“Il Grande Capo” di Lars Von Trier (2006). Locandina Cinematografica.
Recensione: Il Grande Capo. La ferocia con cui si demolisce ogni aspirazione dell’essere umano a scoprire le tracce di una sensibilità diversa dall’abuso morale.
In questo film del 2006 Lars von Trier si cimenta con la commedia, rimanendo però sempre…Lars von Trier. Lo sguardo del regista, spesso feroce nell’esplorare lo smarrimento morale della natura umana, si posa stavolta sulla parabola di una società di informatica danese che sta per essere ceduta ad un compratore islandese.
I dipendenti dell’azienda non hanno mai conosciuto il vero proprietario, che comunica le proprie decisioni attraverso un portavoce; la scena è ovviamente ingannevole: il portavoce, che fingendosi amico dei dipendenti e facendo intendere di essere dalla loro parte si appropria dei progetti informatici che creano, è in realtà il padrone dell’azienda e il grande capo di cui riferisce i pensieri non è mai esistito. Il compratore islandese vuole però conoscerlo, compare così un attore disoccupato che il finto portavoce assolda per recitare il ruolo del finto capo; la trama de Il Grande Capo assume uno sviluppo surreale e grottesco, il nuovo arrivato fatica a inserirsi nella realtà mistificata che deve interpretare e si scontra con un’umanità comicamente alla deriva, tra chi piange all’azionarsi di una fotocopiatrice e chi non controlla gli impulsi aggressivi trasmessi dalla campagna danese.
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Gradualmente però prende pieno possesso del proprio ruolo e va persino oltre, incastrando il finto portavoce nelle catene dell’amicizia interessata con cui si era avvicinato agli altri personaggi; il cattivo e il manichino si scambiano ruoli e potere, finendo per mescolare amoralità e impotenza corrotta. Lars von Trier entra con cinico sarcasmo negli intrecci più deteriori del mondo del lavoro e delle relazioni, denudando il rifiuto intenzionale di ogni etica che viene perseguito non solo dai vertici della piramide del potere ma anche da chi ne fa parte come sottoposto – emblematico l’immediato desiderio di una dipendente di concedersi sessualmente al finto capo appena conosciuto – e descrivendo logiche di sopraffazione tanto logore quanto capaci di riprodursi in un ciclo ininterrotto.
La ricerca cieca del profitto, la prospettiva secondo cui gli esseri umani non possiedono un valore intrinseco che va rispettato bensì fanno parte di un ingranaggio che nasce e si alimenta senza considerarli, sono tematiche che Il Grande Capo analizza con ironia spietata, entrando di forza nella rappresentazione soggettiva dei protagonisti e svolgendo una regia veloce, instabile, che rinuncia a sequenze narrative tradizionali per prediligere il flusso delle percezioni immediate. I dialoghi sono serrati, la voce fuori campo di Lars von Trier interviene come un’irruzione fugace, le relazioni tra i personaggi si giocano su due piani interscambiabili, finzione e realtà, senza che ad alcuno interessi definire la legittimità morale dell’una o dell’altra, interrogarsi sulla liceità delle proprie azioni oppure, più semplicemente, sul significato complessivo di ciò che sta accadendo.
Tutto viene sacrificato ad un’entità di cui non si colgono le fattezze bensì le conseguenze, quasi che il grande capo non fosse solo il padrone dell’azienda ma anche e soprattutto il principio ispiratore di ogni dinamica lavorativa e umana: l’assenza totale di princìpi. Lars von Trier e la commedia: un matrimonio riuscito, non per i suoi detrattori che da questo film ricavano una prova ulteriore e a tratti ancor più aspra della ferocia sfrontata con cui il regista danese demolisce ogni aspirazione dell’essere umano a scoprire in sé le tracce di una sensibilità diversa dall’abuso morale.
Eppure il male esiste e spesso gli uomini tentano di espellerlo dalla propria immagine desiderata affidandolo all’opera di narratori come Lars von Trier, che si assumono la responsabilità di immergersi in esso trasformandolo se necessario in un sofferto sforzo ironico: Il Grande Capo è anche questo.
Il regista Lars von Trier, messi da parte per un attimo i toni grevi della Trilogia o dei drammoni escatologici, si cimenta con “Il grande capo” in un’inaspettata commedia grottesca.
La trama già di per sé trasuda demenzialità: Ravn, proprietario di una ditta di informatica, decide di cederla licenziando tutti i dipendenti, i quali però non conoscono la sua vera identità e lo credono un dipendente come tutti gli altri. Per non catalizzare le maledizioni degli impiegati destinati a perdere il lavoro, egli decide quindi di assumere un attore affinché finga di essere lui il grande capo, e si prenda in toto la colpa della vendita e dei licenziamenti.
A primo impatto potrebbe sembrare una critica beffarda mossa contro l’alienazione dei rapporti interpersonali all’interno delle multinazionali (com’è possibile lavorare per qualcuno che non si sa nemmeno chi sia?), ma in realtà l’intento del regista non sembra essere quello di proporre l’ennesima riflessione moralista sui rischi della globalizzazione.
Piuttosto, suggerendo con ironia quanto possa essere versatile e relativo il concetto di identità, Von Trier sembra voler rappresentare un desiderio che nell’immaginario collettivo è, da sempre, potentissimo: sfuggire alla responsabilità delle proprie azioni e del proprio modo di essere, potendo disporre all’occorrenza di un capro espiatorio e di una maschera ad hoc per ogni situazione.
Quando Ravn ingaggia l’attore per sostituirlo, sappiamo infatti che il suo obiettivo è quello di non rovinare i rapporti coi suoi dipendenti; semplicemente, non vuole che questi se la prendano con lui.
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Ma in realtà, oltre all’idea geniale di appioppare la malefatta specifica a un capo fasullo, Ravn si dimostra in generale un vero e proprio prestigiatore del Sé, abilissimo nel pilotare le relazioni in modo da evitare qualunque conflitto: riesce a mantenere negli anni i suoi collaboratori all’oscuro del suo vero ruolo nell’azienda e ad accattivarsi la loro simpatia, approfittando dell’equivoco a suo vantaggio.
Non solo: quando entra in gioco il finto capo scopriamo, da come i dipendenti si relazionano con l’attore, che con ognuno di loro Ravn aveva assunto un’identità differente, assecondandone le esigenze e coccolando le inclinazioni e i bisogni individuali.
All’inizio l’attore è un po’ disorientato da questo caleidoscopio di ruoli da interpretare, ma poi anche lui ci prende gusto ad accontentare tutti e intuisce che neutralizzare gli attriti può essere molto vantaggioso (tant’è che rimedia anche un imprevisto, quanto demenziale, rapporto sessuale con una delle dipendenti).
Viene da chiedersi: perché Ravn si comporta così? Perché sceglie di rinunciare alla propria identità pur di scongiurare qualunque possibile tensione? La spiegazione che si dà lo spettatore è ovviamente quella più cinica, ossia che egli approfitti dell’ambiguità per sfruttare il lavoro dei dipendenti, godere dei profitti e del merito e poi sbarazzarsi di loro, possibilmente senza alcuna seccatura.
In realtà, durante un colloquio con la sua ex moglie, il finto presidente dichiara di aver intuito quale sia il reale motore del comportamento di Ravn, quello che noi psicologi definiremmo il suo core belief, peraltro neanche troppo originale: l’idea che se fosse banalmente sé stesso finirebbe per non essere amato.
Se Ravn non si fa scrupolo di recitare in continuazione è perché questo gli permette di sentirsi sempre apprezzato e benvoluto nonostante i suoi meschini progetti, e quindi il suo tentativo di sfuggire al rischio della non accettazione sembra essere la ragione (o una delle ragioni) di tante macchinazioni.
La responsabilità di ciò che si fa e di come si è (con tutto il corollario di possibili condanne, critiche e disprezzo che potrebbero derivarne) come luogo mentale intollerabile, insomma.
Del resto lo stesso Von Trier fa qualcosa di simile al suo protagonista utilizzando l’Automavision, un sistema che delega le modalità di ripresa (scelta delle inquadrature, delle luci e delle messe a fuoco) ad un computer.
Come a dire: se il film non vi è piaciuto non è che io sia un incapace come regista, perciò non mi seccate: prendetevela con la macchina.
Luisa di Biagio è un’etologa, una psicologa e un’autistica sana. Il suo impegno per far conoscere meglio la condizione autistica è costante e caratterizzato da professionalità e competenza. Le sono grata di aver dato a State of Mind la possibilità di dar voce a chi l’autismo non solo lo studia ma lo vive in prima persona.
SoM: Buongiorno dott.ssa Di Biagio, grazie per aver accettato l’invito di State Of Mind a rispondere a qualche domanda sull’autismo. Vorrei dare ai lettori la possibilità di conoscerla meglio. Lei è psicologa e autistica quindi chi meglio di Lei può affrontare questo tema?
LDB: Grazie a voi per la possibilità di contribuire alla diffusione di notizie corrette sull’autismo, nel faticoso tentativo di contrastare le moltissime informazioni scorrette di cui sono farciti articoli , libri e seminari , persino in contrasto con le direttive ufficiali accademiche .
Chi meglio di un autistico la cui formazione è basata proprio sullo studio della psicologia , del comportamento e dell’educazione umana e non umana, può affrontare l’argomento ? Nessuno. Peccato che gli autistici parlanti in genere “urlano nel deserto” , se mi concede il riferimento.
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SoM: Nei suo contributi al tema “autismo” insiste molto nel descrivere un autismo fisiologico, mentre è comune sentir parlare di autismo come di una condizione patologica che compromette la capacità dei soggetti di vivere una vita indipendente. Cosa intende quindi per autismo fisiologico?
LDB: La domanda dovrebbe essere “Cosa si intende per autismo fisiologico” ? E dovrebbe essere questa perchè non si tratta di una mia personale opinione ma di come stanno le cose .
Concepire come fisiologico (SANO) qualcosa di diverso dal neurotipico è difficile perchè non ci sono strumenti culturali tali da permettere di concepire questo, il (neuro)tipico centrismo è il fulcro della cultura sbilanciata di questo periodo storico . Sì, certo, è razzismo, senza dubbio. La stessa definizione della condizione con tratti misti (condizione subclinica dello spettro autistico) indica la misura di questa tendenza . Dal mio punto di vista (quello di un’autistica) ad esempio potrei affermare che la condizione con tratti sia tipici che autistici appartiene allo spettro tipico . Meglio sarebbe affermare che non esistono solo condizioni fisiologiche tipiche o autistiche , ma anche condizioni fisiologiche miste .
L’intero sistema di approccio all’autismo è mirato al cambiamento degli autistici, non esiste nessun programma che includa il cambiamento dei tipici e che sia mirato al compromesso culturale. L’unico sistema considerato accettabile di struttura comunicativa, percettiva e sociale è, di fatto, quello della cultura tipica. Questo crea una situazione talmente sbilanciata da creare disagio nella cultura tipica stessa.
L’autismo non è una disabilità , come non lo è l’omosessualità. La tiritera nasce proprio dal fatto che l’autismo , soprattutto quando non è in forma patologica (quando NON è autismo severo) non permette di individuare immediatamente la persona come neurodiversa e il modo di comunicare di quella persona , rispetto a quello medio , è tale da generare “imbarazzo” .. quello che si dimentica è che , se di imbarazzo si tratta , lo stesso imbarazzo lo prova la persona in riferimento al comportamento tipico, quindi direi di smetterla di parlare di “imbarazzo” e cominciare a lavorare per un compromesso culturale.
Le disabilità, gli adulti e i bambini disabili esistono, esistono adulti e bambini disabili Tipici (con organizzazione neurologica tipica ma in una forma severa o con problemi importanti associati) ed esistono adulti e bambini disabili Autistici (con organizzazione neurologica atipica ma in una forma severa o con problemi importanti associati) ma essere autistici NON vuol dire essere disabili .
La disabilità costituisce una minoranza in tutta la popolazione tipica così come costituisce una minoranza in tutta la popolazione autistica . Considerare TUTTI gli autistici disabili di default è come considerare TUTTI i tipici disabili di default .
In tanti anni ho sentito sempre parlare e scrivere di genitori che soffrivano per la diversità del figlio mai ( MAI ) nessuno che abbia pensato “chissà come vive mio figlio IMMERSO tra persone diverse ” oppure ho sentito e letto di persone “in imbarazzo” a causa di gesti e parole di autistici ma ( MAI ) nessuno che abbia detto o scritto “chissà quanto ho messo in imbarazzo questa persona ? chissà come mi percepisce strano e imbarazzante ?”
E’ un concetto talmente alieno da risultare non credibile . E infatti gli autistici che parlano , a meno che non siano talmente bizzarri da rivestire il ruolo di “orso ballerino” , non vengono proprio considerati .
C’è da dire che come professionista del settore ho incontrato più genitori desiderosi di interventi che mirassero al mascheramento tipico dei figli autistici piuttosto che al riconoscimento e valorizzazione della loro neurodiversità. Di chi è la responsabilità di tale scenario?
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Fino a dieci anni fa si poteva anche pensare che questo atteggiamento fosse il risultato di una buona fede . Oggi non trova giustificazione . Sono molti gli autistici nel mondo che raccontano l’autismo . Escludendo quelli che hanno problemi di equilibrio o culturali (essere squilibrati o ignoranti è una condizione democratica , che coinvolge sia tipici che autistici ) , gli autistici competenti descrivono l’autismo in modo piuttosto esaustivo .
C’è, di fatto, una enorme resistenza che, temo, dipenda da un fattore puramente economico. La dinamica di mantenere alta la soglia di allarmismo per proporre terapie salvifiche e, guarda caso, costosissime, è quella che sta mandando avanti un mercato terribile. Un mercato che pagano i bambini in prima persona, ma anche le famiglie coinvolte. L’autismo, insomma, è l’affare del secolo . E’ un terribile circolo vizioso che si nutre del panico di genitori spinti a non accogliere la condizione autistica.
I nostri bambini crescono continuamente disconfermati e arrivano a sviluppare patologie comportamentali secondarie molto serie . Questa la testimonianza di un addetto ai lavori: “è un affare lavorare con gli autistici perchè tanto o non parleranno mai o se parleranno li faremo passare per matti. Per quanto riguarda l’Asperger i maschi sono cavalli da sedare e le femmine cavalle da domare“.
SoM: Cosa consiglierebbe dunque a dei genitori che ricevono una diagnosi di autismo ad alto funzionamento o asperger? Quali obiettivi dovrebbe avere un trattamento rivolto a questo bambino, alla sua famiglia e al contesto sociale in cui è inserito?
LDB: Consiglierei di non farsi trascinare nel vortice dell’allarmismo . Di imparare l’autismo per insegnarlo ai figli . Prima di apprendere regole e parametri di una cultura diversa, i bambini autistici dovrebbero apprendere i criteri della propria cultura. Imparare ad essere buoni autistici prima che ad utilizzare alcuni strumenti della cultura tipica. Questo non accade . Al bambino viene negata un’ identità.
I bambini smettono di essere bambini dalla diagnosi in poi, e si trasformano in PROBLEMA e punto. Consiglierei ai genitori di seguire corsi per apprendere i criteri culturali dell’autismo e cercare un compromesso nella comunicazione con i figli. Consiglierei loro di usare i soldi per vivere serenamente e non per pagare ore e ore di addestramenti e torture . E ovviamente , in particolare se si tratta di diagnosi di autismo ad alto funzionamento e Asperger , consiglierei loro di farsi valutare , molto probabilmente sono autistici e non lo sanno , o hanno una condizione mista ( che è una cosa diversa e NON è autismo ). E ovviamente consiglierei loro di leggere i miei libri e articoli , che credo siano il materiale migliore disponibile in italiano al momento, o di contattarmi.
SoM:È ragionevole immaginare che anche gli autistici fisiologi, forse anche proprio in virtù dell’ambiente tipico in cui sono inseriti, possano aver bisogno di rivolgersi ad uno psicoterapeuta. Secondo lei che tipo di psicoterapia è più indicata per questi soggetti? Può uno psicoterapeuta “qualsiasi” aiutare un paziente autistico a risolvere per esempio un disturbo d’ansia?
LDB: Mi pare evidente che tutti , anche gli autistici fisiologici , possano avere bisogno di un aiuto psicologico . Un professionista che non sia PERMEATO di cultura autistica (sin dallo sviluppo possibilmente) non dovrebbe occuparsi di autismo se non accompagnato , supervisionato ecc . Esattamente come per il contrario : un professionista che non sia permeato di cultura tipica non dovrebbe occuparsi di persone tipiche .
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Il grande problema è che TUTTI gli autistici sono permeati di cultura tipica , quindi , potenzialmente , tutti i terapeuti autistici possono occuparsi di persone tipiche , mentre QUASI NESSUN terapeuta tipico è permeato di cultura autistica pur continuando a seguire persone autistiche … c’è da riflettere …
Per quanto riguarda l’approccio di scuola di pensiero , non è questa la sede per discutere sull’efficacia generale di alcune, ma di certo si può affermare che per l’autismo le dinamiche teoriche alla base di scuole come la freudiana sono assolutamente fuori luogo . Gli assunti di base di questi approcci sono quanto di più lontano ci possa essere dalla logica, dal processo di pensiero, dall’emotività e dalla percezione autistica.
SoM: Grazie dott.ssa Di Biagio, mi auguro che le sue parole arrivino a quanti più professionisti e genitori impegnati a vario titolo in una relazione con un autistico.
Per la prima volta, viene pubblicamente presentato il modello metacognitivo trifasico dell’abuso di alcool che descrive da una prospettiva psicologica i tre stati dinamici che caratterizzano il consumo problematico di alcool.
Il Secondo Congresso di Terapia Metacognitiva si chiude con un pizzico d’Italia nella lettura magistrale del Prof. Marcantonio Spada, collaboratore del Gruppo Ricerca di Studi Cognitivi e autore assieme al sottoscritto di un nuovo modello di concettualizzazione dei disturbi alcol-correlati (Spada, Caselli & Wells, in press).
Così, per la prima volta, viene pubblicamente presentato il modello metacognitivo trifasico dell’abuso di alcool che descrive da una prospettiva psicologica i tre stati dinamici che caratterizzano il consumo problematico di alcool: (1) anticipazione/desiderio (craving), (2) consumo/intossicazione, (3) astinenza, stati che sono ben conosciuti e descritti anche a livello neurobiologico (Koob & Volkow, 2010), ma che non sono mai stati esplorati in termini cognitivi.
In effetti i problemi di desiderio e craving, ricorda Spada, sono sempre stati un pesante limite per i modelli cognitivi standard che hanno prodotto risultati piuttosto insoddisfacenti (vedi Beck et al, 1993) come dimostrato dal grandioso Project Match che dopo otto anni di ricerca ha decretato l’uguale efficacia di Skill Training, Colloquio Motivazionale, Modello dei 12 Passi nel trattamendo della dipendenza da alcool.
Nella lettura magistrale, Spada rileva come il fallimento del modello di Beck possa dipendere dall’assenza di ricerca sul modello teorico di riferimento, sostanzialmente costruito più o meno sulla base dell’intuito clinico. Se questo tentativo intuitivo aveva portato parziali risultati nei disturbi d’ansia e nella depressione, così non fu nel campo delle dipendenze patologiche.
Da questa premessa, Spada passa alla rassegna delle oltre venti pubblicazioni che negli ultimi otto anni hanno portato alla concettualizzazione del pensiero desiderante e del modello metacognitivo trifasico. Ognuna di questa fase è connessa alle altre ed è caratterizzata da cicli di mantenimento interno.
La fase PRE-USO (craving) implica la fusione con il pensiero desiderante come strategia per (1) sentirsi carichi di energie e motivati (gratificazione virtuale) o (2) per distrarsi da pensieri e sensazioni negative (evitare i problemi della vita). Il pensiero desiderante, se gratificante a livello virtuale nell’immediato, aumenta nel medio termine il senso di deprivazione che è una sensazione negativa.
La fase di USO (Binge e intossicazione) implica l’accesso alla sostanza come via di fuga dal crescente senso di deprivazione. Anche solo la decisione di bere, permette di ridurre lo stress generato dal pensiero desiderante. Oppure se la scelta non è messa in discussione, di evitarlo a priori. Pensiero desiderante e senso di deprivazione riducono il fuoco dell’attenzione e il monitoraggio metacognitivo, cioè la tendenza a osservare che impatto la sostanza sta avendo sul proprio stato mentale. Il monitoraggio metacognitivo permette di regolare il consumo di alcool entro i confini desiderati (es. raggiungere un buon grado di alterazione senza esagerare). Il monitoraggio metacognitivo può non essere appreso oppure è distrutto dal potente senso di deprivazione che può seguire una prolungata attivazione del pensiero desiderante.
La fase di POST-USO (astinenza e stato emotivo negativo) implica la tendenza a ruminare sul proprio comportamento con incremento di emozioni di depressione, colpa e vergogna che a loro volta rappresentano potenziali elementi di vulnerabilità per tutte le altre fasi.
Prof. Marcantonio Spada e Gabriele Caselli Ph.D al Secondo Congresso Internazionale di Terapia Metacognitiva – Manchester 2013
Il modello è ancora agli inizi e ora la vera sfida è applicare il medesimo rigore scientifico nella realizzazione di un percorso di intervento.
La strada è lunga ma forse più solidamente fondata rispetto a ciò che sino ad ora i modelli cognitivi del desiderio ci hanno offerto. L’insegnamento per ora è semplice ma altrettanto illuminante: You cannot crave alcohol less by thinking more about it (non puoi sentire meno desiderio per l’alcool, pensando di più all’alcool).
Un livello più basso di intelligenza sarebbe predittivo di una maggior quota di razzismo nell’età adulta: tale effetto sarebbe inoltre mediato da ideologie conservative di destra.
Nonostante siano di fatto inevitabilmente in gioco nelle interazioni e nelle relazioni quotidiane, la letteratura scientifica ha generalemnte trascurato l’intelligenza e le abilità cognitive nella spiegazione dei meccanismi sottostanti il pregiudizio.
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Alcuni ricercatori canadesi hanno voluto verificare un modello in cui abilità cognitive più basse sarebbero predittive di un maggior livello di pregiudizio, effetto che sembrerebbe mediato dall’assunzione di ideologie di destra di stampo conservatorista e autoritario, nonché dallo scarso contatto con persone dell’outgroup (persone non facenti parte del proprio gruppo di appartenenza, ad esempio stranieri).
Effettuando un’analisi su larga scala (circa 15.000 soggetti di nazionalità inglese) è stato rilevato che un livello più basso di intelligenza sarebbe predittivo di una maggior quota di razzismo nell’età adulta: tale effetto sarebbe inoltre mediato da ideologie conservative di destra.
Un’ulteriore analisi effettuata su un campione statunitense confermerebbe l’effetto secondo cui minori abilità di ragionamento astratto sarebbero in grado di predire pregiudizi omofobici, relazione parzialmente mediata da alti livelli di autoritarismo e da scarso contatto con l’outgroup.
Tale effetto per entrambi gli studi sarebbe indipendente dal livello di scolarità e dallo status socio-economico.
Abilità cognitive e intellligenza risultano dunque fattori da tenere in considerazione nei modelli esplicativi dei fenomeni legati al pregiudizio.
Researchers have investigated the familial aggregation of anxiety disorders using both top-down and bottom-up methodologies. Top-down studies investigate the children of anxious parents while bottom-up studies investigate the parents of anxious children. I will review a few studies from each methodology.
Several studies have examined the familial aggregation of anxiety using top-down methodology. Turner, Beidel and Costello (1987) used the Anxiety Disorders Interview Schedule (ADIS) and the Children Assessment Schedule (CAS) to measure the mental state of 16 children of mothers with an anxiety disorder, 14 children of mothers with dysthymia and 29 children of mothers with no history of mental illness.
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Children were between the ages of seven and 12 years. Based on the CAS, compared to both comparison groups of children (i.e. dysthymic and healthy controls), the children of anxious mothers had more anxious and fearful symptoms, more school difficulties, worried more about their family and themselves, and engaged in more solitary activities. The results also demonstrated that children of anxious mothers (44%) were seven times more likely to meet criteria for an anxiety disorder than children of dysthymic parents (21%) and healthy controls (9%).
Beidel and Turner (1997) examined the children of parents with anxiety (n = 28), depressive (n = 24), mixed anxiety/depressive (n = 29) and no psychiatric disorders (n = 48) using semi-structured interviews. The results showed that the children of all three psychopathology groups were more likely to have a diagnosable disorder (including anxiety disorders) than children of healthy control parents.
When examining anxiety specifically, children of anxious parents were more likely to have only anxiety disorders. The children of depressed or comorbid parents were more likely to have a variety of disorders (e.g. depression, panic).
Merikangas, Dierker and Szatmari, (1998) examined psychopathology in the offspring (age seven to 18 years) of three groups of probands: 1) anxious (n = 36); 2) substance disorder (n = 56); 3) healthy controls (n = 35). Diagnoses were made using the Schedule for Affective Disorders and Schizophrenia Interview (SADS) (Endicott & Spitzer, 1978).
The results showed that the offspring of probands with an anxiety disorder had higher rates of anxiety disorders compared to offspring of the substance disorder and control probands. Interestingly, of the 36 proband parental groups with an anxiety disorder, 6.9% of the children had a diagnosis of social phobia, compared to 1.3% of the substance disorder group and 0.0% of the control group.
Based on these three studies, psychopathology and anxiety disorders appear to run in families. In the next segment of this series we will look at additional studies investigating the familial aggregation of psychopathology and anxiety disorders.
L’ Invidia ai Tempi di Facebook – Psicologia dei Social Network
Facebook come fonte “d’informazioni” e come metro di giudizio, questo il pericolo, passando da stato in stato, da foto in foto, facendo di volta in volta salire il termometro personale della frustrazione.
In quanti oggi la prima cosa che fanno appena svegli è aprire il proprio profilo facebook, magari controllare gli aggiornamenti del fidanzato, le foto nuove, i tag, i poke.. e magari si dimenticano di farsi il caffè? “Una partita a ruzzle una sola, cara, e poi faccio colazione, aggiorno lo stato e mi preparo, lasciami la camicia sul letto”.. invece ci si perde tra una foto e uno stato, una citazione e una canzone (scene di vita familiare).
Tutti, o quasi, hanno un profilo facebook, e almeno chi usa internet spesso con altrettante frequenza aggiorna il profilo, mette dei link, inserisce alcune foto e tagga gli amici. In poche parole una grande vetrina, certo si possono mandare anche dei messaggi privati tra utenti, si può usare la chat per accordarsi sul film da vedere la sera, ma l’attenzione di presentarsi con una “bella” pagina é comune un po’ a tutti. Si è attenti a postare le foto dell’ultima vacanza dell’ultimo acquisto di quella giornata di sole in cui eri in gita con il fidanzato al lago di Garda… quella foto in cui non si vedono le rughe e la pancetta è nascosta da un gioco di luci sapientemente studiato, poi c’è la corsa alla notizia più bella, al link piu accattivante e allo stato più popolare.
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Da Berlino ci arriva l’ennesima ricerca sugli effetti che l’uso di Facebook può “causare” ai suoi utenti più assidui.
Si parte della domanda: ma chi legge, chi “spulcia” il profilo facebook degli amici\nemici come vive tutto ciò?
A chiederselo sono stati i ricercatori dell‘Università di Darmstadt e l’Istituto dei Sistemi Informativi dell’Università Humboldt di Berlino e si sono posti come obiettivo quello di andare ad indagare i sentimenti, i pensieri e le emozioni degli utenti di Facebook concludendo che più di un terzo degli intervistati dichiara di provare sentimenti prevalentemente negativi di fronte allo schermo, rimuginando tra invidia e frustrazione.
Il Professor Peter Buxmann e la Dottoressa Hanna Krasnova impegnati in questa ricerca ci spiegano che nonostante sia stato inizialmente difficile per gli intervistati ammettere di provare invidia per i loro “amici social” questa emozione spiegherebbe e sarebbe sottesa a quella sorta di frustrazione pensando alla vita degli altri riportata da molti. Sarebbe l’ostentato successo in alcuni ambiti, in particolare amore vacanze e tempo libero, degli amici “virtuali” a promuovere il confronto e in un qualche modo a generare un conflitto che in alcuni casi può portare all’invidia.
Facebook come fonte “d’informazioni” e come metro di giudizio, questo il pericolo, passando da stato in stato, da foto in foto, facendo di volta in volta salire il termometro personale della frustrazione.
Spesso, poi, ci sottolineano i ricercatori si attiva una sorta di circolo vizioso, una spirale dell’invidia in cui chi prima invidiava per farsi invidiare cerca di rendere migliore il suo profilo in tutto e per tutto curando i particolari scegliendo accuratamente la foto da postare e così da suscitare a sua volta l’invidia di un altro utente facebook che per tutta risposta arricchirà anche lui il suo profilo e così via.
I ricercatori hanno dimostrato che non solo gli utenti facebook faticano a riconoscere e ad ammettere di provare invidia ma che tendono, invece, ad attribuire questa agli altri questa emozione.
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Tuttavia il campanello d’allarme, che ci portano gli autori nelle loro riflessioni conclusive è il rischio di non riuscire a gestire quella frustrazione e quel sentimento negativo d’invidia, di non essere capaci di chiuderlo in un mondo per così dire virtuale, ma di avere la tendenza a portare poi questa attivazione nella vita tutti i giorni con conseguenze spiacevoli sulle relazioni “reali”.
Forse dovremmo semplicemente tenere a mente che la maggior parte dei profili Facebook è appositamente costruita in modo da amplificare e spesso, ahimè, fingere una felicità personale.
I risultati dell’indagine sono stati presentati all’11th International Conference Wirtschaftsinformatik che si è tenuta a Lipsia, in Germania, dal 27 febbraio al 1 marzo 2013.
Bambini con ADHD: si dovrebbe essere consapevoli delle difficoltà di base. Per questo motivo è nata l’idea di utilizzare la tecnica Pomodoro e il SOBER.
I comportamenti del bambino in classe e durante la ricreazione sono spesso motivo per i genitori per cercare aiuto psicologico ed educativo. Non perché sia quello il momento in cui sono iniziati problemi relativi alla ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività), piuttosto perché l’ambiente scolastico rende i sintomi inquietanti (Lipowska, 2012). Un’attività che risulta normale per la maggior parte della gente, ad esempio rimanere al lavoro per quarantacinque minuti, ascoltare attentamente un insegnante o fare più cose contemporaneamente, per un bambino con ADHD è una sfida (Barkley,2006).
Inoltre, conoscendo le caratteristiche del disturbo, è difficile immaginare che un bambino che ha bisogno di movimento continuo sia in grado di adeguarsi alle norme vigenti in aula, oppure di memorizzare tutte le informazioni di cui ha bisogno.
Quando si lavora con un bambino con ADHD, si dovrebbe essere consapevoli delle difficoltà di base, come problemi di concentrazione e il bisogno di muoversi. Per questo motivo è nata l’idea di utilizzare la tecnica Pomodoro.
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Questa tecnica viene collegata al campo della gestione del tempo (time management), ma può anche essere utilizzata nel lavoro con bambini con ADHD. Per iniziare, si scrive un elenco di attività da svolgere. È necessario segnare tutto, ogni piccolo compito. Poi, impostando un timer per venticinque minuti, durante i quali l’attenzione è rivolta solo ai compiti da svolgere. Dopo i venticinque minuti arriva la pausa. Mentre la tecnica prevede generalmente cinque minuti di pausa, per un bambino con ADHD è meglio usare dieci minuti.
In una prima fase della tecnica, può essere difficile concentrarsi per venticinque minuti e poi interrompere il lavoro dopo un determinato periodo di tempo, ma ben presto il bambino impara a lavorare in intervalli di venticinque/dieci minuti. I chiari vantaggi di questa tecnica includono una presenza di brevi ma efficaci periodi di focus sul lavoro e del tempo di creazione, che permettono di pianificare il tempo. Il bambino in questo modo sa che non è vincolato al compito in modo indefinito.
La pratica del SOBER è una pratica utilizzata all’interno del protocollo MBRP (Mindfulness Based Relapse Prevention) di Marlatt e colleghi (Marlatt et al.,2009). Viene utilizzata come una pratica per “liberarsi” dall’agire in modo reattivo e impulsivo, immediato, modalità che Kabat-Zinn chiama “pilota automatico”.
Che cosa significa l’acronimo SOBER?
S – Stop – fermati un attimo, non reagire automaticamente
O – Observe – osserva dal lato una situazione in cui sei
B – Breathe -concentrati sul respiro
E – Expand – espandi la consapevolezza, trovando alternative inoffensive e fattabili!
Quindi, come può un bambino con ADHD utilizzare la pratica SOBER?
Dovrebbe imparare che nel momento di crisi può fermarsi e concedersi un attimo di respiro, piuttosto che re-agire al qui e ora. Non è facile, soprattutto per le persone con problemi di impulsività. Quando ci si ferma, si dovrebbe guardare la situazione e concentrarsi sul respiro. Concentrarsi sul respiro permette di sospendere l’azione dettata dal pilota automatico. Occorre pensare a soluzioni meno re-attive e più funzionali e poi scegliere una risposta adeguata ad una situazione in modo da disattivare il pilota automatico e lo schema di reazione dannosa. Questa tecnica dovrebbe essere accompagnata da una pratica di Mindfulness – formale e informale – e sembra essere appropriata per gli adolescenti con ADHD.
Ricerche future potrebbero concentrarsi sull’efficacia della pratica del SOBER nel processo terapeutico per i giovani con ADHD.
Venerdì 22 marzo si è inaugurato, presso il Comune di Torino, il Centro Fida Torino –CPF, Centro di Psicoterapia e Formazione per la cura dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentari), che fa parte della Federazione Italiana Disturbi Alimentari.
Fida è una federazione costituita da otto associazioni situate in varie città italiane che condividono un modello di cura multidisciplinare integrato ad orientamento psicoanalitico.
A questa giornata inaugurale dal titolo: ”Disturbi Alimentari…Parliamone” hanno partecipato numerosi specialisti in questo campo. Queste patologie sono oggi una vera e propria epidemia sociale; in Italia, secondo il Ministero della Salute, soffrono di DCA circa 3 milioni di persone.
Inoltre, negli ultimi anni le fasce d’ età colpite sono sempre più ampie e vanno dall’ infanzia fino alla maturità e negli ultimi dieci anni, anche la popolazione maschile è stata colpita da questa patologia portando alla luce nuovi sintomi come l’ ortoressia e la bigoressia.
Noi clinici, abbiamo constatato anche un cambiamento rispetto alla sintomatologia: infatti, accanto ai sintomi classici come anoressia, bulimia e alimentazione incontrollata, troviamo sempre più patologie parziali in cui sono presenti solo alcuni tratti della sintomatologia classica.
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Queste forme di DCA, definite sottosoglia, non devono essere sottovalutate perché possono evolvere in patologie più gravi o cronicizzarsi.
Partendo da queste considerazioni, la giornata è stata un momento di riflessione, informazione e scambio fra professionisti appartenenti a vari ambiti sia clinici che culturali, in merito alle diverse modalità in cui possono manifestarsi i DCA.
I dibattito si è svolto, principalmente, in una tavola rotonda dal titolo: “Uno, nessuno, centomila: diversi volti dello stesso problema o problemi differenti?” il confronto fra i vari professionisti , ha fatto emergere la difficoltà nell’individuazione di queste patologie che, se non manifestate in forme gravi, tendono ad essere sottovalutate sia dai soggetti sia dalla cultura. Nell’ ambito dello sport, dei mass-media e della moda spesso il corpo magro viene enfatizzato e valorizzato come immagine a cui aderire per avere successo, il sintomo viene vissuto in modo ego- sintonico e dunque non viene curato.
In altri ambiti, invece, queste patologie, vengono confuse o mascherate da altri sintomi: uso di sostanze, abuso di alcolici, abusi e maltrattamenti subiti nell’ infanzia o nell’ età adulta, amenorrea, allergie o intolleranze alimentari, sono tutti segnali che nella maggior parte dei casi mascherano un DCA.
Dal confronto della tavola rotonda è emersa l’ importanza di un lavoro di prevenzione da effettuare in vari ambiti e della necessità di poter effettuare precocemente una diagnosi poichè la mancanza di cure e il protrarsi negli anni di questa sintomatologia spesso conduce ad una cronicizzazione del disturbo che in seguito diventa molto difficile da trattare.
Al termine di questo interessante dibattito, l’ equipe del nostro Centro ha illustrato le possibili modalità di intervento clinico per curare queste patologie.
Si è evidenziato come la cura, sia lunga e complessa e necessiti di una equipe multidisciplinare composta da più figure professionali che lavorino in una costante integrazione in modo da poter costruire e garantire ai pazienti un trattamento idoneo che tenga conto della loro individualità e della specifica situazione clinica.
I vari membri dell’ equipe nei loro interventi hanno evidenziato come all’ interno del Centro CPF i percorsi terapeutici siano sempre costruiti sulle esigenze di ciascun soggetto e la cura si articoli attraverso colloqui preliminari, psicoterapia individuale e/o di gruppo, terapie espressive, monitoraggio dei parametri medico-nutrizionali, consulenza psichiatrica, sostegno e trattamento dei familiari .
Il Centro , inoltre, lavora in rete per le situazioni che necessitano di interventi più intensivi, con ospedali, case di Cura e Comunità terapeutiche in modo da poter sempre garantire, a seconda del livello di gravità, l’intervento più idoneo mantenendo però, la continuità delle cure.
Un libro di “auto-aiuto”, un libro importante che va dritto al cuore, che ti permette di riflettere, che ti fornisce reali spunti di comprensione offrendoti strategie nuove per migliorare il tuo rapporto di coppia.
Con queste parole si apre il libro di Sue Johnson, psicoterapeuta riconosciuta a livello internazionale come una tra le più importanti nelle nuove scienze delle relazioni e una tra le fondatrici della Terapia Focalizzata sulle Emozioni (EFT).
Un libro di “auto-aiuto”, un libro importante che va dritto al cuore, che ti permette di riflettere, che ti fornisce reali spunti di comprensione offrendoti strategie nuove per migliorare il tuo rapporto di coppia. Un libro che può essere utilizzato da tutte le coppie giovani, vecchie, fidanzate, sposate, conviventi, in difficolta, felici, eterosessuali, omosessuali; ognuno ha lo stesso bisogno di legami affettivi positivi.
Questo libro è un buono strumento per chi ha voglia di mettersi in gioco, di mettere in gioco la propria relazione, di guardare il legame vivere le emozioni e condividere con il partner un percorso di crescita e condivisione, non è immediatamente indicato per persone che vivono una relazione abusante o violenta, queste situazioni indeboliscono le abilità di impegnarsi positivamente in una relazione di coppia e in questi casi il terapeuta rimane la risorsa migliore, e magari con lui in un percorso più lungo le pagine di questo libro potranno, poi, diventare preziose.
Quanti di noi si sono almeno una volta interrogati su cosa avrebbero potuto fare per migliorare la propria “situazione sentimentale”, in quanti si sono chiesti quale fosse la chiave di lettura del comportamento del partner, bè molti di loro avrebbero potuto trovare la risposta giusta tra le righe di questo libro. Nelle pagine di questo libro l’autrice si concentra sul modo in cui poter rafforzare il legame emotivo all’interno della coppia per favorire una relazione d’amore matura. Per fare questo vengono illustrati alcuni esercizi mutuati della Terapia Focalizzata sulle Emozioni e vengono raccontate la storie di alcune coppie.
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Da terapeuta ho trovato molto utile la lettura di “ Stringimi forte, sette passi per una vita piena d’amore”, l’ho trovato un libro molto chiaro e facile da condividere in terapia con il paziente, una di quelle letture che fatte con il paziente possono apportare molti benefici al processo terapeutico. L’intenzione che sta dietro alla Terapia Focalizzata sulle Emozioni è quella di fornire alle coppie un modo per vivere una relazione matura e duratura assecondando i cambiamenti e rimanendo sempre in connessione con i vissuti emotivi dei partner. “l’amore non è immobile come una pietra. Deve essere preparato come il pane rifatto ogni volta, fatto di nuovo”.
La Terapia Focalizzata sulle Emozioni non solo aiuta a “guarire” la relazione d’amore, ma crea relazioni che guariscono: i pazienti ansiosi e depressi, infatti, traggono estremo beneficio dall’esperienza di connessione supportiva che una relazione più amorevole è capace di offrire.
In particolare credo che per noi terapeuti sia molto utile tenere a mente nella quotidianità della pratica clinica quelle che sono le “lezioni” che Sue Johnson dice di aver imparato dai sui pazienti, così direttamente dal libro le condivido con voi:
• Il nostro bisogno che gli altri ci vengano vicino quando li chiamiamo- per offrici un rifugio sicuro- è assoluto;
• La fame emotiva è una realtà. Il sentirsi emotivamente abbandonati respinti dimenticati dà origine a dolore e panico fisici ed emotivi;
• Ci sono pochi modi con cui possiamo affrontare il nostro dolore quando i nostri bisogni primari di connessione non vengono accolti;
• L’equilibrio emotivo, la tranquillità e la gioia sono le ricompense dell’amore. L’infatuazione sentimentale è il premio di consolazione;
• Non esiste una prestazione perfetta nell’amore o nel sesso. L’ossessione per la prestazione è una strada senza uscita. È la presenza emotiva che conta;
• Nelle relazioni non ci sono causa ed effetto, linee dritte, solo circoli che i partner creano insieme. Ci spingiamo reciprocamente in cicli e spirali di connessione e distacco emotivo;
• L’emozione se siamo in grado di ascoltarla e di usarla come guida ci dice esattamente ciò di cui abbiamo bisogno;
• Tutti a volte proviamo una sensazione di panico. Perdiamo il nostro equilibrio e diventiamo controllanti ansiosi o intorpiditi o evitanti. Il segreto è di non permanere in queste posizioni. È difficile per il tuo partner raggiungerti li;
• I momenti chiave di unione, quando una persona cerca l’altra e quest’ultima risponde ci danno coraggio ma sono magici e trasformanti;
• Perdonare le offese è fondamentale e può verificarsi solo quando i partner riescono a dare un senso alla loro sofferenza e sanno che il loro compagno si connette e percepisce il loro dolore;
• È possibile che in amore la passione sia duratura. L’incostante ardore dell’infatuazione è solo il preludio: un legame amorevole è la sinfonia;
• La trascuratezza uccide l’amore. L’amore necessità di attenzioni. Conoscere i tuoi bisogni d’attaccamento e rispondere a quelli del partener può creare davvero un legame fino a che “morte non vi separi”;
• Tutti gli stereotipi dell’amore- quando le persone si sentono amate sono più libere, più vive, più forti- sono più veri di quanto abbiamo sempre immaginato.
Certo non basta avere in testa questi punti per garantirsi e per garantire ai nostri pazienti una relazione piena d’amore, ogni volta è necessario rimettere in discussione e riflettere bene quando si perde la connessione emotiva con le persone care, con le persone che ci stanno vicino. È difficile imparare a gestire quella frazione di secondo in cui si ha ancora la possibilità di scegliere se incolpare, vendicarsi, mettere su un muro, allontanare oppure fare un profondo respiro e sintonizzarsi sulle proprie emozioni e su quelle dell’altro, rallentare, aprire il dialogo…. Ma in questo ci aiuta questo prezioso libro che ogni coppia dovrebbe tenere sul comodino.
In particolare nella prima parte del libro Sue Johnson cerca di dare una nuova luce al concetto d’amore passando per la teoria dell’attaccamento.
Frequentemente utilizziamo la parola amore, compriamo poesie d’amore, leggiamo libri d’amore, ascoltiamo canzoni d’amore, ci eleviamo per un “Ti amo” e crolliamo per un “non ti amo più”, ma cos’è davvero l’amore? L’autrice in queste pagine ci accompagna in un percorso alla scoperta del concetto di amore.
In questo viaggio il punto di partenza è capire che l’amore non è un vezzo, ma un bisogno primario della nostra vita. Anche noi terapeuti forse quando abbiamo una coppia in terapia dobbiamo imparare ad andare più a fondo a non cadere nel tranello di vedere semplicemente gli schemi in cui i partner sono incastrati, le trappole della loro relazione e lavorare sulla negoziazione e sulla capacità di comunicare meglio, ma dovremmo insieme a loro scendere al nocciolo del problema: la disconnessione emotiva, i partner non si sentono emotivamente sicuri l’uno dell’altro, “potrò fidarmi di te? Ci sarai quando avrò bisogno di te? Ci tieni a me? Sono stimato da te?”
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E allora è in questo quadro che le critiche e la collera diventano un modo per richiamare l’attenzione, un goffo tentativo per risvegliare il cuore del partner, e poter finalmente ristabilire un senso di connessione sicura. Grazie alle pagine di questo libro, alle storie delle coppie raccontate, impariamo a conoscere quelli che l’autrice chiama i “Dialoghi Demoni”, tanto più a lungo i partner si sentono disconnessi emotivamente tanto più i risvolti della loro relazione risulteranno negativi.
Nello specifico alla base della EFT troviamo sette conversazioni che hanno lo scopo di promuovere quella particolare responsività emotiva che è alla base di una relazione duratura. La responsività emotiva ha tre caratteristiche principali, che possono essere riassunte in queste domande: sono in grado di raggiungerti? Posso contare sul fatto che mi risponderai emotivamente? Sono sicuro che mi stimerai e mi starai vicino? Concludendo la prima parte del libro l’autrice ci suggerisce come poter vedere la propria relazione sotto la lente d’ingrandimento dell’attaccamento, e questo può esserci molto utile sia come terapeuti che come persone.
Nella seconda parte del libro l’autrice attraverso l’uso delle sette conversazioni ci porta per mano nel lungo percorso della comprensione e costruzione di un legame di coppia sicuro, maturo e duraturo. Una relazione di coppia, un forte vincolo emotivo in cui i partner hanno bisogno di essere visti, curati, protetti e tutelati. Una volta capito con cosa ha a che fare l’amore e la creazione di una relazione di dipendenza positiva passo passo impariamo come poter modificare e cambiare ciò che non funziona nelle nostre relazioni o nelle relazioni dei nostri pazienti.
Le sette conversazioni per il cambiamento
Per ogni passo, per ogni conversazione l’autrice porta esempi, storie e risoluzioni di coppie e spunti di riflessione e lettura delle relazioni di coppia.
• Riconoscere i dialoghi demone: in questa conversazione attraverso la storia dei pazienti e attraverso alcuni esercizi in cui l’autrice guida il lettore è possibile identificare i cicli negativi che hanno intrappolato entrambi i componenti della coppia, quella sospettosità ormai data per scontata, quella posizione di difesa, il sentirsi un fallimento come partner… la consapevolezza come primo passo per il cambiamento.
• Trovare i punti sensibili: in questa parte vengono esplorate a fondo le emozioni che più di tutte ci impediscono di sintonizzarci come coppia, in particolare le paure dell’attaccamento. L’autrice mette in luce come spesso un punto sensibile per le coppie sia la vulnerabilità, l’ipersensibilità che si è formata nei momenti in cui nelle relazioni passate o presenti di una persona un bisogno di attaccamento è stato trascurato e ignorato, questa ipersensibilità deriva frequentemente da relazioni traumatiche con le persone significative, soprattutto con i nostri genitori. In queste pagine Sue Johnson accompagna il lettore nella comprensione dei propri punti sensibili, aiuta a trovarne la causa e a condividerli con il partner.
• Ripercorrere un momento difficile: una volta condivise e riconosciute le nostre fragilità e i nostri punti di vulnerabilità diventa importante lavorare con i sentimenti relativi all’attaccamento per ridimensionare i pattern distruttivi in cui cadiamo, questo per ridurre i conflitti interni alla coppia. Nelle pagine di questa conversazione l’autrice ci fornisce esempi dalla sua esperienza clinica e fornisce al lettore alcune griglie di lettura e compiti per imparare a leggere un momento difficile della coppia e de-intensificare il conflitto.
• Stringimi forte, impegnarsi e connettersi: altro passo importante diventa ora creare delle positive conversazioni che rinforzino il fatto di essere accessibile, responsivo e collegato al partner e viceversa. Ci aiuta a riconoscere i nostri bisogni nella coppia e ci invita a condividerli con il partner.
• Perdonare le offese: in questa conversazione Sue Johnons consiglia alle coppie di condividere un momento in cui hanno sentito meno il supporto dell’altro, capire come poi ci si è riavvicinati e rassicurarsi sul fatto che non accadrà più. La capacità di perdonare e perdonarsi dà alla coppia un grande potere, non esiste alcuna relazione a prova di trauma ma sapere di essere capaci di riprendersi dà maggiore forza e sicurezza.
• Legarsi attraverso il sesso e il contatto fisico: l’autrice accompagna il lettore in un analisi del proprio modo di vivere il sesso e il contatto fisico con il partner, ridando importanza e centralità a questo aspetto nella vita di coppia.
• Mantenere vivo il tuo amore: questa conversazione potrebbe essere riassunta con “Quale piccola cosa potresti fare ogni giorno per far sentire al tuo compagno che vuoi ancora stare con lui?”
Nella terza e ultima parte del libro Sue Johnson focalizza l’attenzione sull’importanza della connessione emotiva nella coppia per affrontare, fronteggiare e superare le esperienze traumatiche che si presentano nella vita del partner, lutti, separazioni, perdita del lavoro.. l’affrontare il “mostro”, la fatica, il dolore, con la persona amata al nostro fianco aumenta la resilienza e ci permette di trovare la forza.
Un libro da leggere non solo come terapeuti ma soprattutto come persone, persone che vivono una relazione con tutte le gioie e le fatiche del caso. Un libro da consigliare alle coppie che abbiamo in terapia, ma anche un libro da regalare al fidanzato o al marito.
La dismorfofobia indica un’eccessiva preoccupazione per un difetto estetico tale da indurre il soggetto a percepire la sua immagine corporea come distorta.
La dismorfofobia indica un’eccessiva preoccupazione per un difetto estetico tale da indurre il soggetto a percepire la sua immagine corporea in maniera distorta perché si fissa su difetti estetici anche minimi.
La dismorfofobia colpisce sia adolescenti che adulti, soprattutto donne, ma anche uomini, infatti è una malattia che coinvolge chi non è in grado di accettare il proprio aspetto, chi non si sente all’altezza degli altri, chi non ha le difese necessarie per proteggersi dall’ideale di perfezione della nostra società in cui i canoni estetici sono sempre più esigenti. I difetti fisici coinvolti possono essere di vario genere e spesso si ricorre alla chirurgia estetica.
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Questa percezione alterata della propria immagine domina la vita della persona e queste preoccupazioni spesso diventano incontrollabili fino a portare il soggetto a passare molte ore della giornata a rimuginare sul difetto fisico.
La Dismorfofobia è ancora poco studiata, quindi rintracciarne un giusto profilo è un’impresa ardua, anche perché pochi pazienti chiedono un consulto psicologico, per il fatto che oggi sembra del tutto normale preoccuparsi per il proprio aspetto fisico. Si può trovare una possibile correlazione tra dismorfofobia edisturbo dell’umore, disturbo narcisisticodella personalitàe disturbo ossessivo-compulsivo. Ma queste psicopatologie possono esserne sia la causa, sia la conseguenza della cattiva percezione del proprio corpo.
Anche se questo disturbo è stato identificato già da oltre un secolo, non esistono ancora teorie consolidate relative alla sua genesi. Alcune ipotesi fanno riferimento a cause di tipo psicologico, come ad esempio una serie di conflitti emotivi inconsci, mentre altre tesi sostengono che la dismorfofobia dipenda da fattori neurobiologici, in particolare da alterazioni nel funzionamento del sistema serotoninergico o da disfunzioni delle aree cerebrali deputate a controllare l’immagine corporea. Da non trascurare, poi, le ragioni di tipo socioculturale, cioè l’enorme valore attribuito dai mezzi di comunicazione di massa a una bellezza fisica standardizzata e priva della benché minima imperfezione. Tali fattori rappresentano certamente delle concause nell’insorgenza di questo disturbo e ne spiegano la crescente diffusione negli ultimi decenni.
In personalità già rese fragili da esperienze personali, il contesto ambientale contemporaneo ha un effetto devastante, facendo credere alla persona che il corpo è il solo “mezzo” per ottenere successo e attenzioni. L’adolescente è il bersaglio più ambito per questa società che appare, più si ha una personalità non ancora formata e salda, più si è a rischio di trovarsi travolti da queste eccessive richieste di conformità e stereotipie. Come già esposto sopra la dismorfofobia non ha ancora goduto di un’adeguata attenzione, e anche per questo il trattamento, possiamo dire che, è “in fase di costruzione”.
Però è anche vero che, come mostrano alcune ricerche rispetto al trattamento farmacologico, i pazienti sembrano rispondere bene all’assunzione di SSRI così come alla clomipramina e alla fluoxetina. È utile affiancare alla terapia farmacologica, anche una psicoterapia. A riguardo l’approccio terapeutico cognitivo-comportamentale sembra essere particolarmente utile per modificare la percezione distorta di sé, ridurre i comportamenti di controllo del difetto e il recupero di una relazione positiva con la propria immagine e con gli altri.
Nel corso di un colloquio psicologico lo psicologo può spesso trovarsi nelle condizioni di fare una domanda. Fine e Glasser [1996] suggeriscono di evitare, se possibile di fare domande, perché il rischio che si corre è quello di ricadere nella trappola delle domande e cioè di far piombare il colloquio psicologico in un fredda sequela di domande-risposte che emula il rapporto comunicativo genitore-figlio e che è assolutamente dannosa per l’instaurazione di un rapporto di fiducia.
Monografia sul Colloquio Psicologico. A cura di Gabriele Caselli, Ph.D.
Difficilmente una volta che si è stabilita questa trappola si può tornare indietro. Ciò nonostante si è sempre inclini a fare domande, se non altro per verificare le proprie ipotesi sperimentali e per approfondire argomenti che stanno a cuore allo psicologo, o semplicemente perché non si sa cos’altro dire e ci si rifugia dietro un quesito che possa prolungare la comunicazione e trasmettere qualche informazione in più. Tuttavia, se anche possono aiutare lo psicologo e la sua ansia, possono essere dannose per il paziente.
Nel momento in cui ci troviamo a dover fare delle domande dobbiamo seguire alcune linee guida:
– se è possibile evitarle e trasformarle in risposte riflessive o in parafrasi,
– assicurarsi che siano domande rilevanti rispetto a ciò che sta dicendo il paziente, anche per evitare di mostrare disattenzione,
– cercare di porre domande che favoriscano il cambio di prospettiva, la conoscenza di nuovi punti di vista e l’insight,
– evitare di chiedere “perché” dal momento che potrebbe attivare meccanismi difensivi del paziente come se fosse implicito che non avrebbe dovuto farlo,
– fare domande aperte piuttosto che chiuse dal momento che conducono più difficilmente alla trappola delle domande e che permettono al paziente di mantenere le redini del fluire del colloquio psicologico.
Bisogna anche prestare attenzione a quando porre domande. È importante che il momento delle domande sia separato dal resto della comunicazione per non interferire sul discorso del paziente. Questa fase può realizzarsi all’inizio o alla fine del colloquio e lo psicologo può sottolineare l’inizio e la fine dei diversi momenti della sessione. In alcuni casi è possibile far evolvere il colloquio senza utilizzare domande chiuse, in tal caso il resoconto sulle informazioni ottenute può essere fatto dopo il termine del colloquio stesso.
Infine, se capita di porre una domanda in mezzo al fluire della comunicazione del paziente bisogna accertarsi di recuperare il filo del discorso e di rendere breve l’interruzione. In ogni caso ove è possibile gli autori auspicano la rinuncia alle domande.
La tristezza sembra rendere le gratificazioni immediate più attraenti, anche quando è evidente che gratificazioni ritardate portano ad un guadagno maggiore.
Eravamo in attesa di nuove ricerche che analizzassero con più chiarezza la relazione esistente tra stato d’animo e decisioni “economiche” della vita quotidiana. Ci ha accontentati Jennifer Lerner, studiosa dell’Università di Hardvard e co-autrice dell’articolo recensito lo scorso dicembre, in cui abbiamo parlato della tendenza piuttosto diffusa a spendere più denaro quando ci si sente tristi (il “misery-is-not-miserly-effect”).
Lerner e colleghi hanno infatti pubblicato una nuova ricerca, questa volta con lo scopo di indagare sul fenomeno della “myopic misery” (letteralmente, “infelicità miope”: Lerner, Li, & Weber, 2012). L’ipotesi da loro sviluppata è che la tristezza possa incrementare il senso di impazienza e renda più probabili decisioni economiche “miopi” (appunto), per cui soggetti di cattivo umore sarebbero più propensi ad accettare compensi minori, ma immediati, piuttosto che compensi rimandati nel tempo, ma più cospicui.
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In altre parole, rimandare una gratificazione sarà tanto più difficile quanto più basso sarà il nostro umore. Nonostante diversi studi abbiano dimostrato l’effetto contrario, osservando come uno stato d’animo positivo rendesse le persone più pazienti (Ifcher & Zarghamee, 2011; Pyone & Isen, 2011), gli esperimenti di Lerner sono stati i primi ad indagare da vicino il fenomeno in questione.
In un primo esperimento gli autori hanno voluto testare l’ipotesi che non fosse solo la tristezza ad influenzare decisioni economiche del tipo “ora o più tardi”, ma qualsiasi generico stato d’animo negativo, come ad esempio il disgusto. Hanno così aggiunto al paradigma sperimentale utilizzato nella ricerca del 2008 anche una “disgust condition”: oltre ad un filmato elicitante tristezza e ad un filmato “neutro”, ai soggetti è stato mostrato un terzo filmato, elicitante disgusto (un videoclip su un bagno sporco). I partecipanti hanno poi dovuto scegliere tra un compenso compreso tra gli 11$ e gli 80$, che avrebbero ricevuto immediatamente in contanti, e un compenso maggiore (tra i 25$ e gli 85$) che avrebbero ricevuto invece più tardi, in un periodo compreso tra la settimana e i sei mesi successivi. Come previsto, i soggetti nella condizione tristezza erano coloro che dimostravano più impazienza nella decisione finale e accettavano il compenso immediato. I partecipanti “disgustati”, invece, si comportavano esattamente come i soggetti nella condizione neutra, a dimostrazione del fatto che la responsabile della myopic misery sia unicamente l’emozione in questione.
In un secondo esperimento un compito analogo è stato somministrato via internet ad un campione internazionale di soggetti. Prima di prendere la decisione “economica”, i partecipanti dovevano scrivere su un foglio tutto ciò che veniva loro in mente pensando alla scelta che avrebbero dovuto fare. Successivamente ogni partecipante doveva segnalare quali, tra i pensieri registrati, aveva effettivamente favorito la decisione di prendere il denaro subito piuttosto che di aspettare. L’ipotesi qui era che la tristezza potesse facilitare la generazione di giustificazioni per la scelta affrettata: ed è proprio quello che è stato osservato. Le ragioni a sostegno della scelta di un compenso immediato erano più frequenti e venivano in mente più velocemente nei soggetti tristi.
Ma il senso di impazienza generato dalla tristezza è di natura generica o si riferisce solo alle scelte che implicano un guadagno immediato? Per rispondere a questa domanda è stato condotto un ultimo esperimento, in cui è stato chiesto ai soggetti di scegliere o tra compensi minori immediati e compensi maggiori non immediati, o tra grandi compensi non immediati e compensi ancora più grandi che avrebbero ricevuto però ancora più in là nel tempo. Come risultato, la tristezza influiva sul primo tipo di decisione ma non sull’impazienza implicata nelle due opzioni di non immediato compenso (seconda decisione). È quindi probabile che questo stato d’animo accresca in generale il desiderio di fare qualcosa immediatamente.
La tristezza, quindi, renderebbe le gratificazioni immediate più attraenti, anche qualora venga reso evidente che gratificazioni più ritardate nel tempo potrebbero portare ad un guadagno maggiore.
Questo tipo di fenomeno ha implicazioni pratiche non di poca importanza, dal momento che gran parte delle decisioni rilevanti della nostra vita vengono prese in momenti emotivamente salienti. L’amore ci spinge a fare e ad accettare proposte di matrimonio, la rabbia ci spinge a licenziare o rifiutare qualcuno, e via dicendo: spesso specifiche emozioni sono indissolubilmente legate alle scelte che facciamo. Pensate alla tristezza provata dopo un lutto e a tutte le decisioni di natura economico/organizzativa che devono essere prese per il funerale, o al famoso “shopping terapeutico”, ossia la tendenza a dedicarsi alle spese per riparare ad uno stato d’animo negativo (quanto possono essere dannose, a tal proposito, le sempre più usate carte di credito?). Le scoperte di Lerner e colleghi potrebbero fornire valide indicazioni su come migliorare queste “conseguenze decisionali” e gli stessi contesti in cui esse vengono solitamente prese.
Il cuore dell’intervento di Janina Fisher è sicuramente la descrizione della disregolazione emotiva, spiegata come difficoltà a riportare uno stato di arousal emotivo a livelli tollerabili.
In linea con Van Der Hart (1999) e Ogden e Minton (2006), la Fisher descrive la capacità di “regolare” i propri stati interni, come una capacità che viene appresa durante l’infanzia grazie al legame con le proprie figure di attaccamento.
Impariamo a calmarci da soli, perché qualcuno ci ha rassicurato in passato, impariamo a tirarci su il morale, perché qualcuno ha saputo farci sorridere quando eravamo tristi!
In questo modello, l’attivazione fisiologica frutto di una buona regolazione emotiva è chiamata Zona di Attivazione Ottimale (o “finestra di tolleranza”), e varia da individuo ad individuo e in base al contesto in cui siamo. Quel che è certo però è che nessuno può stare troppo a lungo al di sotto (ipoarousal) o al di sopra (iperarousal) di questa finestra, senza sviluppare intensa sofferenza psicologica.
La finestra di tolleranza corrisponde ad uno spazio ideale all’interno del quale “ci sentiamo al sicuro”, all’interno del quale possiamo “pensare e allo stesso tempo sentire emozioni”, possiamo pensare ed agire in modo funzionale ai nostri bisogni, possiamo stare.
In situazioni psicopatologiche, la finestra di tolleranza può essere molto piccola, una finestra “toothpick” come dice Janina, e rendere rapidissimo il passaggio da uno stato di bassa attivazione (stati di vuoto, tristezza, rallentamento cognitivo, disperazione, vergogna) ad uno di alta (ipervigilanza, incubi, diffidenza estrema, irritabilità, comportamenti distruttivi), senza che vi sia alcuna possibilità di regolazione.
La corteccia è tagliata fuori, tutto è emozione e azione.
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All’interno della terapia sensomotoria, il ruolo del terapeuta è dunque primariamente quello di “regolatore neurobiologico” degli stati emotivi che escono dalla finestra di tolleranza del paziente, mentre successivamente si potrà ragionare su questi stati e dar loro un significato.
L’acquisizione delle capacità metacognitive necessarie per portare avanti un dialogo clinico che sia efficace, passa dunque dal corpo e dalla sua continua osservazione (tecniche bottom up): postura, tono di voce, gesti, sensazioni interne, espressioni facciali, azioni desiderate, azioni fatte.
“Qualche volta il mio studio sembra più un ambulatorio di fisioterapia che di psicoterapia”
“La psicoterapia può essere un gioco più che un lavoro”
Intervista alla Dott.ssa Janina Fisher
SoM: Quando in Italia si parla di neurobiologia o neuroscienze in generale, suona subito come qualcosa che ha che fare più con la medicina che con la psicologia e questo sia nei luoghi di lavoro che talvolta in ambienti universitari. La psicoterapia sensomotoria invece, muove da una solida e imprescindibile base neurobiologica, che diventa terreno comune per paziente e terapeuta. Che clima ha trovato, secondo lei, la psicoterapia sensomotoria in Italia?
JF: Credo che in tutto il mondo ci siano terapeuti in cerca di risposte e sia in una nazione con orientamento più scientifico, che in una culturalmente più orientata alla tradizione psicoanalitica, come ad esempio la Francia, ci sono terapeuti che non conoscono questo tipo di approccio, ma che sono in cerca di strategie e protocolli che siano più adatti ai loro pazienti. Non sono io ad aver portato la psicoterapia sensomotoria in Italia, ma in generale credo che il problema non sia parlare di “circuiti neurali” all’interno delle nostre sedute, ma piuttosto il modo in cui ne parliamo. Perciò quando io dico ad un mio paziente “Si, il tuo dolore e la tua sofferenze sono il tuo corpo che sta ricordando, con i sentimenti e le sensazioni di quel bambino spaventato e solo…”, nessuno mi può rispondere “Lei non ha capito niente!”.
SoM: Durante le giornate del convegno si parlerà di terapia sensomotoria e di EMDR, come approcci da integrare tra loro o da utilizzare all’interno di altri approcci psicoterapici. Quali sono secondo lei le più importanti similarità e differenze tra i due metodi?
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JF: Parlando in generale, l’EMDR richiede che il paziente abbia una più ampia “finestra di tolleranza”, mentre con la terapia sensomotoria questa può essere anche bassissima o inesistente. Dall’altro lato, la terapia sensomotoria è più relazionale e quindi con pazienti che non hanno molta consapevolezza del loro corpo o ai quali piace “tenere le distanze” dal terapeuta, l’EMDR è perfetto.
La terapia sensomotoria è per alcuni aspetti più “delicata”, mentre qualche volta i pazienti che si sottopongono ad EMDR, riferiscono un intenso stato di attivazione “overwhelming” dopo ogni seduta. Al contrario la conclusione delle sedute di terapia sensomotoria si chiudono con un discreto stato di benessere.
Qualche volta noi siamo soliti utilizzare terapia sensomotoria nella prima parte del trattamento, ma appena il paziente è stabilizzato e mostra una finestra di tolleranza più ampia, consigliamo un percorso EMDR per lavorare in modo più specifico sulle memorie traumatiche.
Tra le somiglianze infine c’è il fatto che entrambi facilitano un atteggiamento mindful. Nell’EMDR l’evento è solo un trigger per trovare un’immagine, una cognizione negativa, un’emozione ed una sensazione fisica collegata ad esso ed osservarle contemporaneamente, e nello stesso modo nella terapia sensomotoria poniamo l’attenzione su questi stessi elementi ma all’interno del dialogo con il paziente.
Guarda la Video-Intervista di State of Mind a Isabel Fernandez
SoM: Pensando alla “finestra di tolleranza” sembrerebbe che utilizzare la terapia sensomotoria con pazienti dissociativi sia meno rischioso rispetto all’EMDR, poiché il contatto costante con il corpo funge da “ancoraggio” alla realtà. Cosa ne pensa?
JF: Sì, credo che la terapia sensomotoria sia ottima per dare alle persone la sensazione del “qui ed ora”, ma alcune colleghe molto esperte come Dolores Mosquera e Anabel Gonzalez utilizzano splendidi protocolli di intervento su pazienti dissociativi, molto efficaci e compatibili con le tecniche sensomotorie.
Diciamo che per la media dei terapeuti può essere più rischioso usare EMDR con pazienti dissociativi, mentre la sensomotoria si può usare con un margine di sicurezza maggiore, anche se non si è accumulata troppa esperienza clinica.
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SoM: Parlando ad un terapeuta cognitivo-comportamentale, sarebbe corretto secondo lei spiegare la psicoterapia sensomotoria come un metodo per far sperimentare al paziente nuovi eventi di vita con l’obiettivo di “imprimere” nella sua mente le cognizioni positive e più funzionali?
JF: Sì, assolutamente! Io faccio sempre questa battuta ai terapeuti CBT: “Devi imparare almeno una body therapy, se vuoi davvero diventare un bravo terapeuta cognitivo!” Unire le tecniche sensomotorie alla ristrutturazione cognitiva o agli esercizi di esposizione con prevenzione della risposta (E-RP), è del resto molto semplice e rende il trattamento sicuramente più efficace nel prevenire ricadute.
Felicità & Scenari Negativi: Non è vero che più pensiamo positivo e più saremo felici. Per il nostro benessere è meglio immaginare che qualcosa vada storto
Ebbene sì, sembra un paradosso ma non lo è. Da recenti studi sembra che le persone riescono a vedere un futuro luminoso nonostante si prefigurino nella mente possibili scenari negativi, perché rifiutano che questi episodi possano realmente accadere.
Spetta a Ed O’Brien (University of Michigan) il merito di aver approfondito come varia la percezione della felicità: perché alcune volte il futuro ci sembra roseo ed altre volte invece le stesse situazioni ci sembrano terrificanti?
Lo studio preso in considerazione è costituito da cinque ricerche sperimentali aventi lo scopo di valutare la percezione di benessere in relazione alla fluidità con cui episodi passati e futuri venivano raccontati. Ai partecipanti venne chiesto, quindi, di pensare ad episodi del passato e del futuro, sia negativi che positivi, e di metterli in relazione alla sensazione di felicità che questi evocavano.
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I risultati hanno confermato gli studi passati: la facilità con cui questi episodi venivano raccontati aveva l’effetto di amplificare la percezione di benessere esperita. Quindi, maggiore era la facilità di racconto, maggiore era anche la sensazione di felicità.
Allo stesso modo, più erano scorrevoli i racconti su episodi passati negativi, maggiore era la percezione di infelicità ad essi riferita. L’elemento interessante fu scoprire che gli stessi risultati non furono trovati in relazione ad episodi del futuro. Mentre i soggetti riportavano alti punteggi nella percezione di felicità per eventi futuri positivi, nel momento in cui venne chiesto di inventarne di sfavorevoli il trend non venne confermato. Il semplice fatto di immaginare circostanze negative nel nostro futuro non ci rende infelici, come poteva essere ipotizzato. La spiegazione ruota intorno alla capacità umana di giustificare queste situazioni sostenendo l’improbabilità che nella realtà possano effettivamente occorrere.
Come a dire che siamo in grado di scacciare l’idea che brutte situazioni possano accadere nella nostra vita e, così facendo, sentirci meno infelici. Questa tendenza non si riscontra, però, per quanto riguarda i giudizi nei confronti degli altri, verso i quali è risultato più semplice ipotizzare scenari di infelicità in relazione a condizioni sfavorevoli.
Inoltre, O’ Brien ha cercato di valutare in che modo variava la capacità di rievocare eventi positivi in relazione alla quantità di episodi che si dovevano immaginare: la ricerca ha evidenziato come fosse più difficile raccontare numerosi fatti del passato che solamente un paio, e i punteggi di benessere percepito rispecchiavano questo aspetto. Il nocciolo sembra essere evidente: pensare ad un gran numero di possibili scenari positivi non aiuta il nostro benessere.
Ciò, ancora una volta, non è stato confermato in merito al nostro futuro. A prescindere dal numero di situazioni future immaginate, le persone tendono a sottostimare la probabilità che queste possano accadere realmente nella vita e quindi la percezione di benessere non risulta negativamente influenzata.
Non è vero, insomma, che più pensiamo positivo più saremo felici. Talvolta per il nostro benessere è meglio immaginare che qualcosa possa andare storto piuttosto che sforzarsi di pensare a numerosi scenari favorevoli. Insomma, è gratificante pensare che essere un po’ pessimisti può aiutare a renderci più felici.
Ardue sono le sfide future per la Terapia Metacognitiva, ma i risultati sono piú che promettenti. Due aree di confine emergono come affascinanti proiezioni di ció che sará nei prossimi congressi.
La prima é rappresentata dall’estensione della Terapia Metacognitiva a pazienti con Disturbo Borderline di Personalitá.
Hans Nordhal presenta i risultati del protocollo Eris ormai giunto a un follow-up di due anni. Primo studio, solo dieci pazienti, ma i risultati spingono a perfezionare e continuare gli studi. Interessante la prospettiva:
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1. I pazienti hanno una scelta, se iniziano questa terapia sanno che non durerá piú di un anno, indipendentemente dalle condizioni al termine, dopo si tenteranno interventi diversi.
2. Tutta la terapia viene condotta riportando costantemente il paziente in una posizione di consapevolezza distaccata rispetto a pensieri e al pensare. Qualcuno chiede a Nordhal: “Lei che seguiva la Schema Therapy, come mai ha cambiato e cosa trova in questo nuovo approccio?” Risposta: “La Schema Therapy era molto lenta e frustrante nella costante tensione verso la sofferenza, riviverla, cambiarla. Una sfida interessante ma anche, nelle parole dell’autore, al momento molto lontana.
Seconda sfida é l’estensione della Terapia Metacognitiva come terapia di gruppo.
Con le prime applicazioni nel campo della depressione che sono state presentate al congresso da Costas Papageorgiou. Una presentazione esposta con luciditá rara che descrive due punti chiave del tentativo di trasportare la Terapia Metacognitiva in modalitá di gruppo. Punto primo: la psicoterapia di gruppo é spesso stata introdotta per risparmiare denaro, quando tutti i dati mostrano che pur essendo più economica, tendenzialmente risulta meno efficace di quella individuale.
Quindi la sfida é creare una terapia di gruppo che sia innanzitutto efficace. Il problema nei gruppi é che non é possibile dare una grande attenzione ai processi individuali. Per questo la via del learning by doing insegnando ai pazienti a produrre le formulazioni dei propri compagni di viaggio ed aumentare il lavoro tra loro puó essere (e sembra che sia) una semplice ma buona idea per superare i limiti della terapia di gruppo. Perché applicare direttamente é il miglior modo per acquisire.
Alcuni genitori di bambini con ADHD pensano di introdurre i figli allo sport professionistico per fornire loro spazi in cui l’iperattività sia “premiata”.
I bambini e gli adolescenti con ADHD presentano come sintomo prevalente l’iperattività. Spesso, questo tratto temperamentale porta questi ragazzi a coinvolgersi in diverse attività fisiche, tra cui lo sport. Di fronte a tale difficoltà, alcuni genitori sembrano intravvedere la possibilità di introdurre i propri figli allo sport professionistico al fine di fornire loro uno spazio in cui l’iperattività sia “premiata” e valorizzata.
È, quindi, importante comprendere quali sia l’indicazione più adeguata da fornire a questi genitori, con l’obiettivo di comprendere l’utilità di far perseguire ai propri figli una carriera professionistica nell’ambito dello sport.
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Negli ambulatori dei medici e degli psicologi arrivano molti genitori preoccupati da una possibile diagnosi di ADHD per i loro figli. Il funzionamento delle persone con una diagnosi di ADHD è problematico causa della presenza di alcune funzioni cognitive disturbate (Conners, 2000). Tuttavia, ci si può chiedere se tale funzionamento così peculiare e poco comune non possa essere utilizzato al fine della auto-realizzazione nel campo dello sport.
É stato condotto uno studio per verificare l’associazione tra iperattività e attività sportiva. Sono stati confrontati i dati ottenuti dai questionari per valutar l’ ADHD e il questionario EAS-D (Buss, Plomin, 1984), una misura del temperamento, per trovare una correlazione tra questi tratti.
Dai risultati dello studio, è possibile concludere che negli adolescenti con ADHD, non vi sia alcun collegamento tra iperattività e prestazioni elevate nell’ambito dello sport. Poco più del 30% degli intervistati, infatti, presenta un livello di frequenza elevato di attività fisica e la correlazione tra iperattività e quantità attività fisica non sembra statisticamente significativa.
I risultati hanno mostrato che l’iperattività non sembra essere correlata a un livello superiore di prestazioni nell’attività fisica e nello sport.
In conclusione, fare sport per questi bambini è auspicabile, perché permette loro di portare avanti comportamenti a sostegno dello sviluppo sano (Biederman, Spencer, Wilens, Faraone, 2002), e che contribuiscano ad alleviare la tensione, sintomo molto frequente e disfunzionale per i bambini e gli adolescenti con ADHD.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso
Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi” lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate.
Quando un paziente si suicida è sempre una brutta cosa, forse non per lui che l’ha scelto, ritenendolo dunque l’opzione migliore, ma per il curante certamente.
In primo luogo non è una gran bella pubblicità, in secondo luogo colpisce l’autostima professionale e, terzo, solleva quel senso di colpa che si aggira sempre nei paraggi di un morto, costituito, in parte, dalla colpa del sopravvissuto ed in parte da tutte quelle azioni ed omissioni che avrebbero potuto indirizzare diversamente gli eventi.
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Siccome Carlo, da collega quale era, sapeva benissimo l’effetto che avrebbe fatto il suo suicidio nella comunità pettegola degli psicoterapeuti romani, consideravo il suo gesto come un vero e proprio attacco personale. Nonostante mi renda conto che uno che abbia deciso di uccidersi non debba essere massimamente preoccupato dell’effetto del suo gesto su di me, tuttavia non mi meravigliò: si era dimostrato come al solito un grandissimo stronzo.
Ero incerto se andare o meno alla camera ardente, non ne avevo alcuna voglia, mi vedevo subissato dalle domande maligne dei colleghi, consolatorie e insinuanti ad un tempo, come starai male a vedere la tua sovrastimata competenza sdraiata nella cassa.
Ma non andarci sarebbe stato ingiustificabile e, in qualche modo, un’ esplicita ammissione di colpa. Perciò, indossai la faccia di circostanza più triste che avevo e andai, arrivando però molto tardi per cercare di restare fuori dal capannello dei più intimi, che si inumidivano di lacrime e abbracci.
Ho sempre trovato disgustose le secrezioni dolorose e non so mai che dire e dove mettere le mani. Carlo se ne stava tutto beato al centro dell’attenzione, con quella sua faccia da bastardo che la condizione di morto accentuava. Un sorriso sottile e ironico che mostrava appena i denti solcava la faccia più pallida del solito e i capelli lunghi dietro e radi davanti erano di un grigiastro che non aveva avuto il tempo di diventare compiutamente bianco. Era una via di mezzo incerta e indefinita, metafora della sua esistenza.
Aveva appena compiuto sessant’anni, che portava da schifo, ed erano circa trent’anni che lo conoscevo. Quando lo incontrai, il primo giorno della scuola di specializzazione di cui ero docente, era vestito pressappoco come nella camera ardente: un abito di velluto blu a coste sottili. Evidentemente, riteneva quello un momento importante come quello odierno anche se, a pensarci bene, l’abbigliamento attuale e definitivo non doveva averlo scelto lui ma la raffinata Stefania al suo debutto nel ruolo vedovile. Tra quella prima volta e quest’ultima non lo avevo più visto vestito bene: i jeans e un maglionaccio d’inverno o una camiciona d’estate erano la sua uniforme, con grande disappunto di Stefania che ci teneva alle apparenze e al giudizio sociale.
Durante il corso quadriennale si dimostrò brillante, ma già allora percepivo una sofferenza sotterranea e indefinita. Persino a me riesce difficile descriverlo, l’indefinitezza era forse la caratteristica più distintiva.
Carlo non si sentiva. Era sordo alle sue emozioni e persino alle sensazioni fisiche.Caldo, freddo, fame, sete e stanchezza non li percepiva in diretta ma doveva inferirli da indicatori esterni, ci arrivava con il ragionamento. In poche parole, direi che non viveva in un mondo reale ma fittizio, costruito per deduzione logica. II suo era un universo di pensiero disincarnato.
Era molto bravo e lo stimavo, per cui fui contento quando al termine del corso mi chiese di essere il suo supervisore. Ci volle poco a rendermi conto che la supervisione celava una richiesta di terapia che non riusciva ancora a formulare; inconsapevolmente, in ognuno dei pazienti che mi portava con passione, c’era un pezzetto di lui. Di sé non avrebbe saputo parlare. Per vergogna. Per mancanza del diritto di esserci. O peggio per l’assenza del sé.
Anche a me, che l’ho conosciuto così a lungo e profondamente come docente prima, supervisore poi e infine terapeuta, la sua essenza sfugge e il dubbio che ho più volte avuto era non che mi sfuggisse, ma semplicemente non ci fosse. Non saprei dire se non ci fosse mai stata o fosse andata perduta ma certo, guardando dentro di lui, sembrava di sporgersi su un pozzo profondissimo e vuoto.
Era un dubbio che negli ultimi tempi tormentava anche lui.
Mi raccontò un sogno in cui in classe, durante l’appello, giunto al suo nome la maestra si guardava smarrita intorno e, nonostante incontrasse il suo sguardo, decretava inesorabilmente la sua assenza.
Pensai addirittura che lo avesse inventato per esplicitarmi il suo vissuto di disidentità, ne sarebbe stato capacissimo, la menzogna era fedele compagna e finiva per confondere lui stesso. Ciò mi metteva in confusione, perché non sapevo in quale categoria diagnostica collocarlo. Mi sembrava piuttosto un puzzle mal ricomposto, con ampi buchi di forma e dimensioni continuamente mutevoli. Forse molte tessere erano per sempre andate perdute ed ogni sforzo sarebbe stato vano. Forse l’aspetto più autentico di lui era proprio la sua falsità.
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Una falsità non dovuta ad una regia occulta che decide i vari camuffamenti a seconda delle circostanze per raggiungere i propri scopi raggirando gli altri, piuttosto l’inverso: mancando una qualsiasi intenzionalità propria, aderiva automaticamente e immediatamente a quella degli altri di passaggio. In tutta la sua vita non era mai riuscito a rispondere alla domanda “ma tu cosa vuoi?”
Razionalmente faceva risalire tutto ciò ad un deficit di accudimento a causa di una madre prima malata e poi precocemente scomparsa; ciò lo aveva convinto di non essere degno e meritevole di cure ed attenzione e di doversi dare da fare continuamente per essere utile agli altri e dunque in qualche modo considerato.
Se questa poteva essere pura speculazione, una storia che raccontava e si raccontava senza peraltro sentirla vera, quello che certamente era reale era il dolore della separazione. L’allontanamento dalle persone care che negli anni erano cambiate lo attanagliava dallo stomaco in giù, paralizzandolo. Questa era l’unica emozione che gli sembrava autentica e quel vissuto, profondamente suo, era intollerabile da bambino come ancora ora, da vecchio.
Il Carlo orfanello aveva sviluppato alcune efficaci strategie per non essere abbandonato e, siccome funzionavano, si erano progressivamente rinforzate e sofisticate. In primo luogo esibiva le sue debolezze, disinnescando i comportamenti agonistici degli altri maschi e suscitando l’accudimento delle femmine. Inoltre aveva imparato a mettere l’interlocutore a suo agio, facendolo sentire una persona eccezionale e unica, re o regina che fosse.
Coglieva immediatamente i bisogni dell’altro che avevano la precedenza assoluta. Non era affatto per generosità disinteressata, ma solo per rendersi indispensabile e garantirsene la vicinanza. Paradossalmente, questo bisogno sia della protezione che del riconoscimento altrui, lo portavano all’isolamento volontario poichè la presenza dell’altro attivava un faticosissimo, incessante lavoro di anticipazione dei desideri per soddisfarli immediatamente.
Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi” lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate.
Questo, che potremmo chiamare “relativismo dell’io”, lo aiutava nella sua professione e comportava un buon successo sociale. Era infatti facilmente portato a mettersi nei panni dell’altro, a capirne il funzionamento dall’interno. In effetti i pazienti si sentivano con lui immediatamente compresi, oltreché sedotti dal suo farli sentire meravigliosamente unici.
I guai, anche professionali, iniziavano quando si trattava di produrre nel paziente un cambiamento sollecitando in lui una revisione critica dei propri punti di vista. Carlo era troppo immerso in loro per vederli dall’esterno. Sopra ogni altra cosa Carlo voleva apparire buono, onesto, generoso, disinteressato e profondamente altruista ma, contemporaneamente, voleva essere vincente e superiore a tutti.
Il suo ideale era quello di primeggiare senza ammettere di voler competere; ricco, ma schierato a difesa dei poveri.
Un giorno in supervisione mi portò il caso di un grave narcisista e mi disse che era molto in sintonia con il vissuto del paziente, con la differenza che lui voleva raggiungere gli stessi obiettivi apparendo, però, di semplicità e umiltà francescana. L’essere preso pervasivamente da se stesso lo aveva reso, con il passare degli anni, incredibilmente superficiale. Tanto più all’esterno appariva disponibile e attento agli altri, quanto più si era rinchiuso in un gretto meschino egoismo che includeva Stefania e i due figli.
In terapia, quando finalmente la richiese esplicitamente, riportava continuamente la sensazione del bluff. Aveva l’impressione che, se solo gli altri si fossero presi la briga di scavare oltre le imbellettate apparenze, avrebbero scoperto il nulla. Questo era un altro buon motivo per tenere tutti a debita distanza, quella distanza da dove si potevano ammirare i lustrini ma non abbracciare l’inconsistenza. Carlo diceva che il suo senso di indegnità derivava dalla considerazione che la sua esistenza non fosse stata sufficiente a trattenere in vita la madre. Lo diceva spesso, ma non credo che lo credesse veramente e, certamente, che non lo sentisse, ammesso che abbia mai sentito qualcosa di autentico eccetto la desertificazione dell’abbandono. Chissà se la prova anche ora, durante il giro dell’operaio con il saldatore sullo zinco.
Io credo, invece, che quella esperienza gli avesse insegnato la capacità di dissociare di fronte alle situazioni dolorose: appena intravedeva all’orizzonte la possibilità di un dolore fisico o di una perdita smetteva di sentire, congelava le afferenze, se ne andava.
Si ritrovava seduto in disparte ad osservare quanto accadeva come se si trattasse di un film che, da spettatore, commentava in genere con sarcasmo ed ironia. Il sorriso amaro, disincantato e beffardo era la sua arma migliore per negare serietà ed importanza ad ogni cosa. Sono certo che lo utilizzerebbe anche oggi, in questa camera ardente che si presta a mille battute che mi vengono irriverentemente in mente al suo posto.
La dissociazione però gli aveva preso la mano e creato una sorta di air bag emotivo tra lui e la realtà. Non solo quelle brutte, ma anche le emozioni belle non lo raggiungevano, il volume non lo si può abbassare selettivamente, tutte le note diventano in sordina. Ho sempre pensato, e lui era d’accordo, che questo limbo emotivo in cui si era prudenzialmente confinato fosse il motivo della sua mancanza di memoria.
Carlo non ricordava eventi che gli amici dicevano essere stati importantissimi e pietre miliari della loro e della sua esistenza. Era per lui motivo di grande cruccio, ma non riusciva che a ricostruirli assemblando le narrazioni degli altri, copiando le loro emozioni. Lui in prima persona non c’era. A mio avviso perché non c’era stato neppure mentre accadevano, lui era sempre preso da dettagli insignificanti, fuga nei particolari che diceva avvenire quando l’insieme era intollerabile.
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Mi piace pensare che, negli ultimi istanti, mentre si addormentava per l’ultima definitiva volta, in quel tempo intercorso prima che le cellule cerebrali soffocassero, sia effettivamente stato presente a se stesso. Non importa se abbia provato disperazione o terrore, purchè abbia provato effettivamente qualcosa, ma questo è un mio auspicio, che non è detto sia stato suo. Anzi, ho l’impressione che la mancanza di lucidità, lo stordimento e la confusione fossero sempre stati attivamente ricercati ad esempio con l’alcool.
Tutti gli riconoscevano una grande capacità ironica, grande dote che permette di vivere meglio. Ma anche l’ironia era una figlia, seppur buona, della dissociazione. Carlo si vedeva dall’esterno quale che fosse il ruolo che impersonava. Seduto in tribuna poteva commentare sarcasticamente il suo personaggio, in cui non si identificava mai del tutto. Si comportava come si comportano gli psicoterapeuti ma non lo era, si comportava come fanno i mariti o i padri o gli amici ma non lo era fino in fondo.
Forse l’esperienza più integrata che riusciva a vivere era l’innamoramento e la sua perdita, gli era capitato spesso nonostante se ne tenesse prudenzialmente lontano. Non aveva pace finchè non si sentiva ricambiato, trovando una conferma del proprio valore, poi l’altra perdeva il manto dell’idealizzazione e i pensieri ossessiviprogressivamente scomparivano.
Non era interessato alle avventure sessuali, dichiaratamente per fedeltà e per l’interesse esclusivo per i rapporti profondi, in verità per un vissuto radicato di inadeguatezza relativo in generale al proprio corpo e specificamente alla sessualità. Le donne che lo attiravano dovevano avere caratteristiche materne di accoglienza e accettazione incondizionata, meglio se mostravano debolezze, le donne bellissime non le riteneva alla sua portata e non lo interessavano.
Aveva la certezza di fare brutta figura e, dunque, poteva cimentarsi solo in situazioni in cui l’accettazione era scontata. Sin da giovane , l’età in cui gli altri facevano le bravate, lui si era identificato con Don Abbondio: del prevosto manzoniano condivideva la scarsa propensione al rischio e la facilità con cui riporre gli ideali e la dignità pur di evitare ogni pericolo. Per questo apparteneva alla schiera dei pacifisti nella sottocategoria dei paurosi. Credo che proprio questa paura gli abbia fatto procrastinare per tanto tempo il suicidio.
Non aveva mai fatto a botte, neppure da ragazzino, era maestro nell’evitare i conflitti anche se ciò comportava il cedere su tutti i punti, la sua codardia ne aveva fatto un uomo di pace e di mediazione, ma lui sapeva l’inganno e si disprezzava, nonostante gli apprezzamenti degli altri per il suo equilibrio che sapeva essere equilibrismo.
… la storia di Carlo continua la prossima settimana!