expand_lessAPRI WIDGET

Il Transfert – Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #4

 

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: 

La terza piaga: Transfert e Vita Reale.

LEGGI LA PRIMA PARTE – LEGGI LA SECONDA PARTE – LEGGI LA TERZA PARTE

 

Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #4 - Il Transfert. - Immagine: © Kybele - Fotolia.com

Freud si rese conto che il transfert non solo era inevitabile ma che veniva a sostituire gli oggetti ed i conflitti della nevrosi preesistente.

Agli albori della psicoanalisi Freud scoprì che ogni paziente proietta inevitabilmente sulla persona dell’analista aspettative e rappresentazioni che traggono origine dalle interazioni con i genitori durante l’infanzia. Così, nel corso del trattamento, il paziente ama, odia, desidera, teme, invidia l’analista.

LEGGI LA MONOGRAFIA SULLA CRISI DELLA PSICOANALISI CONTEMPORANEA

Freud concettualizzò inizialmente il transfert come un ostacolo alla cura analitica, ma ben presto il suo punto di vista subì una netta trasformazione. Freud si rese conto che il transfert non solo era inevitabile, ma che veniva progressivamente a sostituire gli oggetti ed i conflitti della nevrosi preesistente. La nevrosi di transfert, così costituita, offriva allo psicoanalista la possibilità di affrontare in modo diretto la psicopatologia del paziente nella sua interezza: meccanismi di difesa, organizzazione libidica, ricordi infantili, rappresentazioni dei genitori, struttura del Super-io. Tutti questi elementi riemergerebbero focalizzati sulla figura dell’analista.

Il concetto di nevrosi di transfert consente all’analista di occupare una posizione del tutto singolare. Nel modello più comunemente accettato del processo psicoanalitico, la relazione di transfert rappresenterebbe lo scenario di ogni significativo scambio emotivo con potenzialità di indurre cambiamento. Nel transfert si giocherebbe la lotta tra nevrosi e salute mentale. Il concetto di nevrosi di transfert consentiva dunque a Freud di sottovalutare il ruolo delle relazioni della vita reale del paziente, ed il loro contributo alla strutturazione del mondo interno del paziente.

Freud manifestava un certo disagio rispetto ai contatti con i familiari del paziente dopo l’inizio del trattamento analitico. Egli ammetteva con molta franchezza che: “Nei trattamenti psicoanalitici l’intrusione dei congiunti costituisce appunto un pericolo, un pericolo di quelli a cui non si sa come fare fronte” (1912, p. 607).

LEGGI GLI ARTICOLI SU: PSICOANALISI

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea. - Immagine: © hellotim - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #1.

La tecnica psicoanalitica classica ha cercato di limitare il più possibile i contatti con i congiunti del malati, riducendoli idealmente solo a situazioni eccezionali (come crisi psicotiche o grave rischio suicidario). Per decenni gli psicoanalisti hanno inseguito l’utopia di una relazione totalmente bipersonale, esclusivamente diadica. Tale intolleranza per le relazioni triangolari tradisce evidenti radici edipiche.

Anche i bisogni narcisistici dell’analista giocano senza dubbio un ruolo importante. Diamo tanto ai nostri pazienti: tempo, ascolto paziente, attenzione, sincero interesse. Ed è davvero difficile essere consapevoli fino in fondo che le sedute rappresentano una componente – senza dubbio fondamentale ma non unica – della vita emotiva del paziente. Che madri, padri, fratelli, sorelle, coniugi, amanti condividono tanto con loro: la concretezza del lavoro e della gestione dei beni, dell’organizzazione pratica della vita, i problemi della salute, la semplicità delle esperienze corporee. Ed anche la realtà dell’odio, dell’aggressività, della competizione, del controllo.

I pazienti in analisi continuano a vivere, a fare esperienze e a crescere dentro, ma anche fuori della stanza d’analisi. Abbiamo davvero bisogno di riconoscere con grande umiltà l’impatto della vita relazionale reale del paziente al di fuori del transfert e di liberarci da aspettative non realistiche rispetto ai potenziali benefici del trattamento analitico.

Noi analisti conosciamo bene il senso di frustrazione che nasce quando il lavoro analitico compiuto insieme al paziente non è seguito da paralleli cambiamenti in termini sintomatici o di maturità delle relazioni oggettuali. Nemmeno il più accurato lavoro interpretativo sugli aspetti negativi del transfert – odio, aggressività, invidia, ma anche sottomissione e paura – può realizzare quello stato di benessere fusionale di coppia che inconsciamente e regressivamente inseguiamo. La disperazione e la tristezza persistono, così come le relazioni cariche di sadomasochismo.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: INCONSCIO

 Anche Freud si rese conto che l’analisi del transfert, della nevrosi di transfert, non era spesso in grado di promuovere il cambiamento terapeutico. In questo contesto egli coniò i concetti di resistenza di transfert e di reazione terapeutica negativa.

Nella supervisione troppo spesso la causa della scarsa efficacia terapeutica viene ricercata nell’inadeguatezza dello stile e del contenuto degli interventi del candidato. Quanto più fruttuoso sarebbe prendere coscienza in modo realistico dei limiti terapeutici oggettivi della psicoanalisi!

Le relazioni sono come piante. Crescono, si sviluppano nel tempo. Le interazioni umane comportano sequenze di identificazioni proiettive ed introiettive. Seminiamo inevitabilmente nei nostri partner relazionali emozioni, così come fantasie, rappresentazioni oggettuali così come angosce superegoiche.

E’ ovvio che per l’analista desideri, paure, aspettative centrate sulla relazione di transfert sono di grandissima importanza terapeutica. Dalla capacità di comprendere ed interpretare la componente inconscia del transfert dipende la possibilità di creare e mantenere una fruttuosa relazione di collaborazione.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: TRANSFERT

Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #2. - Immagine: © NLshop - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #2

Ma i pazienti vivono nel modo reale. Sono immersi in una rete di proiezioni ed identificazioni che vengono continuamente scambiate con gli oggetti reali: partner sessuali, genitori, colleghi capi insegnanti e così via. La psicoanalisi è un lavoro triangolare. Il terzo assente è sempre presente sia nella fantasia inconscia che nella vita emotiva del paziente.

Come psicoanalisti siamo chiamati a prendere piena coscienza del contributo che gli oggetti reali danno alla strutturazione della vita interiore del paziente e conseguentemente allo scenario emotivo che si dispiega momento per momento nella stanza d’analisi. E ad aiutare il paziente ad essere altrettanto cosciente della quantità di ansia e dolore che si producono nella sua vita relazionale. Il lavoro psicoanalitico, per quanto intenso e prolungato, non ha il potere di rimuovere il dolore interpersonale dalla vita del paziente. Ma la consapevolezza della durezza del vivere unita ad un’autentica condivisione da parte dell’analista può fare molto per alleviare le esperienze emotive più dolorose e consentire di tollerare meglio gli oggetti d’amore più inquietanti e disfunzionali.

 

INDICE DELLA MONOGRAFIA SULLA CRISI DELLA PSICOANALISI

LEGGI LA PRIMA PARTE – LEGGI LA SECONDA PARTE – LEGGI LA TERZA PARTE

LEGGI GLI ARTICOLI SU: 

 – PSICOANALISI – INCONSCIO – TRANSFERT

 

 

APPROFONDIMENTI:

 

Raccontarsi a uno Sconosciuto: Cosa Promuove la Self Disclosure

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Self Disclosure – Uno studio indaga se il priming impatti sulla disposizione personale a raccontare esperienze personali ad uno sconosciuto.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

Anche pensando all’empirismo collaborativo delle terapie cognitivo-comportamentali, la self disclosure del paziente rimane un ingrediente evidentemente essenziale.

Come scrive Farber (2006) “la psicoterapia è una delle rare situazioni della vita in cui parlare di sé stessi non è considerato più o meno appropriato, bensì indispensabile”. E ancora aleggia in molti “psicoterapia…come fai a parlare dei fatti tuoi con uno sconosciuto?”.

Il mancato Contatto VIsivo e i dolorosi colpi dell'indifferenza. - Immagine: © SVLuma - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il mancato Contatto VIsivo e i dolorosi colpi dell’indifferenza.

In un nuovo studio pubblicato su Clinical Psychological Science ci si è domandati se il priming potesse impattare sulla disposizione personale a raccontare le proprie esperienze personali, pensieri ed emozioni per l’appunto a uno sconosciuto. 50 soggetti di età compresa tra i 18 e i 35 anni sono stati randomicamente assegnati a una delle due seguenti condizioni: in un primo gruppo ai soggetti è stato chiesto di ricomporre delle frasi che contenevano parole di self disclosure (ad esempio, “raccontare”, “confidare”, etc), mentre al secondo gruppo è stato richiesto di rimettere in ordine frasi contenenti parole di diffidenza, distanziamento e reticenza ad aprirsi all’altro.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA

A seguito di queste condizioni di priming, tutti i partecipanti hanno scritto due brevi narrazioni riguardanti le proprie recenti esperienze personali autobiografiche. Rispetto al gruppo di controllo, i soggetti sottoposti a priming di self disclosure hanno prodotto racconti più lunghi (maggior numero di parole) e più ricchi di espressioni emotive.

 Quindi l’elicitazione  inconsapevole di significati di self disclosure attraverso attività consapevoli influenza la disposizione a parlare di sé, seppur a livello di comunicazione scritta.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: COMUNICAZIONE

I risultati sono interessanti poiché danno credito ai processi impliciti e non consapevoli secondo cui l’esposizione a specifici stimoli sovraliminari (attenzione, sovraliminari e non subliminali) che quindi il soggetto elabora coscientemente possa influenzare il comportamento futuro dell’individuo attivando specifiche categorie mentali, aspettative e stereotipi.

Se il priming è stato finora utilizzato in ricerche di psicologia generale e psicologia cross-culturale, le sue potenzialità ancora devono essere approfondite a livello empirico nelle sue traduzioni applicative in ambito clinico.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICOTERAPIA COGNITIVA – COMUNICAZIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

Effetto Mozart: Può la Musica Renderci più Intelligenti?

 

Effetto Mozart: Può la Musica Renderci più Intelligenti?. - Immagine: © daniel0 - Fotolia.comI risultati di numerose ricerche indussero i ricercatori a denominare Effetto Mozart l’influenza della musica sul ragionamento spaziale.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: MUSICA

Un celebre studio condotto nel 1993 da Rauscher e colleghi suggerì che l’ascolto di un brano musicale potesse promuovere un incremento delle capacità visuo-spaziali; il brano scelto per l’indagine sperimentale fu la Sonata per due pianoforti in Do Maggiore (K448) di Mozart, e i risultati ottenuti indussero i ricercatori a denominare Effetto Mozart l’influenza della musica sul ragionamento spaziale.

La tesi, da cui l’ Effetto Mozart, era che la sonata di Mozart generasse l’attivazione di pattern neuronali all’interno di aree corticali implicate in attività di ragionamento spazio-temporale, e in particolare la corteccia temporale, la corteccia dorso laterale pre-frontale, la corteccia occipitale, il cervelletto.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: INTELLIGENZA

Musica - © -Misha - Fotolia.com
Articolo consigliato: Musica e Universali Culturali

In seguito altri lavori hanno messo in discussione questi risultati, individuando elementi più generali che si possono considerare validi nel descrivere le prestazioni dei soggetti sperimentali. Chabris (1999) ha utilizzato due gruppi di controllo, uno nella condizione di silenzio e l’altro sottoposto a istruzioni rilassanti, e ha osservato che gli effetti della musica di Mozart si riscontravano nel secondo caso, quando le istruzioni rilassanti avevano determinato una riduzione dell’arousal. Steele (2000) è giunto alla medesima conclusione riconoscendo quali fattori decisivi nel miglioramento delle prestazioni cognitive un innalzamento del livello di attivazione e una variazione positiva dell’umore, in linea con le ipotesi confermate da Thompson et al. (2001) e Nantais e Schellenberg (1996).

 Questi ultimi alla musica di Mozart avevano affiancato l’ascolto di un brano di Stephen King, notando come le prestazioni dei soggetti fossero sì prodotte da un’attivazione superiore rispetto a quella del gruppo di controllo ma anche discriminabili in base alla preferenza soggettiva nei confronti dei due differenti stimoli sonori. La letteratura scientifica giudica, quindi, poco plausibile il modello elaborato da Rauscher, privilegiando invece aspetti più generali che indicano come il contatto con stimoli capaci di sollecitare un aumento dell’arousal e un miglioramento del tono dell’umore possa favorire la buona riuscita in compiti di intelligenza cognitiva. Barbato et al. (2007) esprimono un sostanziale accordo con le altre ricerche ma propongono uno spunto di riflessione ulteriore, poiché i loro soggetti sperimentali mostrano un arousal più elevato, sebbene in misura statisticamente non significativa, dopo l’ascolto di Mozart rispetto a un brano jazz.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: NEUROPSICOLOGIA

Potrebbe essere interessante approfondire se una sorta di Effetto Mozart minore sia riconducibile alle caratteristiche melodiche e armoniche di quella musica, capaci di coinvolgere in modo più sensibile le aree cerebrali deputate al controllo dell’arousal e dell’umore.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

MUSICA – INTELLIGENZA – NEUROPSICOLOGIA 

 

BIBLIOGRAFIA:

Recensione: Rigliano, Ciliberto & Ferrari (2012) – Curare i Gay?

Curare I Gay? - Copertina del Libro. Raffaello Cortina Editore
Rigliano, Ciliberto & Ferrari (2012). Curare I Gay? Oltre l’Ideologia Riparativa dell’Omosessualità – Copertina del Libro. Raffaello Cortina Editore

Recensione: Rigliano, Ciliberto & Ferrari (2012). Curare i Gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità. Milano: Raffaello Cortina. 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: LGBT – LESBIAN, GAY, BISEX AND TRANSGENDER

Dal 2012, tra gli scaffali delle librerie Cortina, è possibile trovare un titolo che difficilmente manca di procurare emozioni contrastanti in chi lo legge.

Davanti agli occhi del potenziale lettore, mentre passeggia per la libreria alla ricerca di un titolo che possa suscitare il suo interesse, si materializza una scritta: Curare i Gay?

Come una sfida, questa semplice domanda obbliga a prendere il libro in mano e a prepararsi a sostenere o controbattere un interrogativo che non lascia indifferenti. Poi la lettura del sottotitolo inizia a dipanare la voluta ambiguità iniziale e inizia a chiarire l’opinione degli autori, “Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità”; ma si sbaglierebbe chiunque pensasse di avere davanti un libro che voglia difendere solo un’opinione “pro omosessualità”.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

Infatti Paolo Rigliano, Jimmy Ciliberto e Federico Ferrari raccontano con cura quella parte del mondo omosessuale che raramente sale alla ribalta dei giornali e delle televisioni (limitata a qualche sporadica manifestazione che non riesce mai a fornire un quadro comprensibile della situazione) e che vede confrontarsi tre schieramenti: i sostenitori delle terapie riparative, quelli delle terapie della conversione identitaria e quelli delle terapie affermative.

Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile. - Immagine: © beaubelle - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile.

La domanda Curare i gay? , come il più classico dei test proiettivi, suscita una reazione diversa a seconda dell’orientamento sostenuto.

Un sostenitore della terapia riparativa potrà prendere in mano il libro esclamando <Si può fare!> con la verve di Gene Wilder in Frankenstein Junior, ma senza il suo umorismo e la sua geniale capacità di prendere sul serio anche le cose più assurde. Sosterrà che si deve curare l’omosessualità come si curano gli attacchi di panico o la depressione e forse la lettura di questo libro potrà aiutarlo a modificare il proprio bisogno di curare un orientamento sessuale che non viene considerato più un disturbo dal 1973 e che vorrebbe curare con un metodo che da 12 anni le associazioni psicologiche definiscono “non etico” (APA, 2000, 2009).

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SESSO – SESSUALITA’

Un sostenitore della terapia della conversione identitaria prenderà in mano il libro condividendo l’idea che l’omosessualità non sia una malattia, ma pensando, in nome del costruttivismo, che i pazienti possano provare sofferenza per qualunque ragione e che sia corretto aiutare chiunque lo desideri a diventare dell’orientamento che sostiene di preferire.

 Cosa cambia rispetto ai sostenitori della terapia affermativa?

I sostenitori della terapia di conversione identitaria trovandosi ad accogliere un paziente omosessuale inizieranno a lavorare sull’orientamento sessuale del paziente, mentre i sostenitori della terapia affermativa procederanno all’analisi della domanda nella ricerca del come e del perché il paziente sia arrivato in terapia con la richiesta di voler diventare eterosessuale e lo faranno facendo attenzione ad usare un linguaggio non eterosessista, provando così a costruire in terapia quella che gli autori definiscono “una cornice di liberazione dall’autoinvalidazione”.

Intervista al Dott. Paolo Rigliano
Guarda L’Intervista di State of Mind al Dott. Paolo Rigliano.

Sono metodologie di lavoro che fanno la differenza tra un lavoro commerciale ed un lavoro etico.

Come osservato da Lingiardi e Nardelli in un’intervista del 2011 a 958 psicologi del Lazio, alla domanda <se un paziente omosessuale esprimesse disagio rispetto al proprio orientamento sessuale (“omosessualità egodistonica”), pensa che possa essere utile un intervento psicologico rivolto alla modificazione dell’orientamento sessuale?>  il 2% degli psicologi risponde <Si, sempre o quasi>, il 41% risponde <Si, ma solo nel caso in cui sia il paziente/cliente a chiederlo> ed il 57% risponde <No>.

Si può sperare che il 43% degli psicologi che ha risposto <Si> leggendo questo bellissimo libro di Paolo Rigliano, Jimmy Ciliberto e Federico Ferrari possa scoprire qualcosa di nuovo di un mondo che non è facile conoscere e che questi tre autori hanno avuto la sensibilità e la professionalità di raccontarci.

E se non fosse abbastanza chiaro, alla domanda Curare i gay? la risposta giusta è NO

LEGGI GLI ARTICOLI SU: 

LGBT – LESBIAN, GAY, BISEX AND TRANSGENDER – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA –  SESSO – SESSUALITA’

 

APPROFONDIMENTO: 

Report of the American Psychological Association Task Force on Appropriate Therapeutic Responses to Sexual Orientation 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Rigliano, P., Ciliberto, J. Ferrari, F. (2012). Curare i gay? Oltre l’ideologia ripartiva dell’omosessualità. Milano: Raffaello Cortina. ACQUISTA ONLINE
  • Lingiardi, V., Nardelli, N. (2011). Psicologi e omosessualità. Notiziario dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, 3/2010-1/2011: 17-29.
  • American Psychiatric Association (2000). Position statement on terapie focused on attempts to change sexual orientation (reparative or conversion therapies). American Journal of Psychiatry, 157(10): 1719-1721. (READ FULL ARTICLE)
  • American Psychological Association (2009). Report of the American Psychological Association Task Force on Appropriate Therapeutic Responses to Sexual Orientation. American Psychological Association, Washington, DC. (READ FULL ARTICLE)

Strategie Mnestiche nel Trattamento della Depressione

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una specifica strategia mnestica per aiutare i pazienti con depressione nel recupero dei ricordi delle esperienze positive nella loro vita.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: DEPRESSIONE

Una nuova ricerca pubblicata su Clinical Psychological Science propone – supportandola con dati di efficacia- una specifica strategia mnestica per aiutare i pazienti con depressione nel recupero dei ricordi delle esperienze positive nella loro quotidianità.

Già precedenti studi hanno sottolineato che l’essere in grado di recuperare ricordi concreti e dettagliate legati a emozioni positive promuove l’innalzamento del tono dell’umore dei pazienti con depressione: sembrerebbe che questo tipo di ricordi vividi, dettagliati e quotidiani siano in qualche modo offuscati in coloro che soffrono di depressione.

Come i ricordi influenzano le emozioni. - Immagine: © adimas - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Come i ricordi influenzano le emozioni

In questo nuovo studio i ricercatori si sono chiesti se un metodo molto noto nell’ambito della psicologia generale, il Metodo dei Loci, potesse essere efficace nell’aiutare i pazienti con depressione a richiamare alla memoria con maggiore facilità i ricordi di esperienze postive quotidiane. Il metodo dei loci classico consiste nell’associare specifici items target da ricordare a oggetti o a luoghi: nel momento del recupero mnestico dunque, si immaginano i diversi luoghi lungo uno strada o una sequenza di oggetti richiamando quindi anche le memorie precedentemente associate ad essi.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: MEMORIA

Nello studio è stato chiesto ai pazienti depressi di identificare 15 ricordi a valenza positiva; a un gruppo è stato prescritto il metodo dei Loci per creare associazioni specifiche tra oggetti-luoghi e ricordi, mentre al gruppo di controllo è stata indicata una strategia più generica di rehearsal. Dopo il periodo di pratica, a brevissimo termine i due metodi si sono dimostrati entrambi efficaci: tutti i partecipanti sono stati in grado di ricordare i 15 ricordi inizialmente identificati. Il punto interessante è che con il passare del tempo si notano fenomeni differenti: a lungo termine, dopo una settimana di pratica continuata a casa, i pazienti che avevano utlizzato il metodo dei Loci ricordavano in misura significativamente maggiore le 15 esperienze positive rispetto ai pazienti del gruppo di controllo.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: PSICOLOGIA POSITIVA

 Quindi lo studio dimostra l’efficacia applicativa in ambito autobiografico del Metodo dei Loci in quanto intervento mnestico efficace per pazienti con depressione. Peccato che lo studio non abbia valutato l’andamento sintomatologico in relazione a questo effetto mnestico, e interessante sarebbel’indagine del processo di regolazione emotiva sottostante.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

DEPRESSIONE – MEMORIA – PSICOLOGIA POSITIVA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Colloquio Psicologico: Cosa Fare nel Primo Colloquio #2


Il Colloquio Psicologico- Cosa Fare nel Primo Colloquio #2. -Immagine: © Sergio Hayashi - Fotolia.comIL PROBLEMA NELLO SPAZIO

E NEL TEMPO

 LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

“Il guerriero non ha dubbi: segue una formula infallibile.

 <Dai frutti, conoscerai l’albero,> ha detto Gesù. Egli segue questa regola, e non sbaglia mai.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.64]

Lo psicologo ricerca connessioni tra ciò che vede e ciò che è stato detto, cioè osserva. Queste osservazioni costituiscono lo scheletro delle ipotesi sperimentali per la definizione, accordata con il paziente, del problema. Da queste prime osservazioni, legate anche all’intuito e all’esperienza del professionista, è necessario formulare nuove domande, esplorare più a fondo il problema, per trovare nuove informazioni, per cambiare o confermare le proprie intuizioni. In questa fase esistono due campi fondamentali in cui testare le proprie osservazioni e che possono offrire una grande quantità di nuove informazioni: lo spazio e il tempo. Queste costituiscono le due principali categorie di Aristotele e le due dimensioni nelle quali il problema deve essere affrontato.

Il Colloquio Psicologico - Il Colloquio di Motivazione. - Immagine: © Ivelin Radkov Fotolia.com
Articolo Consigliato: Il Colloquio Psicologico – Il Colloquio di Motivazione

Fare domande che permettano un’ analisi del problema nello spazio vuol dire cercare di comprendere in quali situazioni e in quali condizioni contingenti questo si manifesta o, se è pervasivo, in quali condizioni acquista una maggiore intensità. La relazione tra le variabili ambientali e le caratteristiche del disturbo può dire molto sulla sua entità ma anche sul modo attraverso il quale può essere affrontato. Possono essere così individuate le contingenze di rinforzo che stimolano il comportamento. In questa indagine non bisogna fermarsi all’analisi di fattori esterni all’individuo. Anche le emozioni e i pensieri che contraddistinguono quei momenti sono importanti per conoscere come i tre canali comunicativi sono associati tra loro e per avere una visione completa delle dinamiche disturbanti.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: COLLOQUIO PSICOLOGICO

Allo stesso modo l’analisi del problema nel tempo permette al counselor di ricostruire la storia del disturbo cogliendone l’origine. Si può giungere a comprendere quali eventi o pensieri hanno condotto il paziente a sviluppare un comportamento problematico e quali rinforzi hanno agito su di esso. Queste osservazioni ci permettono di osservare con maggior chiarezza cosa si trova dietro alle associazioni attuali tra la messa in atto del comportamento o il suo livello di intensità e le variabili ambientali che le determinano.

La storia del problema comprende anche richieste sui tentativi effettuati dal cliente per affrontare il problema e sul modo in cui sono falliti, attraverso le quali si può ulteriormente definire il rapporto tra il paziente e il proprio disturbo.

Queste informazioni sono fondamentali se si vuole raggiungere un quadro descrittivo completo del problema del cliente. Queste ci permettono di confermare o cambiare le prime osservazioni raggiungendo nuove associazioni che portano il terapeuta ad una propria definizione del problema.

LA DEFINIZIONE DEL PROBLEMA

“Questo è il Cammino del Cavaliere: un cammino facile e, nello stesso tempo, difficile, perché obbliga a tralasciare le cose inutili, e le amicizie marginali. Perciò, all’inizio, si esita lungamente prima di seguirlo.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.102]

In base alle descrizione del cliente, alle informazioni  tratte dai primi momenti del colloquio e ad un analisi del problema nello spazio e nel tempo, lo psicologo raggiunge una sua prima definizione del disturbo. Questa definizione dipende principalmente dall’orientamento teorico del terapeuta e può essere in contrasto con quella presentata dal cliente. Dal momento che è utile lasciare la conduzione del colloquio nelle mani del cliente, per favorire l’instaurarsi della fiducia e la scoperta indipendente di nuove prospettive, la definizione che possiede il terapeuta non deve essere presentata immediatamente.

Inizialmente il colloquio si orienta a seguire il problema come lo vede il paziente e carpire informazioni su come il soggetto vive il rapporto con esso. Questo evita inoltre il rischio di affrettare la conclusione permettendo di approfondire i dati sul problema prima di negoziare la definizione.In questo modo dopo le prime osservazioni, e grazie al proseguimento del colloquio guidato dal cliente, il terapeuta può effettuare domande per approfondire alcuni argomenti che portano a nuove associazioni e che permettono di chiarire ulteriormente il problema. Ciò conduce alla formulazione dell’ipotesi sperimentale, che dovrà essere verificata attraverso il colloquio e che è la base per la diagnosi del cliente.

Storie di terapia #12: La gelosia della bella Caterina. Immagine - © Antonio Gravante - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Storie di Terapia #12: La gelosia della bella Caterina.

In questo modo lo psicologo approfondisce la sua conoscenza del problema e perfeziona la sua definizione. Tuttavia il problema aperto rimane quello di presentare al cliente una definizione diversa dalla propria. E questo ostacolo non è superabile se non dopo che un corretto rapporto di fiducia sia stato instaurato e comunque non può essere affrontato in modo diretto.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ALLEANZA TERAPEUTICA

La possibilità di cambiamento della definizione del problema non deve essere imposta ma viene raggiunta dallo stesso cliente attraverso esperienze di insight in cui, sulla base delle informazioni strategicamente trasmesse dallo psicologo al momento opportuno, scopre la presenza di diverse prospettive e di diversi punti di vista. Se vi è fiducia questa esperienza di insight costituisce l’origine di un processo di negoziazione che conduce all’accordo tra le sue aspettative e le valutazioni del terapeuta riguardo la definizione del problema.

“Il guerriero della luce conosce l’importanza dell’intuizione. […] Ma il guerriero sa che l’intuizione è l’alfabeto di Dio”.

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.65]

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: IN TERAPIA

ESPERIENZE TERAPEUTICHE PRECEDENTI

Se il paziente è stato inviato da un ente o da un altro professionista si possono ottenere molti dati rilevanti informandosi sull’andamento e sui risultati ottenuti nel corso delle precedenti terapie. Anche nel caso che il paziente venga di sua spontanea volontà si può chiedere se ha già effettuato altre terapie.

Può capitare che sia il paziente a fare spontaneo riferimento a terapie precedenti e può mostrare sia un comportamento ostile che adulatorio nei confronti di queste. Lo psicologo ha il compito di rimanere calmo e neutrale in entrambe le occasioni, senza sostenere il paziente o cedere alle sue provocazioni. In seguito all’esperienza accumulata in precedenti terapie questi può anche assumere l’atteggiamento da esperto parlando in gergo tecnicistico. In tal caso la migliore reazione è quella di riformulare ciò che dice in termini comuni senza imporre forti negazioni.

Quello che interessa al terapeuta è quello di valutare l’andamento della terapia e i motivi per cui è terminata e quindi perché il paziente si trova lì in quel momento. Inoltre le osservazioni di altri colleghi possono essere sempre importanti. Per questo sapere che colloqui psicologici sono già stati svolti offre allo psicologo la possibilità di avere contatti con persone che hanno conosciuto il paziente ed ampliare la sua base di conoscenze.

LEGGI ANCHE: 

ALLEANZA TERAPEUTICA – IN TERAPIA – COLLOQUIO PSICOLOGICO

 LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Recensione: Jan Philipp Sendker – I Battiti del Cuore

 

Recensione: Jan-Philipp Sendker – L’Arte di Ascoltare i Battiti del Cuore & Gli Accordi del Cuore – Neri Pozza

“Come possiamo dire di conoscere le persone che abbiamo accanto?”

 

Recensione: Jan Philipp Sendker - I Battiti del Cuore. - Immagine: © Neri Pozza Editore
Jan Philipp Sendker – “Gli Accordi del Cuore” & “L’Arte di Ascoltare i Battiti del Cuore”. © Neri Pozza Editore.

Nel romanzo di Sendker “Gli accordi del cuore” Julia  è tormentata da una voce interiore che le pone domande imbarazzanti sulla sua vita, apparentemente di successo, in realtà solitaria ed infelice. 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Julia Win, protagonista di entrambi i romanzi, nel primo “L’arte di ascoltare i battiti del cuore” si trova a dover risolvere il mistero della scomparsa, imprevista ed immotivata, del padre.

Tin Win, questo il suo nome, avvocato di successo, marito fedele e padre premuroso, è scomparso improvvisamente, in un giorno qualsiasi di quattro anni prima, senza lasciare traccia, nè un cenno di commiato, niente che possa spiegare alla figlia questa sparizione.

Da allora sono passati quattro anni e Julia non si dà pace, specie dopo aver ritrovato casualmente, ordinando una soffitta, una struggente lettera d’amore indirizzata ad una donna in Birmania, paese d’origine del padre emigrato negli Stati Uniti molti anni prima.

Julia parte per la Birmania, alla scoperta dell’infanzia e della giovinezza  del padre e là, a Kalaw, incontra un uomo, anziano e malato, che le racconta la verità  e la storia di un grande amore.

 

“Ci sono ferite che il tempo non sana ma che rende così piccole da consentirci, alla fine, di continuare a vivere”

 

Nel romanzo di Sendker “Gli accordi del cuore” Julia  è tormentata da una voce interiore che le pone domande imbarazzanti sulla sua vita, apparentemente di successo, in realtà solitaria ed infelice.

Temendo una qualche forma di schizofrenia Julia si fa visitare da uno psichiatra, poi si accosta alla pratica buddista, ma la voce non sparisce anzi, insiste a chiedere.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: PSICOSI

Aimee Bender, L’inconfondibile tristezza della torta al limone. Recensione. - Immagine: © minimum fax
Articolo Consigliato: Aimee Bender. L’inconfondibile tristezza della torta al limone. – Recensione

Così decide di partire per la Birmania e di tornare a Kalaw, dove abita il fratellastro che non incontra da oltre dieci anni e,  attraverso il racconto di un’altra storia familiare intensa, coinvolgente e anche molto dolorosa, curerà le proprie ferite e scoprirà le infinite opportunità dell’amore.

I romanzi di Sendker Non sono letture per chi voglia rimanere saldamente ancorato ad una visione razionale e logica della vita e della realtà.

Chi legge Sendker deve spogliarsi dello scetticismo tipico della cultura occidentale e anche di alcune pretestuose sicurezze: che la vita di una persona, ad esempio, abbia un senso nella misura in cui è orientata verso obiettivi quali successo e denaro, oppure  che ogni esperienza sia spiegabile, controllabile e che possa certamente essere cambiata con l’uso esclusivo della volontà individuale, oppure che sia sempre possibile evitare, negare o compensare la sofferenza.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

La piacevolezza della lettura di Sendker sta nel non trattarsi di una riflessione teorica, ma di un’avvincente storia la cui protagonista, brillante avvocato newyorkese in carriera, è più scettica del più materialista dei lettori e, dunque, noi viviamo con lei i passaggi da un atteggiamento incredulo, talvolta ironico, fino alla resa.

Siamo costretti, nostro malgrado e  con sottile ansia, a confrontarci con l’idea dell’obbedienza, che diventa rassegnazione, che diventa impotenza.

 

 Siamo stupiti e un po’ sprezzanti quando l’irrazionale diventa irragionevole e la superstizione prende il sopravvento ma nessuno si ribella, anche quando condiziona pesantemente le relazioni familiari e, per esempio, trasforma in rifiuto lo spontaneo accudimento di una madre verso il proprio figlio.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

Siamo sorpresi e un po’ angosciati  dall’idea, tutta orientale, che le cose capitano e che non tutto sia comprensibile nei termini di responsabilità individuale. L’idea di destino, che per certi versi ci sgomenta umiliando il nostro mito del controllo assoluto, alla fine ci rassicura togliendoci in parte la colpa per l’esito delle nostre vicende umane.

Ma accettazione dell’inevitabilità del dolore dell’esistenza non equivale a passività, tutt’altro. In entrambi i volumi sono raccontate storie di disgrazie incredibili da cui i personaggi si risollevano con la forza dell’amore, che è il vero protagonista della storia.  

Stoner_di_John_Williams - Copertina
Articolo Consigliato: Stoner di John Wiliams – Recensione

E sembra di poter dire che l’atteggiamento di fronte alle avversità possa essere duplice: o quello di opporvisi fieramente, rischiando di essere travolti dall’impatto con la propria impotenza, oppure quello simile al surfista che vede venirsi incontro un’onda gigantesca e la accoglie, cavalcandola.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: MEDITAZIONE

Qui esiste un destino, una vocazione, un sentiero più o meno tracciato che possiamo rendere un po’ più comodo attraverso le varie forme della consapevolezza e dell’accettazione: la meditazione, la compassione e, soprattutto, l’amore.  Sono questi, infatti, gli strumenti che alimentano la gioia di vivere e che attuttiscono e rendono sopportabile la sofferenza nelle sue ampie manifestazioni: il dolore del distacco, l’abbandono, l’handicap, la vecchiaia, la morte. L’uso della consapevolezza amplia l’orizzonte entro cui considerare l’importanza di ogni vita che rimane, anche la più misera, comunque un dono.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ACT – ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

Il dolore c’è, inevitabile, la sua origine sta nell’avidità dell’attaccamento, non avere ciò che si desidera, o nell’avversione, troppa vicinanza a ciò che non si desidera, o nella lotta per cercare di cambiare quello che non può essere cambiato.

Due libri pervasi di misticismo e di umanità, di sentimenti intensi e resa nel dolore; un’altra prospettiva, ma ne vale la pena.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

RECENSIONI DI STATE OF MIND – PSICOSI – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – RAPPORTI INTERPERSONALI – MEDITAZIONE – ACT – ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

BIBLIOGRAFIA:

Cosa Esprime il Pianto dei Neonati?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Dai movimenti oculari e facciali lattanti e il pianto dei neonati, si può discriminare se un bambino ha fame, rabbia, paura o dolore.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: BAMBINI

Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Spanish Journal of Psychology, osservando i movimenti muscolari oculari e facciali di neonati e lattanti e il pianto dei neonati, si è in grado di discriminare se un bambino ha fame, rabbia, paura o dolore. I ricercatori dell’Università di Valencia, l’Università di Murcia e della National University of Distance Education hanno analizzato a livello osservativo i patterns di pianto di 20 bambini di età compresa fra i tre e i diciotto mesi.

Dare Significato alle Esperienze. Come si Sviluppa la Capacità Metacognitiva. - Immagine: © chocolates4me - Fotolia.com
Articolo consigliato: Dare Significato alle Esperienze. Come si Sviluppa la Capacità Metacognitiva.

Dallo studio è emerso che le principali differenze tra gli stati emotivi e fisiologici provati dai piccoli si manifestano sia attraverso specifici patterns espressivi a livello facciale in combinazione con la dinamica del pianto dei neonati.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ESPRESSIONI FACCIALI

Chiaramente, il pianto dei neonati è la modalità elettiva per i cuccioli di uomo per comunicare le emozioni negative. Ecco secondo la ricerca i tre diversi patterns espressivi relativi agli stati emotivi e fisiologici dei lattanti:

  • Rabbia: la maggior parte dei bimbi presenta gli occhi semi-chiusi, la bocca è completamente aperta o aperta per metà, e l’intensità del pianto dei neonati aumenta progressivamente.
  • Paura: gli occhi rimangono aperti e spalancati per la maggior parte del tempo, la testa tende a muoversi all’indietro e il pianto è immediatamente esplosivo.
  •  Dolore: gli occhi sono costantemente chiusi (o aperti solo per pochi istanti), si osserva tensione muscolare elevata nell’area oculare e la fronte è corrugata. Il pianto dei neonati inizia subito in modo molto intenso, iniziando improvvisamente e immediatamente a seguito dello stimolo doloroso.

Raccomandiamo però prudenza, non si tratta di certezze – come qualsiasi espressione non verbale anche degli adulti – bensì di indizi inferenziali con un elevato margine di opacità.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

BAMBINI – ESPRESSIONI FACCIALI 

 

BIBLIOGRAFIA:

EABCT Scientific Advisory Board: Aumenta la Presenza degli Italiani

 

EABCT

European Association for Behavioral Cognitive Therapies

Aumenta la presenza italiana nel Comitato Scientifico dell’associazione europea per la

Terapia Cognitivo-Comportamentale

 

Marzo 2013 porta delle piacevoli novità in campo internazionale. I ricercatori e psicoterapeuti italiani vedono infatti aumentare di molto la loro presenza nel comitato scientifico della EABCT. E’ della scorsa settimana infatti la delibera che vede ben 5 italiani nominati all’interno del Scientific Advisory Board dell’Associazione Europea per la Terapia Cognitivo-Comportamentale: 

Giovanni LiottiGiovanni Liotti è stato nominato referente nell’area Attachment and Evolutionary Psychopatology.

 

 

 

 

31 - Sandra Sassaroli - STATE OF MIND & Studi Cognitivi - EABCT 2012 Genève. Pictures from the Congress - © 2011-2012 State of Mind All rights reservedSandra Sassaroli è stata nominata referente per l’area Eating Disorders.

 

 

 

 

Francesco Mancini - Psichiatra PsicoterapeutaFrancesco Mancini è stato nominato referente per l’area OCD (Obsessive-Compulsive Disorder).

 

 

 

 

Antonio Semerari

Antonio Semerari è stato nominato referente per l’area Personality Disorders.

 

 

 

 

Antonio PintoAntonio Pinto è stato nominato referente per l’area Psychosis.

Ricordiamo anche che Pinto, già membro del Board of Directors EABCT e Congress Coordinator, è il primo promotore degli Specialized Interest Groups (SIG): gruppi di ricerca internazionali su specifiche tematiche che permetteranno agli psicoterapeuti di tutta Europa di collaborare nella ricerca attraverso il web.

 

Un futuro quindi molto promettente e interessante per la ricerca in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale e l’apporto che l’ottima ricerca italiana può e potrà dare.

Per ora è tutto, aspettando Marrakesh 2013!

VAI ALLA SEZIONE EABCT 2012 GINEVRA

 

 

Monografia ACT #5 – Quale maschera indossiamo?

Monografia ACT #5 –

Quale maschera indossiamo?

PARTE 5 di 7

LEGGI: INTRODUZIONE – PARTE 4

Monografia ACT – parte 5 - Quale maschera indossiamo?. -Immagine: © olly - Fotolia.comCiò che l’ACT promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo attento e consapevole (potremmo dire meta-cognitivo) di (auto)riflessione della propria esperienza MENTRE avviene.

LEGGI LA MONOGRAFIA ACT

In questa puntata della mia monografia per State of Mind sull’ACT vorrei concentrarmi sul quarto processo, incluso nel macro-processo di mindfulness e accettazione: Il “Sé Concettualizzato”.

Potremmo definire il sé concettualizzato come un insieme di “fusioni” a definizioni di noi stessi che la mente di ognuno di noi ci racconta. Queste definizioni, solitamente, toccano aspetti nucleari e rilevanti per la definizione di sé e di sé-in relazione con gli altri. 

Quando questo processo è molto presente e dannoso, ci identifichiamo fortemente con i contenuti della nostra mente e, in particolare, con quei pensieri, immagini e ricordi disfunzionali che fanno sì che nella vita di tutti i giorni noi viviamo indossando la maschera che la nostra storia di vita ha costruito per noi.

Scopi Esistenziali e Psicopatologia. - Immagine: © Mopic - Fotolia.com
Articolo consigliato: (di Matteo Giovini) Scopi Esistenziali e Psicopatologia.

Ci sono varie forme che il sé concettualizzato può assumere nella nostra quotidianità. Alcuni tra le più frequenti possono essere le “etichette” che noi stessi ci diamo. Pensiamo, ad esempio, all’essere “il malato”, “lo sfortunato”, “l’imbranato” etc… . In altre occasioni il sé concettualizzato assume il contenuto di fissazioni rigide su specifici problemi, blocco che porta a non riuscire a cogliere l’evoluzione dell’esperienza. In altre occasioni ancora, il sé concettualizzato può essere caratterizzato da “fusioni” con alcuni aspetti di sé rigidi e astratti/valutativi.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

Alcune domande utili a individuare quanto il passato concettualizzato influenza il modo con cui noi stessi ci descriviamo e ci etichettiamo nel presente possono essere le seguenti (adattate da un training ACT Italia cui ho partecipato):

Che regole si porta dietro dal passato?

– Quando eri bambino, quali erano le emozioni “giuste” e quelle “sbagliate”, indesiderabili che non potevi provare?

– Da bambino, cosa ti dicevano in merito a come gestire le tue emozioni, soprattutto quelle spiacevoli?

– Quali emozioni si potevano esprimere liberamente nella tua famiglia?

– Quali emozioni erano scoraggiate o disapprovate?

– Nella tua famiglia, gli adulti come gestivano le loro emozioni negative/spiacevoli?

– Quali strategie di gestione (leggi: controllo) delle emozioni venivano utilizzate?

– Nella tua famiglia, gli adulti che reazioni avevano di fronte alle tue emozioni spiacevoli/negative?

– Come effetti di tale esperienza, quali idee/visioni/significati/rappresentazioni ti porti dietro sulle tue emozioni e su come gestirle?

Queste domande potrebbero essere un ottimo spunto di riflessione per comprendere ciò che le persone hanno imparato dalla propria storia personale e a quali “insegnamenti”, idee e convinzioni ha finito per credere.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: CREDENZE-BELIEFS

Per una descrizione più approfondita del sé concettualizzato, rimando all’articolo di State of Mind “Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo” .

Ciò che l’ACT suggerisce come controparte virtuosa del sé concettualizzato è Il Sé Come Contesto.

ACT-Acceptance and Commitment Therapy_ La soluzione è accettare. - Immagine:© Sergey Nivens - Fotolia.com
Articolo Consigliato: ACT-Acceptance and Commitment Therapy. La soluzione è accettare.

In breve, potremmo sostenere che il sé come contesto è un punto di vista nuovo, talvolta mai sperimentato, in cui impariamo a osservare la nostra esperienza interna ed esterna da un punto di vista privilegiato, cioè quello di un “osservatore partecipe, gentile, compassionevole e curioso” della propria esperienza.

Ciò che l’ACT promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo attento e consapevole (potremmo dire meta-cognitivo) di (auto)riflessione della propria esperienza MENTRE avviene.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: METACOGNIZIONE

Questo potrebbe portare a scoprire che noi stessi possiamo imparare ad osservare la nostra esperienza mentre avviene, a guardarla in modo curioso e allargare in questo modo l’orizzonte delle possibilità, delle scelte e riconoscere in questo modo quale è la maschera che indossiamo.

Mantenendoci dentro la maschera che indossiamo, potremmo pensare al Sé Come Contesto come ad un attore, che SA di essere un attore, SA di essere su un palco e che SA che una volta conclusa la storia messa in scena si può “uscire dal personaggio”, togliere la maschera e vivere le esperienze della vita nella loro interezza, in modo pieno e significativo, meno vincolato dalla propria storia e, soprattutto, SCEGLIENDO se seguire il “personaggio della sua maschera” (e comportarsi come se credesse alla storia del proprio sé concettualizzato) oppure no. 

Nell’ACT questo atteggiamento viene chiamato “consapevolezza di essere consapevole”, oppure “Coscienza dell’essere cosciente”.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: MINDFULNESS

E, a pensarci bene, tale abilità è ciò che caratterizza la pratica della mindfulness e che la rende qualcosa di pienamente diverso da quasi tutto il resto degli esercizi esperienziali e comportamentali presenti in psicoterapia…

 

LEGGI LA MONOGRAFIA ACT

LEGGI ANCHE:

CREDENZE-BELIEFS – MINDFULNESS – METACOGNIZIONE –  ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – PSICOTERAPIA COGNITIVA

 

Bullismo & Effetti in Età Adulta

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Non solo essere vittime di bullismo ma anche l’essere bulli aumenta la probabilità dell’insorgenza di depressione e ansia una volta maturati

LEGGI GLI ARTICOLI SU: BULLISMO

Essere vittime di episodi di bullismo da bambini è spiacevole nell’immediato, ma costituisce un fattore che aumenta il rischio di sviluppare un disturbo d’ansia oltre che nell’infanzia e nell’adolescenza anche nell’età adulta.

Questo è quanto suggerisce una ricerca pubblicata in questi giorni sull’autorevole JAMA Psychiatry. La cosa interessante è che secondo lo studio non solo essere vittime di bullismo ma anche l’essere bulli, ovvero essere i perpetratori di angherie nei confronti dei propri pari, aumenterebbe la probabilità dell’insorgenza di depressione e ansia una volta cresciuti.

1420 soggetti di età compresa tra i 9 e i 16 anni sono stati valutati da 4 a 6 volte nell’arco degli anni  e sono stati categorizzati in 4 gruppi: bulli, vittime, sia bulli che vittime nello stesso tempo, nessuna delle precedenti. Gli stessi soggetti sono stati poi sottoposti in età adulta (19, 21 e 24.26 anni) a colloqui diagnostici semi-strutturati con l’obiettivo di valutare alcune variabili di outcomes psicopatologico come depressione, ansia, disturbo di personalità antisociale, dipendenza da sostanze, etc.

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
Serie consigliata: “I comportamenti aggressivi dei bambini”

LEGGI GLI ARTICOLI SUL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’

I risultati indicano che il gruppo delle “vittime” e dei “bulli e vittime” presentano elevati rates disturbi psichiatrici da giovani adulti.

In particolare la categoria delle “vittime” nel passaggio dall’adolescenza alla giovane età adulta continuano a presentare in misura rilevante (più elevata prevalenza) disturbi quali agorafobia, disturbo d’ansia generalizzato, e disturbo da attacchi di panico; d’altro canto il gruppo “sia vittime che bulli”(una vittima che è diventata a sua volta bullo o che presenta nello stesso tempo comportamenti di bullismo) sarebbero invece a maggior rischio di disturbi depressivi, disturbi da attacchi di panico, agorafobia (solo nel caso delle femmine), con un aumento di rischio suicidario soltanto in relazione al genere maschile.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: BAMBINI & ADOLESCENTI

Contro ogni sorpresa, le analisi danno ragione al nostro volgare buon senso clinico, poichè per i bulli “duri e puri” vi sarebbe un maggior rischio di sviluppare un disturbo antisociale della personalità. L’accuratezza dello studio che ha seguito i soggetti per un periodo molto esteso di tempo dall’infanzia alla giovane età adulta, pone al centro il tema del bullismo in voga di questi tempi apportando consocenze specifiche in merito alle specificità del bullismo in quanto fattore di rischio a lungo termine per i disturbi psicopatologici.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

BULLISMO – DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’ – BAMBINI & ADOLESCENTI 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

L’Insostenibilità Neuroconcettuale della Fisica Teorica del ‘900 di Roberto Bertagnolio

Dott. Roberto Bertagnolio

L’Insostenibilità Neuroconcettuale della Fisica Teorica del Novecento

Roberto Bertagnolio spiega ai lettori di State of Mind la sua tesi sulla insostenibilità neuroconcettuale della fisica teorica del ‘900.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SCIENZE COGNITIVE

Immanuel kant è stato il primo a spostare lo spazio e il tempo dal mondo fuori di noi al mondo dentro di noi, ma Kant era un uomo del settecento, e a quel tempo non c’era né la neuroscienza né la psicologia cognitiva né la psicoanalisi né il materialismo (storico-dialettico) che storicizza i concetti, evita le universalizzazioni e permette le traslazioni epistemologiche.

Ora tocca a noi sradicare definitivamente dalla testa quelle che passavano come categorie dette trascendentali. Ora, dopo un secolo di Neuroscienza e di Psicoanalisi, sappiamo che queste categorie sono già una derivazione causata da un’anomalia evolutiva che riguarda la disconnessione simmetrica degli emisferi e su questa anomalia dualistica si installa un sistema psicoanalitico di rispecchiamento della stessa.

Bertagnolio_fig_2
Schema Percezione Coscienza in Freud

Questa anomalia porta a una discrepanza dualistica fra il soggetto e l’oggetto che percorre i millenni del pensiero Occidentale, dalla scienza presocratica alla quantistica. Conduce a bavagli psichici che stanno alla base della confusione cognitiva e sono presenti in tutta la fisica del 900, come il dualismo determinazioneindeterminazione, simmetricoasimmetrico, finito-infinito, materia-antimateria, RelativitàQuantistica, onda-particella eccetera. Il mio lavoro sperimentale si è svolto in 38 anni di insegnamento. Dall’Università popolare di Biella ai vari licei ed infine, con la concessione di un progetto speciale, ho avuto il privilegio di seguire negli anni ’90, presso l’Istituto Comprensivo di Cavaglià sez. di Cerrione (BI), anche gli alunni di prima elementare di classi multietniche, in particolare sul rapporto OggettiMentali e teoria degli insiemi, per sei anni. Mi sono convinto che tale teoria non è che  il riflesso della disposizione simmetrica-deterministica degli Oggetti Mentali, struttura base del pensiero*.

Bertagnolio_fig_3

Bertagnolio_fig_4

Tale struttura, attraverso passaggi complessi e poi c’è la traslazione dal simbolo al segno), conduce fino alle equazioni base della fisica.

 Ora, nell’ultimo periodo, sto lavorando sul concetto di Infinito, perchè sono convinto che il blocco neuropsichico alla base del concetto sia la vera causa delle confusioni fisiche, astrofisiche e cosmologiche attuali, e di tutti i problemi irrisolti che creano ambiguità logicointerpretative sia nella Relatività sia nella Quantistica. Si tratta in particolare del concetto di Entanglement[1]: Einstein è il primo a non essere convinto del concetto stesso. Innanzitutto non accetta l’idea che due fotoni viaggino in simultanea a miliardi di Km. di distanza, idea che presuppone l’esistenza di una velocità tendente all’infinito e questo metterebbe in discussione il limite “sacrale” della velocità della luce.

Einstein poi, assieme ad altri fisici, ritiene l’Entanglement un concetto inspiegabile (EPR)**. Questo resta il vero problema di fondo. Per la Relatività e per la Quantistica rimane il blocco psichico in relazione ad una energia “infinita”. Rimane cioè il limite neuropsichico in relazione al concetto di infinito. Limite derivante dalla disconnessione emisferica che impone bavagli cognitivi anche alla struttura matematica, non risolti con l’escamotage di Cantor[2] della corrispondenza biunivoca (pone in corrispondenza ad esempio numeri pari e numeri dispari).

Schema di C.

Bertagnolio_fig_5

Per la quantistica si pone un’ulteriore contraddizione: i “pacchetti” di energia finita, vale a dire i quanti, Planck li aveva progettati proprio per evitare ciò che riteneva assurdo cioè un’energia infinita (Teoria dei forni, corpo nero, Einstein-effetto fotoelettrico***), e su questo tabù è stata coniata la struttura dell’atomo di Borh, coi “salti energetici“.

Citiamo le parole sintetiche di Amiir D. Aczel: “Per esempio due fotoni emessi da uno stesso atomo quando il suo elettrone discende di due livelli di energia sono, come si dice in gergo, entangled. (i livelli energetici sono associati all’orbita di un elettrone nell’atomo). Sebbene nessuno dei due fotoni si muova lungo una direzione definita, la coppia verrà sempre individuata ai lati opposti dell’atomo. E simili fotoni o particelle, prodotti in un modo che li lega tra loro, rimarranno Entangled, cioè “accoppiati”, per sempre. Se si agisce su uno dei due fotoni, il suo “gemello”, ovunque si trovi nell’universo, reagirà a sua volta, istantaneamente”[3]. Per essere coerente a Planck, cioè alla negazione dell’energia infinita, Borh nel modello di atomo che costruisce, fa scindere con i “Saltidi energia finita un elettrone in due fotonigemelli“, perchè non può dare una spiegazione all’Entanglement con un concetto di energia infinita. Il concepimento delle particelle gemelle è la soluzione neuropsicologica legata all’anomalia emisferica, un escamotage per deviare l’ostacolo irrisolto dell’Infinito.

 LEGGI GLI ARTICOLI SU: SCIENZE COGNITIVE

*(i miei studi vedi PS )

**(EPR) Einstein-Podolshy-Rosen. Entanglement, una concettualità ambiguo cognitivamente per Relativisti, ma altrettanto ambigua è la spiegazione che danno i fisici quantistici. Partiamo solo da questa contraddizione evidente:formulazione di una concettualità che tende all’infinito, nata da “pacchetti” di energia concepiti come dimostrazione evidente dell’assurdità del concetto stesso di infinito.

*** Sia per quanto riguarda la teoria dei forni sia il corpo nero sia l’effetto Fotoelettrico affiora, nell’interpretazione della struttura della luce (tutto si complica quando ci sono di mezzo e Fotoni, in quanto si pongono distorsioni percettive enormi), un dualismo concettuale di fondo, assunto come “realtà”. Quest’assunzione da parte di Planck e di Einstein, di  un’onda continua o di una particella,*** è un’ulteriore conferma di una disconnessione emisferica alla base di tutto il pensiero occidentale, tendente alle concezioni dualistiche che in questo caso è un limite nei confronti del concetto di Infinito.

 

PS: I due schemi che si riferiscono e al pensiero logicosimbolico e al parallelismo fra la struttura degli insiemi e degli Oggetti Mentali, sono tratti dal mio saggio sui limiti neuropsicologici del pensiero occidentale in rapporto alle moderne fisiche e astrofisiche (Prefazione di Marco Pivato), ed. MJM Meda, 2011.

 

*** Questo dualismo merita un discorso a parte, perché sta alla base delle confusioni gnoseologiche del 900, anche se ha prodotto tanti premi Nobel.

 


[1]           Entanglement:due particelle separate anche da miliardi di Km, possono risultare collegate, qualunque cosa accada ad una accade istantaneamente anche all’altra.

[2]           Cantor –concetto di corrispondenza biunivoca-Schema

[3]           Amir D. Aczel, Entanglement, Raffaello Cortina editore, MI 2004, prefazione XVII.

La Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman. Seminario Avanzato parte 2

CRONACHE LONDINESI #3

 Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman

Seminario avanzato – Seconda parte.

 

La Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman. Seminario Avanzato parte 2 - Peter Fonagy
Peter Fonagy Ph.D durante l’intervista rilasciata a State of Mind presso l’Anne Freud Centre di Londra.

La MBT prevede una forte raccomandazione a intervenire, interloquire, interrompere il paziente, chiedere tanti chiarimenti, stimolarlo continuamente. Una tecnica molto attiva e al tempo stesso poco direttiva. Al paziente è lasciata sempre la scelta degli argomenti

LEGGI L’INTRODUZIONELEGGI LA PRIMA PARTE

Non ci sono molte novità in questo secondo giorno di corso avanzato di Mentalization Based Therapy (MBT). Ci si esercita guardando video, facendo simulate e discutendo in gruppo. Oppure ascoltando Fonagy e Bateman, che rifilano un altro paio di randellate al freudismo. Date le poche novità sarò breve, anche perché sono appena tornato in aereo da Londra e sono stanco morto.

ARTICOLI SULLA PSICOANALISI

Dicevo delle randellate. Fonagy dice chiaramente ed esplicitamente che la sua MBT non è una terapia psicodinamica. Lo hanno già detto ieri e lo ribadiscono. Mi chiedo: ma lo dicono tutti i giorni? Ancora una volta fa impressione sentire questo nell’Istituto Anna Freud. È davvero un segno del tempo che passa.

La cocaina, Freud e la lezione dei maestri. - Immagine: licenza Creative Commons, Autore: http://www.flickr.com/photos/ajourneyroundmyskull/
Articolo Consigliato: La cocaina, Freud e la lezione dei maestri.

Non basta. Fonagy ci racconta anche della sua supervisora di tanto tempo, una freudiana ortodossa dal forte accento viennese. Anche questo fa impressione: Fonagy, penso, ha fatto in tempo a entrare in contatto diretto con alcuni membri del gruppo storico di viennesi che, fuggendo dall’Austria occupata dal Terzo Reich, emigrò a Londra. Avrà anche conosciuto direttamente Anna Freud, Melanie Klein, Ernest Jones e poi Winnicot, Fairbairn, Balint e tutta la compagnia. Mi pare plausibile, e avrei voluto chiederglielo.

Però è stato meglio non chiederglielo, dato che il racconto di Fonagy è divertente e triste al tempo stesso. Questa supervisora era una piccoletta autoritaria che si sistemava su una sedia altissima e piazzava, terrorizzandolo, il supervisionato su una sedia bassissima. Dopodiché affliggeva il disgraziato con degli sprezzanti “What did you saaaayyyy?” con inimitabile accento viennese. E Fonagy conclude dicendo testualmente che in quella maniera imparò poco. Che come giudizio sulla formazione analitica ricevuta mi pare una bella mazzata.

E continua così: per tutto il corso ci sono distanziamenti dall’analisi. La MBT prevede una forte raccomandazione a intervenire, interloquire, interrompere il paziente, chiedere tanti chiarimenti, stimolarlo continuamente. Una tecnica molto attiva e al tempo stesso poco direttiva. Al paziente è lasciata sempre la scelta degli argomenti.

Non ci sono solo chiarimenti in questa terapia, però. Il terapeuta MBT può anche invitare a ipotizzare spiegazioni diverse sugli stati mentali propri e altrui. E in alcuni casi fa qualcosa che si chiama “challenging”.

Il “challenging” non mi è chiarissimo come concetto. Se ho ben capito il terapeuta fa “challenging” quando esprime un punto di vista differente sul contenuto o la congruenza di uno stato d’animo. Somiglia alla confrontazione di Kernberg e forse al disputing cognitivo, anche se Fonagy ci tiene a dire che non è la disputa cognitiva. La quale per lui è soprattutto la disputa logico-empirica alla Beck e non quella pragmatica ed emotiva di Ellis.

La Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman. Seminario Avanzato parte 2 - Antohny Bateman
Anthony Bateman presso l’Anne Freud Centre di Londra, codidatta di Fonagy nel corso avanzato di Mentalizazion Based Therapy

In conclusione, Fonagy propone un trattamento semplicissimo riassumibile in un unico intervento: invitare il paziente a mentalizzare, a saper riformulare tutto quel che riporta in forma di stato mentale, in modo da imparare a riconoscere la natura mentale e interna dei sentimenti intensissimi e dolorosi che mostra.

Inviti a riformulare diversamente sembano meno presenti. Fonagy privilegia il riconoscimento degli stati d’animo. Anche se poi il challenging è un invito a una visione diversa.

In conclusione, la MBT è una terapia che concepisce la psiche come elaborazione cognitiva e percezione cosciente emotiva. D’inconscio e di dinamico non c’è nulla. Mentre il transfert è ridotto a fenomeno interpersonale possibile tra i tanti che possono accadere, senza un valore particolare. Come poi lo stesso Fonagy ribadisce nell’intervista che ha concesso a State of Mind e che pubblicheremo a breve, la MBT non è una terapia analitica e nemmeno dinamica.

 

LEGGI L’INTRODUZIONE – LEGGI LA PRIMA PARTE

Psiche & Legge #6 – La Mente Esplode. Parola alle Neuroscienze

PSICHE E LEGGE #6

 Rubrica a cura di Selene PASCASI, Avvocato, Giornalista Pubblicista, Autrice

 

    La mente “esplode”.

Il delitto è frutto del volere criminale o del gene malvagio?

La parola passa alle Neuroscienze

LEGGI GLI ARTICOLI DELLA RUBRICA PSICHE & LEGGE

Psiche & Legge #6 - La Mente Esplode. Parola alle Neuroscienze. - Immagine: © konradbak - Fotolia.comPsiche & Legge #6 – Oggi andrò oltre, fino a tracciare un sentiero particolare, sul quale appronteranno passi importanti le neuroscienze.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: NEUROSCIENZE

Come si ricorderà, nelle scorse rubriche, ho affrontato le delicate tematiche inerenti la nozione di imputabilità, legata a quella di capacità d’intendere e di volere, e di pericolosità sociale del reo. Trattasi, è evidente, di questioni di estrema rilevanza nell’ambito di un processo penale, laddove l’accertamento del vizio di sanità mentale dell’assistito, deciderà le sorti della sentenza, sia in punto di trattamento sanzionatorio, che sotto il profilo dell’eventuale applicazione di misure di sicurezza.

È noto, difatti, come nell’ordinamento italiano, il presupposto essenziale per la perseguibilità del soggetto agente, sia il vaglio sul pieno possesso della cosiddetta “capacita di intendere e di volere”, al momento della commissione del delitto. Ed è noto, altresì, come con il termine “reato”, si intenda “l’atto criminale”, letto come comportamento espressamente punito a norma di legge, e perpetrato con intenzione delittuosa. Ebbene, se un individuo non imputabile non potrà mai ritenersi responsabile di un fatto doloso o colposo, andando esente da sanzione penale, sarà doverosa premura, quella di esaminarne con certosina attenzione, l’effettivo stato mentale, con riferimento all’istante in cui se ne sia accertata la perpetrazione dell’azione delittuosa.

PSICHE E LEGGE #5 - Chi è il “Pericoloso Sociale”?. -Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com
Articolo Consigliato: PSICHE E LEGGE #5 – Chi è il “Pericoloso Sociale”?

LEGGI GLI ARTICOLI SU: VIOLENZA

Così, se in precedenza, mi sono già occupata di chiarire il metodo mediante il quale taluno possa ritenersi, o meno, capace di intendere e/o di volere, l’odierno approfondimento, andrà oltre, fino a tracciare un sentiero particolarissimo, sul quale appronteranno passi importanti le novelle conoscenze scientifiche.

Nella corrente analisi, pertanto, si vuole dar risalto al ruolo, fondamentale, oggi rivestito dalle Neuroscienze, ambito scientifico cui gli operatori del diritto potranno fare affidamento – in aggiunta alle metodologie classiche, rinvenibili nei dettami del codice penale – per indagare sullo stato di infermità psichica del reo, quale condizione patologica, non necessariamente duratura, ma comunque in grado di elidere (vizio totale, art. 88 c.p.) o diminuire (vizio parziale, art. 89 c.p.) la capacità del soggetto. Può sostenersi, in altre parole, che l’evolversi del progresso scientifico, abbia plasmato il pensiero della giurisprudenza, guidandone i passi in un iter scandito, principalmente, da tre passaggi di rilievo: la nozione di infermità strettamente legata ai criteri nosografici, che la leggevano come vera e propria malattia del cervello o del sistema nervoso, la nozione di infermità psicologicamente orientata, ed, infine, quella connessa al dato sociologico, implicante valutazioni inerenti il contesto socio-culturale di appartenenza dell’individuo.

Di qui, l’affermarsi della tesi attuale, stesa sulla base di una sinergica ricostruzione delle tre descritte teorie, tanto da forgiarsi un modello di malattia mentale maggiormente elastico, e comprensivo – come sostenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione, con pronuncia n. 9163 del 25 gennaio 2005 – dei disturbi della personalità, purché caratterizzati da una gravità ed intensità tali da elidere o diminuire sensibilmente la capacità del reo.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: DISTURBI DI PERSONALITA’

Quanto precisato, però, lo si noti, nulla apporta di innovativo ai rilievi svolti in occasione degli altri appuntamenti di rubrica. Ciò che di nuovo si affaccia sullo scenario del processo penale – su cui è mio intento far riflettere – è quel qualcosa in più, cui la scienza e la giurisprudenza stanno rivolgendo attenzione, in maniera sempre più pregnante. Il riferimento, come anticipato, è alla “necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza”, imprescindibile al fine di accertare se, ed in quale misura, le condizioni psichiche dell’agente, possano averne guidato la mano criminale.

E’ in questo contesto, che può saggiarsi e apprezzarsi l’apporto delle Neuroscienze. Ma cosa intendiamo esattamente con tale termine? In via esemplificativa, possiamo definire le Neuroscienze, come scienze tese a studiare il rapporto esistente tra il funzionamento cerebrale, i sintomi psicopatologici propri del reo, e il comportamento delittuoso da questi posto in essere. Con il ricorso a tali conoscenze, si vuole vagliare, dunque, il grado di incidenza di specifiche e riscontrate alterazioni dell’attività celebrale – talora annunciate da sintomi psicopatologici, correlati in taluni casi a un’anomalia funzionale dell’encefalo – e la perpetrazione della condotta violenta. Le domande, allora, saranno molteplici. Quanto l’azione criminale è conseguenza della patologia, e quindi anche in una certa misura del patrimonio genetico del reo?

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: GENETICA & PSICHE

Quanto un omicidio è voluto, e quanto, invece, è dettato dal corredo genetico dell’assassino e/o da patologie idonee a compromettere la funzionalità dei lobi frontali, in conseguenza a traumi, a percorsi neurodegenerativi, o a specifiche caratteristiche biologico-genetiche? Quanto, infine, può aver influito l’uso di alcool da parte della donna, durante la gravidanza, sulle anomalie di sviluppo mentale e sulla marcata aggressività del bambino (in seguito reo), alla luce della cosiddetta Alcohol Fetal Syndrome (FAS)? E quali sono le metodologie cui è possibile ricorrere al fine di “frugare” nel cervello umano, per meglio comprendere il nesso esistente tra struttura cerebrale, funzionalità cerebrale, sintomi patologici e comportamento aggressivo?

Il ruolo della Suggestionabilità nelle Testimonianze del Minore. - Immagine: © N-Media-Images - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Il ruolo della Suggestionabilità nelle Testimonianze del Minore.

A fronte di questi e mille altri interrogativi, ne sovvengono ulteriori: è davvero possibile che il progresso scientifico sia in grado di leggere la mente e il cervello omicida e carpirne il “funzionamento”? L’individuo, è effettivamente dotato di una sorta di libretto di “istruzioni per l’uso”, recante anomalie e conseguenze delle stesse? Le scienze – avvalorate da pronunce di merito, su cui si tornerà a breve – offrono un responso positivo. Del resto, non si tratta, a ben ricordare, di un’impostazione del tutto nuova.

Basti pensare al fatto che i primi studi inerenti la correlazione tra i gravi turbamenti della personalità, ed i traumi cerebrali si rinvengono già a metà degli anni ottocento (cfr. caso Phineas Gage, descritto dal medico inglese Harlow). Viene da se, allora, come il progresso scientifico non sarà che un acceleratore del processo, già avviatosi tempo fa, imperniato sull’utilizzo di strumenti esplorativi del cervello (tomografia ad emissione di positroni, PET; risonanza magnetica strutturale, MRI e risonanza magnetica funzionale, fMRI).

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: NEUROPSIOLOGIA

Così, nell’esaminare “i perché” dell’atto criminale, si studierà, con riferimento al reo: a) la biologia dell’encefalo (anche in relazione ai geni potenziali originatori di atti aggressivi); b) la personalità (ambiti pertinenti alla psicologia e alla psichiatria forense); c) il contesto sociale. Fattori, quelli indicati, di imprescindibile valutazione per far luce sulla concreta “capacità di intendere e di volere” del criminale, alla stregua dei criteri offerti dal DSM-IV, prossimo alla sua quinta edizione, e dall’ICD-10 (decima revisione della classificazione ICD, classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati). Non solo. Quanto alla biologia del cervello, in campo forense è già frequente il ricorso alla risonanza magnetica cerebrale, tesa a scovare le cause delle disfunzioni comportamentali.

Viene da se, dunque, come diritto penale e scienza, non esclusa la genetica molecolare, debbano andare a braccetto in tale delicato settore. Imput, già recepito da attenta giurisprudenza. Si annoveri la nota sentenza emessa dalla Corte di Assise di Trieste (n. 5 dell’1 ottobre 2009), resa in linea con le innovative ed anticipate tecniche di indagine scientifica sulla psiche del criminale. Ad aprire il caso risolto dai giudici triestini, l’omicidio commesso, a seguito di un banale alterco, da un uomo a carico del quale venne riscontrata – a seguito di accertamento peritale – sia una patologia psichiatrica di tipo psicotico, connotata da episodi di delirio, che un rilevante disturbo della personalità.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOSI

Condizione per la quale l’imputato, pur riconosciuto parzialmente infermo di mente, non fu ritenuto meritevole di beneficiare altresì di uno sconto di pena. La difesa, nel contestare la decisione, gioca il jolly delle Neuroscienze. Al fine di dimostrare la sussistenza di una rilevante seminfermità mentale dell’assistito, era necessario – precisò l’avvocato – esperire un’indagine cromosomica sul patrimonio genetico del reo, da affidarsi ad esperti in genetica molecolare, ed in neuropsicologica clinica.

L’esito della perizia fu sconvolgente: il soggetto presentava polimorfismi genetici – allele MAOA (MAOA-L) – “colpevoli” di favorire reazioni eccessivamente aggressive, ed impulsive, ad eventi stressanti. Il suo corredo genetico, dunque, lo rendeva più vulnerabile, potenziandone l’emotività, a fronte di situazioni associate a contesti sociali sfavorevoli.

Sulla base delle risultanze ottenute, la Corte riduce di un anno la pena originariamente inflitta. Pena ridotta – va marcato – non già per la presenza di un “gene malevolo”, come è stato affermato in maniera fuorviante in talune occasioni – bensì per l’essersi avvalorata (grazie alle Neuroscienze) la prova della follia, seppur parziale, del criminale. A conferma, il Nuffield Council on Bioethics, Genetics and Human Behvior, è fermo, da tempo, nel sostenere come la presenza di un allele sfavorevole, sarebbe in grado di sollecitare una condotta violenta. Ancora, si potrebbe portare il caso della sentenza del Giudice per le Indagini Preliminari di Como, emessa maggio del 2011.

Le porte del processo, in quel caso, si spalancarono a seguito della condanna di una giovane donna, a venti anni di reclusione – inflitti con rito abbreviato – per il tentato assassinio della madre, e l’omicidio della sorella, i cui resti, carbonizzati, furono ritrovati due mesi dopo il delitto. Sottoposta a perizia, alla criminale venne riscontrato un vizio parziale di mente. Incapacità parziale accertata, però – lo si noti – non a seguito della somministrazione degli usuali test psichiatrici – bensì con ricorso alle accennate indagini neuropsicologiche, che evidenziarono la presenza di alleli significativamente associati “ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento”.

Gli esiti delle descritte perizie, dunque, non avevano fatto altro che avvalorare – vestendola di valore scientifico – l’ipotesi che le attività cognitive (controllo del comportamento, pianificazione, distinguo giusto/ingiusto), siano legate al funzionamento di specifiche strutture cerebrali, localizzate soprattutto nel lobo frontale. È in quella regione del cervello, pertanto, che risiederà la maggiore differenziazione tra soggetti sani e folli criminali, laddove una diversa densità dei neuroni, unitamente ad altri fattori, potrà segnare il passo tra l’azione coerente e quella delittuosa.

Disturbi-Frontali-e-Cognizione-Sociale. - Immagine: © robodread - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Disturbi Frontali e Cognizione Sociale

È agevole affermare, allora, nel chiudere le maglie della rubrica, come sia la pronuncia triestina, che quella comasca, gridino con forza l’esigenza che il sistema penalistico italiano, si allinei allo standard d’oltreoceano, sempre più proteso all’ingresso nel processo di specifiche indagini sulla condizione psichica del reo, condotte mediante le più evolute tecniche peritali (indagini cromosomiche, diagnosi descrittive, risonanza magnetica dell’encefalo).

Il legale dell’individuo autore di un delitto particolarmente cruento, dunque, potrà inserire nel bagaglio difensivo, l’opportunità di far ricorso a perizie neuro scientifiche, tese ad ottenere – dati alla mano – la comminazione di sanzioni adeguate all’effettivo stato mentale riscontrato nell’assassino all’atto di uccidere, stante l’eventuale presenza di anomalie genetiche e biologiche, idonee ad influire in maniera non indifferente, sulla perpetrazione del crimine. E se – come sostiene il Dott. Nicholas Mackintosh, professore di psicologia sperimentale all’Università di Cambridge – avere “un cervello psicotico non costituisce una difesa generica contro un’accusa di reati penali”, sarà consentito azzardare l’ipotesi del delinearsi, mi si permetta l’assunto, di una “nuova” imputabilità, disegnata su misura del singolo individuo sottoposto a processo.

LEGGI GLI ARTICOLI DELLA RUBRICA PSICHE & LEGGE

LEGGI ANCHE: 

 NEUROSCIENZE – VIOLENZA –  NEUROPSIOLOGIA – GENETICA & PSICHE – NEUROPSIOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Borderline Personality Disorder: An Emotional Cascade

Edward Selby, Ph.D. in Clinical Psychology
Francesca Martino, Cognitive Psychologist

 

“I’ve always felt these things. I don’t think there are any words that describe them exactly, but they are a combination of rage, anger, extreme pain. They mix together into what I call the Fury… I am starting to learn how to deal with it, but until recently, the only way I knew was through drinking and drugs. I took

something, whatever it was, and if I took enough of it, the Fury would subside. The problem was that it would always come back, usually stronger, and that would require more and stronger substances to kill it, and that was always the goal, to kill it”         

 

                                                                                                                                – James Frey, A Million Little Pieces 


 

Borderline Personality Disorder - An Emotional Cascade - State of Mind
Borderline Personality Disorder – An Emotional Cascade – State of Mind

Emotion dysregulation in BPD may then be a result of an intense use of rumination. Yet the tendency to ruminate on negative emotions increases them, which in turn increase levels of rumination, leading to a vicious and repetitive cycle, which is called an Emotional Cascade. 

READ ALL ENGLISH ARTICLES

Borderline personality disorder (BPD) is characterized by patterns of intense and negative emotions, interpersonal difficulties, and maladaptive impulsive behaviors. Emotional dysregulation and behavioral dyscontrol are central features of BPD (Linehan, 1993).

Emotional dysregulation includes intense emotional reactivity and sensitivity to stimuli, and slow return to emotional baseline. Research suggests that emotional instability may drive behavioral dyscontrol in BPD, including self-harm, aggression, substance use or binge eating. Although current research provides preliminary evidence for this model, specific mechanisms that cause emotion dysregulation and incite impulsive behaviors in BPD are still unclear.

Frank Yeomans: Understanding the BPD Mind (Interview)
Recommended: Interview with Frank Yeomans: Understanding the BPD Mind

Recently, the Emotional Cascade Model (ECM; Selby et al. 2008; 2009) has provided incremental understanding of BPD, especially with regard to the relationship between emotional and behavioral dysregulation. According to the ECM, rumination could play a central role in increasing negative emotions and in enhancing behavioral dyscontrol.  In detail, when people with BPD experience negative emotions they may automatically start to ruminate on them, with the intention of regulating such negative and unpleasant emotionality.  

It is already known that rumination is a maladaptive cognitive strategy to regulate affects and consist of thinking repetitively about the causes and consequences of negative emotional experience (Nolen-Hoeksema, 1991). Even though rumination has been demonstrated to increase negative emotions instead of reduce it, many people continue to do it because they believe, incorrectly, that re-thinking about events will increase their understanding of the situation and aid in problem-solving (Papageorgiou, 2001).

Emotion dysregulation in BPD may then be a result of an intense use of rumination. Yet the tendency to ruminate on negative emotions increases them, which in turn increase levels of rumination, leading to a vicious and repetitive cycle, which is called an Emotional Cascade. 

In order to ‘‘break-up’’ this loop, an individual may engage in behavior that distracts him/her from emotional thoughts. These behaviors may inhibit this cycle by allowing an individual to focus on the alternate physical and emotional stimuli associated with the behavior, such as taste or chewing in binge-eating, impulsive and aggressive actions toward someone, physical pain and sight of blood in self-harm. The results of engaging in one of these behaviors are effective in altering affect, even though the effects may only last for a short time, which explains why many of these behaviors may become habitual.  Following the behavior, individuals may experience another rumination cycle until later, resulting from shame or guilt for engaging in previous dyscontrolled behaviors (as in binging and purging).

The ECM has previously been studied in students with BPD traits (Selby et al 2008, 2009, 2012). In a cross sectional study, findings showed that general rumination (depressive and angry) was the mediator between negative emotions and behaviors, confirming its central role in leading impulsive and dyscrontrolled actions when people with BPD traits experience unpleasant feelings.  Moreover, in a longitudinal study, high levels of negative emotions and rumination have been found to predict impulsive behaviors after few hours from the events.

In conclusion, the ECM have been confirmed in healthy samples. Even dough maladaptive cognitive strategies to regulate emotions, such as rumination, have been found in BPD (Baer et al. 2011), their implication in behavioural dyscontrol still need to be proved in clinical population. Actually, in Italy a research aimed to investigate the ECM in BPD has been conducting.

READ ALL ENGLISH ARTICLES

 

 

 

REFERENCES:

 

Cibo, Restrizione Alimentare & Senso di Colpa

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il senso di colpa successivo all’aver mangiato troppo cibo incoraggia a rinnovare le promesse di sobrietà alimentare.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ALIMENTAZIONE

Sembra che le persone che si definiscono “a dieta” siano un gruppo complessivamente infelice: di solito infatti hanno un alto punteggio nelle scale di depressione e ansia e bassa autostima. Un nuovo studio fornisce un indizio sul perché.

Jessie de Witt Huberts ed i suoi colleghi hanno testato tre gruppi di studentesse e hanno identificato la categoria dei restrained eaters, cioè coloro che più spesso sono a dieta e che si preoccupano costantemente di ciò che mangiano. Questi mangerebbero in realtà tanto quanto gli altri ma sperimentando molto più spesso, soprattutto in relazione a mangiare, il senso di colpa. In sostanza, si tratta di persone continuamente preoccupate di fallire, che si privano coscientemente dei piaceri del cibo.

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia. - Immagine: © bobyramone - Fotolia.com
Articolo consigliato: La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA)

La ricerca si è svolta in tre studi che hanno seguito una procedura analoga. Decine di studentesse sono state invitate a un laboratorio per prendere parte a quella che pensavano fosse una degustazione di cibo per una catena di supermercati. Sono state lasciate sole per dieci minuti ad assaggiare un cibo ad alto e uno a basso contenuto calorico, come ad esempio patatine e frutta. Poi sono state interrogate sulle loro emozioni, compreso il senso di colpa, e sul loro atteggiamento nei confronti del cibo, tra cui la frequenza con cui sono a dieta e quanto spesso si preoccupano di quello che stanno mangiando.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ATTIVITA’ FISICA

I ricercatori hanno scoperto che i restrained eaters avevano mangiato tanto quanto gli altri partecipanti, sia in termini di quantità che di contenuto calorico; ciò che li differenziava era però lo stato emotivo sperimentato a seguito della degustazione, infatti questi si erano sentiti più colpevoli, soprattutto a causa della loro indulgenza nello sperimentare il cibo proposto.

I risultati sono insufficienti a stabilire una relazione causale tra l’essere un restrained eaters e il provare sensi di colpa, ma possono aiutarci a capire perché mangiatori più sobri tendono a soffrire di problemi psicologici e perché tendono a sviluppare abitudini alimentari problematiche. Sembra infatti che siano bloccati in un circolo vizioso in cui il senso di colpa successivo all’aver mangiato troppo probabilmente li incoraggia a rinnovare le loro promesse di sobrietà alimentare; il non riuscire a mantenerle rinforza il senso di colpa che sarà di volta in volta sempre più intenso.

Dato che il 45 % delle ragazze attualmente riferisce di essere a dieta, i ricercatori pensano che sia imperativo imparare di più sui restrained eaters e sugli esiti negativi del loro comportamento.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

ALIMENTAZIONE – ATTIVITA’ FISICA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il seminario avanzato della Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman

 

CRONACHE LONDINESI #2:

 Il seminario avanzato della Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman

Reportage dal Anne Freud Centre di Londra, dove si tiene in questi giorni il modulo Advanced del training della Terapia Basata sulla Mentalizzazione

Mentalization Based Therapy di Fonagy e Bateman - Advanced Course MBT - STATE OF MIND
Londra: la casa di Sigmund e Anne Freud, a pochi passi dal Anne Freud Centre, dove si tiene in questi giorni il modulo Advanced del training per la Terapia Basata sulla Mentalizzazione (MBT) di Peter Fonagy e Anthony Bateman.

LEGGI L’INTRODUZIONE ALLE CRONACHE LONDINESI

In questo inizio di seminario sulla MBT (Mentalization Based Therapy) Peter Fonagy ha ucciso Freud. E lo ha fatto nell’Anna Freud Institute, al numero 12 di Maresfield Gardens, una silenziosa strada di Londra. Siamo a pochi metri dal numero 20, dove Freud ebbe il suo ultimo indirizzo su questo pianeta, e nell’Istituto che porta il nome della figlia del padre della psicoanalisi e Fonagy ci dice che il modello pulsionale di Freud “has little evidence.

LEGGI GLI ARTICOLI SULLA PSICOANALISI

Lo fa durante una delle sue esposizioni delle basi teoriche della MBT, in cui, come spesso fa, Fonagy collega la mentalizzazione a ricerche neuroscientifiche e neuropsicologiche sull’apprendimento e sulla comunicazione. A mio parere questa tendenza di Fonagy a chiamare in soccorso i dati della neurologia e psicologia dell’apprendimento a favore della sua teoria non è tra le sue cose migliori. Mi paiono collegamenti un po’ forzati, sono più una cornice generale che prove a favore, ma lui tende a presentarle così, come conferme del suo modello.

Terapia Dinamica Interpersonale Breve. Lemma A., Target M., Fonagy P.. Raffaello Cortina Editore, 2012
Articolo consigliato: Terapia dinamica interpersonale breve – RECENSIONE

O forse proprio questo è l’obiettivo di Fonagy: collegare la sua teoria alle ricerche sull’apprendimento infantile e sganciarla definitivamente dalle teorie di Freud. In questo modo Fonagy si può permettere quel divorzio da Freud che era già intuibile qualche anno fa, quando avevo affrontato il primo livello del corso MBT. Tutto questo però lo avevo già sentito. È destino che a ogni seminario MBT io mi debba sorbire le chiacchiere che servono a Fonagy per liberarsi dell’ombra di Freud? A quanto pare si, e così se ne va l’intera mattinata.

Nel pomeriggio si fa finalmente un po’ di pratica. Però la si fa subito, senza preamboli. Non c’è quella spiegazione passo per passo della tecnica MBT che attendevo ardentemente. La tecnica è affidata al manuale: “Guida pratica al trattamento basato sulla mentalizzazione. Per il disturbo borderline della personalità di Anthony Bateman e Peter Fonagy, pubblicato da Cortina nel 2010. Altra fregatura.

ARTICOLI SUL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’

Ci fanno assistere a un video di Bateman in seduta con una giovane paziente. Con l’inglese me la cavo, ma comprendere i video (così come la TV o il cinema) è un’impresa peggiore che capire cosa dicono le persone in carne e ossa. Arrivo a capire che la signorina in questione è la solita border che litiga con mezzo mondo: madre, fidanzato ed ex-fidanzato. E Bateman che fa? Interloquisce spesso e chiede continuamente alla paziente chiarimenti. Cosa pensava, cosa sentiva, perché pensava di avere sentito questa emozione nell’incontro con la madre, perché pensava di avere sentito quell’altra emozione nell’incontro col suo ex, e cosa presumibilmente pensava e sentiva la madre e cosa presumibilmente pensava e sentiva il suo ex. E così via.

Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011
Articolo consigliato: Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011

Insomma, un gran lavoro di chiarificazione di pensieri ed emozioni, attraverso una tecnica che mi pare tendenzialmente rapsodica e non troppo direttiva (è il paziente che sceglie gli argomenti, i problemi e le situazioni da discutere) ma incalzante (è previsto che il terapeuta interrompa anche spesso il paziente). La tecnica si articola in varie domande così classificate:

Empatia e supporto: “Vedo che si sente male”

Chiarificazione ed elaborazione: “Vedo che si sente ferito e mi chiedo: come mai?”

Intervento di mentalizzazione di base: “Vedo che si sente male e questo deve rendere difficile per lei venire a trovarmi / stare con me oggi” (dipende dal livello di attivazione affettiva che si desidera raggiungere)

Interventi di mentalizzazione di transfert: “Vedo che si sente male e questo mi ricorda di come spesso lei reagisce quando lei sente che qualcuno non fa esattamente quello che lei vuole che faccia”

L’ultimo intervento è una concessione alla teoria dinamica, ma Bateman e Fonagy raccomandano di usarlo con cautela.

Lo Specchio Riflessivo (Psicoterapia e Video Feedback) - Immagine: © skvoor - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Lo Specchio Riflessivo (Psicoterapia e Video Feedback)

Visto il video, lo valutiamo in gruppo usando una scala di aderenza. Qui mi rendo conto di come i miei colleghi di corso siano tutti di formazione dinamica. C’è un gran parlare di transfert e di ricerca disperata di interpretazioni di transfert, per arrivare alla conclusione sconsolata che nel video Bateman non fa nemmeno un intervento di transfert che sia uno.

ARTICOLI SU: TRANSFERT

Sono tutti delusissimi: volevano il transfert e hanno trovato la MBT! Ma che si aspettavano? Certo che la confusione regna sovrana. Ci si meraviglia tanto della quantità –a parere dei miei colleghi eccessiva per non dire spropositata- di interruzioni che Bateman infligge alla paziente. Si definisce il lavoro di Bateman con la paziente “very cognitive” mentre per me lo è poco, visto che ci si limita solo all’accertamento di pensieri ed emozioni.

Ma forse con pazienti così impulsivi -per non dire “incazzosi”- come i border la tecnica di Fonagy è adatta. Insomma, sono tutti degli psicoanalisti e Fonagy li sta spellando vivi. Il tutto per me è affascinante, anche se, lo confesso, va a finire che molte cose le sapevo già fare. Va sempre così ai seminari MBT.

Infine mi fanno girare un video con un’attrice. Sul serio. L’esercitazione finale consiste in un seduta con una paziente border simulata da un’attrice. Devo dire che l’attrice era bravissima. Pazzesco, mi hanno filmato con un’attrice. Questi mentalizzatori sono degli esaltati. Domani mi valuteranno la prestazione cinematografica. Insomma, finale hollywoodiano.

Vedremo come va a finire. Non so cosa pensare. Anzi, lo so. Voglio l’Oscar. Anzi, ne voglio tre. Come Daniel Day-Lewis.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

cancel