviamo quella di J. Allan Hobson psichiatra, nonché uno dei maggiori studiosi contemporanei in questo campo, direttore del Laboratorio di Neurofisiologia del Massachusetts Mental Health Center a Boston dal 1968 al 2003, e autore di numerosissimi articoli scientifici e libri sul sonno e i sogni.

Hobson osserva come siano ormai noti i meccanismi cerebrali attivi durante il sonno, in pratica sappiamo “come” si dorme ma  non è ancora del tutto chiaro “perché” il nostro cervello necessiti di dormire.

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La teoria avanzata dallo studioso è che la caratteristica attivazione cerebrale presente durante il sonno REM consenta lo sviluppo e il mantenimento di circuiti necessari per il corretto funzionamento delle funzioni cerebrali di più alto livello, compresa la coscienza, nella fase di veglia. Egli definisce perciò la fase REM come “protocoscienza”, ovvero un primordiale stato di organizzazione del cervello che rappresenta la base su cui si costruisce la coscienza e che è presente precocemente negli esseri umani, fin dallo sviluppo fetale.

Secondo Hobson, negli adulti, la veglia, è caratterizzata da aspetti di coscienza secondaria e dipendenti dal linguaggio, come l’auto-riflessività, il pensiero astratto, la volizione e la metacognizione, che ci permettono di essere consapevoli del mondo esterno, del nostro corpo e di noi stessi. Quando sogniamo durante la fase REM del sonno, invece, abbiamo una consapevolezza solo parziale, con caratteristiche di coscienza primaria, che include percezioni ed emozioni generate e organizzate in uno scenario interno, ma che erroneamente consideriamo frutto di uno stato di veglia, nonostante un gran numero di segnali cognitivi che ci dicono che non sia così. 

La coscienza del sogno, rispetto a quella della veglia, è infatti maggiormente capace di integrare immagini e stimoli tra i più disparati, ricreando spesso una bizzarra simulazione del mondo. Tuttavia è anche meno efficiente nel riconoscere l’incoerenza e irrealtà della propria condizione, le limitazioni del proprio pensiero e l’impoverimento della memoria.

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Quante volte, nei sogni, ci capita di provare sensazioni ed emozioni, agire e sentire in maniera così vivida che spesso, una volta svegli, facciamo fatica a considerare tutto ciò solo frutto di un mondo fittizio creato dal nostro cervello?

Una particolare attività cerebrale “ibrida”, che si colloca tra il sonno REM e la veglia, è rappresentato dai sogni lucidi, nei quali le persone provano la consapevolezza soggettiva di stare sognando, pur non essendo svegli. 

Dormi che ti passa! Le proprietà terapeutiche della fase REM - Immagine: © Valua Vitaly - Fotolia.com
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Gli esperimenti neuroscientifici condotti con EEG e fMRI hanno evidenziato, durante i sogni lucidi, un insolito stato di co-attivazione dei circuiti della coscienza primaria e di quella secondaria e in particolare, rispetto al sonno REM, un’aumentata attivazione delle aree corticali frontali, che si è soliti associare alle componenti metacognitive, di pensiero astratto e autoriflessivo della consapevolezza secondaria.

La teoria innovativa di Hobson, secondo cui il sogno nella fase REM può essere visto come un pattern generatore di realtà virtuale utilizzato dal cervello per un corretto sviluppo e mantenimento della coscienza durante lo stato di veglia, aggiunge così un nuovo e stimolante punto di vista a sostegno dell’idea che il sonno, nella sua globale complessità, sia un prezioso processo sia di tipo preparatorio, che di recupero, che ci consente un’interazione pienamente adattiva con il mondo che ci circonda.

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SOGNI  –  SONNO – MEMORIA

 

 

BIBILOGRAFIA:

Il Colloquio Psicologico – La Comunicazione Terapeutica #4

Il Colloquio Psicologico - La comunicazione Terapeutica#4. - Immagine: © apops - Fotolia.com

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PARTE I – PARTE II – PARTE III

CIÒ CHE È INUTILE È DANNOSO

 “Un guerriero della luce ascolta ciò che l’avversario ha da dire. E lotta solo se è necessario”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.87]

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

Nel rapporto con il paziente non bisogna mai fare nulla più del necessario, perché se qualcosa non è necessario è superfluo, e ciò che è superfluo può sempre essere potenzialmente dannoso. E’ bene tenere questo principio a mente poiché potrebbe in alcune occasioni salvare il rapporto con il paziente. Per esempio i professionisti, trasportati dalla curiosità e dalla volontà di conoscere e scoprire tutte le variabili che hanno un ruolo nella risoluzione del problema, possono essere indotti ad esplorare assieme al paziente aree del tutto scollegate dal problema principale, oppure connesse con quest’ultimo ma non necessarie per affrontarlo.

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Oltre che rischiare una perdita inutile di tempo, questo modo di comportarsi può portare paziente e psicologo fuori rotta, decentralizzando il focus dal problema ad aspetti del tutto marginali e arrivando a definire obiettivi che possono essere inutili per risolvere la difficoltà principale. Spesso la conseguenza di questo modo di agire è l’elaborazione di affermazioni interpretative che pongono interesse su aree molto lontane dal problema e sulle quali si interviene senza la consapevolezza che comunque il sintomo non viene colpito. In questo caso il superfluo diventa dannoso.

Questa norma deve essere applicata sempre, anche per aspetti per i quali non vediamo possibili conseguenze negative, perché spesso esse non sono chiare come nell’esempio precedente. L’obiettivo del terapeuta è il problema e all’interno di questo percorso deve mantenere sempre vivido nella mente un criterio di economia e scartare tutto ciò che può essere scartato senza intaccare la possibilità di eliminare il disturbo.

PROCEDERE A TRAZIONE ANTERIORE

“Un guerriero della luce studia con molta attenzione la posizione che intende conquistare”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.38]

Esistono due modi per superare gli ostacoli che si presentano nel corso del colloquio. Adeguandosi alla metafora della trazione anteriore e posteriore si può affermare di poter spingere o tirare il paziente oltre l’ostacolo. E’ sempre meglio evitare il primo di questi metodi. Usare la trazione posteriore vuol dire di fatto costringere di forza il paziente in una direzione che entra in contrasto con la sua forza di inerzia portandolo a “sbandare” verso l’esterno del percorso. Comportarsi in questo modo può quindi favorire continue ricadute del soggetto con pochi apparenti miglioramenti. Se, al contrario, ci affidiamo alla trazione anteriore le cose cambiano.

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I contrasti con l’inerzia del paziente non vengono rilevati e il soggetto si mantiene con maggior facilità all’interno del percorso terapeutico. Nel colloquio psicologico la trazione anteriore si realizza dando al paziente un obiettivo da seguire, qualcosa che gli interessa e che persegue con impegno, in questo modo si può mettere in luce ciò che c’è di positivo nella strada che si sta percorrendo, si condivide con lui la conoscenza della meta finale e si alimentano, quindi, le sue motivazioni. In questo modo si evita che il paziente sbandi lungo il percorso.

CONOSCERE GLI ALTRI E SÉ STESSI

“Un guerriero approfitta di qualsiasi opportunità per imparare.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.26]

A volte i clienti posso essere molto diversi dal psicologo. Attraverso il colloquio costui è in grado di scalfire la profondità della cultura del paziente ma non può raggiungere la consapevolezza della sua complessità [Fine e Glasser, 1996] . La presenza di questa differenza richiede un maggior lavoro mentale e una maggior riflessione su di sé.

Da un lato lo psicologo deve cercare di capire gli altri e di capire in che modo si differenziano da lui nei comportamenti, nelle loro convinzioni, nel loro modo di pensare, nei loro valori ecc… Esistono diversi fattori che possono essere fonte di queste profonde differenze tra psicologo e paziente ed è bene che ciascuna di esse sia presa attentamente in considerazione:

1) La cultura: intesa come attività caratteristiche di un gruppo di persone, influenza comportamenti, credenze e atteggiamenti del paziente. Quando un paziente sembra mostrare un forte senso di appartenenza ad un gruppo culturale diverso da quello dello psicologo, quest’ultimo deve cercare di comprendere queste differenze studiando la cultura e di capire l’origine di convinzioni positive e negative.

2) La classe socioeconomica: rappresenta lo status del paziente all’interno della società che non comprende solo il livello di reddito ma anche lo stile di vita.

3) Il sesso: rappresenta la differenza più profonda e rigida che può intercorrere tra il paziente e il professionista. è molto importante imparare a relazionarsi con le caratteristiche tipiche dell’altro sesso, imparare a non lasciarsi lusingare dalla seduttività e a non essere seduttivi.

4) I gruppi oppressi: rappresentano gruppi sociali oggetti di pregiudizio, astio e discriminazione. I clienti di questo tipo vedono spesso nel terapeuta un rappresentante del nemico e manifestano un atteggiamento ostile. In tali casi lo psicologo deve cercare di comprendere i sentimenti che provano queste persone e le esperienze che hanno vissuto e che le hanno condotte ad assumere tale atteggiamento.

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In tutti questi casi, che spesso si intrecciano tra loro, è fondamentale l’impegno dello psicologo nel comprendere le profonde differenze che separano le proprie credenze da quelle del paziente. Questa comprensione è alla base di un avvicinamento tra paziente e professionista, alla base di un rapporto di fiducia, alla base del buon esito della terapia. Questa comprensione non può essere separata dalla conoscenza della cultura del paziente, ricevere informazioni su di essa è quindi indispensabile.

Queste si possono ottenere dallo stesso paziente (basta chiederlo) mostrando la propria ignoranza al riguardo ma, allo stesso tempo, il proprio interesse nei confronti della persona. In questo modo lo psicologo è in grado di avere informazioni sul background culturale del paziente e di mostrare contemporaneamente la propria comprensione empatica.

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Oltre alla comprensione degli altri lo psicologo deve prestare la dovuta attenzione anche a sé stesso. Ciascuno di noi, infatti, possiede un background culturale che influenza le proprie convinzioni e i propri atteggiamenti. E’ importante conoscerci e conoscere il modo attraverso il quale mostriamo la nostra cultura, anche inconsapevolmente, e conoscere come questa possa influenzare il rapporto con il paziente in relazione alle differenze nelle convinzioni e negli atteggiamenti di quest’ultimo.

Il rischio che si corre non preoccupandosi di questi aspetti è quello di impedire lo sviluppo di un rapporto di fiducia, alimentando i contrasti, oppure di imporre valori e atteggiamenti che sono figli della storia dello psicologo ma non di quella del paziente.

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IL COLLOQUIO È FIGLIO DELLA CULTURA DEL TERAPEUTA

Infine, un ultimo principio che sarebbe bene tenere in considerazione riguarda l’importanza della cultura dello psicologo. Per riuscire a mostrare la propria professionalità, per riuscire a comprendere e conoscere gli atteggiamenti degli altri, per riuscire a pronunciare la frase giusta al momento giusto, in grado di provocare l’insight e di cambiare le prospettive del paziente, è necessario che la sua  cultura di base sia all’altezza della situazione.

Questa cultura riguarda innanzitutto l’ambito psicologico all’interno del quale lo psicologo deve sapere muoversi con naturalezza: dalla conoscenza delle caratteristiche sintomatiche dei disturbi psicologici alle dinamiche dei rapporti interpersonali, dai meccanismi di funzionamento del sistema nervoso alle teorie principali sullo sviluppo infantile ecc…

Ma la cultura necessaria non si limita solo al mondo della psicologia. Non v’è confine ai vantaggi che si ottengono in ambito terapeutico continuando a coltivare ed aumentare la propria conoscenza in qualsiasi campo, dalla letteratura alla chimica, alla storia, alla filosofia ecc… Maggiore è il campo delle conoscenze possedute più grande è la fonte dalla quale si possono cogliere quelle informazioni che, trasmesse al paziente, possono mostrargli punti di vista diversi e sostenere l’avvio del cambiamento. 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Mostrami la Tua Foto di Facebook e ti Dirò da Dove Vieni!

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Mostrami la tua Foto di Facebook e ti dirò da dove vieni: le differenze culturali influenzano la rappresentazione di sè anche online.

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Diverse ricerche in ambito psicologico hanno evidenziato come il contesto culturale in cui nasciamo e viviamo abbia un’influenza cruciale sul nostro modo di comportarci e di pensare. Gli studi condotti sulle differenze culturali riportate da abitanti di parti del mondo diverse non solo hanno dimostrato come occidentali e orientali abbiano modi di ragionare quasi opposti, ma anche come la loro cultura detti legge sui modi di percepire e di porre attenzione, sulle motivazioni, sui modi di relazionarsi e persino sulla percezione del sé (Masuda & Nisbett, 2001; Markus & Kitayama, 1991).

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Gli occidentali, immersi sin dalla nascita in una cultura fondata sull’individualismo e sull’indipendenza, hanno la tendenza a percepire gli oggetti e organizzare le informazioni in modo analitico; gli orientali, la cui cultura promuove un forte senso di interdipendenza, tendono invece a considerare se stessi come parte di una comunità più ampia e a processare le informazioni in modo olistico, dando uguale importanza agli oggetti ed al loro contesto (Masuda & Nisbett, 2001; Nisbett & Masuda, 2003).

Dati questi presupposti, sarebbe del tutto ragionevole ipotizzare che l’esposizione a pratiche e valori culturali diversi influenzi la cognizione sociale ed il modo di mostrarsi agli altri non solo “nel mondo reale” ma anche online, sui social network. Quasi tutti ormai possediamo un “profilo” di Facebook: con un indirizzo email valido chiunque può creare una sorta di “biglietto da visita” completo di foto e di una varietà di informazioni personali anche molto specifiche (luogo di nascita, luogo in cui ci si trova attualmente, data di nascita, stato della corrente situazione sentimentale, musica/libri/film preferiti, numero di “amici” e via dicendo).

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Huang e Park (2012) hanno condotto uno dei primi studi che abbiano usato proprio Facebook come database di ricerca. I due studiosi hanno testato l’ipotesi che il contesto culturale di un individuo influenzi la sua rappresentazione di sé anche online, in una situazione cioè in cui il controllo applicabile al proprio modo di mostrarsi agli altri risulti maggiore.

Nella prima parte dello studio sono state esaminate le foto del profilo di 200 utenti di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Di questi soggetti, 50 erano studenti taiwanesi della National Taiwan University e 50 studenti americani della Univesity of Illonois; sono state inoltre selezionate le foto di 50 studenti taiwanesi che stavano studiando negli Stati Uniti e di 50 studenti americani trasferitesi a Taipei per motivi di studio. Misurando il rapporto tra l’area della faccia di ciascun utente e l’area della foto intera, i ricercatori hanno osservato come gli orientali prediligessero il contesto “ambientale” e de-enfatizzassero il soggetto; al contrario, gli americani tendevano ad enfatizzare la propria figura trascurando quasi del tutto ciò che vi stava intorno. Il dato più curioso è che gli studenti trasferitesi all’estero per studiare adattavano le loro foto del profilo alla cultura locale, rendendo la propria foto più simile a quella dei compagni.

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Nella seconda parte dello studio sono state considerate caratteristiche più specifiche delle foto (proporzioni del corpo del soggetto, numero di persone incluse, background e intensità del sorriso). È stato inoltre controllato il fattore “clima”: vi era infatti il rischio che questo avesse influenza sull’importanza data all’ambiente all’interno della foto, spiegando come mai i taiwanesi prediligessero maggiormente il contesto rispetto alla figura principale (quest’ipotesi è stata scartata, confermando l’idea che fosse solo il contesto culturale a influenzare le caratteristiche delle foto). Mentre non vi era alcuna differenza nel tipo di background e nel numero di persone incluse nelle foto, è stato invece osservato come gli americani mostrassero sorrisi di intensità maggiore, laddove gli orientali prediligessero al contrario espressioni più “tenui”. Questo risultato conferma i dati disponibili sulle differenze culturali nell’espressione delle emozioni, per cui la cultura orientale porrebbe maggiore enfasi sull’equilibrio e il controllo emotivo, mentre quella occidentale ne promuoverebbe un’espressione più aperta e libera (Chim, Moon & Tsai, 2009).

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Si tratta di risultati interessanti, dal momento che le influenze culturali sulla cognizione e sui comportamenti sociali nel mondo virtuale costituiscono un campo ancora quasi del tutto inesplorato. Il successo dei social network è un fenomeno ancora del tutto recente: non ci resta che attendere ulteriori studi che confermino o smentiscano i risultati ottenuti da Huang e Park.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Chim, L., Moon, A., & Tsai, J. L. (2009). Beauty is in the culture of the beholden: The occurrence and perception of American and Chinese smiles in magazines. Poster presented at the 10th Annual Meeting of the Society of Personality and Social Psychology, Tampa, FL.
  • Huang, C. M., & Park, D. (2012). Cultural influences on Facebook photographs. International Journal of Psychology, 1–10.
  • Markus, H. R., & Kitayama, S. (1991). Culture and the self: Implications for cognition, emotion, and motivation. Psychological Review, 98, 224–253. (DOWNLOAD)
  • Masuda, T., & Nisbett, R. E. (2001). Attending  holistically versus analytically: Comparing the context sensitivity of Japanese and Americans. Journal of Personality and Social Psychology, 81, 922–934.
  • Nisbett, R. E., & Masuda, T. (2003). Culture and point of view. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 100, 11163–11170

Pro ANA – Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet

 

Pro ANA - Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet. - Immagine: © servane roy berton - Fotolia.com

Siti Pro ANA e pro MIA – Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet. Caratteristiche, motivazioni e stato della ricerca.

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Con il termine Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) si fa riferimento ad un disagio caratterizzato da un alterato rapporto con il cibo e con il proprio corpo, che si esprime attraverso una preoccupazione eccessiva rispetto al peso e alla forma corporea [DSM IV-TR].

Uno dei problemi che negli ultimi anni i Paesi Occidentiali e quelli in via di sviluppo si trovano ad affrontare è la proliferazione dei siti pro ANA o “pro-MIA”, siti web che promuovono rispettivamente l’anoressia e la bulimia.

Non ultima, la BBC si interrogava già, in un servizio del 2008, in merito agli oltre (all’epoca) 500 siti pro-ANA e pro-MIA, sottolineando quanto fosse complicato distinguere le pagine web che inneggiavano ai disturbi alimentari (fornendo consigli su come controllare la fame e il peso, ad esempio) da quelle che invece offrivano un supporto alle persone che cercavano di “uscire dal disturbo”.

Molti siti sembravano collocarsi in un’area grigia, a metà strada: professavano di voler offrire supporto a chi cercava di curare il proprio disturbo, ma in realtà in qualche modo offrivano consigli su come protrarlo.

Villa La Pietra. Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/thessaly/
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La BBC, lanciava – appunto – un allarme nei confronti dei siti pro ANA, sostenendo che proprio il proliferare, grazie al web e ai social network, di comunità virtuali di questo tipo potesse portare ad un incremento dei disturbi alimentari. L’allarme era stato lanciato a seguito di alcuni studi che avevano dimostrato che giovani donne, dopo aver consultato alcuni siti pro ANA, avevano un abbassamento dell’autostima, percepivano se stesse con un’immagine peggiorativa ed erano più propense a confrontare la propria forma fisica con quelle delle altre donne.

All’interno, dunque, dei tanti siti pro ANA esistono sfumature e correnti di pensiero differenti, ma sembrerebbe che questi siti raccolgano soprattutto un inno al disturbo alimentare.

Alcuni promuovono addirittura la “magrezza ad ogni costo”; altri hanno lo scopo manifesto di “aiutare gli altri a raggiungere i propri obiettivi, ossia la perfezione [ossia, la magrezza, N.d.T.]”.

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Laura Freberg, docente di psicologia all’UCLA, si domanda, dunque, quanto dovremmo preoccuparci dell’impatto che questi siti possono avere su persone che già hanno instaurato un disturbo alimentare e su adolescenti o giovani donne (le categorie più a rischio di svilupparne uno) sane.

La dott.ssa Freberg, per rispondere, si rifà a uno studio sugli adolescenti condotto da un gruppo di ricercatori di Standford del 2007. Tra gli adolescenti con una diagnosi di disturbo alimentare, infatti, molti risultavano  frequentatori di siti pro ANA, e ben pochi dei loro famigliari avevano idea dell’esistenza di queste pagine web.

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Ad oggi, però, non vi sono ancora sufficienti dati di ricerca a lungo termine per poter effettivamente ampliare e confermare gli esiti di questo studio.

Tornando sull’esistenza (e la diffusione) dei siti pro ANA, non possiamo non pensare che siano figli, dopotutto, di Internet.

La rete consente a persone diverse di ritrovarsi e aggregarsi in base a bisogni o desideri di qualunque natura, con una semplicità e velocità mai conosciuta prima. Non è dunque così sorprendente che esistano siti o “comunità” che inneggiano a qualcosa che va oltre il senso comune e soprattutto sfida le nostre capacità di comprensione.

 Negli ultimi anni si è notato un cambiamento nelle comunità pro ANA: se prima, infatti, gli utenti, in genere “celavano” sé stessi dietro a pseudonimi o a fotografie di modelle o icone, si è assistito ad un tentativo di diffusione di questi gruppi anche attraverso i social network, in particolare (come è ormai quasi ovvio quando si parla di social network) Facebook.

Nelle pagine (alcune delle quali prontamente rimosse) gli utenti parlavano di sé stessi “mettendoci la faccia”, non più nascondendosi dietro pseudonimi.

Alcuni psicologi, come il dottor Steven Crawford, direttore associato del Center for Eating Disorders a Baltimore, ipotizzano che questo “portare alla luce” ciò che prima veniva consumato e agito nell’ombra, spesso in realtà sotto gli occhi di famigliari e amici senza che questi si accorgessero di nulla, possa avvicinarsi ad una ribellione adolescenziale.

Ma potrebbe anche significare un’apertura verso il gruppo dei pari, la ricerca di un confronto non solo per conoscere e migliorare le proprie tecniche anoressizzanti.

A questo proposito, credo sia interessante ciò che afferma Rose, 17 anni, attiva frequentatrice per due anni di un gruppo pro ANA su Facebook: “Questi siti mi hanno permesso di trovare un luogo dove poter parlare del mio disturbo senza che ci fosse qualcuno che tentasse a tutti i costi di “mettermi a posto”, o di dirmi che quello che stavo facendo era orribile e disgustoso. Per me, buona parte del problema era il cercare di ricevere attenzioni. Mi sentivo così sola e volevo solo che qualcuno mi notasse, e ho trovato quel modo: anche se da altre persone sofferenti, sono stata però presa in considerazione”.

Le parole di Rose vanno in direzione dello studio condotto dalla dott.ssa Tierney sulle comunità pro ANA. Nel suo lavoro di ricerca del 2006, “Pro-anorexia websites and their implications for users, practitioners, and researchers,” Stephanie Tierney sostiene che questa tipologia di siti ha raggiunto una certa popolarità perché favorisce un senso di comunità e appartenenza tra le persone sofferenti di anoressia.

Gli studi relativi alle comunità online pro ANA sono ancora ai loro albori, ma sono riuscite ad individuare dei tratti e dei contenuti comuni a tutti i siti: raccomandazioni e consigli sul come perdere peso, immagini o messaggi motivazionali (le così dette Thinispiration, che possono assumere la forma di fotografie di modelle o personaggi famosi particolarmente magri, o mantra, come ad esempio: “Ricordati che il magro non passa mai di moda” e così via), chat room, etc.

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Molti ricercatori hanno provato a dare una risposta sulla ragione della nascita dei siti e comunità pro ANA. Secondo alcuni, i siti possono rappresentare semplicemente un hobby (Lapinski, 2006); un modo per protestare contro il materialismo della cultura moderna, e quindi questi siti nascerebbero sulla falsariga di un ascetismo restrittivo (Tierney, 2006, p.182).

Altri ricercatori sostengono che i siti funzionino come una strategia per affrontare l’impatto emotivo e le difficoltà di un disturbo simile (Mulveen & Hepworth, 2006).

Una delle ipotesi più accreditate, quella di Williams and Reid, sostiene che i siti pro ANA vadano ad intersecare il senso di controllo, onnipotenza e desiderio di ottenere risultati tipico della patologia anoressica.

Allo stato attuale di ricerca, possiamo affermare che siano tre le motivazioni per frequentare siti pro ANA:

– Le persone vi accedono per ricercare informazioni su come perdere peso o, se già hanno sviluppato un disturbo alimentare, per mantenerlo e “migliorarlo”.

Senso di comunità che si sviluppa tra i frequentatori del sito.

  • Oltre ad offrire, infatti, uno spazio “protetto” nel quale gli utenti possono esprimere liberamente le proprie idee e discutere le proprie preoccupazioni senza timore di giudizio, promuovono un senso di amicizia in un gruppo di persone che molto probabilmente sono carenti di relazioni interpersonali nella vita quotidiana (Davis e Lipsey, 2003) e che attraversano una fase di sviluppo in cui il gruppo dei pari rappresenta un punto di riferimento fondamentale per superare i diversi compiti di sviluppo e per costruire la propria identità. Il gruppo, infatti, funziona come un luogo di apprendimento e sperimentazione, di confronto e di valutazione delle proprie capacità che andranno poi a formare l’immagine di Sé.
  • E’ plausibile pensare che le persone con un disturbo alimentare vivano con fatica e difficoltà le occasioni sociali, poiché la maggior parte di esse prevede, in effetti, il consumo di cibo o bevande.
  • L’identità si costituisce attraverso e grazie le relazioni, ecco perché i siti pro ANA possono rappresentare una minaccia nella costruzione di un’immagine di Sé “sana”, favorendo, infatti, la sovrapposizione della propria identità al disturbo alimentare.

– Consentono agli utenti di sviluppare un senso di identità.

  • E’ probabile, come abbiamo detto, che dal momento in cui i disturbi alimentari permeano le relazioni personali e il concetto di sé (entrambi elementi fondamentali nello sviluppo dell’identità) il disturbo alimentare rappresenti buona parte dell’identità di chi ne soffre.

Ulteriori studi e approfondimenti sono necessari per comprendere più a fondo un fenomeno così complesso come quello dei siti e delle comunità pro ANA.

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BIBLIOGRAFIA:

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