Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla – 15 Marzo 2013
Venerdì 15 marzo, si è celebrata la seconda edizione della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla contro i Disturbi Alimentari.
A promuovere la sua prima edizione nel 2012 è stato un papà che ha visto la propria figlia Giulia morire a soli 17 anni per le complicanze emerse in seguito a una grave condizione di bulimia.
Oggi in Italia quasi 10 ragazze su 100 tra i 12 e i 25 anni hanno problemi di anoressia, bulimia e obesità e secondo la Sisdca, Società italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, questi disturbi rappresentano la prima causa di morte per malattia tra le giovani italiane tra i 12 e i 25 anni.
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L’adolescenza è un’età difficile per gli importanti cambiamenti fisici e psicologici che implica. Per questo, i ragazzi in questo periodo di transizione sono più insicuri e vulnerabili a diversi tipi di pressioni sociali e psicologiche. Tra i principali fattori di stresse difficoltà ricordiamo i cambiamenti che avvengono nel corpo a partire dalla pubertà, i conflitti familiari che riguardano l’indipendenza, le crisi di identità e rivalutazione dei valori etici e morali, insicurezza e bassa autostima e nuove capacità intellettive.
I problemi a cui i giovani devono fare fronte variano su un’ampia gamma e possono avere un grande impatto sul modo in cui percepiscono loro stessi e sui loro comportamenti, interferendo con le loro relazioni interpersonali, la loro vita sociale e familiare, il loro impegno scolastico, il loro benessere generale e la loro qualità di vita.
Molti adolescenti non ricevono un adeguato sostegno quando si trovano a fronteggiare disagi psicologici, per incertezza, vergogna, paura di stigmatizzazione, scarsa conoscenza rispetto alle modalità con cui richiedere un aiuto professionale, difficoltà nell’accesso ai servizi, etc..
Risultano quindi di massima importanza interventi educativi e preventivi precoci relativi ai problemi psicologici nella fascia di età adolescenziale.
Lo scopo del Progetto ProYouth è la promozione della salute psicologica in ragazzi e ragazze con un’età compresa tra i 15 e i 25 anni, incentrata soprattutto su un sano regime alimentare e sul raggiungimento della soddisfazione corporea.
Gli utenti ricevono supporto attraverso interventi via Internet e, nel caso in cui sia necessario, viene loro facilitato l’accesso al sistema di cura convenzionale. Con queste finalità è stata costruita una specifica piattaforma online che offre diversi moduli informativi e di supporto per i giovani.
I principali obiettivi di questo sistema online sono:
1) Garantire informazioni e educare gli utenti circa la salute mentale, la promozione della salute e i disturbi alimentari.
2) Aiutare i giovani utenti a identificare precocemente i loro atteggiamenti problematici e comportamenti a rischio.
3) Fornire consigli e suggerimentirispetto a quello che i ragazzi possono fare per aiutare loro stessi e gli altri.
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4) Offrire un supporto professionale e tra pari tramite Internet, ostacolando così l’ulteriore evoluzione dei disturbi alimentari e dei relativi problemi.
5) Facilitare l’accesso ai regolari sistemi di cura da parte dei giovani (per es., consulenza e trattamento), limitando così il tempo tra l’esordio del disagio e la possibilità di fruire di un aiuto professionale.
Tra i vantaggi che provengono da un approccio basato sull’interazione via web, si collocano:
La possibilità di raggiungere un ampio numero di giovani, compresi quelli residenti nelle zone meno servite dai Servizi di Cura convenzionali
L’agevolazione del supporto tra pari, con conseguente minore timore da parte dei ragazzi e, anche attraverso la garanzia dell’anonimato, minore vergogna e rischio di stigmatizzazione
La focalizzazione dell’intervento sulle necessità individuali di ogni singolo partecipante, promuovendo un approccio più flessibile al problema plasmato sulle caratteristiche di ognuno
La facilitazione all’accesso ai servizi di cura collocati sul territorio, nel caso in cui vi fosse la necessità
Complessivamente, il Progetto ProYouth è finalizzato al miglioramento del sistema di cura con particolare riferimento alla salute mentale della popolazione giovane nei 7 Paesi che hanno aderito all’iniziativa (Germania, Repubblica Ceca, Romania, Italia, Irlanda, Ungheria e Paesi Bassi). I partner ProYouth collaborano con le autorità locali e regionali, con le istituzioni di cura e dell’educazione (scuole e università).
La piattaforma ProYouth è consultabile all’URL www.proyouth.eu e si possono richiedere maggiori informazioni scrivendo a [email protected].
Se volete avere maggiori informazioni sul progetto, sulle possibilità di collaborazione e sulle modalità di diffusione, scriveteci!
Se volete essere aggiornati sul ProYouth e su temi che riguardano una corretta alimentazione e i giovani, seguite la pagina ProYouth su Facebook (www.facebook.com/proyouth.italia) e Twitter (@ProYouth_Italia).
“Perché tutti gli uomini d’eccezione nel campo della filosofia, della politica, della poesia o delle arti sono melanconici..” queste le intuitive parole di Aristotele, che fu forse il primo a notare questa interessante correlazione fra “follia” e creatività.
Prosegue nella descrizione del melanconico uomo di genio come colui che “..per natura è sempre bisognoso di cura..” e che la sua condizione, dovuta all’eccesso di bile nera (che in greco si dice appunto melanconia) “fanno sì che tutti i melanconici si distinguano dagli altri uomini, non a causa di una malattia, ma a causa della loro natura originale”.
Intuizione aristotelica che ebbe un seguito nei secoli fino ad arrivare a Lombroso, che traghettando dall’ambito filosofico a quello psicologico, notò che “V’hanno tra la fisiologia dell’uomo di genio e la patologia dell’alienato non pochi punti di coincidenza”; quasi a sottolineare come la genialità altro non fosse che una particolare forma di malattia mentale. Da Hernest Hemingway a Virginia Woolf, da Franklin Delano Roosvelt ad Abramo Lincoln, da Rossini a Kurt Cobain, da Michelangelo a Van Gogh…solo questi alcuni talenti dietro le cui opere si cela un mondo di alti e bassi, di inferni e paradisi, di infinita gioia ed infinita tristezza.
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Un’altalena fra stati di iperattività e stati depressivi è ciò che caratterizza l’andamento dell’umore in coloro che soffrono di disturbo bipolare. Fra la popolazione di coloro che si dedicano ad un lavoro creativo alcuni studi hanno rilevato che il 10% soffre di disturbo bipolare contro l’1% dei soggetti nella popolazione generale (Goodwin & Jamison, 2007; Rothenberg, 2001). L’artista ha da sempre avuto un modo sui generis di distinguersi, di affrontare la vita e le persone.
E non per altro è dall’epoca di Aristotele che ci interroghiamo sui limiti esistenti tra genialità e follia. Ad oggi ciò che i dati ci dicono è che esiste un legame fra stato maniacale e creatività, legame valido solo per coloro che soffrono di forme più leggere di maniacalità. Andando ad analizzare infatti le caratteristiche di un episodio maniacale, come riportato dal DSM IV-TR, ciò che si può riscontrare è una fase di umore eccessivamente elevato sia esso sul versante dell’espansività che dell’irritabilità, un’elevata autostima, una più spiccata loquacità; la persona si sente riposata anche dopo pochissime ore di sonno (addirittura 3 pare siano più che sufficienti!!), le idee si rincorrono una dietro l’altra come un fiume in piena, ci si distrae molto facilmente, ci si dedica maggiormente alla vita sociale ma anche a quella lavorativa, e si finisce per dedicarsi ad attività che potrebbero portare a conseguenze dannose quali spese eccessive, atteggiamenti sessuali sconvenienti, investimenti avventati fatti senza riflettere.
Ora, parlando invece di creatività, da cosa dipende essa a livello fisiologico? Come sottolinea Flahearty (2011) dipende dall’attivazione del sistema dopaminergico del mesencefalo. La dopamina è un neurotrasmettitore che a livello cerebrale svolge diverse funzioni ed è implicata nella regolazione del comportamento, della cognizione, dell’umore ed influisce inoltre sul ritmo sonno-veglia. L’alterazione nel funzionamento di tale neurotrasmettitore sottostà al manifestarsi dei disturbi dell’umore, ed in particolare è stato riscontrato come un aumento di dopamina sia connesso anche alla produzione di immagini mentali e ad un aumento delle associazioni, traducibile nel fiume in piena di idee che spesso caratterizza i soggetti più creativi (Flahearty, 2011).
In questa fase di ipertrofico entusiasmo si è particolarmente recettivi, privi di inibizioni, ed in preda alla frenesia, si parla con chiunque e potenzialmente si scorgono in ogni dove nuove idee. Ma come sottolinea Runco (2004) “La creatività non è una sorta di psicopatologia!”. Tra creatività e psicopatologia esiste una correlazione, ma la presenza dell’una non determina di certo la presenza dell’altra. Come riportano Murray e Johnson (2010) fra maniacalità e creatività c’è un legame inversamente proporzionale tale per cui, nelle forme più gravi di maniacalità, la creatività viene meno, viceversa si può osservare un estro creativo in coloro che soffrono del disturbo in forma più lieve.
Da ricerche recenti è emerso come l’apertura a nuove esperienze, l’estroversione, ed in minima parte anche quel tratto di psicoticismo (Eysenck, 1993), da vedersi nell’originalità dei pensieri creativi, siano tutte connesse ad una personalità creativa (Silva et al., 2009; De Young et al., 2007). Per quanto riguarda la creatività, da intendersi come originalità di pensiero, si è notato come il tratto dello psicoticismo correli con una maggiore tendenza all’antisocialità. Un tratto come il nevroticismo forse per associazione con una maggiore sensibilità emotiva (Batey & Furnham, 2006), risulta essere correlato positivamente ad una buona riuscita nel campo artistico (Feist, 1998).
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Un altro aspetto da tenersi in considerazione riguarda l’impulsività; nel disturbo bipolare il tratto impulsivo risulta particolarmente accentuato anche nei momenti di benessere della persona, ovviamente durante gli stati maniacali l’impulsività la fa da padrona. Per quanto riguarda creatività ed impulsività si può notare come spesso nella prima vi sia un’espressione totalmente libera dei propri bisogni e dei propri impulsi (Leibenluft et al., 2007;Swann, Anderson, Dougherty, & Moeller, 2001; Swann, Dougherty, Pazzaglia, Pham & Moeller, 2004). Come se l’artista, libero da qualsiasi costrizione, potesse lasciare libera la sua espressività sotto ogni qual forma, facendo scaturire dall’arte un prodotto unico, che in altre condizioni non sarebbe stato creato.
Ma dietro a tutta questa entusiastica frenesia creativa si cela il lato oscuro della luna, le fasi di buio più profondo, dove quello spirito eccessivamente vitale si annulla totalmente e la più totale sfiducia in sé la fa da padrona, non c’è più scampo, nessuna via d’uscita, tutto è piatto e senza significato. Tuttavia anche questa fase pare essenziale per la produzione creativa, toccare il fondo del baratro per poi godere appieno della risalita. Cita Kay Jamison “Da depressa, ho strisciato carponi per arrivare all’altro lato di una stanza, e l’ho fatto per mesi. Ma in condizioni normali o maniacali ho corso più velocemente, pensato più rapidamente e amato più intensamente della maggior parte delle persone che conosco. E credo che ciò sia dovuto in gran parte a questa malattia, all’intensità che conferisce alle esperienze e alla prospettiva che mi impone. Penso che la malattia mi abbia costretto a mettere alla prova i limiti della mia mente (che resiste, pur se è carente) e quelli della mia educazione, della mia famiglia, della mia cultura e dei miei amici”.
Sarebbe bello conservare della bipolarità solo l’aspetto ludico e creativo, ma in realtà non è possibile, specie nelle forme più gravi elevato è il rischio di suicidio. Fine cui sono andati incontro alcuni dei nomi precedentemente riportati.
Ma quali sono le implicazioni cliniche e terapeutiche della creatività all’interno del disturbo bipolare?
Esiste una nota correlazione tra disturbo bipolare e creatività (Richards et al., 1988; Santosa et al., 2007; Strong et al., 2007) ed essa necessita di essere ben maneggiata nel setting terapeutico. E’ stato stimato che circa l’8% dei pazienti la cui diagnosi rientra nello spettro del disturbo bipolare sia considerata “creativa” (Akiskal & Akiskal, 2007). Non esistono tuttavia manuali di trattamento o linee guida terapeutiche che considerino la creatività nel trattamento del disturbo bipolare. Alla luce del legame esistente tra creatività e Disturbo Bipolare, in futuro, potrà essere d’aiuto ai fini terapeutici valutare e, più in generale, tenere in considerazione anche la creatività nel paziente bipolare. Il rischio, non considerando tale caratteristica, è che essa possa ostacolare la terapia ed in generale la compliance terapeutica.
Dietro la creatività, molto spesso, si cela un mondo fatto di poli opposti, di positivo e negativo, di entusiasmo e di apatia, un mondo che affascina e allo stesso spaventa, che Virginia Woolf descrive con queste semplici e quanto mai taglienti parole: “La bellezza del mondo, che dovrà così presto soccombere, ha due tagli, uno di gioia, l’altro d’angoscia, che ci dividono il cuore.”
Batey M, Furnham A. (2006). Creativity, intelligence, and personality: A critical review of the scattered literature. Genetic, Social & General Psychology Monographs, 132(4):355–429. (READ FULL ARTICLE)
Dolore Sociale & Fisico: Quando il Cuore Ci Prende a Calci
di Giuseppina Epifanio, Psicologa
“Chiunque abbia mai amato porta una cicatrice”.
Alfred de Musset
Gli studi di neuroimaging mostrano come le regioni cerebrali coinvolte nell’elaborazione del dolore fisico si sovrappongano a quelle legate al dolore sociale.
La maggior parte di noi vede il collegamento tra il dolore sociale e quello fisico come qualcosa di metaforico. La delusione amorosa “fa male”? Sicuramente può generare sofferenza ma non nel senso letterale del termine, ad esempio, come essere presi a calci negli stinchi!
Allo stesso tempo, la vita presenta argomenti convincenti riguardo il fatto che i due tipi di dolore possano avere una fonte comune. Spesso, vecchie coppie fanno notizia perché non possono fisicamente sopravvivere l’uno senza l’altro. Ad esempio in Pennsylvania, due vecchi coniugi, che erano stati sposati per 65 anni, sono morti a soli 88 minuti di distanza (Jaffe, 2013).
Negli ultimi anni, i ricercatori di psicologia hanno trovato un bel po’ di “verità” letterali insite nelle frasi metaforiche che paragonano l’amore al dolore. Gli studi di neuroimaging (Panksepp, 1978; Eisenberger, 2003; Kross, 2011) hanno dimostrato che le regioni cerebrali coinvolte nell’elaborazione del dolore fisico si sovrappongono considerevolmente a quelle legate al dolore sociale, dove per dolore sociale si intende una situazione di esclusione, prima fra tutte la separazione da un partner o da un caregiver.
Gli accenni di un legame neurale tra dolore fisico e sociale sono emersi, inaspettatamente, alla fine degli anni ’70 durante l’attività di ricerca di F. J. Panksepp, il quale stava studiando l’attaccamento sociale nei cuccioli. I cani neonati piangevano e si agitavano se separati dalle loro madri, ma queste chiamate di soccorso si riducevano nel caso in cui era stata somministrata una bassa dose di morfina. L’implicazione dello studio era profonda: se un oppiaceo riesce a placare il dolore emotivo così come quello fisico, forse i processi cerebrali sono simili.
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Le scoperte di Panksepp erano innovative ma è stato possibile testarle sugli esseri umani solo alcuni decenni più tardi, con la comparsa del neuroimaging, il quale ha mostrato le aree attive durante il dolore fisico: la corteccia cingolata anteriore (ACC), che serve come un allarme dello stress, e la corteccia prefrontale ventrale (RVPFC), che lo regola (Lanz et at., 2011).
Eisenberger e i suoi collaboratori (Eisenberger et al., 2003) hanno indagato le aree di attivazione cerebrale provocando dolore sociale. I partecipanti sono stati sottoposti a fMRI mentre erano impegnati in un gioco chiamato Cyberball, ideato per lo studio di emarginazione e rifiuto sociale. I partecipanti avevano l’impressione che stessero giocando anche altre due persone. In realtà, gli altri giocatori sono stati predefiniti dal computer e controllati dai ricercatori.
Alcuni partecipanti al test hanno sperimentato l’esclusione “implicita” durante il gioco (il soggetto percepiva l’esclusione come occasionale e non volontaria), altri hanno sperimentato l’esclusione “esplicita” (i giocatori del computer hanno incluso il partecipante per sette lanci, poi hanno escluso per ben 45 volte il soggetto dai lanci della palla). Quando Eisenberger e colleghi hanno analizzato le immagini relative alla condizione di esclusione esplicita, hanno scoperto un modello di attivazione molto simile a quello che si trova negli studi sul dolore fisico.
Lo studio ha ispirato una nuova linea di ricerca sulle somiglianze neurali tra il dolore fisico e quello sociale. Comprendere i collegamenti tra questi due tipi di dolore sarebbe utile per spiegare perché fa così male perdere qualcuno che si ama.
Eisenberger ha offerto una ragione potenzialmente evolutiva a questa relazione. I primi esseri umani necessitavano dei legami sociali per sopravvivere: l’acquisizione di cibo, la fuga dai predatori e la cura della progenie erano più facili se messi in atto in collaborazione con gli altri. L’ipotesi è che, con il tempo, questo meccanismo di allerta sociale si sia sovrapposto al sistema del dolore fisico, in modo che la sensazione di malessere derivante, ad esempio, da allontanamento dal caregiver o dal proprio gruppo sociale, potesse essere un sistema adattivo per impedire tali separazioni.
Un gruppo di ricercatori, guidato da Ethan Kross dell’Università del Michigan (Kross et al., 2011), riteneva che il dolore sociale provocato da giochi come Cyberball non fosse sufficientemente significativo. Così, gli studiosi hanno reclutato 40 partecipanti, sottoponendoli a un test che provocava dolore sociale di maggiore intensità: la vista di un ex-fidanzato o fidanzata. I soggetti hanno svolto due compiti durante una scansione di neuroimaging. Uno era un compito sociale: i partecipanti vedevano le immagini della ex pensando alla fine della loro relazione, poi venivano loro presentate le immagini di un loro buon amico. L’altro era un compito “fisico”: i partecipanti ricevevano una stimolazione calda sul loro avambraccio, e un’ altra che era appena tiepida.
Come previsto da precedenti ricerche, le aree associate al dolore affettivo (come la corteccia cingolata anteriore) si sono attivate durante le stimolazioni più intense (vedere l’ “ex” e sentire il forte calore). Ma anche le aree associate al dolore fisico, come la corteccia somatosensoriale e l’insula dorsale posteriore, si sono attivate non solo durante l’induzione di dolore fisico ma anche di dolore sociale. I risultati suggeriscono che il dolore fisico e il dolore sociale, causando disagio, condividano regioni cerebrali sensoriali.
C’è un risvolto interessante che emerge da questa nuova linea di ricerca: i rimedi per uno potrebbero funzionare come terapia anche per l’altro.
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Un gruppo di ricercatori, guidato da N. C. DeWall della University of Kentucky (De Wall et al., 2010), ha recentemente testato se l’analgesico paracetamolo potesse alleviare il dolore da stress emotivo nello stesso modo in cui allevia i dolori del corpo. In un esperimento, alcuni partecipanti al test hanno assunto una dose di 500 mg di paracetamolo due volte al giorno per tre settimane, mentre altri hanno preso una sostanza placebo. Tutti i 62 partecipanti hanno compilato un self-report, progettato per misurare l’esclusione sociale. Dopo il 9 ° giorno, le persone che avevano preso l’analgesico hanno riportato livelli significativamente più bassi di esclusione sociale, rispetto a quelli che avevano assunto un placebo.
In un’altra ricerca del 2009 (Master et al., 2009) è stato scoperto che il supporto sociale può alleviare l’intensità del dolore fisico. Master e colleghi hanno reclutato 25 donne con una relazione di coppia di almeno 6 mesi, le quali sono state portate in laboratorio con i loro partners. Inizialmente è stata determinata la soglia del dolore di ogni donna, e successivamente il campione è stato sottoposto ad una serie di stimolazioni di calore. La metà delle stimolazioni è stata data a livello di soglia del dolore, l’altra metà è stata data con un grado (Celsius) più alto. Nel frattempo ogni donna ha partecipato a una serie di compiti differenti per individuare quale elemento potesse avere un effetto mitigante sul dolore. Alcuni compiti implicavano contatto diretto (tenendo la mano del partner, la mano di uno sconosciuto, o un oggetto), mentre altri implicavano solo il contatto visivo (visualizzazione foto del partner, foto di uno sconosciuto, o un oggetto). I risultati hanno mostrato come il contatto con il partner – sia visivo che diretto – portava le donne a una valutazione del dolore significativamente più bassa.
In ogni caso, durante situazioni dolorose ma che coinvolgono l’amore, come ad esempio il parto, la vicinanza del partner, che sia fisica o anche solamente visiva, potrebbe avere effetti analgesici sulla donna partoriente. Mariti accorrete! Oppure, se proprio non ce la fate, lasciate una vostra foto all’ostetrica!
Se a causa dell’amore si può soffrire, grazie all’amore si può anche guarire.
Master, S. L., Eisenberger, N. I., Taylor, S. E., Naliboff, B. D., Shirinyan, D., & Lieberman, M. D. (2009). A picture’s worth: Partner photographs reduce experimentally induced pain. Psychological Science, 20, 1316–1318. (READ FULL ARTICLE)
Definito anche sindrome maniaco-depressiva, il disturbo bipolare è caratterizzato da forti sbalzi d’umore la cui durata è variabile.Come stimato dal National Institute of Mental Health circa il 2,6 % della popolazione americana al di sopra dei 18 anni ne è colpito e vi sarebbero determinanti genetiche che in interazione con l’ambiente possono dar luogo alla patologia. I primi sintomi si manifestano generalmente nell’adolescenza per poi acutizzarsi nell’età adulta. Richiede controllo e cura costante spesso per tutto l’arco della vita.
I sintomi correlati al Disturbo Bipolare variano da episodi maniacali ad episodi depressivi le cui tonalità emotive sono molto marcate. Euforia e tristezza superano un certo limite che contrasta con il tono affettivo abituale.
Nello specifico un Episodio Maniacale è caratterizzato da:
Umore persistentemente elevato, decisamente superiore al norma, sia sul versante dell’espansività che dell’irritabilità per almeno una settimana
Autostima ipertrofica,aspirazioni eccissive e senso di grandiosità
Spiccata ed eccessiva loquacità
Agitazione piscomotoria e netta riduzione delle ore di sonno (3 sono sufficienti per sentrsi riposati)
Successione continua dei pesieri come se si rincorresso uno dopo l’altro
L’attenzione viene catturata da ogni stimolo, anche quelli meno pertinenti, provocando una distraibilità continua
Diminuzione della capacità di giudizio e dell’autocritica
Aumento dell’attività lavorativa/scolastica e sociale
Aumento dell’interesse nell’attività sessuale
Eccessivo coinvolgimento in attività con il rischio di conseguenze potenzialmente dannose (shopping eccessivo, comportamento sessuale sconveniente, investimenti avventati)
Mentre un Episodio Depressivo è caratterizzato da:
Umore depresso e/o perdita di interesse verso attività fino ad allora piacevoli
Stato emotivo prolungato caratterizzato da sconforto,sensazione di vuoto, pessimismo, scoramento e disperazione
Alterazione del comportamento alimentare caratterizzato da dimuzione o aumento dell’appetito con conseguenti variazioni ponderali
Alterazione del sonno sia sul versante dell’insonnia che dell’ipersonnia ed alterazioni del bioritmo caratterizzate da risvegli precoci
Rallentamento della capacità di pensare e forte indecisione
Mancanza di energia e faticabilità
Rallentamento psicomotorio o agitazione
Forti sentimenti di autosvalutazione e senso di colpa eccessivo e spesso inappropriati
Ricorrenti pensieri di morte, ideazione suicidaria con o senza pianificazione, tentativo di suicidio
Il disturbo bipolare può essere di due tipi:
Bipolare I: caratterizzato dalla presenza di uno o più Episodi Maniacali o misti e spesso anche da Episodi Depressivi
Bipolare II: caratterizzato dalla presenza di uno o più Episodi Depressivi cui si associa almeno un Episodio Maniacale.
Queste variazioni patologiche dell’umore persistono per mesi e anni ed hanno sulla persona un effetto invasivo tanto da influenzarne ed alterarne la capacità di giudizio. Sia la Mania che la Depressione influiscono notevolmente sulla vita dell’individuo, e sono fortemente debilitanti sia sul piano lavorativo, che sociale, che affettivo e familiare.
Il disturbo bipolare necessita di un intervento adeguato e quanto mai tempestivo specie se si considera l’elevato rischio di suicidio cui il soggetto può andare incontro. In particolar modo lo stato che più può portare a rischio di suicidio, come ripotato dal manuale Merck, risulta essere lo stato Misto (Condizione in cui l’individuo è altamente irritabile e nervoso e al contempo prova un grande senso di scoramento, tristezza e perdita di piacere nel fare le cose) che, in associazione all’elevata impulsività che caratterizza questo disturbo, può spesso rivelarsi fatale.
Nonostante il Disturbo Bipolare sia fra le malattie psichiatriche con una base organica ben identificata, e quindi trattabile farmacologicamente, è importante ricordare che un percorso di cura non sostituisce l’altro. È stato infatti riscontrato come, specie nella fase acuta della malattia, sia importante associare ad una cura farmocologica strettamente controllata anche un percorso psicoterapico.
U.S. Census Bureau Population Estimates by Demographic Characteristics. Table 2: Annual Estimates of the Population by Selected Age Groups and Sex for the United States: April 1, 2000 to July 1, 2004 (NC-EST2004-02) Source: Population Division, U.S. Census Bureau Release Date: June 9, 2005.
Cyberball è uno strumento che consente di riprodurre il dolore del rifiuto sociale in laboratorio, consiste in un gioco di palla virtuale tra tre giocatori: il partecipante e due giocatori virtuali. Originariamente sviluppato da Kip Williams, Christopher Cheung e Wilma Choi, Cyberball è stato utilizzato dai ricercatori per studiare gli effetti dell’ostracismo. Gli studi hanno monitorato le reazioni dei partecipanti esclusi attraverso le tecniche di mapping cerebrale.
Cyberball è semplice nel design e facile da giocare (è sufficiente fare clic su un altro giocatore per passare la palla). In un primo momento, il gioco agisce normalmente, con il partecipante e i due giocatori virtuali che si passano la palla tra di loro. Ad un certo punto la situazione cambia. I due giocatori virtuali smettono di passare la palla al partecipante e continuano a passarsi la palla tra di loro, come una squadra. Il partecipante è stato escluso dal gioco.
Cyberball potrebbe sembrare uno strumento semplice e banale, in realtà ha reso riproducibile in laboratorio il rifiuto sociale, permettendo agli studiosi di occuparsi di fenomeni come il cyber-bullismo (una minaccia recente che si verifica sul web) e la sofferenza in amore (dovuta a rifiuto del partner).
Il gioco è disponibile gratuitamente online, sul sito di Wikispace (è necessaria l’iscrizione).
La Stimolazione Cerebrale Profonda in pazienti affetti da anoressia nervosa e resistenti al trattamento ha avuto effetti positivi su peso, umore e ansia.
Un team di ricercatori Canadesi ha studiato l’uso della stimolazione cerebrale profonda (DBS) in pazienti affetti da anoressia nervosae resistenti al trattamento: i risultati di questo studio pilota, pubblicato sulla rivista medica The Lancet, indicano che questo trattamento ha avuto effetti positivi sul peso corporeo, sul tono dell’umore e sui livelli di ansia dei soggetti trattati.
I 6 pazienti sottoposti al trattamento avevano un’età media di 38 anni e soffrivano, oltre che di anoressia, anche di altri disturbi psichiatrici, come la depressioneo disturbo ossessivo-compulsivo. Inoltre la lunga storia di anoressia aveva portato a complicazioni mediche di vario genere e reso i ricoveri ospedalieri molto frequenti, circa 50 dall’esordio della malattia.
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Durante il processo di messa in sicurezza della prima fase, i pazienti sono stati trattati con DBS, una procedura neurochirurgica in grado di modulare l’attività dei circuiti cerebrali disfunzionali. Il neuroimaging infatti ha evidenziato differenze strutturali e funzionali nei circuiti cerebrali che regolano l’umore, ansia, e la percezione del corpo nei pazienti anoressici rispetto ai soggetti sani.
Il test è stato ripetuto a uno, tre e sei mesi dall’attivazione del dispositivo generatore di impulsi. Dopo nove mesi, tre dei sei pazienti avevano guadagnato peso, con un indice di massa corporea (BMI) significativamente maggiore di quanto non avessero mai sperimentato. Per questi pazienti è stato il più lungo periodo di aumento di peso dall’inizio della loro malattia.
Quattro dei sei pazienti hanno manifestato cambiamenti del tono dell’umore, nei livelli di ansia, nella tendenza al binge e all’assunzione di purghe, e nella sintomatologia ossessivo-compulsiva.
Come risultato di questi cambiamenti, due dei sei pazienti hanno portato a termine il programma per il trattamento dei disturbi alimentari per la prima volta dall’esordio della malattia.
“I disturbi alimentari hanno il più alto tasso di morte di qualsiasi malattia mentale e sempre più donne stanno morendo di anoressia. C’è un urgente bisogno di terapie aggiuntive per aiutare chi soffre di anoressia grave”, ha detto il dottor Blake Woodside, direttore medico del più grande programma sui disturbi alimentari del Canada al Toronto General Hospital e professore di psichiatria presso l’Università di Toronto. Il trattamento con DBS, ancora considerato sperimentale, potrebbe diventare uno strumento aggiuntivo nel trattamento dell’anoressia nervosa.
In molte delle sue opere più significative, da Le braci a L’eredità di Estzer, da La recita di Bolzano fino a La donna giusta le atmosfere sono contenute, assorte, i personaggi coinvolti in un flusso emotivo che si dipana gradualmente; ne Le braci ad esempio, i protagonisti sono due uomini che si ritrovano dopo 41 anni e rimettono in gioco le loro storie, la loro amicizia, divisi dal tempo trascorso e dall’aver amato in quel lontano passato la stessa donna, fra tradimenti, desiderio di vendetta, separazioni impossibili da rimarginare.
L’eredità di Estzer dipinge, invece, il ritratto di una donna che dopo aver atteso per vent’anni il ritorno dell’unico uomo che avesse mai amato, e da cui era stata solo ingannata, si appresta a rivederlo sapendo che viene a riprendere di lei l’unica cosa che le aveva lasciato.
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Sandor Marai tiene il lettore sulla corda fino all’ultima parola, non svela il segreto della narrazione e anzi lo dilata nel tempo che lo precede, nei lunghi monologhi con cui i personaggi si voltano verso le loro vite. L’attesa è fatta di pensieri sempre più accesi, immagini che riprendono forma, ricordi coltivati con cura metodica e passione autodistruttiva. Non è necessario un interlocutore, come ne La donna giusta, in cui tre apparenti dialoghi sono in realtà riflessioni solitarie sull’amore inseguito e su quello vissuto. Sandor Marai penetra nei sentimenti di un’epoca ormai chiusa, lo splendore della Mitteleuropa e il suo fermento culturale, l’austera imponenza della Vienna imperiale, la musica, le vibrazioni di una società che seguiva cadenze più private, più intimistiche rispetto agli stravolgimenti e alle nuove modalità di comunicazione che si sarebbero imposti di lì a poco.
Nella letteratura di Sandor Marai trovano piena cittadinanza l’orgoglio ferito, i duelli muti fra personaggi che inseguono la propria dignità messa in pericolo, la presa di contatto con una sofferenza che lo scorrere degli anni rende più acuta perché più meditata, più nuda nella consapevolezza della propria insanabilità; lo spazio per l’azione è ridotto, occupato da emozioni complesse che ogni lettore può ritrovare non tanto nella fenomenologia con cui si esprimono o nelle conseguenze che generano, quanto nella loro ineluttabile appartenenza alla natura umana.
I romanzi di Sandor Marai sono molto lontani dal nostro modo di concepire l’esistenza e le relazioni, e mostrano nitidamente le trasformazioni che la soggettività dell’esperienza ha subito nell’ultimo secolo. Sono opere che vivono su una frase, un dialogo, spesso prive di un contesto a cui si possa attribuire un ruolo rilevante nell’intreccio narrativo, sono storie quasi teatrali in cui tutto è fatto dai personaggi e dai loro moti interiori. La gelosia cupa, la disperazione di qualcosa che si è perso per sempre, fino alla rivendicazione del proprio diritto di amare anche convivendo col lato oscuro che accompagna dalla genesi il significato più autentico dell’esistenza. Leggere Sandor Marai è in parte questo, ma soprattutto una scoperta individuale che non chiude mai a nuove interpretazioni.
Il Disturbo dell’Identità di Genere rappresenta una profonda alterazione del senso d’identità rispetto all’essere maschio o femmina (Dèttore, 2005). Vi è una forte divergenza tra identità di genere e identità sessuale. L’individuo si trova a vivere uno stato di disagio e malessere nei confronti del sesso biologico e a provare estraneità riguardo all’identità di genere assegnata al proprio sesso.
Una rappresentazione comune, anche se non del tutto esaustiva, del Disturbo dell’Identità di Genere rispetto alle donne che ne soffrono, è che sono quasi sempre state definite mascoline nell’aspetto e/o nel comportamento fin dall’infanzia, amano stare con i maschi e partecipare a giochi molto fisici e turbolenti. Non amano indossare abiti femminili e vivono con un forte disagio i cambiamenti corporei legati alla pubertà. In genere, provano attrazione fisica per le sole donne, tanto da tentare esperienze lesbiche fin dall’adolescenza; ma ciò spesso fallisce, perché desiderano stare con le donne in quanto uomini, non come donne. Possono incontrare delle partner che le accettano come uomini e quindi si considerano eterosessuali (Carrol, R.A. 2000).
I comportamenti tipici di questa condizione si manifestano intorno ai 2-4 anni. Alcuni bambini affermano di essere del sesso opposto al loro e in questi casi è difficile capire se si tratti di una loro convinzione o di un errore nell’etichettare i generi. Altri bambini invece sono consapevoli di essere maschi o femmine, ma affermano di voler diventare membri del sesso opposto.
Solo un numero esiguo di questi bambini diventerà transessuale o travestito, molti diventeranno omosessuali e gli altri svilupperanno un orientamento eterosessuale (Di Ceglie 1995).
Attraverso le parole di una donna, che questa realtà la esperisce quotidianamente, emerge quanto sia difficile sentirsi in trappola nel proprio corpo.
Bimba con il muso imbronciato quando la madre le infilava vestitini e gonnelline.
Bimbo felice, che finge di guidare, dentro una vecchia macchina scassata nel cortile dell’asilo.
“Le femmine non guidano” mi disse una bambina con i codini e l’espressione arricciata.
“Io mi chiamo Luca” risposi senza esitare.
Primo giorno del nuovo asilo. Poi mi dovetti sorbire il disagio della presentazione ufficiale davanti a tutti, anche a quella bambina…
Anni d’infanzia vissuti nell’ambiguità di un corpo ancora senza forme. Compromessi con mia madre: pantaloni e gonne, a giorni alterni. Al mare stropicciavo dei fazzoletti di carta e li infilavo negli slip: mi chiamavo Luca. Socializzai con vari ragazzini. Consolidai delle alleanze con i maschi, da maschio. Non ebbero mai dubbi sulla mia sessualità: io per loro ero un bambino.
Però non potevo fare proprio tutto quello che loro facevano: ad esempio, fare pipì in piedi, tutti insieme… Allora mi inventavo un altro ruolo: “Voi fatelo, io sto di guardia”.
Avevo otto anni e capivo che non sarebbe stato facile essere quello che ero.
Il mio corpo crescendo divenne molto femminile… alla faccia di quello che io sentivo.
Mi si assopì la smania dell’essere maschio e mi diedi altre possibilità, comprese le prime esperienze ludiche con il sesso tra amichetti.
Tutti i miei innamoramenti erano rivolti a figure femminili, dalla maestra dell’asilo, alla compagna di banco, ad amiche di mia madre.
La prima storia vissuta realmente fu dai dodici anni fino ai quattordici. Lei era in classe con me.
Noi ci si definiva “amiche del cuore” ma era la sostituzione di parole che non si potevano usare (fidanzata, morosa, amore).
Sono cresciuta con dottrine fradice di cattolicesimo bigotto. Ambiente sano ma poco elastico. Sono cresciuta con il senso del peccato, della punizione, di un dio giudicante e poco indulgente. Malgrado questo, dentro di me cercavo di frantumare tutti i cliché paesani con filosofie personali, fantasiose, a volte infantili, per “salvarmi” e darmi un senso di esistere.
A quindici anni ho dovuto affrontare i primi giudizi degli altri sui miei rapporti personali. La parola “lesbica” mi fu detta in seconda superiore e mi sentii morire. Ne seguì una crisi di pianto nel bagno, con alcune amiche fuori che cercavano di confortarmi.
A sedici anni me lo dissi: ero omosessuale. Le storie che stavo vivendo erano combattute.
La “lei” di quel periodo riempiva di lacrime i nostri baci saffici.
Io a dirle che l’amore non è mai sbagliato, che non può essere sbagliato. Lei a dire che quel sentimento intenso la sconvolgeva e che tutto sarebbe stato più facile se io fossi stato UNO e non UNA.
Negli anni dell’adolescenza ho affrontato mamme che mi accusavano di essere l’amore proibito della figlia, suore che definivano morbose le mie amicizie, genitori (i miei) che fingevano di non vedere che le mie amiche del cuore erano le mie fidanzatine.
In parallelo cercavo in tutti i modi di non escludere la possibilità di essere “normale” e avevo alcuni maschietti come corteggiatori, qualche bacio, petting… per esplorare la realtà che meno mi apparteneva.
A diciannove anni era chiaro come mi sentivo e quello che ero ma non avevo le parole per definirmi, per dirlo al mondo. Pensavo che un’alternativa valida fosse quella di lasciare il paese, di allontanarmi dai miei, tra sensi di colpa e bisogno di tutelarli.
La scusa concreta dell’università mi portò in una nuova città.
La mia storia più importante a venti anni. Con il primo sesso, il primo coinvolgimento totale e viscerale.
M’innamoravo di donne eterosessuali come fosse normale accadesse questo e, così le corteggiavo da maschio, ma loro dovevano fare i conti con una ragazza e non con quello che io mi sentivo.
Fare l’amore creava un’intimità in cui ci si poteva perdere senza definirsi a tutti i costi.
Rigliano, Ciliberto & Ferrari (2012). Curare I Gay? Oltre l’Ideologia Riparativa dell’Omosessualità – Copertina del Libro. Raffaello Cortina Editore
Con gli anni poi ho capito molte cose. Ho potuto anche tornare a parlare con chi mi amava vent’anni fa, donne ora sposate e con figli.
Ho capito che quelle donne mi vedevano per quello che ero, e quindi un involucro sbagliato con l’anima giusta.
Per molto tempo ho cercato intensamente un modo per darmi pace. Non ho mai pensato a un’operazione per cambiare sesso. O meglio ci ho pensato, ma io non voglio modificare questo corpo. Io voglio essere UNO vero. Tutto dall’inizio. Oppure preferisco il niente… preferisco arrangiarmi a essere lesbica… e ad avere la certezza che chi mi ama, chi è amata da me… lo sente, lo percepisce e mi vede DAVVERO.
Io quando mi penso mi dimentico di essere come sono. La mia essenza prende una forma mentale che a volte mi consola. Poi nella quotidianità essere se stessi è un privilegio che mi concedo al di là del mio fisico.
Ogni giorno, da anni, concilio la mia parte interiore con i contorni che il mio corpo invece ha.
Più passa il tempo e più una malinconia si deposita sul fondo dei miei anni: non è una vita facile… ancora mi innamoro o potenzialmente potrei innamorarmi di donne che incontro, che se fossi un uomo potrei normalmente corteggiare. Se a venti anni avevo la spregiudicata presunzione di provarci, adesso no. Lascio andare il pensiero. Ora sarebbe più difficile.
A volte penso che se fossi statO nel corpo giusto ora sarei sposatO, con due figli.
Ma quel corpo non ce l’ho e non avendolo non posso condurre la vita che avrei dovuto vivere.
Non mi sono dato nessuna alternativa. Non ho il pene. Non sono considerato un uomo.
Non sono quello che si vede, ma può capitare che qualcuno lo intuisca vivendomi più a fondo.
Per anni ho dovuto darmi e farmi dare un’etichetta, perché pare che in questo mondo, in questa società tutto debba essere definito. Senza una definizione si galleggia in un limbo. Con molta difficoltà ho fatto entrare nel mio lessico la parola “Lesbica”. Un suono aspro, ancor di più nel momento in cui lo senti inadeguato perché io non mi sento donna né eterosessuale né omosessuale. Era più “facile” in quegli anni dire così, almeno facevo parte di una categoria. In realtà provavo disagio a identificarmi con il mondo lesbico, e ingiustizia per non potermi identificare con quello eterosessuale.
Il sesso biologico è l’impronta della vita. Viaggiare nell’età con questa consapevolezza, quando la tua impronta non parla di te è la cosa più ruvida che possa capitare. Ruvida come la barba che non potrò mai farmi crescere, come la strada su cui viaggio da venti anni, come le difficoltà che un involucro sbagliato comporta.
Io vorrei una seconda occasione: rinascere quello che sono. Vivere la mia vita “giusta”».
Carrol, R.A. (2000). Assestment entreatment of gender disphoria. In S.R. Leiblum & R.C. Rosen (Eds.), Principles and practice of sex terapy (III ed., pp. 368-397). New York/London: The Gilford Press.
Piegarsi a sinistra fa sembrare la Torre Eiffel più bassa: leggenda metropolitana o realtà? Recenti teorie hanno suggerito che la postura potrebbe influenzare alcuni processi cognitivi superiori, come la stima di una quantità, di una percentuale, o di una misura (in questo caso, l’altezza della famosa torre) che non conosciamo. È stato, inoltre, dimostrato (Dehaene, Bossini, & Giraux, 1993; Dijkstra, Kaschak, & Zwaan, 2007) non solo come la postura possa avere una certa influenza sui processi di recupero dei ricordi autobiografici, ma anche come vi sia la tendenza, negli esseri umani, di associare la parte sinistra del corpo (o il corrispondente campo visivo) a numeri e quantità minori, mentre la parte destra a numeri più grandi (Restle, 1970).
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Basandosi su queste ricerche, Eerland e colleghi dell’Università di Rotterdam, hanno voluto verificare l’effettiva esistenza di una variazione nella stima di quantità di alcuni soggetti al variare della loro postura. Una condizione prestabilita dello studio era però che i soggetti dovessero mantenere la convinzione, durante l’intero esperimento, che la postura da loro assunta fosse perfettamente dritta (e quindi rimanere ignari del fatto che questa, al contrario, venisse manipolata).
Per raggiungere lo scopo prefisso gli autori hanno chiesto a 33 studenti di psicologia di salire, uno alla volta, su una balanced board(una piattaforma ad inclinazione variabile), calibrata in modo da inclinare il corpo di un soggetto lievemente verso destra, lievemente verso sinistra oppure da mantenerlo perfettamente dritto, in verticale.
Gli studenti sono stati poi istruiti ad adattare la propria postura rendendola corrispondente ad una “misura di equilibrio corporeo”, mostrata su uno schermo posto di fronte a loro. In questo modo è stato possibile “ingannarli” dicendo loro che tale misura avrebbe sempre segnalato quando il loro corpo era perfettamente dritto e in equilibrio (al contrario, a volte la misura dava un riferimento di “corpo dritto” quando il soggetto era lievemente inclinato a destra o a sinistra).
È stato poi chiesto a tutti i soggetti (una volta sulla piattaforma) di rispondere a 39 domande in cui si chiedeva di fornire una stima di quantità (l’altezza di un edificio, la popolazione di una città, la percentuale di alcol in una bevanda, ecc.). Sono stati inoltre informati che probabilmente non avrebbero saputo la risposta esatta alle domande, e che quindi avrebbero successivamente dovuto stimare il grado di certezza sulla risposta (di fatto, nessun partecipante ha fornito risposte corrette alle domande).
I risultati hanno confermato le ipotesi: la postura corporea influenza i giudizi e le stime quantitative. Ignari del fatto che il proprio corpo fosse leggermente inclinato a sinistra o a destra, i soggetti hanno fornito stime minori nel primo caso rispetto al secondo.
Sulla base della teoria di Restle (1970) citata sopra è possibile ipotizzare una spiegazione a questi risultati. Gli autori hanno pensato che un’inclinazione verso sinistra renda, a livello mnestico, più accessibili numeri e grandezze minori; il contrario avverrebbe con un’inclinazione verso destra, “ancorata” a numeri grandi. Si tratta di un’ipotesi piuttosto generica, che ha bisogno di ulteriori conferme.
Resta anche aperto il quesito sulle stime dei mancini: la variazione di inclinazione corporea influirebbe allo stesso modo? Attendiamo future ricerche. Nel frattempo accontentiamoci della risposta alla domanda iniziale: piegarsi a sinistra fa effettivamente sembrare la Torre Eiffel più bassa, di ben 12 metri.
Apprendere i contesti è uno dei libri da cui qualunque professionista che si sperimenti in nuovi contesti di tirocinio o di lavoro può trarre riflessioni non solo innovative ma indispensabili nell’odierno scenario di molteplici ambiti in cui si cerca di inserirsi e trovare una propria collocazione. L’autrice non si rivolge solamente alla categoria degli “psi”, bensì a tutte quelle professioni che rientrano nel settore sociale, come ad esempio assistenti sociali, operatori socio-sanitari, medici. E’ dedicato anche a coloro che, pur essendo già inseriti da tempo nel mondo del lavoro, vogliono riflettere sul significato del loro operare.
La struttura del libro, diviso in tre parti, alterna teoria e pratica in una danza continua; ogni concetto espresso viene chiarito anche attraverso esempi concreti che raccontano molteplici esperienze lavorative e formative di cui l’autrice e suoi collaboratori e collaboratrici sono stati protagonisti.
La prima parte del libro riprende molti concetti cardine della teoria sistemica, in particolar modo, di come in quest’ottica si definisce, s’identifica e si osserva un sistema. La seconda e la terza parte del libro, presentano rispettivamente una raccolta di testimonianze di professionisti entrati nei diversi contesti: dalla scuola, al mondo della cooperazione internazionale, dalle cooperative del privato sociale al Servizio Pubblico. Vengono evidenziate le peculiarità, le difficoltà, i successi e i fallimenti nell’entrare e far parte di nuove realtà lavorative: una ricerca minuziosa, attenta e rigorosa, curata con entusiasmo e nel rispetto delle storie altrui. A concludere, vengono esposti un mansionario delle leggi vigenti in Italia che regolano il mondo delle professioni del Questa opera, Apprendere i Contesti rappresenta una sorta di “pragmatica dei contesti”.
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Alcuni tra i concetti basilari esaminati sono l’importanza del sapersi muovere all’interno di un contesto. “[…] entrare in un contesto e muoversi in maniera corretta è un’operazione clinica tra le più sofisticate e importanti. Gli interventi sono fatti di azioni mirate ad avere un effetto, di movimenti di coordinazione della coordinazione tra persone e idee, di analisi del contesto e dei sottosistemi coinvolti”. Per fare ciò bisogna considerare le proprie “griglie di lettura” e quelle che si sviluppano nell’incontro di un nuovo contesto. Le operazioni mentali devono, per essere efficaci, muoversi a un secondo livello, la riflessione sulle proprie riflessioni. La posizione che si assume in Apprendere i Contesti, di conseguenza, è un punto di partenza fondamentale. Il sapere di non sapere una scelta esplicita. Questa posizione, umile e professionale allo stesso tempo, è la conditio sine qua non per poter poi iniziare a “danzare” e , quindi, a muoversi all’interno del sistema con le altre professioni. Ed è solo “la consapevolezza della propria ignoranza a permettere di prendere coscienza dei propri limiti”.
Una delle idee che più di tutte fa sì che questa sia un’opera fondamentale per chi è interessato all’agire nella complessità è la sfida che l’autrice lancia a tutti i terapeuti. La scommessa è quella di considerare la psicoterapia non più come strumento principe della psicologia clinica, ma come una tra le tecniche a disposizione dello psicologo, il quale è invitato a “pensare ad alternative”. Ciò che un clinico dovrebbe fare è agire “fuori dalle quattro mura del suo studio e sporcarsi le mani intervenendo in maniere differenti dalla psicoterapia”.
Il fine, pertanto, è quello di riuscire a realizzare interventi di primo livello. Lavorare a un primo livello implica rispettare la complessità, fare rete, ovvero, mettersi in connessione con gli attori di tutto il contesto che sarà, di conseguenza, “vissuto come significante”. Ciò evidenzia l’assoluta importanza di riuscire a coordinarsi all’interno di una cornice disegnata dalle “risorse insite nelle persone, nei contesti oltre che nel sociale più allargato”.Ecco cosa intende l’autrice con la metafora di “danzare assieme”. Ogni movimento è in sintonia con le proprie e le altrui professionalità.
La sensazione che si prova nel corso della lettura è quella di essere accompagnati dall’autrice che, con maestria e rigorosa eleganza, ha raggiunto l’intento di trasmettere l’idea di nuove e possibili scelte e di “aiutare a osservarsi, muoversi, ed evolversi con consapevolezza” all’interno di nuovi contesti.
They try to make me go on rehab and I say no,no,no…
Rehab, Amy Winehouse, 2006
Si può facilmente ipotizzare che il caso di Amy Winehouse soddisfi i criteri diagnostici per un Disturbo di personalità borderline (APA, 1994), tra i quali si possono individuare la presenza di condotte impulsive rispetto all’uso di sostanze e all’alimentazione, le relazioni affettive intense e instabili, gli sbalzi d’umore e soprattutto i problemi con le separazioni.
Ricordo di aver ascoltato per la prima volta la canzone Rehab (Riabilitazione) di Amy Winehouse (1983-2011) una mattina di qualche anno fa all’autoradio, mentre mi recavo al lavoro in clinica. La prima cosa che ho pensato è stata: ho capito bene? Dice proprio Rehab? Ma che razza di testo ha questo rhythm and blues? E’ un vero inno alla ribellione terapeutica!!!
Cantando di Rehab, Amy Winehouse si riferiva ai percorsi di disintossicazione dall’alcol e dalle droghe, che vengono citati in tante biografie rock. Il collega finlandese Oksanen (2012), ha studiato le autobiografie uscite dopo gli anni novanta di diverse rockstar, evidenziando come venga dato sempre più spazio a precise descrizioni dei percorsi di riabilitazione: dalle cliniche ai gruppi degli Alcolisti Anonimi, fino ai percorsi spirituali e religiosi.
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A differenza degli anni sessanta e settanta, dove vigeva l’apologia degli eccessi (anche per via di una certa ignoranza sugli effetti a lungo termine delle dipendenze da sostanze psicotrope), pare che oggi sia di gran lunga più rock porre l’attenzione sui processi di risalita dagli inferi, che chiaramente necessitano di un buon grado di determinazione e spirito autoconservativo. Alla luce di queste considerazioni, la canzone e la storia di Amy Winehouse paiono ancora più drammatiche.
In realtà la giovane cantautrice di tentativi terapeutici ne ha fatti eccome, descritti in modo dettagliato dal padre Mitch nella biografia pubblicata postuma, comprese la prestigiose Pryory Clinic, London Clinic, Capio Nightingale, University College Hospital e la Causeway Retreat, quest’ultima una clinica da diecimila sterline a settimana, in un’isoletta dell’Essex (praticamente un’Alcatraz per vip), poi chiusa nel 2010 per malpractice.
La prima fu una clinica del Surrey nel 2004, dove la ragazza resistette solo 3 ore perché “Lo psicologo voleva parlare solo di sé” (Winehouse, 2012). Può anche darsi che la ragazza avesse davvero trovato lo strizzacervelli sbagliato in quella occasione, ma il lungo elenco di fallimenti terapeutici e di medici sostituiti come le corde di una chitarra, mi fanno pensare che qualche problema a fidarsi e ad affidarsi la ragazza ce l’avesse.
In una recente intervista alla stampa, il medico di base della rockstar, ha raccontato infatti come Amy rifiutasse ogni forma di trattamento psicologico, con una certa tendenza a voler fare tutto da sola, terapia compresa. Temeva che l’intervento psichiatrico potesse ostacolare la sua creatività, forse per i pregiudizi sull’effetto anestetizzante degli psicofarmaci, trascurando il particolare non irrilevante che quello che cercava di evitare con le medicine, lo otteneva in maniera amplificata e disastrosa con le droghe. Forse, anche se non ne era del tutto consapevole, riteneva di dare maggior valore all’Arteche alla vita, e questo l’ha guidata in molte sue scelte.
Ma in cosa consisteva il disagio di Amy Winehouse? Ripercorriamo un po’ la sua storia. Dalla biografia emerge innanzitutto la separazione dei genitori all’età di nove anni, in seguito alla quale Amy restò a vivere con la madre e il fratello. La madre, affetta da sclerosi multipla, pare una figura un po’ in secondo piano nella vita di Amy, mentre il padre, anche per via dei sensi di colpa per aver abbandonato la casa, sarà sempre una presenza costante, sia nella carriera musicale che nei percorsi di cura, ammettendo di averla quasi sempre accontentata e forse a tratti viziata.
Fin da piccola viene descritta come una bambina che avrebbe “fatto qualunque cosa pur di attirare l’attenzione”. Il padre cita ad esempio lo “scherzo del soffocamento” in cui si buttava a terra in ogni luogo fingendo di soffocare, smettendo solo quando iniziarono ad ignorarla. Forse in relazione al disagio della separazione, a undici anni cominciò a presentare problemi con il sonno e di condotta, con il conseguente scadimento delle prestazioni scolastiche e l’espulsione dalla scuola d’arte che frequentava.
Molto dotata dal punto di vista vocale fin da adolescente, si presentò ben presto sulla scena musicale londinese. Iniziò precocemente anche il consumo di marijuana e di alcol, quest’ultimo anche come rimedio alla fobia da palcoscenico (escamotage diffuso anche tra gli artisti nostrani, uno per tutti il grande Fabrizio De Andrè). Come è noto ormai da diversi studi sui neuroni, il cervello ha un’alta plasticità fino intorno ai vent’anni e un forte abuso di alcol o sostanze stupefacenti durante l’adolescenza può danneggiare più facilmente le vie nervose endogene della ricompensa, con una più alta probabilità di sviluppare in seguito vere e proprie dipendenze(Brown et al., 2000).
Amy passò infatti alle droghe pesanti (eroina, cocaina, extasy, ketamina) nel 2005, in seguito all’incontro con Blake Fielder-Civil, politossicodipendente con tendenze antisociali, che sposò nel 2007 a Miami (in un matrimonio senza invitati) e da cui si separò nel 2009. Lo stesso marito dichiarò in seguito di aver iniziato la cantante alle sostanze e di esserne pentito.
Il padre della cantante, mosso probabilmente da meccanismi di difesa proiettivi, ha sempre visto in questa relazione la rovina di Amy, il responsabile del periodo peggiore della vita della figlia, quello dei ricoveri e delle rapide autodimissioni, dei concerti annullati, delle performance televisive in condizioni impresentabili, delle liti sanguinose con il marito. E’ difficile imputare la responsabilità dei comportamenti di qualcuno capace di intendere e di volere a qualcun altro, anche se esistono casi di plagio mentale o di influenzamento (si pensi alle sette ad esempio).
Questa mi sembra piuttosto la classica relazione autodistruttiva, in cui chi perde la testa per una persona così problematica potrebbe covare delle fantasie salvifiche (quello che in gergo popolare si chiama “istinto della crocerossina”) e dei chiari intenti autopunitivi. Senza voler banalizzare una relazione sicuramente complessa, la frase della canzone Back to Black (2007) “…you love blow and I love puff”, dove lo sniffare e il fumare si riferiscono alle modalità di assunzione della cocaina e dell’eroina, sembra lo slogan d’amore tra i due tossicodipendenti.
La canzone What it is about men (2003) è invece molto significativa nel raccontare il rapporto con gli uomini, sottolineando i presagi di un’identificazione con la triste sorte della madre, donna lasciata dal marito: “…I can’t help but demostrate my Freudian fate”, “…and I’ll take the wrong man as naturally as I sing”, fino ad arrivare ad una drammatica presa di coscienza “…my destructive side has grown a mile wide”.
Oltre al poliabuso di droghe, che causò almeno due overdose, da cui fu salvata con la lavanda gastrica, Amy dichiarò alla stampa nel 2006 di soffrire di disturbi del comportamento alimentare da almeno due anni, accennando sia a condotte bulimiche, che anoressiche.
Tra il primo e il secondo disco aveva perso ben sei taglie e diversi dei ricoveri ebbero la finalità di reidratarla e farle recuperare un po’ di peso. Ho l’impressione che, anche per via del rifiuto dei percorsi psicologici da parte della cantante, la questione del disturbo alimentare non sia stata affrontata a livello terapeutico, a parte gli interventi d’emergenza. D’altra parte, da un punto di vista clinico risulta quasi impossibile provare a curare un disturbo alimentare, sia a livello psicoterapeutico che farmacologico, se non si risolve prima la dipendenza dalle sostanze.
Si può facilmente ipotizzare che il caso di Amy Winehouse soddisfi i criteri diagnostici per un Disturbo di personalità borderline (APA, 1994), tra i quali si possono individuare la presenza di condotte impulsive rispetto all’uso di sostanze e all’alimentazione, le relazioni affettive intense e instabili, gli sbalzi d’umore e soprattutto i problemi con le separazioni.
Amy sembrava sensibilissima all’allontanamento dalle figure di attaccamento. Si pensi ad esempio che il primo disco Frank (2003) era interamente incentrato sulla delusione per la fine del primo amore, mentre alcuni testi del secondo Back to black (2007), dove il “black” sta per stato depressivo, erano stati ispirati al primo abbandono da parte di Blake, che dopo sei mesi era tornato con l’ex.
Nella canzone che dà il titolo a quest’ultimo disco, Amy descrive la separazione con frasi come ”…I died a hundred times” o come “…I’m a tiny penny rolling up the walls inside”, mentre in un altro brano famosissimo conclude sconsolata che “Love is a losing game”. Stare vicino a Amy nei periodi peggiori, viene inoltre descritto dai genitori con le metafore “camminare sulle uova” e “camminare sul bordo del precipizio”, espressioni tipicamente usate anche dai terapeuti che si destreggiano nelle imprevedibili fragilità del disturbo di personalità borderline (Winehouse, 2012).
“Creare musica- la sua più grande passione- aveva un effetto più positivo di qualunque altra cosa avessimo provato” racconta il padre, anche se Amy non era molto prolifica nel comporre, perché “ogni canzone che scriveva era per lei come tagliarsi un braccio, come strapparsi il cuore dal petto”. Le canzoni erano probabilmente per Amy l’unico modo di entrare in contatto con le parti di sé più fragili e dolorose, senza doversi anestetizzare con le sostanze. Comporre era terapeutico in un certo senso, ma anche molto doloroso e le canzoni che ci ha lasciato sono state molto apprezzate, a mio avviso, anche per questa autenticità senza filtri, senza sovrastrutture.
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Nel 2008 smise con le droghe, anche grazie alla prescrizione di Subutex (buprenorfina) e iniziò a prediligere l’alcol, evenienza frequente per molti politossicodipendenti, che terminano i percorsi di disintossicazione da sostanze. Questo tipo di alcolismo, che insorge dopo la guarigione dalla tossicodipendenza, può essere anche definito tossicodipendenza mascherata, in quanto sono implicati gli stessi sistemi cerebrali degli oppiacei, e risponde meglio alle terapie sostitutive (metadone, buprenorfina) che vengono usate comunemente negli eroinomani (Maremmani e La Manna, 2001). La sospensione troppo precoce dei sostitutivi può essere problematica, proprio per questi rischi di ricadute.
Sembra che la morte della cantante nella sua casa di Camden a soli 27 anni possa essere proprio addebitata all’alcolismo. Dopo una serie di polemiche rispetto alle indagini autoptiche e al cambio del coroner, nel 2013 venne infatti stabilita definitivamente la causa di morte in intossicazione acuta da alcol (nella stanza furono rinvenute 3 bottiglie di vodka vuote), con conseguente depressione respiratoria, che seguiva un periodo di astinenza di qualche settimana.
L’alcolemia della ragazza superava infatti i 4 g/l (ricordiamo che in Italia il limite per mettersi alla guida è 0,5 g/l). Negli alcolisti cronici si possono raggiungere dei livelli di alcolemia anche maggiori, compatibili con la vita, ma un fisico sicuramente debilitato anche da un disturbo del comportamento alimentare, probabilmente non ha retto un binging alcolico così acuto, soprattutto dopo un periodo di astinenza. Diversi studi mostrano infatti come l’alcolismo aumenti il rischio di mortalità nei i soggetti affetti da disturbi del comportamento alimentare (Suzuki et al. 2011).
Dalle dichiarazioni del medico di base si è appreso inoltre che la ragazza era in terapia con il Librium (clordiazepossido), un ansiolitico benzodiazepinico che viene usato per il trattamento delle crisi di astinenza e che potrebbe anche aver peggiorato la crisi respiratoria. La dottoressa vide Amy il giorno prima del decesso, definendola “alticcia”, seppure in grado di portare avanti una conversazione. La ragazza negava un’ideazione autolesiva, anzi presentava una progettualità per il futuro e per questo è stata esclusa l’ipotesi del suicidio, inteso come atto volontario e consapevole.
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Due fattori a mio avviso possono aver contribuito al fallimento dei percorsi di cure, che per casi così complessi durano solitamente diversi anni. Il primo necessita di una lettura sistemica della situazione famigliare, da cui emerge uno schema che si ripete: Amy si fa male con l’alcol e le droghe, il padre si preoccupa, cerca di aiutarla, avvisa la madre, i due si confrontano sul da farsi, si preoccupano insieme, in qualche modo tornano a essere coppia in nome della malattia della figlia. Amy di questo non è consapevole, ma potrebbe essere una modalità di reagire al trauma della separazione infantile, originata da fantasie di riunire la famiglia.
L’altro è il paradossale rinforzo positivo ricevuto negli anni dai media rispetto al disagio psichico e alle condotte di abuso di alcol e sostanze. Le immagini di Amy strafatta erano infatti grottescamente più interessanti per i giornalisti delle immagini di Amy sobria. Il messaggio che è sempre arrivato alla ragazza è stato: più eccedi, più ci interessi. Amy e la sua famiglia hanno goduto di un’attenzione mediatica fortissima, alla quale non mi pare si siano mai tirati indietro. Basti pensare alla “lettera aperta” che la madre ha scritto alla figlia pubblicandola su News of the world, in cui la prega di curarsi, o al libro e documentario Saving Amy che il padre ha fatto commissionare mentre la figlia lottava ancora contro le sostanze (Barak, 2010), con l’intento di aiutare le famiglie che vivono il dramma della tossicodipendenza. Come a dire, nonostante tutto e tutti, The show must go on…
Ormai sembra quasi scontato dire che i social network hanno cambiato il nostro modo di rapportarci ad amici e conoscenti: Facebook e Twitter aumentano il loro successo giorno dopo giorno e contemporaneamente si moltiplicano gli studi psicologici per valutare l’impronta di questi sistemi sul nostro modo di vivere.
Recentemente, dai risultati di una ricerca americana, emerge come Facebook favorisca l’aumento della propria autostima. Lo studio in questione è stato condotto da Hancock e colleghi della Cornell University (New York) ed ha coinvolto 63 studenti della stessa università. I partecipanti sono stati suddivisi in gruppi da 21 persone ciascuno e ad ogni partecipante è stato chiesto di sedersi per tre minuti davanti ad un computer di uno dei laboratori dell’ateneo, il Social Media Lab.
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Le condizioni sperimentali erano così strutturate: gli studenti del primo gruppo si sono ritrovati di fronte alla loro pagina Facebook con la possibilità di navigare tranquillamente all’interno del social network e senza alcun impedimento. I volontari del secondo gruppo, una volta in laboratorio, sono rimasti di fronte al monitor spento. Infine il terzo gruppo è rimasto di fronte a degli specchi, collocati a loro volta davanti al monitor. Terminati i tre minuti, ad ogni partecipante è stato dato un test per valutare la propria autostima. Il gruppo di controllo, quello con computer spenti e quello con gli specchi non hanno fatto registrare un aumento nei livelli di autostima, mentre solo nel caso degli studenti posti davanti alla loro pagina Facebook sono emersi degli aumenti sensibili della stima di sé.
Una spiegazione dei dati ottenuti, e proposta da Hancock, potrebbe essere che Facebook possa mostrare un’immagine positiva di noi stessi, mentre, al contrario, uno specchio ci ricorda chi siamo veramente e per questo potrebbe avere un effetto negativo sulla nostra autostima.
Gli autori dell’esperimento sono interessati a capire quale sia esattamente la peculiarità di Facebook che induce l’aumento dell’autostima. Gli stimoli, infatti, potrebbero derivare dalle raccolte di fotografie, dai contenuti condivisi con gli amici o dai commenti ricevuti nella propria bacheca, o forse dalla soddisfazione nel vedere di aver realizzato qualcosa di compiuto, che piace anche ai propri amici.
Naturalmente non tutti gli utenti abituali hanno risentono di una stimolazione dell’autostima, anzi, alcune ricerche hanno suggerito un collegamento tra l’uso intensivo di Facebook e narcisismo.
Ma per questo approfondimento rimandiamo alla prossima flash news che tratterà la ricerca in questione.
La Rubrica di State of Mind, a cura di Roberta De Martino
La Governante: diversa da chi?
Scena della rappresentazione teatrale LA GOVERNANTE di Vitaliano Brancati, regia Maurizio Scaparro.
In questi giorni al Teatro Mercadante di Napoli è in scena La Governante, un testo dello scrittore siciliano Vitaliano Brancati che, negli anni ’50, tanto scalpore aveva destato nell’affrontare lo scottante tema dell’omosessualità. Lo spettacolo, per la regia di Maurizio Scaparro, oggi nel 2013, invece, non entusiasma molto, lasciando il pubblico a bocca asciutta di emozioni e di nuove riflessioni.
La pièce, infatti, punta il dito contro il perbenismo ipocrita e sessuofobo, di matrice cattolica, dell’Italia degli anni ’50 del secolo scorso, ma lo fa con una stanca retorica e con uno scarso pathos che non permettono agli astanti di sentirsi mai appieno coinvolti nelle vicende rappresentate.
A rendere più ostico il tutto è, poi, la presenza di alcuni errori registici che spezzano la magia della finzione (ad esempio allorquando una domestica prepara la tavola con estrema rapidità mettendo ben in evidenza che qualcuno le sta passando gli oggetti da dietro alle quinte) unitamente all’inappropriato accento, “quasi russo”, della governante “francese” Caterina Leher, interpretata da Giovanna Di Rauso.
Nonostante la buona performance degli interpreti, in particolare Pippo Pattavina, nel ruolo di Leopoldo, Max Malatesta, nei panni di Alessandro Bonivaglia e Ramona Polizzi, in quelli diFrancesca, lo spettacolo scivola via senza lasciare alcuna traccia né emotiva né cognitiva.
Il testo racconta le vicende della giovane Caterina Leher che, calvinista e integerrima, assunta in casa Platania (famiglia benestante siciliana trasferitasi nella Capitale) vive in colpevole segretezza la propria omosessualità: una “verità” scomoda per il suo tempo, un marchio infamante da scongiurare. Vittima di quest’ossessione sarà alla fine la domestica Jana che, già a servizio in casa Platania, sarà accusata da Caterina di praticare l’indicibile vizio. Licenziata e costretta a tornare al suo paese, Jana morirà sul treno che la porta al Sud, coinvolta in un incidente ferroviario.
Rigliano, Ciliberto & Ferrari (2012). Curare I Gay? Oltre l’Ideologia Riparativa dell’Omosessualità – Copertina del Libro. Raffaello Cortina Editore
Il testo “scandalo” di Brancati andò in scena per la prima volta a Parigi nel 1963 e, solo dopo l’abolizione della censura, nel 1965 in Italia, interpretato magistralmente da Anna Proclemer, moglie di Brancati, e Gianrico Tedeschi con la regia di Giuseppe Patroni Griff, alla sua prima regia.
Ciò che forse nel testo è efficacemente messo in luce è proprio il discorso dell’auto-accettazione che sovente, a mio avviso, è il nucleo caldo dell’omosessualità. La Governante, infatti, proprio perché non accetta la sua scelta sessuale, finisce con il dare vita, nel tentativo di nascondere la sua vera natura, a una serie di vicende spiacevoli che comporteranno poi la morte della giovane e bella Jana.
Tale aspetto della vicenda spinge a riflettere su quale peso abbia, al di là delle primitive e inaccettabili intolleranze sociali, che vedono ahimè ancora gli omosessuali al centro di alcune notizie di cronaca, perché vittime di discriminazione e di violenza, la scarsa accettazione che lo stesso omosessuale ha di se stesso e che lo spinge a manifestare, sovente, continuamente la sua scelta, a dare a essa parola, ostentandola, rischiando, di contro, di etichettarsi da solo.
E così nasce il Gay Pride che probabilmente molto più avvincente e significativo sarebbe stato se lo si fosse chiamato Love Pride: una giornata da dedicare all’amore in tutte le sue forme e manifestazioni.
Marina Castaneda, nel testo “Comprendere l’omosessualità”, (Armando Editore 2006 pag 69) sapientemente spiega come “la maggior parte degli omosessuali transita attraverso un lutto dell’eterosessualità, anche se non ne sono affatto coscienti” e specifica che l’accettazione dell’omosessualità è raramente totale o definitiva”; essa potrà, probabilmente, esserlo quando i diritti dei cittadini omosessuali saranno uguali a quelli degli eterosessuali. E così di continuo, alle volte pure troppo, in questa lotta per l’accettazione di se stessi, impegnati nella propria elaborazione del lutto e nel tentativo di contrastare le diseguaglianze, si finisce con il sottolinearle, esaltarle, ghettizzandosi in locali gay, giornate dedicate all’omosessualità ecc.
Se è innegabile come spiegato dalla Castaneda nel testo su citato (pag 11) che “ gli omosessuali sono ancora, quasi ovunque, una minoranza discriminata ed emarginata” e che quindi è necessario rappresentare in teatro storie che sollevino riflessioni su una tematica tanto importante, c’è anche un’altra questione che è degna di nota e che può forse spiegare la riuscita senza infamia e senza lode dello spettacolo di Scaparro.
La Castaneda afferma “l’eterosessuale è stato educato a essere tale, sin dalla più tenera infanzia è stato formato per un ruolo, e un posto nel mondo, nel mondo eterosessuale. Questo non accade per l’omosessuale, che molto spesso non prende coscienza del suo orientamento se non durante l’adolescenza o l’età adulta. Quindi non è cresciuto nel suo ruolo, non è stato educato a essere omosessuale. Gli mancano ogni genere di abilità e codici sociali di cui avrà bisogno nel mondo omosessuale di cui andrà a far parte. Quando scopre, infine, il suo orientamento sessuale, deve riapprendere tutte le regole dell’amore, dell’amicizia e della convivialità” (pag. 15).
Nel rileggere queste righe si potrebbe forse giungere a pensare che lo scarso coinvolgimento avvertito per “La Governante” sia anche figlio del periodo di forte precarietà che attualmente il nostro Paese sta vivendo. In un periodo in cui vige una profonda crisi del “tempo indeterminato”, sia per quanto riguarda gli affetti che per quanto concerne il lavoro, viene da chiedersi a quale identità possiamo oggi far riferimento che possa far sentire gli omosessuali “diversi” dagli altri, cosiddetti “normali”.
August Strindberg (1849 – 1912), drammaturgo, poeta e scrittore svedese.
Rifacendomi alle parole della Castaneda, relativamente all’eterosessualità, mi verrebbe da chiedermi quale disillusione ha costituito per tutti, etero e non, essere educati e preparati a una società ben diversa da quella con cui ci confrontiamo al giorno d’oggi. Ed è forse questa precarietà identitaria che gioca male per testi come quello di Brancati che rischiano di essere percepiti come un po’ noiosi e obsoleti perché oggi, francamente, desta molto più scalpore l’assenza di un’identità che la scoperta di un diverso orientamento sessuale.
Certo è, però, che se un importante spazio meritano comunque le opere che spingono a riflettere sulle difficoltà che riscontrano gli omosessuali nell’accettarsi e nel sentirsi accettati, quanto più utile sarebbe anche affrontare con pensieri nuovi queste difficoltà che, se opportunamente descritte, ci si renderà conto che non sono molto diverse da quelle vissute da chi oggi è coinvolto in una ben più grave difficoltà identitaria nella sua totalità.
Gli obiettivi individuati devono possedere alcune caratteristiche di base per poter essere realizzati: devono essere realistici, devono riferirsi al problema attuale, devono mirare a ridurre il dolore e devono contemplare un miglioramento del paziente anche al di fuori della terapia.
“Un guerriero della luce studia con molta attenzione la posizione che intende conquistare.
Per quanto il suo obiettivo sia difficile, esiste sempre una maniera di superare gli ostacoli. Egli verifica i cammini alternativi, affila la sua spada, e cerca di colmare il proprio cuore con la perseveranza necessaria per affrontare la sfida.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.38]
Una volta che è stata raggiunta una definizione comune del problema è necessario chiarire quali sono gli obiettivi che si vogliono realizzare e cioè occorre stabilire in modo preciso lo stato ottimale che il paziente deve presentare al termine della terapia anche relativamente ai suoi stati affettivi.Come per il problema anche in questo caso il paziente si presenta con obiettivi propri da raggiungere, dai quali il terapeuta deve avviare un processo di negoziazione simile a quello ottenuto per la definizione del problema.
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Può capitare anche che gli obiettivi del cliente siano avversi alla terapia, può essere ad esempio giunto dal professionista con lo scopo di provare il fallimento di qualsiasi intervento psicologico. Quando il paziente si mostra ostile alla terapia è sicuramente più arduo, a tutti i livelli, cercare di negoziare qualcosa. In linea di massima il percorso seguito per poter negoziare gli obiettivi della terapia è simile a quello eseguito per la definizione del problema tant’è che queste due mete possono essere considerate parallele. Attraverso l’insight determinato da nuove prospettive emerse nel cliente grazie alle osservazioni dello psicologo si avverte l’efficacia del colloquio che assume, a volte, tratti magici per le emozioni che il soggetto sperimenta. Questo cambio di prospettiva mostra alternative, nel problema come negli obiettivi. Chi era ostile verso la terapia, nella migliore delle ipotesi, può osservare l’esistenza di altri traguardi, positivi, rispetto al fallimento ineluttabile di qualsiasi tentativo di aiuto. In questo modo il processo di negoziazione per la definizione degli obiettivi si realizza. Esso deve comunque tener conto e coinvolgere il paziente per l’importanza delle sue aspettative e delle sue necessità.
“Per realizzare il proprio sogno, ha bisogno di una volontà salda, e di un’immensa capacità di abbandono. Sebbene egli abbia un obiettivo, il cammino per raggiungerlo non è sempre quello che immagina.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.52]
Gli obiettivi individuati devono possedere alcune caratteristiche di base per poter essere realizzati: devono essere realistici, devono riferirsi al problema attuale, devono mirare a ridurre il dolore e devono contemplare un miglioramento del paziente anche al di fuori della terapia.
Nel corso della negoziazione possono essere individuati diversi obiettivi che richiedono interventi separati. In tal caso è necessario stabilire un ordine di priorità che deve coinvolgere anche il paziente. Tuttavia Sundel, Radin e Churchill [1985, in giallo] suggeriscono che lo psicologo tenga conto di alcuni criteri nella negoziazione per stabilire la proprietà di intervento:
1) “La preoccupazione che il paziente esprime per prima”; occuparsi di ciò che preoccupa maggiormente il paziente appaga le sue aspettative e rafforza il rapporto di fiducia con il terapeuta, favorendo il terreno per la realizzazione degli altri obiettivi.
2) “Il comportamento che ha le conseguenze negative più gravi per il paziente, per chi gli è vicino o per la società”; è necessario affrontare realizzare prima obiettivi che consentono di placare condizioni altamente pericolose soprattutto se la persona è a rischio di suicidioo minaccia di aggredire altre persone, magari attraverso l’immediato invio per una consultazione specialistica.
3) “La preoccupazione più immediata espressa dalla fonte di invio”; riguarda principalmente i pazienti involontari inviati per risolvere specifici problemi e sono su quelli che il colloquio deve concentrarsi.
4) “Il comportamento che è più facilmente e/o efficacemente risolvibile”; se il terapeuta mostra la sua efficacia rafforza la fiducia e la disponibilità del cliente a proseguire la terapia. Questi obiettivi particolarmente semplici possono essere risolti anche solo dando le corrette informazioni al cliente al riguardo.
5) “Il problema che va affrontato prima di poterne gestire altri”; ovviamente alcuni obiettivi possono essere requisiti minimi per affrontarne degli altri e, in tal caso dovranno essere risolti per primi.
La negoziazione assume, quindi, un ruolo importante sia nella definizione del problema, che degli obiettivi, che delle priorità da affrontare nel corso dei colloqui psicologici. Questo è un processo che non si esaurisce in uno specifico momento del colloquio ma che pervade ogni momento di incontro tra cliente e terapeuta. Sia il problema che gli obiettivi, infatti, non vengono decisi una volta per tutte ma cambiano continuamente nel corso della terapia. La negoziazione è una tappa fondamentale per giungere al cambiamento.
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“ Un guerriero della luce conosce i propri difetti. Ma conosce anche i propri pregi.
Alcuni compagni si lamentano in continuazione […]. Forse hanno ragione. Ma un guerriero non si lascia paralizzare da questo. Cerca di valorizzare al massimo le proprie qualità. […].
Allora cerca di sapere su cosa può contare. E controlla sempre il suo equipaggiamento”.
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.39]
Oltre alle varie informazioni sul paziente, sul problema (sia sulla sua evoluzione temporale che sulle contingenze ambientali nelle quali si realizza) e sugli obiettivi, è importante che lo psicologo sia in grado di valutare i punti di forza del paziente e le risorse disponibili sia dal suo punto di vista del terapeuta che da quello del paziente.
Queste rappresentano il budget di base sul quale deve essere pianificato l’intervento, ciò che si può ottimizzare e sfruttare per raggiungere gli scopi della terapia. Questo budget si suddivide in risorse interne al cliente e risorse appartenenti all’ambiente.
Valutare i punti di forza interni al paziente vuol dire comprendere le capacità psicologiche(come la capacità di coping o di problem solving), sociali (come le capacità assertive del soggetto) ed economiche (e cioè il potenziale di investimento di denaro della persona) che possono essere utili alla terapia.
Valutare le risorse appartenenti all’ambiente implica l’analisi delle opportunità d’aiuto che lo psicologo può sfruttare all’esterno della terapia e che sono principalmente correlate alle relazioni con i membri della famiglia nucleare ed estesa, amici, vicini, enti di assistenza ecc…
Tutto ciò, se presente, aumenta il budget di cui dispone il terapeuta nel tentativo di aiutare il paziente e facilita il superamento di molti ostacoli.
“Un guerriero della luce non entra mai in battaglia senza conoscere i limiti del suo alleato.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.133]
Nella propria vita può accadere di essere vittime di eventi altamente stressanti, quali violenze fisiche, abusi sessuali, disastri naturali (terremoti, alluvioni, ecc.), disastri tecnologici (incidenti chimici, nucleari, danni energetici, ecc.), guerre, torture, incidenti e rapimenti. Queste esperienze traumatiche possono comportare nelle vittime uno stress psicologico severo, che può avere conseguenze nell’immediato, ma talvolta anche a lungo termine.
Guarda la Video-Intervista di State of Mind a Isabel Fernandez
È molto probabile che si sviluppi il disturbo da stress post-traumatico, caratterizzato dalla tendenza a rivivere l’evento traumatico, ad evitare stimoli che possano essere associati al trauma, diminuzione di interesse per attività piacevoli, senso di estraneità e di distacco dagli altri, aumento dell’arousal e sintomi di dissociazione. Possono, inoltre, comparire sintomi di ansia e depressione. Anche la qualità e la durata del sonno possono risultare compromesse, con frequenti incubi e flashback legati all’evento traumatico.
Ma questi sintomi possono persistere nelle vittime anche a distanza di anni?
A questo proposito, un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Medicina Clinica dell’Università degli Studi de L’Aquila con la collaborazione dell’Università “La Sapienza” di Roma, si è chiesto se gli effetti psicologici del terremoto dell’Aquila nel 2009 perdurassero nelle vittime a distanza di due anni dall’evento.
Dai risultati é emerso che la popolazione che è stata esposta all’evento traumatico dopo due anni presenta ancora difficoltà legate al sonno e incubi che rievocano l’evento stressante. Più i soggetti erano vicini all’epicentro e più gravi risultano ancora oggi i disturbi e interessano soprattutto la popolazione più anziana.
E’ evidente, inoltre, come gli effetti psicologici del trauma persistano maggiormente rispetto ai sintomi fisici e coinvolgano anche persone che risiedono nelle zone limitrofe all’epicentro (anche a 70 km di distanza).
Nella pratica clinica della Psicoterapia Sensomotoria viene riservata una spiccata attenzione alla consapevolezza e ai movimenti corporei, a come poter aiutare i pazienti a diventare consapevoli dei loro movimenti nel qui e ora, e ad insegnargli a seguire e ad ascoltare le loro sensazioni corporee provando a dare loro una voce, collegandole ad emozioni e vissuti interni.
Il 22 e 23 Febbraio l‘Istituto di Scienze Cognitive, ha organizzato un workshop sulla terapia Sensomotoria per i bambini. Molto fiduciosa parto venerdì mattina all’alba sfidando la neve e ritorno a casa base sabato sera dopo un’ora di cammino sulla neve. La partecipazione a questo evento ha fornito agli psicoterapeuti molti strumenti da mettere nella “cassetta degli attrezzi”.
Le docenti la Dr. Bonnie Goldstein, Consulente psicologa per bambini e adolescenti del Lifespan Learning Institute (Los Angeles), psicoterapeuta specializzata nel trattamento dei bambini, adolescenti, famiglie e gruppi e la Dr. Esther Perez, Trainer in Trauma Focused Cognitive Behavioral Therapy e in Sandplay therapy, docente presso la University of Southern California e docente a livello internazionale di Sensorimotor Psychotherapy, si sono da subito mostrate preparate e disponibili al confronto.
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Ma facciamo un passo indietro cos’è la psicoterapia sensomotoria?
La Psicoterapia Sensomotoria (Sensorimotor Psychoterapy: Fisher & Ogden, 2009; Ogden & Minton, 2000; Ogden, Minton & Pain, 2006) è un approccio ai disturbi post-traumatici e alla psicoterapia in generale sviluppato negli anni ’80.
Nella pratica clinica della Psicoterapia Sensomotoria viene riservata una spiccata attenzione alla consapevolezza e ai movimenti corporei, a come poter aiutare i pazienti a diventare consapevoli dei loro movimenti nel qui e ora, e ad insegnargli a seguire e ad ascoltare le loro sensazioni corporee provando a dare loro una voce, collegandole ad emozioni e vissuti interni.
Durante questo week end molti sono stati gli esempi in questo senso, soprattutto utilizzando il video di sedute in cui Pat Ogden, Esther Perez e Bonnie Goldstein, lavoravano in seduta con i bambini attraverso proposte giocose e di movimento corporeo, dando spazio in una sapiente improvvisazione terapeutica ai vissuti di quei bambini cosi ben “visibili” nel corpo, un corpo che parla se solo si riesce a dargli voce, un corpo che detiene la memoria, la memoria del trauma.
In questi video i bambini venivano in un qualche modo invitati ad osservare la relazione tra il loro movimento, le emozioni e le convinzioni, stando nel momento presente elicitando così abilità di mindfulness. I bambini vengono guidati nell’esplorazione all’interno del setting imparando con diversi esercizi a monitorare e a modulare le proprie sensazioni fisiche, le posture e i movimenti ma soprattutto imparando a capire quanto tutto questo influenzi gli stati emotivi e i vissuti relazionali.
La centralità dell’approccio sensomotorio sta nell’integrare gli aspetti somatici all’interno del processo terapeutico, permettendo una lettura mente-corpo, utilizzando di volta in volta a seconda dell’esigenza interventi bottom-up o interventi top-down.Nel processo terapeutico ogni cosa prende un senso e si parte dall’assunto che qualsiasi cosa propone il paziente non solo va bene ma è uno spunto per un nuovo viaggio, è l’indicazione della direzione da seguire.
In quest’ottica il terapeuta diventa facilitatore per il paziente e lavora stimolando la curiosità dello stesso verso il suo modo di percepire le risposte corporee, e soprattutto nella comprensione di come le risposte del passato continuino oggi ad emergere nel presente e ad influenzare il contesto odierno. Compito del terapeuta sarà far capire al paziente quanto un cambiamento nelle proprie risposte corporee, come un cambiamento nella postura e nella gestualità possa portare un cambiamento nel funzionamento globale dell’individuo non solo nel presente ma anche nel futuro.
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All’interno del workshop grande importanza è stata, quindi, data alla regolazione diadica all’interno della relazione terapeutica, piuttosto che attraverso il solo linguaggio, attraverso quello che le relatrici chiamano “narrazione somatica” nel trattamento di bambini e adolescenti, un linguaggio del corpo che dal bambino passa al terapeuta e viceversa fatto di moltissimi ingradienti: la postura, la mimica, la vicinanza e la lontananza: il terapeuta diventa regolatore biologico.
Dal workshop quindi emergono nuove chiavi di lettura e una cornice interpretativa che non passa unicamente dalla parola ma che usa il corpo come veicolo di emozioni e pensieri.
Paul torna da Gina. Pare che sia diventata ormai una supervisione, anche se la situazione è confusa. Troppe cose sono successe in passato tra questi due, incomprensioni accennate, delusioni dichiarate. Paul arriva sconfortato e confessa a Gina la crisi del suo matrimonio, ed esprime la sua rabbia e la sua frustrazione con un linguaggio spinto, quasi volgare.
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Gina rilancia, chiedendo a Paul come faccia a conoscere certi particolari scabrosi del tradimento della moglie. Quasi gli rinfaccia una curiosità da marito non solo tradito, ma anche guardone. Poi si passa a Laura, la paziente del lunedì, quella che desidera portarsi Paul a letto. La terribile Gina fa mille domande a Paul, il cui nocciolo è: confessa, piacerebbe anche a te andare a letto con Laura. Infine Paul rilancia, facendo oscure allusioni a un antico paziente di Gina, tale Charles. Pare di capire che Charles e Gina rischiarono di innamorarsi, ma Gina rifiutò l’amore del suo paziente.
È una puntata oscura, in cui Paul rigetta ogni coinvolgimento erotico con Laura ma poi finisce per dichiararsi deluso del fatto che Gina non ebbe il coraggio di buttarsi tra e braccia del suo paziente.
È il tema di tutta la serie che prende forma, la lotta tra la regola della psicoterapia e la passione devastante di Paul per i suoi pazienti, tra Legge e Amore. Paul non è soltanto innamorato di Laura, ma è appassionato verso tutti i suoi pazienti. Mentre invece la sua vita familiare è morta, un cadavere.
Colgo un’analogia con il racconto che Peter Fonagy ci ha fatto della sua severissima supervisora ortodossa e viennese. Insomma, è tutta una serie sulla dialettica tra atteggiamento classico, distaccato e distanziante, e svolta relazionale, con tutti i pro e i contro di questa svolta. Gina sottolinea i rischi di un eccessivo coinvolgimento, Paul quelli di un eccessivo irrigidimento.
Come scritto da Mitchell nel 1993, la fermezza di un analista è rigidità per un altro analista e la flessibilità di questo secondo analista è un cedimento per il primo (Mitchell, 1993). Non abbiamo strumenti che separino nettamente i due campi e ci dicano con chiarezza quando usare l’uno o l’altro. Abbiamo delle linee guida, che però possono lasciarci comunque confusi. Come confusi sono Paul e Gina alla fine di questa puntata.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso
L’unico motivo sano per fare questo lavoro è il denaro, diceva uno psicoanalista apparentemente cinico ma in realtà molto saggio.
Tutti gli altri motivi sono inquinanti: il desiderio di sentirsi buoni e la voglia di gratitudine, il voyerismo verso le vite degli altri, la necessità di sentirsi sani perché sono gli altri ad essere matti, il potere che si sente di esercitare, l’intimità che si sperimenta senza bisogno di aprirsi davvero all’altro (quella che chiamo la scopata con la scrivania in mezzo o, peggio, quella senza scrivania).
Sono tutti motivi peggiori del vile denaro.
Ma chi fa questo lavoro ha, soprattutto, bisogno di sentirsi buono, è spesso un accudente coatto.
Allora, per cercare di tenere distinte le cose, mi regolo in questo modo: normalmente lavoro per soldi, poi alcuni li vedo in regime di volontariato e, così, mi salvo l’anima che perdo con gli altri.
Per accedere al regime di volontariato, i pazienti devono avere due caratteristiche che si associano spesso: essere particolarmente matti e/o particolarmente poveri. L’importante è raggiungere una soglia, elevata per merito, di uno dei due addendi della sommatoria.
Luca non era ancora del tutto povero quando è arrivato da me ma lo sarebbe diventato rapidamente se avesse continuato a curarsi.
Solo nell’ultimo anno, a soli scopi diagnostici, aveva fatto tre TAC total body e cinque RMN alla colonna cervicale.
Come terapie: la posturale, due mesi di osteopatia, due ricoveri in riabilitazione intensiva, massaggi di tutte le scuole esotiche esistenti e tre mesi di Pilates.
Si era comprato tutti i possibili apparecchi riabilitativi sul mercato, ad emissione di elettroni, positroni, raggi gamma, ultravioletti e infrarossi.
Faceva la ionoforesi con il cortisone, la massoterapia, lentamente aveva attraversato l’area della meditazione e dello yoga ed era poi approdato a guaritori e maghi di ogni risma, che toglievano malocchi e fatture senza rilasciarne mai, perché quando si sta male si provano tutte anche se non ci si crede.
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Aveva sfinito gli agopuntori di tutta la provincia e rischiato di intossicarsi persino con l’inerte omeopatia.
L’ostinazione della sua sofferenza l’avevano, infine, spinto ad un Centro di Salute Mentale dove si era preso una psicoterapia con una giovane tirocinante di bioenergetica e persino un ricovero in clinica psichiatrica con una bella scarica di psicofarmaci.
Arrivò da me su invio di alcuni sacerdoti esorcisti con i quali, talvolta, collaboro per tenermi buono l’aldilà, che non si sa mai. Quando lo vidi con la faccia e gli occhi gonfi di pianto mi venne in mente una scena del film “La notte di San Lorenzo” dei fratelli Taviani, quando un partigiano, preso da pietà per il fascista compaesano che rotola disperato intorno al corpo del figlioletto, odiosissimo fascistello, appena ucciso con una fucilata, invita il compagno ad un gesto di pietà dicendogli in toscano “O tiragli, un lo vedi come patisce!”.
Sparare immediatamente a Luca sarebbe stato un gesto di pietà, ma ho paura del botto e non tengo armi in studio, per cui mi predisposi ad ascoltarlo tra un tirar su col naso ed un singhiozzo.
Il disturbo sembrava avere un inizio precisissimo, connesso ad un evento concreto: estate di tre anni prima, lui si trova in spiaggia su una sdraio, a leggere il giornale sportivo. Poco distante un gruppo di coetanei scherza e ammicca alle ragazze. Tra questi Antonio, un prepotente che lo ha “bullizzato” sin dalle elementari, arrivando persino a fratturargli una gamba durante una partita di calcio. Antonio si alza per andar via e, quando gli passa accanto, gli afferra la testa tra le mani e la gira in senso orario. Gli altri ridono. Luca sente una fitta a livello del collo e torna a casa arrabbiato con Antonio, cui non dice nulla. La mattina successiva si sveglia con forti dolori alla colonna ed una evidente difficoltà a camminare. Tutti gli accertamenti immediati e susseguenti non evidenziano alcun danno, ma la sintomatologia aumenta fino a diventare invalidante perfino per il lavoro di inserviente al supermercato che Luca svolge. Inizia a pensare che la sua vita è rovinata per sempre e nulla potrà tornare come prima.
Al momento del consulto con me, il fastidio residuo è una sensazione di diversità, non meglio precisabile, che avverte sul cuoio capelluto nelle zone in cui è stato afferrato da Antonio.
La disperazione di Luca risiede nel fatto che nessuno crede ai suoi disturbi, non lo prendono sul serio e non gli prestano le cure adeguate pensando trattarsi di suggestione e, per questo, la sua vita resterà bloccata per sempre. Non parla d’altro che dei suoi sintomi fisici e delle possibili cure per risolverli. Qualsiasi altro argomento è sentito come una svalutazione della sua sofferenza fisica, la prova che non lo si prende sul serio.
Se il futuro appare a Luca come un calvario senza fine, il suo passato lo è stato effettivamente.
E’ venuto a vivere nel capoluogo all’età di sei anni perché il padre, tagliaboschi, aveva trovato un lavoro come usciere presso un ente provinciale dopo essersi tagliato una mano con la sega elettrica. L’incidente aveva peggiorato il suo alcolismo e la sua violenza. Mosso da una gelosia delirante, massacrava quotidianamente la moglie di botte e, altrettanto, aveva preso a fare con Luca che riteneva complice della madre. Per due volte lo aveva spedito all’ospedale con fratture multiple alle costole ed una volta gli aveva cavato due denti con una ginocchiata. La vita era un inferno di violenza, terrore e follia.
Il padre, per affermare il suo dominio sulla moglie, tentava di possederla sessualmente appena tornava a casa, nella cucina, di fronte a Luca. Quando non ci riusciva, a causa dell’ubriachezza, vedeva ciò come la prova del tradimento della donna e questo scatenava una rabbia incontrollata.
Luca pregava perché il padre morisse e ne provava colpa.
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Nel quartiere, la famiglia del boscaiolo ubriacone e senza una mano era emarginata e derisa. Luca, in particolare, era preso in giro per i suoi modi gentili e riservati e i compagni di classe dicevano malignamente che il padre non scopasse solo la madre, ma anche con lui, quando riusciva ad acchiapparlo con la mano buona.
L’adolescenza era stata segnata dal bullismo dei compagni e dalla paura di essere, prima o poi, ucciso dal padre.
All’età di 17 anni chiese ad un medico se esistessero farmaci per smettere di bere e questi gli prescrisse l’Antabuse, raccomandandosi però di mandargli il padre a visita per poter spiegare a lui come assumerlo. Luca era certo che il padre non sarebbe mai andato e lo avrebbe gonfiato di botte, perciò decise di agire in proprio: con un mortaio ridusse in polvere tre compresse e le mischiò alla minestra di ceci e farro che il padre adorava.
Il padre, effettivamente, smise di bere ma anche di mangiare e di respirare. La mattina successiva giaceva in bagno, gonfio come un rospo, con la testa spaccata tra il water e il bidet.
Senza lo stipendio del padre Luca non poteva continuare a studiare per geometra e perciò, grazie ad un fratello della madre, fu assunto come magazziniere in un supermercato di Novara e partì.
Nonostante mi avesse raccontato di essere stato sempre bene, prima dell’episodio della testa girata, non era esattamente così.
A Novara aveva avuto un primo “esaurimento nervoso”, per il lavoro faticoso e la lontananza da casa. Non dormiva, mangiava pochissimo fino ad una notte, un quindici agosto, che si svegliò in preda ad un incubo terrificante: lo avevano condannato a morte e la mattina seguente, per la festa di Maria, sarebbe stato bruciato su un rogo in piazza. Era certo che, della sua cattura ed esecuzione, fossero stati incaricati i cinesi. Si diede alla fuga verso il confine, prese un treno senza il biglietto, ma a Chiasso fu bloccato alla frontiera per mancanza di passaporto. Tre giorni di ricovero presso un SPDC di Milano e poi il ritorno nella sua città, con un ambulanza.
Rientrato a casa dovette abituarsi alla presenza di Carlo, il nuovo compagno della madre, lo stesso che era stato oggetto delle gelosie del padre. Carlo era un gigante di oltre due metri e anche lui beveva e picchiava la madre.
Luca decise che, per il momento, non se ne sarebbe occupato. Riprese a lavorare come magazziniere in un autoricambi e si fidanzò con Marta, studentessa di Scienze della Comunicazione. Era una ragazza mite, costruita su due piedistalli, la bruttezza e la bontà, cercando di compensare con la seconda la prima.
La scelta di Luca era stata osteggiata dalla sua famiglia, ma lui era contento così.
La mattina in cui tutto ebbe inizio, Marta era stata a Tarquinia con Luca. Avevano tentato in auto, nella pineta, di avere un approccio intimo ma l’erezione era venuta a mancare nel momento decisivo. Mentre si rivestiva angosciato, Luca ricordava di aver pensato che forse non ci riusciva perché era Marta a non concedersi in quanto coinvolta con un altro.
In seduta riuscì a ricordare che, mentre era seduto sulla sdraio al sole e sentiva ridere il gruppetto di Antonio e dei suoi amici, aveva pensato che sapessero del suo insuccesso e ridessero di lui. Era sicuro che fosse proprio Antonio, il bullo che gli aveva rotto una gamba, l’amante segreto di Marta. Nel girargli la testa aveva voluto dirgli di fronte a tutti “guardati intorno e ne vedrai delle belle!” e ancora “siccome sei un testa di cxxxo abbassa la testa così come si è abbassato il tuo …… “.
Luca aveva provato un’ umiliazione ed una rabbia forsennate ma non aveva mosso un dito, nè detto una parola. Era paralizzato dalla paura, pensava che tutti sapessero che era un vigliacco impotente.
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Quando arrivò al mio studio nonostante due anni di terapie di tutti i generi e relative spese non aveva mai detto nulla al suo aggressore, né presentato alcuna denuncia per ottenere un risarcimento.
Io pensai di dover agire, almeno per il momento, su un piano prevalentemente comportamentale: avevo l’impressione che la vergogna e l’umiliazione fossero per Luca ancora inelaborabili su un piano intrapsichico. Gli vietai di intraprendere qualsiasi terapia che fosse a pagamento; i soldi risparmiati li avrebbe usati per frequentare un corso di arti marziali, allo scopo di acquisire maggior sicurezza di sé. Gli consigliai, inoltre, di incaricare un avvocato che facesse causa ad Antonio per ottenere un risarcimento.
Il lavoro successivo, più squisitamente terapeutico, fu dedicato allo sviluppo dell’assertività in tutte le situazioni in cui si sentiva umiliato e sopraffatto dall’altro.
Lo stato d’animo di Luca stava lentamente migliorando quando improvvisamente smise di venire.
Lo richiamai dopo un paio di settimane per capire le sue intenzioni. Mi disse che stava bene e il problema si era risolto. Antonio, con la sua automobile, non aveva frenato a sufficienza e, su un curvone, aveva abbattuto il muretto ed era finito nel fosso, cinquanta metri più in basso. L’auto si era incendiata, nonostante fosse una notte invernale, fredda e piovosa.
Il mio compito era finito e non volevo saperne di più, ma credo che anche Carlo prima o poi abbia smesso di bere.