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Disturbo Ossessivo Compulsivo – Perseguitati dai Dubbi

 

Disturbo Ossessivo Compulsivo - Perseguitati dai Dubbi. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

Un dialogo interno, fatto di domande senza risposte certe, che porta la persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo a incessanti controlli.

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Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio, così diceva Bertolt Brecht e se questo è vero per tutti noi lo è ancor di più per chi soffre di Disturbo Ossessivo Compulsivo. Queste persone, costantemente attanagliate dall’incertezza e da una scarsa fiducia nella propria memoria si domandano più volte al giorno se hanno chiuso la macchina, se hanno spento il gas, se hanno mandato quella mail importante ecc… Questo continuo dialogo interno, fatto di domande senza risposte certe, porta la persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo ad attuare incessanti comportamenti di controllo per verificare di aver fatto tutto a dovere. La persona si trova così intrappolata in un circolo vizioso di dubbi, ansia e controllo.

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Il disputing delle idee ossessive e delle compulsioni. - Immagine: © fotocomo - Fotolia.com
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Da anni la terapia cognitivo comportamentale è considerata il trattamento di eccellenza per il disturbo ossessivo compulsivo. Tra le diverse metodologie cui si riferisce questo approccio vi è l’esposizione e prevenzione della risposta (exposure prevention response, ERP). I soggetti in pratica, dopo un intervento psicoeducativo sulla gestione dell’ansia, vengono esposti a stimoli per loro ansiogeni (ad esempio un dubbio sull’aver chiuso la porta di casa o il dover toccar un oggetto sporco) e si chiede loro di tollerare l’ansia indotta dall’incertezza senza attuare comportamenti compulsivi (ad esempio controllare la porta o lavarsi le mani).

Adam Radomsky e altri ricercatori canadesi della Concordia University hanno tuttavia constatato che non tutti i pazienti riescono ad applicare con efficacia questa tecnica, seppur molto valida, ed hanno così sviluppato un nuovo protocollo di trattamento per il disturbo ossessivo compulsivo.

 Tale approccio prende il via dall’osservazione e accertamento dell’enorme senso di responsabilità che spinge gli individui con disturbo ossessivo compulsivo a controllare in modo compulsivo il proprio ambiente. Inoltre, i continui controlli effettuati dai pazienti con disturbo ossessivo compulsivo, sottolinea Radomsky, producono via via una diminuzione della fiducia che il soggetto ha in se stesso e soprattutto nella propria memoria, il che aumenta l’incertezza inducendo sempre maggiori dubbi e quindi ansie e di nuovo controlli. Secondo Radomsky tale ciclo potrebbe essere spezzato sgonfiando i sentimenti di responsabilità personale spropositati e riducendo la catastrofizzazione dei soggetti con disturbo ossessivo compulsivo.

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I ricercatori canadesi si focalizzano quindi più sui processi mentali che sul comportamento compulsivo, andando a ristrutturare le credenze dei soggetti riguardo la percezione della propria responsabilità personale, la fiducia nella propria memoria e la tendenza alla catastrofizzazione. Tutto ciò permetterà di ridurre le insicurezze e i sentimenti di colpa che tormentano i DOC.

Gli autori, dopo aver sviluppato il modello teorico attorno al quale si struttura il nuovo protocollo di intervento, stanno ora sperimentando “sul campo” questo nuovo approccio per verificarne la reale applicabilità ed efficacia.

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DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO – ANSIA – PSICOTERAPIA COGNITIVA 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Epigenetica e Adattamento all’Ambiente

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La epigenetica introduce una nuova componente: la trasmissione trans-generazionale di cambiamenti nella regolazione dell’espressione genica.

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Nel XVIII secolo il Jean-Baptiste Lamarck, naturalista francese, elaborò la prima teoria dell’evoluzione degli organismi viventi basata sull’adattamento e sulla eredità dei caratteri acquisiti, secondo la quale gli organismi, così come si presentavano, fossero il risultato di un processo graduale di modificazione che avveniva sotto la pressione delle condizioni ambientali: per esempio, il collo allungato delle giraffe sarebbe la conseguenza dello sforzo cumulativo, attraverso le generazioni, di raggiungere le foglie appena fuori della loro portata. Questa teoria evoluzionista è stata in gran parte abbandonata con l’arrivo delle moderne teorie genetiche che spiegano la trasmissione da una generazione all’altra della maggior parte dei tratti importanti e di molte malattie.

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Tuttavia, gli effetti cross-generazionali di traumi, disturbi dell’umore e dipendenze sono facilmente osservabili e oggetto di studio da parte di molti ricercatori che li hanno per lo più attribuiti alle modalità relazionali utilizzate dai genitori nei confronti dei figli.

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Nel nuovo numero di Biological Psychiatry, un team di ricercatori della University of Zurich and Swiss Federal Institute of Technology argomenta come l’emergere del campo dell’ epigenetica abbia introdotto un nuovo componente in questa discussione: la trasmissione trans-generazionale di cambiamenti nella regolazione dell’espressione genica.

La trasmissione genetica dei caratteri riflette alterazioni nella struttura genetica, cioè delle coppie di basi che formano il DNA. L’ epigenetica, invece, interessa processi cellulari che non alterano la struttura del DNA, bensì la misura in cui vengono convertiti i singoli geni in RNA messaggero. Questi cambiamenti possono verificarsi in qualsiasi cellula del corpo, ma quando si verificano nelle cellule germinali (spermatozoi o uova), le modifiche possono essere trasferite alla generazione successiva.

 I cambiamenti nella struttura del DNA sono eventi casuali che acquistano significato funzionale nel contesto del darwiniano processo di selezione naturale. Diversamente, le reazioni epigenetiche ad ambienti specifici sono progettate per consentire all’organismo di far fronte al contesto. Quando queste caratteristiche vengono trasmesse alla generazione successiva gli permettono un adattamento a quello specifico ambiente. I problemi sorgono quando i processi epigenetici danno luogo a tratti che non risultano essere adattativi per la prole o quando l’ambiente è cambiato.

John Krystal, direttore di Biological Psychiatry, suggerisce che forse i processi epigenetici potrebbero essere invertiti più facilmente di tratti genetici.

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GENETICA & PSICHE – SOCIETA’ & PSICHE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Corso di Perfezionamento CBT in Sessuologia – Parte 4

 

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LEGGI:

PARTE 1PARTE 2PARTE 3

La chiusura del Corso è caratterizzata  da un duetto d’eccezione, la Dr.ssa Cecilia Volpi e il Dr. Antonio Fenelli che hanno tenuto lezione insieme, come in un passo a due di danza classica,  in cui due corpi in movimento si coordinano in modo armonioso, enfatizzando uno la bellezza e l’eleganza dell’altro.

La Dr.ssa Volpi ha trattato il tema della Costruzione dell’identità di Genere e del Transessulismo, iniziando con una disamina del concetto di Identità: questo concetto più genericamente  risponde alla domanda “chi siamo?”, così come il concetto di Identità Sessuale risponde alla domanda “cosa siamo?” , fino all’Identità di Ruolo che risponde alla domanda “cosa facciamo?.  Altrettanto genericamente verrebbe semplice pensare di dare una risposta ad ognuna di queste domante! In realtà, scopriamo con un breve e divertente esercizio, che elencare i motivi del perché ci sentiamo “femmine” o “maschi” diventa la prova lampante di quanto l’ovvio alle volte ci inganni e, entrando nello specifico, ci si rende conto della complessità sottesa in ciascuna domanda e della difficoltà a farne una chiara distinzione.

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Iniziamo con la definizione di Identità Sessuale, quale consapevolezza intima e profonda di appartenere ad un certo sesso, in cui fattori biologici e contesto ambientale interagiscono, facendo si che l’individuo crescendo costruisca la propria Identità Sessuale e Personale.

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Viene poi illustrato il processo di differenziazione sessuale, sia dal punto di vista biologico che psicosociale ed appare subito evidente quanto la comunicazione sociale e l’apprendimento siano fondamentali nel determinare il comportamento sessuale, così come dimostrato per esempio da uno studio (Money e Ehrhardt, 1972) che mostra come i genitori tendano ad assumere comportamenti diversi a seconda del sesso di appartenenza dei figli, pur pensando di comportarsi esattamente allo stesso modo; difficile diventa stabilire quanto dipenda dai nostri geni e quanto da ciò che abbiamo “imparato”: “il fatto che io lavi i piatti non dipende dalla genetica, ma dalla cultura!”.

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Money (1978) definisce l’identità sessuale come un  “progetto” che parte dal corredo cromosomico XX o XY, che si attua con lo sviluppo e l’“organizzazione” dell’individuo e, in tal senso, oltre al criterio organizzativo affidato essenzialmente agli ormoni sessuali fin dalla nascita, si lascia spazio ai processi organizzativi diversi, che determinano un differente e più complesso senso di sé con la consapevolezza profonda dell’appartenenza ad un “genere sessuale”.

Risulta evidente come  la differenza tra sesso genetico (l’apparire), identità di genere (l’essere)  e identità di ruolo (il fare) risulti poco chiara, se non alle volte confondente, per cui si può ragionevolmente supporre che il processo di costruzione dell’identità di genere avvenga all’interno del più ampio percorso della costruzione dell’identità personale e pertanto sia costantemente soggetto a fenomeni di falsificazione e conferma (Volpi).  Non sempre il fare, l’apparire e l’essere coincidono (pensiamo ad un bimbo che gioca con le bambole), ed è per questo possibile, auspicando una minore rigidità, osservare un continuum che lega l’identità maschile e l’identità femminile, al di là dei ruoli.

L’acquisizione della nostra identità di genere è un processo che non ha mai fine e rispetto al quale dobbiamo sempre negoziare e rinegoziare sia la dimensione intrapsichica che relazionale (Argentieri, 1996).

E’ così che inizia il capitolo sul Transessualismo: nonostante le testimonianze giunte dalla storia greca e romana, è necessario attendere il 1800 perché vengano pubblicati i primi lavori scientifici in cui vengono descritti casi di persone con discrepanza tra sesso genetico e sesso percepito: si pensava fossero persone sbagliate, ma sbagliate in cosa? Abbiamo sempre scelto di dire che è sbagliata la mente che non si adegua al soma! Il termine Transessuale viene utilizzato per la prima volta da D.O. Cauldwell nel 1949, ma il merito di aver correttamente inquadrato il problema spetta a H. Benjamin in un articolo del  1953 uscito sulla rivista “International Journal of Sexology”. Fu così che nel 1951 si realizzò il primo caso di adeguamento somatico dal punto di vista chirurgico, per cui George diventò Cristina e con il 1968 esce uno dei primi testi di ricerca sul transessualismo, “Sex and Gender” di uno psicoanalista americano, iniziandosi così a delineare la differenza tra sesso (biologico) e genere (complesso).

Per quando riguarda l’inquadramento diagnostico del Transessualismo, dobbiamo aspettare il 1980, quando il DSM lo inserisce tra i disturbi psicosessuali in una sezione riguardante i disturbi dell’Identità di Genere. 

Inoltre, controversa risulta l’eziopatogenesi del transessualismo: come si possono definire le “cause” di un fenomeno così complesso? Considerando che l’Identità Sessuale è frutto di un percorso, ciò che potremmo osservare sarà il risultato possibile di tale percorso, derivante dall’incontro fra le risorse dell’individuo e quelle del contesto verso una soluzione: il transessualismo rappresenta quindi solo una delle infinite possibilità.

Grazie all’esperienza della Dr.ssa Volpi e ad alcuni stralci del famoso film “Mery per sempre” del 1989, emerge la difficoltà a utilizzare le classificazioni diagnostiche, a tratti ostili, tanto più se si parla di “disturbo”, senza tenere conto di quanto disturbato è ciò che avviene nel sociale  nei confronti di queste persone. Il transessuale giunge in terapia assolutamente consapevole del suo problema, già dalla pubertà ha iniziato a capire che “questo corpo non va bene … io mi sono sempre sentito maschio!”. Per questi motivi,  una diagnosi va fatta in relazione allo stato di salute mentale, ad una eventuale sofferenza e a disturbi psicologici, non al modo di percepirsi e sentirsi; l’attenzione è rivolta a proteggere la persona, non rispetto al suo sentirsi transessuale, ma per verificare lo stato di salute mentale che potrebbe, se disturbato, condurlo ad un iter irreversibile.

Anche per questo motivo la legge 164 del 1982, che regolamenta l’intervento di “adeguamento dei caratteri sessuali”, con rettificazione anagrafica,  prevede a seguito della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso che il giudice istruttore disponga l’acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni “psicosessuali” della persona che ne fa richiesta. Seppur nel tentativo di “normalizzare” molte situazioni difficili, è innegabile che dal punto di vista legislativo molte questioni restano aperte, ma soprattutto, sembra mancare, come sottolinea la Dr.ssa Volpi, il rispetto per il “diritto all’Identità Sessuale” peraltro sancito dall’articolo 8 della convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Per esempio, non è chiaro chi possa effettuare la perizia, così come è lesa la libera scelta dell’individuo, che non ha altra possibilità per la rettificazione anagrafica se non quella dell’adeguamento medico-chirurgico (non solo estetico), un intervento di rilevante entità.

Dal punto di vista Terapeutico, si è ben lontani per fortuna, dalla prime terapie definite “dissuasive”, cioè volte a convincere le persone “che non erano quello che sentivano di essere”.

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È il “corpo” che portano in terapia, quel corpo così odiato, temuto, negato, ed è del corpo che coerentemente si inizia a parlare, così come sottolinea la Dr.ssa Volpi, che presenta poi un percorso terapeutico in ottica costruttivista il cui filo conduttore è permettere all’individuo di affrontare l’iter con meno sofferenza emotiva possibile, “conoscendo” ed “esplorando” l’inesplorato: si inizia dall’ Accettazione dell’identità transessuale da parte del terapeuta, fino a giungere alle scelte del cambiamento vero e proprio, sentito, consapevole a questo punto, e tanto desiderato.

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Il Dr. Fenelli ha invece iniziato la lezione con una disamina del concetto di Resistenza, termine che in senso generico indica l’azione e il fatto di resistere mediante una qualunque forma di opposizione attiva o passiva, ed è utilizzato in diversi ambiti con connotazioni diverse.

Dal punto di vista psicoterapeutico, nei vari modelli psicopatologici e psicoterapeutici il concetto di resistenza è ricco di significati e di metafore ed è solitamente ascrivibile a un soggetto in cerca di cure per le sue sofferenze, che però mette in atto una sorta di opposizione, di riluttanza e fatica ad abbandonare vecchi e consolidati stili di tipo difensivo che gli permettono un certa forma di “sicurezza”.

Dopo una carrellata dei diversi approcci teorici e del loro modo di definire e trattare le resistenze, delle diverse modalità con cui queste resistenze possono manifestarsi, si sottolinea come in ottica costruttivista il non cambiamento non è più ascrivibile alla resistenza, alla volontà di non cambiare, alla paura di farlo o all’assenza di risorse per farlo. L’indagine in tal senso è orientata all’analisi delle rappresentazioni, dei sistemi di credenze e di significati attraverso cui il paziente costruisce la sua realtà sociale (e quindi anche la terapia).  In tal senso è utile che il terapeuta si interroghi sul tipo di relazione che sta costruendo con il paziente, per cui  la resistenza diventa l’espressione di un empasse nell’ambito del processo di costruzione di significato, significati che possono poi generare persistenza o cambiamento.

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Banalmente vediamo come in una simulata, ricordiamo in un corso di sessuologia, possa succedere che i due attori (terapeuta e paziente) non parlino di sesso: quale migliore esempio di resistenza in questo senso?

Si entra poi nello specifico delle possibili problematiche che si possono riscontare all’interno di un trattamento, delineando gli elementi che le caratterizzano, biologici, cognitivo, emotivi e contestuali, sottolineando ancora una volta l’importanza di considerarle sempre all’interno della relazione; fino alla conclusione dell’incontro con esercitazioni e supervisioni preziosissime, accompagnate da una riflessione importante  su quella che viene definita “la fine della terapia”,  sulla quale probabilmente non ci si è mai soffermati sufficientemente e scientificamente.

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BIBLIOGRAFIA:

  • L. Frugeri, (1990) Dalla individuazione di resistenza alla costruzione di differenze. Riflessioni sui processi di persistenza e cambiamento in Psicoterapia, Psicobiettivo, X(3):29-46 (DOWNLOAD FILE DOC)
  • C. Volpi, Il Transessualismo: un modello interpretativo e terapeutico in ottica Costruttivista
  • C. Volpi, Al di là dello specchio (I disturbi dell’identità di genere): Materiale Lezione

Dalla Riserva Cognitiva alla Riserva Comportamentale

Dalla Riserva Cognitiva alla Riserva Comportamentale:

Quando la Scolarità ci Preserva il Carattere

 

Dalla Riserva Cognitiva alla Riserva Comportamentale. -Immagine:© EnryPix - Fotolia.comUn più elevato livello di istruzione può ritardare l’esordio di alterazioni comportamentali di tipo disinibitorio in pazienti affetti da demenza frontotemporale.

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Studiare di più, raggiungere importanti traguardi lavorativi, dedicarsi a variegate attività nel tempo libero sono tutti fattori che ci consentono di ritardare l’insorgere di patologie dementigene, compensando, almeno inizialmente, il danno cerebrale strutturale da esse derivante. Tale meccanismo di compensazione, noto con il termine di riserva cognitiva, è stato indagato sperimentalmente soprattutto nella demenza di Alzheimer. Si è dimostrato come, ad esempio, a parità di decadimento cognitivo, pazienti con livelli educativi più elevati sottendano danni cerebrali maggiori rispetto a soggetti meno istruiti.

Di recente tali ricerche sono state estese anche alla demenza frontotemporale, un calderone di neuropatologie ingravescenti non-Alzheimer, che, come suggerisce il nome, esibisce un focale coinvolgimento dei lobi frontali e temporali del cervello.A differenza della più comune sintomatologia alzheimeriana, in cui sono i deficit di memoria a farla da padrone sul generale assetto cognitivo, la demenza frontotemporale appare altamente eterogenea nelle sue manifestazioni cliniche, in particolare nella sua variante comportamentale. Molti pazienti, infatti, esibiscono alterazioni del comportamento collocabili su un continuum che va dall’apatia alla disinibizione, in assenza di una chiara categorizzazione clinica.

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Consapevole della qualificazione spesso solo descrittiva di tale sintomatologia, qualche mese fa un gruppo di ricerca, coordinato dal Prof. Alessandro Padovani dell’Università degli Studi di Brescia, aveva identificato i fenotipi comportamentali e le strutture cerebrali ad essi associate in un campione di pazienti affetti da demenza frontotemporale a variante comportamentale. Il risultato era stato l’individuazione di quattro fattori comportamentali predominanti – disinibito, apatico, aggressivo e linguistico – nonché l’evidenza di un’associazione neuropatologica fattore-specifica.

A pochi mesi dalla categorizzazione fenotipica di tali alterazioni comportamentali, lo stesso gruppo di ricerca, coordinato questa volta dalla Dott.ssa Barbara Borroni, si pone un’interessante domanda sperimentale: se è vero che questi cambiamenti di personalità sono correlati al deterioramento di specifici network o regioni cerebrali, è possibile che anche i disturbi comportamentali – e non solo le funzioni cognitive – vengano modulati da meccanismi di riserva?

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Sono state, così, analizzate le acquisizioni SPECT (Tomografia Computerizzata ad Emissione di Fotoni Singoli) di 102 pazienti affetti da demenza frontotemporale a variante comportamentale, di cui 52 con un livello di istruzione basso (meno di 5 anni di scolarità) e 50 con un livello di istruzione alto (più di 5 anni di scolarità), ipotizzando una vicinanza teorica dell’educazione scolastica all’indice di riserva cognitiva. Grazie alla possibile comparabilità dal punto di vista demografico, neuropsicologico e neuropsichiatrico, questi soggetti hanno consentito di evidenziare in generale una correlazione positiva tra i livelli di scolarità e l’ipoperfusione frontotemporale soggiacente. Attraverso un’analisi differenziata dei quattro fattori comportamentali predominanti, tuttavia, i ricercatori hanno scoperto che solo il fenotipo disinibito è in grado di usufruire dei meccanismi compensatori di riserva. Questi pazienti, infatti, mostrano un’ipoperfusione frontale e sottocorticale più elevata se maggiormente istruiti, evidenza non riscontrata nelle altre varianti comportamentali.

Gli autori hanno, pertanto, ipotizzato l’esistenza di un meccanismo di riserva comportamentale – almeno per le alterazioni di tipo disinibitorio – e suggerito la necessità di estendere la teoria cognitiva ad un approccio multi-modale di riserva. La possibilità di modulare i network neurali attraverso fattori ambientali, infatti, aprirebbe la strada a nuove strategie terapeutiche, estendendone l’applicazione a diverse sindromi neuropsichiatriche oltre che ai soli disturbi cognitivi.

Tale risultato incoraggia, inoltre, la riflessione sugli interventi preventivi. Stimolare maggiormente le future generazioni sulle attività scolastiche ed extra-scolastiche, nonché favorire un dinamismo occupazionale di stampo americano, potrebbe diminuire il carico economico e sociale derivante dalla progressiva diffusione delle demenze?

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BIBLIOGRAFIA:

Peter Fonagy – La Mentalization Based Therapy – MBT

CRONACHE LONDINESI #1

La Mentalization Based Therapy di Peter Fonagy:

Il corso all’Anna Freud Institute di Londra

 

La Mentalisation Based Therapy di Peter Fonagy- il corso all’Anna Freud Institute di Londra. -Immagine:© Mopic - Fotolia.com

Il lavoro terapeutico di Fonagy appare, dal punto di vista tecnico, un continuo incoraggiare il paziente a mentalizzare, cioè a riflettere sui propri stati di sofferenza emotiva e sui propri impulsi per fornire loro un significato che è al fondo cognitivo: ragionare sul perché si percepiscano certe emozioni o certi impulsi, rielaborarli in termini di pensieri, e cioè credenze cognitive.

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Qualche anno fa ho affrontato al Freud Institute di Francoforte il primo livello di addestramento nella Mentalisation Based Therapy (MBT) di Peter Fonagy e mi accingo, in questi giorni a Londra all’Anna Freud Institute, a tuffarmi nel livello avanzato (advanced) di questa terapia. Domani e dopodomani cercherò di trasmettervi le mie impressioni. Oggi invece rievoco brevemente quel mio primo addestramento.

Mentalizzazione
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A Francoforte eravamo una trentina di allievi, seguiti da Peter Fonagy e Anthony Bateman. Il corso, vi dirò, era soprattutto teorico, con tante diapositive su questa mentalizzazione. Concetto che mi pareva molto simile alla metacognizione di cui tanto si parla in campo cognitivo. Ricordo anche che chiesi a Fonagy quale fosse la differenza. La riposta fu comprensibilmente non molto dettagliata, dato il poco tempo a disposizione: la mentalizzazione –disse Fonagy- è più ampia della metacognizione. 

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Il che in parte è vero. Ciò che interessa è in cosa consiste questa maggiore ampiezza. Dal ciò che diceva il corso, appariva che la mentalizzazione finiva per coincidere con gran parte dell’attività cognitiva stessa. Sembrava quasi che Fonagy avesse improvvisamente scoperto che l’attività mentale è fatta di stati intenzionali in cui l’informazione è elaborata in termini di scopi. La cosa mi lasciava quasi a bocca aperta, perché mi pareva la base del modello cognitivo. Non potevo fare a meno di dirmi: sono venuto fino a Francoforte per sentirmi dire quel che ogni studente di terapia cognitiva sa dalla prima lezione del suo corso?

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La reazione degli allievi non cognitivisti (su trenta presenti eravamo solo due terapeuti cognitivi) era altrettanto sbalordita, ma in senso opposto al mio. Dov’era l’inconscio, dov’era il transfert, dov’erano i conflitti? Tutto sparito. Teniamo conto che il modello di Fonagy, la MBT, nasce e cresce in ambiente psicodinamico. E teniamo conto che in questo ambiente Fonagy arriva a raccomandare l’astensione dalle interpretazioni di transfert. Queste intepretazioni, diceva Fonagy, sono potenzialmente dannose per il paziente affetto da disturbo di personalità. Lo fanno sentire invaso e giudicato e gli generano sentimenti di rabbi e dolore che perpetuano la sua sofferenza. Dunque niente interpretazioni di transfert. E allora che si fa?

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In Fonagy le interpretazioni di transfert sono sostituite da un continuo stimolo a mentalizzare, ovvero il paziente è costantemente incoraggiato a riflettere su ogni suo impulso rabbioso per comprenderne il processo intenzionale che ne sta alla base. Ovvero la sua base cognitiva: perché sei arrabbiato? Cosa ti ha fatto arrabbiare? Come pensi di reagire? E perché questa reazione ti sembra conveniente? E così via.

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Qualcosa che somiglia molto alla parte di accertamento delle credenze cognitive, e che Fonagy chiama: promozione della mentalizzazione. Questo intervento è adatto, nella sua semplicità, al paziente con disturbo di personalità, in quanto incrementa la sua capacità di regolare i suoi stati emotivi invece di agirli immediatamente e impulsivamente. Infatti Fonagy, come tutti i maggiori teorici dei disturbi di  personalità (ovvero Otto Kernberg, Marsha Linehan, Giovanni Liotti e Antonio Semerari) concepisce l’attività mentale consapevole come una attività di secondo livello che regola la valutazione primaria della realtà che avviene a livello emotivo.

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La valutazione razionale diretta si svolge sia direttamente sulla realtà, in parallelo con quella emotiva, sia in forma di supervisione di secondo livello sulla valutazione emotiva stessa. Fonagy e Linehan definiscono questa funzione “regolazione degli stati emotivi”. Quest’ultima espressione è una descrizione prudente e ragionevole delle facoltà e dei limiti della ragione, una formulazione frutto della crescente consapevolezza che gli stati emotivi sono influenzabili dal pensiero cosciente, ma mai del tutto manipolabili a piacimento. Forse in questo senso Fonagy può continuare a considerarsi psicodinamico: per questa residua attenzione ai limiti della padroneggiabilità degli stati emotivi. Ma anche nel cognitivismo clinico ormai è nozione comune che non possiamo modificare a piacimento le nostre emozioni pensando pensieri diversi.

Insomma il lavoro terapeutico di Fonagy appare, dal punto di vista tecnico, un continuo incoraggiare il paziente a mentalizzare, cioè a riflettere sui propri stati di sofferenza emotiva e sui propri impulsi per fornire loro un significato che è al fondo cognitivo: ragionare sul perché si percepiscano certe emozioni o certi impulsi, rielaborarli in termini di pensieri, e cioè credenze cognitive. Il tutto legato al qui e ora piuttosto che alla ricerca di ragioni nel passato. 

Questa è la teoria. Il secondo livello della MBT che sto per affrontare dovrebbe passare maggiormente alla pratica. Vi farò sapere.

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PSICOANALISI

Il Colloquio Psicologico: Cosa Fare nel Primo Colloquio #1

COSA FARE NEL PRIMO COLLOQUIO

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

Il Colloquio Psicologico:Cosa Fare nel Primo Colloquio #1. Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com

I principi di base esposti negli articoli precedenti devono essere applicati nel corso del colloquio psicologico. Per fare ciò è necessario, innanzitutto, capire cosa si deve ottenere dal terapia, e come si può ottenerlo.

In questo capitolo verranno sintetizzate le tappe che devono essere percorse nella preparazione e nello svolgimento del primo colloquio. Nella realizzazione di ciascuno di questi punti lo psicologo ha il compito di rispettare i principi di base. Alcuni di questi posseggono un proprio momento di realizzazione ben definito, altri sono maggiormente pervasivi delle diverse tappe della terapia. Con l’esperienza la realizzazione di questi principi perderà il sapore tecnicistico e meccanico per diventare un processo del tutto naturale, appartenente al modo di essere dello psicologo.

Fine e Glasser [1996] hanno stilato un elenco di informazioni che devono essere conosciute al termine del colloquio. Il raggiungimento di un quadro generale mediante la conoscenza di tali informazioni è l’obiettivo principale, assieme alla costruzione di un rapporto di fiducia, del primo colloquio.

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E’ utile controllare questa lista sia prima che dopo il colloquio per capire quali obiettivi sono stati raggiunti e quali no, quali sono stati affrontati e quali sono stati celati per essere esposti più avanti nella terapia. Se lo psicologo si rende conto di non aver approfondito alcuni aspetti è bene che lo ricordi per affrontarli nelle sessioni successive. Allo stesso tempo, però, può decidere spontaneamente di rinviare alcuni argomenti a momenti della terapia in cui il rapporto con il cliente si sia già fortificato. Il Colloquio Psicologico – I Principi della Comunicazione Terapeutica #2. - Immagine: © olly - Fotolia.com

“ Un guerriero della luce ha bisogno di pazienza e rapidità allo stesso tempo.

I due maggiori errori di una strategia sono: agire prima del tempo e farsi sfuggire l’occasione. Per evitarli, il guerriero della luce tratta ogni situazione come se fosse unica, e non applica formule, ricette, o risoluzioni altrui.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.61]

Sta all’esperienza del professionista capire quali informazioni è meglio conoscere subito, quali, tra quelle tralasciate, è importante recuperare e secondo quali tempi.

In questo articolo e in quelli che seguiranno verranno descritti le singole componenti di informazioni che devono essere lo scheletro degli obiettivi di conoscenza del primo colloquio.

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DESCRIZIONE DEL CLIENTE

“Senza mostrare paura o vigliaccheria, cerca di scoprire perché l’altro vuole la lotta; quali cose lo hanno spinto a lasciare il paese e a cercare lui per un duello.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.87]

Dal primo colloquio noi dobbiamo ottenere una descrizione completa del cliente che possa servire da cornice per inquadrare in quali dinamiche si è costruito il problema.

Quando una persona affronta un colloquio psicologico vi conduce all’interno tre tipi di informazioni su di sé: informazioni formali, informazioni sui propri modelli comportamentali e di comunicazione e informazioni sulle proprie convinzioni, pregiudizi e valori. 

Le informazioni formali che vengono raccolte nel corso del colloquio possono essere di tre tipi. Le informazioni essenziali comprendono: nome e indirizzo, composizione della famiglia, età anagrafica del cliente e dei componenti del nucleo familiare, reddito (soprattutto se il professionista lavora per qualche ente sociale), durata di permanenza nel luogo di residenza, ragioni che hanno spinto a cercare aiuto ecc… Come si può osservare rappresentano più che altro dei dati di base che permettono un inquadramento molto generale della situazione.Vengono spesso raccolti attraverso un questionario somministrato all’inizio o alla fine del colloquio in modo che questa formalità non interrompa in alcun modo il flusso del discorso.

Le informazioni sull’ambiente di vita sono un altro punto centrale della descrizione del cliente perché influiscono profondamente sul suo comportamento e, quindi, sul suo problema.Queste informazioni sono risultate essere centrali quando si lavora con persone che percepiscono redditi molto bassi o che appartengono a minoranze. In particolar modo ci si propone di raggiungere una valutazione delle caratteristiche sia del proprio ambiente fisico, sia del proprio ambiente sociale e di determinare in che misura questi hanno contribuito, e stanno contribuendo, alle dinamiche di sostegno dei comportamenti problematici. E’ importante capire in questa fase in quali condizioni versa la rete di relazioni sociali del cliente e come le persone a lui più vicine si sono rapportate con il suo problema, se hanno accettato o meno la sua definizione di quest’ultimo.

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Infine, un altro gruppo di informazioni rilevanti è quello che riguarda la storia personale del cliente. Anche se nel corso del colloquio è bene cercare di evitare che il cliente divaghi eccessivamente dal nucleo del problema, è utile recepire il maggior numero di informazioni possibili sugli eventi importanti della vita del soggetto, soprattutto quelli che lui stesso descrive come rilevanti, quelli che tratta con leggerezza e quelli di cui non vuole parlare. Queste informazioni possono essere molto utili all’analisi delle dinamiche comportamentali alla base del problema. Alcune di queste, ritenute particolarmente rilevanti da questo punto di vista, potrebbero divenire oggetto di analisi più avanti nella terapia.

Ascoltando e osservando il cliente, lo psicologo può recepire informazioni sui suoi modelli comportamentali e comunicativi, che probabilmente rivestono un ruolo importante nel mantenimento del problema. L’obiettivo del terapeuta è quello di aiutare il cliente a spostarsi da questi modelli verso stili comportamentali più produttivi e meno problematici.

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Osservare quali siano i comportamenti centrali nella definizione del problema è utile non solo alla diagnosi scritta ma anche per comprendere dove si può intervenire per rompere quel circuito di rinforzi che mantengono il disturbo, dove si può intervenire per portare al cambiamento. Ovviamente in questa prima fase l’interesse dello psicologo è quello di capire prima che di cambiare. Non si può saltare immediatamente alle conclusioni, ma registrare queste informazioni, sottolineando nella propria mente quelle che intuito ed esperienza mettono in rilievo come centrali rispetto alle altre.

Infine, la descrizione del cliente si completa con le informazioni sulle sue convinzioni, valori pregiudizi e sul suo modo di pensare e organizzare i dati provenienti dall’universo caotico rappresentato dall’ambiente che lo circonda. Si è già accennato a come i canali comunicativi di emozioni, comportamenti e cognizioni siano in parte interdipendenti e in parte indipendenti tra loro e di come sia necessario prenderli tutti in considerazione per avere una quadro generale del “tutto” problematico. Per questo motivo la stessa attenzione posta nell’analisi dei comportamenti deve essere usata quando si parla di analisi delle convinzioni.

L’interesse del professionista, a questo livello, non si può fermare alle credenze del cliente senza esplorare come costui elabora le informazioni dell’universo caotico, in particolare valutando il livello di strutturazione e di astrazione del suo pensiero e l’utilizzo di una logica lineare o circolare [Sternberg, 1994].

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L’atteggiamento con cui lo psicologo si rapporta alle informazioni tratte dal colloquio psicologico è quello di colui che raccoglie elementi ora, per una selezione futura di quali aspetti trattare. La fase di descrizione del cliente non è una fase in cui si cerca di cambiarlo, solo dopo aver un quadro ben definito delle parti del “tutto” si può pensare a come intervenire su ciascuna.

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DESCRIZIONE DEI PRIMI MOMENTI DEL COLLOQUIO

Durante il colloquio è necessario analizzare con particolare cura i primi momenti della comunicazione con il paziente. Ciò permette di recepire i segnali riguardanti il comportamento dei pazienti e il loro atteggiamento nei confronti del terapia e del terapeuta. Grazie a questi primi momenti lo psicologo è in grado di avere un’ idea su come il paziente affronterà la relazione sociale con lui e di come dovrà intervenire per riuscire a stabilire un rapporto di fiducia.

Inoltre questi primi momenti servono anche per conoscere i propri pregiudizi che si attivano nei confronti del cliente, capire cosa li ha generati ed essere in grado di distaccarsi da loro per mantenere una visione oggettiva e la capacità di trasmettere un senso di accettazione completa.

Questo non vuol dire che le intuizioni emerse dopo pochi minuti di colloquio debbano essere scartate, anzi è bene che siano tenute a mente e che siano oggetto di future riflessioni.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La meditazione Tong Len e il paziente oncologico

 

La meditazione Tong Len e il paziente oncologico. - Immagine: © Rido - Fotolia.comAl via all’Ausl di Bologna la prima sperimentazione di una pratica meditativa tibetana, Tong Len, per la cura delle patologie oncologiche.

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Il comitato etico dell’Ausl ha approvato la sperimentazione e il direttore sanitario Massimo Annichiarico ha firmato la delibera che autorizza il progetto.

La pratica Tong Len “pratica del prendere e del dare” è una pratica meditativa tibetana in cui il meditatore sviluppa una grande compassione prendendo su di sé la sofferenza e le cause della sofferenza altrui, andando a lavorare in modo indiretto sul proprio pensiero egocentrico ed egoista.

La sperimentazione partirà a febbraio e sarà condotta dall’equipe del Dr. Gioacchino Pagliaro, direttore di Psicologia Clinica dell’Ospedale Bellaria di Bologna.

Un ponte tra pratica meditativa orientale e medicina occidentale, la prima volta che il Tong Len viene utilizzato clinicamente e che se ne valutano gli esiti nella cura di patologie oncologiche.

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Nei prossimi giorni verranno selezionati 80 pazienti del reparto di oncologia dell’Ospedale Bellaria. Tutto il campione continuerà ad essere sottoposto al normale processo di cura, mentre solo 40 di loro saranno i soggetti\oggetto della meditazione Tong Len, così da poter valutare le differenze tra i due sottogruppi. I 15 meditatori esperti che prenderanno parte allo studio non conosceranno i nomi di chi farà parte del gruppo dei pazienti per i quali praticheranno il Tong Len, ma avranno solo una scheda con le iniziali del paziente il tipo di patologia che ha e alcuni valori del sangue.

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Lo studio durerà tre mesi e sono previste valutazioni follow up a tre e a cinque anni. Verranno valutati alcuni indicatori ematochimici per monitorare gli eventuali cambiamenti nello stato di salute dei pazienti insieme agli eventuali miglioramenti dei livelli di ansia e stress e qualità della vita percepita. Misurazioni che verranno fatte prima dell’inizio della sperimentazione in corso e a 3 e 5 anni. Durante lo studio i 15 meditatori terranno un diario per annotarsi eventuali dettagli e particolari della pratica, così come agli 80 pazienti verrà chiesto di tenere un diario in cui annotare l’andamento della giornata.

Ad oggi non esiste letteratura scientifica in questo particolare campo, sarà un viaggio una scoperta tutta da seguire.

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MEDITAZIONE – ACCETTAZIONE DELLA MALATTIA – MINDFULNESS

 

Educazione Prescolare e benefici per l’Individuo e la Società

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I bambini che hanno potuto godere di un’ educazione prescolare, hanno avuto un maggiore rendimento scolastico, che si è tradotto poi in ottimi risultati successivi.

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Craig Ramey, un pioniere nella comprensione dei fattori che contribuiscono allo sviluppo cognitivo precoce nei bambini, è professore e ricercatore presso il Virginia Tech Carilion Research Institute e direttore scientifico al Louisiana Department of Education nel prekindergarten program. E’ inoltre il creatore e fondatore di un decennale studio scientifico, l’Abecedarian Project, sui potenziali benefici dell’educazione nella prima infanzia per i bambini economicamente svantaggiati e a rischio di ritardo nello sviluppo o di insuccesso scolastico.

Puzzle, che passione… e che vantaggi!. - Immagine: © M.studio - Fotolia.com
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Lo studio controllato ha avuto inizio nel 1972 e i risultati del progetto, pubblicati recentemente nella rivista Developmental Psychology, hanno mostrato la correlazione positiva tra accesso all’educazione prescolare e successi scolastici e lavorativi nell’età adulta. 

I bambini del gruppo sperimentale inseriti nell’Abecedarian Project, nati tra il 1972 e il 1977 e provenienti da famiglie a basso reddito, hanno goduto di un intervento educativo di alta qualità e a tempo pieno fino all’età di 5 anni: l’intervento educativo era personalizzato per ogni bambino e l’attività formativa – incentrata sulle aree della socialità, emotività e dello sviluppo cognitivo, con particolare attenzione al linguaggio – consisteva in “giochi” che veniamo incorporati nelle attività quotidiane del bambino.

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Qualche decennio più tardi i partecipanti al gruppo sperimentale mostravano differenze significative rispetto al gruppo di controllo nella maggiore probabilità di avere un impiego fisso e minore probabilità di aver usato assistenza pubblica.

I follow-up negli studi infatti hanno costantemente dimostrato che i bambini che hanno potuto godere dell’educazione scolastica precoce hanno avuto un maggiore rendimento scolastico, che si è tradotto poi in ottimi risultati scolastici successivi.

Dal momento in cui un bambino entra all’asilo, sostiene Ramey, comincia il suo cammino verso l’autorealizzazione. Quando i bambini sono preparati, i loro primi successi portano ad altri successi. Ma se non sono preparati possono ritrovarsi a cominciare una lotta che durerà anche tutta la vita: la spirale può essere verso l’alto, oppure verso il basso.

Ramey ha recentemente espresso tutta la sua approvazione all’appello del presidente americano Obama in favore dell’accesso universale e garantito all’educazione prescolare di qualità.

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BIBLIOGRAFIA:

BRP: Bridge Between Research and Practice: Presentazione dei Candidati Selezionati.

 

The Bridge Between Research and Practice (BRP)

Presentazione dei Candidati Selezionati

 

The Bridge between Research and Practice (BRP) Exchange ProgramIl progetto BRP (Bridge between Research and Practice) Project nasce dalla partnership tra Studi Cognitivi – Cognitive Therapy School and Research Institute (Milano, Italy) e Open Minds – Center for Mental Health Research (Cluji-Napoca, Romania).

 

GUARDA IL PROGRAMMA DELLO SCAMBIO

Il BRP Project è stato costruito per facilitare l’acquisizione e lo sviluppo di competenze pratiche e di ricerca tra gli studenti di istituti di alta formazione e ricerca nel campo della psicologia e della salute mentale. Il BRP offre agli studenti una possibilità unica nello sviluppo professionale e nell’arricchimento della propria rete di collaboratori internazionali.

 

Il BRP Project si fonda sullo scambio di formazione e sulla cooperazione progettuale tra enti internazionali.

Il pilastri su cui poggia sono:

(1) psicoterapia come scienza,

(2) sviluppo tecnologico in psicoterapia,

(3) promozione sociale di psicoterapie efficaci e superamento delle barriere dello stigma,

(4) alta formazione,

(5) cooperazione internazionale.

Numerosi studenti delle scuole di specializzazione “Studi Cognitivi”, “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca”, “Scuola Cognitiva di Firenze” hanno partecipato al bando. Di seguito una breve presentazione dei candidati che sono stati selezionati:

 

Elena MannelliElena Mannelli: Iscritta al III anno della Scuola Cognitiva di Firenze. Laureata presso la Facoltà di Psicologia di Firenze nel febbraio 2010 in Psicologia Clinica attualmente svolge il tirocinio presso la struttura Poggio Sereno dove si occupa principalmente di Disturbo Ossessivo Compulsivo. Esercita la libera professione come psicologa ad Arezzo dove svolge valutazioni psicodiagnostiche e sostegno psicologico.

 

Michela MuggeoMichela Muggeo: iscritta al IV anno della scuola di psicoterapia “Studi Cognitivi” di Milano. Laureata in Psicologia Clinica presso l’Università Cattolica di Milano, ho svolto molteplici esperienze internazionali nel campo della ricerca sui fattori cognitivi ed emotivi implicati nella trasmissione dell’ansia intergenerazionale. Attualmente gli interessi sono rivolti alla doppia diagnosi psichiatrica e, più in generale, ai disturbi di personalità.

 

Francesca Martino Francesca Martino: iscritta al 4 anno della scuola “Studi Cognitivi” di Modena. Laureata nel 2007 in Psicologia Cognitiva Applicata presso l’Università di Bologna. Professione: Psicologa clinica, libero professionista e ricercatrice a progetto presso l’Istituto di Psichiatria di Bologna nell’area del Disturbo Borderline di Personalità.

 

 

Chiara Caruso Chiara Caruso: laureata in Psicologia Cognitiva con una tesi in Psicolinguistica e sto terminando il Dottorato di Ricerca in Neuroscienze presso la School of Advanced Studies di Chieti. Frequenta la Scuola di formazione in Psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto. Attualmente si occupa di comprensione del linguaggio e cognizione numerica in collaborazione con l’Università di Newcastle (UK). Nel suo campo di interesse rientra il funzionamento mentale attraverso lo studio dei deficit neuropsicologici e della psicopatologia.

 

 

Storie di Terapie #22 – Simone, Quanta Intelligenza Sprecata

 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione 

LEGGI LA RUBRICA “STORIE DI TERAPIE” A CURA DI ROBERTO LORENZINI

Storie di Terapie #22 - Simone, Quanta Intelligenza Sprecata. - Immagine: © Mr Korn Flakes - Fotolia.com

Storie di Terapie #22 – Simone, trentadue anni e fa uso di ogni tipo di droga da quando ne aveva quindici. La cocaina è la sua preferita.

Un mio fermo proposito è quello di non prendere in trattamento i tossicodipendenti. Mi rendo conto che non dipende da loro, che si limitano ad avere una malattia come un’altra, ma da me e dai miei pregiudizi. Ma dico tanto agli altri di accettarsi per come si è, che  qualcosa voglio fare anch’io. E poi, i pregiudizi sono una grazia, si risparmia la fatica di giudicare ogni volta, senza di essi saremmo sempre come appena sbarcati su un pianeta sconosciuto.

Insomma, io ho il pregiudizio che i tossici siano bugiardi, ingannatori, senza nessuna volontà di guarire e sostanzialmente viziati più che malati.

Simone non poteva iniziare peggio. Dopo aver superato le mie riluttanze e a causa delle  pressioni di un collega che ha in trattamento la moglie, gli fisso un appuntamento a cui non si presenta. Lo stesso avviene al secondo appuntamento: dopo aver citofonato non sale,  sostenendo di essersi perso nel palazzo, evidente bugia. Finalmente, la terza volta riusciamo a sederci uno  di fronte all’altro.

Ha trentadue anni e fa uso di ogni tipo di droga  da quando ne aveva quindici. La cocaina è la sua preferita e, nei periodi buoni, ne tira una quantità che lui stesso dice essere esagerata, ovvero 10 gr/die che scrivo anche per esteso, tanto è incredibile: dieci grammi al giorno!

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E’ assolutamente evidente che occorre stare in un giro di spaccio forte, per procurarsi i soldi necessari. Simone ha, dalla sua, un’ottima intelligenza, affatto deteriorata, che lo ha portato a pochi esami dalla laurea in giurisprudenza, che conta di prendere dopo la terapia.

E’ un giovane piccolo, con un naso a becco d’aquila, muscoloso e compatto. Capelli neri e occhi neri, da cocker triste.

Il nostro incontro avviene di mercoledì ed il sabato successivo si sposerà con Alessia, sua compagna da 15 anni assolutamente non tossicodipendente, ma evidentemente dipendente se ancora resta a sopportare l’insopportabile al suo fianco. Simone ed Alessia hanno in progetto di lasciare l’Italia e di aprire un ristorante in Sudamerica.

Perché proprio ora Simone chiede aiuto?

Storie di terapie #2: Un Pomeriggio con il Demonio. - Immagine: © lineartestpilot - Fotolia.com -
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Si consideri che, della farmacocinetica delle sostanze e dell’evoluzione della tossicodipendenza, ne sa indubbiamente più di me. Nel corso della breve terapia mi capiterà un paio di volte di chiedergli una consulenza farmacologica rispetto ad altri pazienti.

Simone ha paura di impazzire, si rende conto che la sua paranoia sta aumentando e inizia a coinvolgere anche Alessia. Questo è stato il campanello d’allarme. Non vuole assolutamente farmaci, perché ha visto altri amici “rincoglionirsi” completamente prendendo medicine e non è disposto a trattare. Sono molto in dubbio dell’efficacia di un intervento senza farmaci, ma lui mi rassicura, dicendomi che intanto sarebbero inutili perché i suoi enzimi epatici, abituati a ben altro, li inattiverebbero all’istante e poi che è intelligente e anch’io gli sembro tale e dunque con le parole ce la faremo.

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La paranoia accompagna tutti i cocainomani di livello e lui la conosce bene. Non è solo un pensiero, vede dei serpenti che gli si attorcigliano alle gambe fin oltre il ginocchio e lo tirano a terra, sente delle voci che gli dicono “ bastardo, assassino, infame recchione”. Le allucinazioni sono moltiplicate dall’assunzione anche di dosi minime, ma lui le riconosce come tali, le ignora senza dar loro importanza e ciò mi  sembra una capacità metacognitiva fuori dal comune. Forse davvero possiamo fare qualcosa di buono, ma la voglia di dargli un po’ di neurolettici è forte. Non sono i serpenti o le voci a spaventare Simone, quelli li ha messi nel conto. L’angoscia di impazzire l’ha provata quando ha pensato che Alessia potesse essere d’accordo con i suoi creditori e volesse consegnarlo a loro. In quel momento si è detto “sto diventando irrimediabilmente matto” ed ha deciso di smettere. Indubbiamente la sua intelligenza brillante e la sua spregiudicatezza mi hanno conquistato. Inoltre il narciso che è in lui deve aver fatto l’occhietto a quello che è in me, occorre stare in guardia.

La faccenda con i creditori risale a circa un anno prima: i suoi fornitori all’ingrosso incassano da lui circa duecentomila euro al mese da una decina di anni quando, un ritardato pagamento di cinquemila euro da parte sua, li ha allarmati senza motivo. Simone aveva solo una difficoltà sui contanti, per ritardati pagamenti dei suoi clienti. I creditori gli  hanno fatto pressioni e poi gli hanno dato un ultimatum di settantadue ore, dopo le quali avrebbero avvertito la madre. Questa mancanza di fiducia dopo anni di collaborazione e l’affronto alla famiglia hanno scatenato un rancore profondo. Simone ha acquistato una pistola ed ha gambizzato uno dei due soci spaventando a morte l’altro. Da allora le paranoie si sono moltiplicate.

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Simone non è alla sua prima esperienza psicoterapeutica. La prima è durata due anni, tra i diciassette e i diciannove. La ricorda con piacere, ma la ritiene la causa di tutti i suoi mali successivi. Vi fu costretto dalla madre, che lo scoprì mentre fumava una canna con un suo amico. Lo psicologo era bravo e comprensivo e frugò abbondantemente nel suo passato. Simone dice che “scoprirono tante cose, generando dentro di sè un gran disordine, che non è più stato rimesso a posto”: un avvertimento su come muovermi.

 Lui dice che, fino ad allora, era stato un ragazzo di strada che sapeva farsi rispettare senza essere inutilmente prepotente, non aveva paura di niente e aveva le idee chiare. Dopo la terapia era pieno di insicurezze, si sentiva fragile e incapace di affermarsi.

Questa prima terapia era stata ampiamente incentrata sulle molestie subite da un cugino, figlio di un fratello della madre,  di sei  anni più grande di lui, che  aveva iniziato a imporgli pratiche sessuali passive prima e poi anche attive dalle età di sette fino ai quattordici anni. Simone è convinto che anche altri cuginetti abbiano subito le stesse attenzioni, ma nessuno dei vari genitori ha mai preso sul serio le proteste dei bambini, che non volevano andare mai a casa del cugino più grande.

La madre, ad esempio, gli disse chiaramente che erano cose che succedevano  di frequente e che non c’era nulla di grave, doveva solo dimenticare.

In verità, Simone ha incluso nel rancore anche i genitori, che non lo hanno protetto e non ha affatto dimenticato. Ancora oggi medita vendetta. Progetta di recarsi in Giappone dove vive attualmente il cugino, diventato un famoso architetto, e di ucciderlo con una overdose di cocaina. Lo ritiene colpevole del suicidio di Irma, un’altra cuginetta che si tolse la vita a sedici anni, gettandosi dalla finestra della casa incriminata.

La famiglia di Simone era una tipica famiglia del proletariato metropolitano, di solida fede comunista. Il padre Mario, operaio,  era spesso fuori casa, per lavori in tutta l’Italia Centrale. A casa era una autorità indiscussa e temuta, soprattutto quando esagerava con il vino. Nel quartiere era conosciuto come un uomo duro che si faceva rispettare e ciò garantiva una sorta di intoccabilità a lui e alla madre, che rimaneva sola per lunghi periodi. Marta, la madre, era stata bidella alle elementari fino alla nascita di Simone, poi si era dedicata alla famiglia e solo saltuariamente faceva le pulizie nelle case dei signori, voleva  avere tempo di stare appresso al figlio, che vedeva crescere sano tra le mille insidie in agguato in una periferia romana come quella di Tor Pignattara.

Simone attribuì alla propria malizia e all’esperienza che stava vivendo in quel periodo di sottomissione sessuale al cugino, un cattivo pensiero che fece a tredici anni. Per un periodo di sei mesi, la mamma non si lamentò come di consueto di non riuscire ad arrivare a fine mese e aveva comprato per sé un vestito bianco con fiori di tutti i colori che la facevano bellissima. Era più bella e sorridente ed emanava un profumo di primavera che gli era rimasto in testa. Quel periodo luminoso fu interrotto da una sbronza violenta del padre che spedì la moglie in ospedale causandole l’aborto di quello che sarebbe dovuto essere il suo fratellino. Dopo il ricovero, Marta smise di andare a servizio presso un ingegnere e i problemi economici ricominciarono daccapo.

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Simone decise che avrebbe guadagnato tanto da non mandare più sua madre a servizio e il padre non l’avrebbe più picchiata. Per questo aveva iniziato a fare consegne per quelli che, ad un certo punto, lo avevano minacciato di coinvolgere proprio la madre.

Il lavoro con Simone prese due direzioni. La prima, il perseguimento dell’astinenza dalla sostanza, anche attraverso misure logistiche come il trasferimento fuori Roma, lontano dal suo ambiente, in una casa in campagna di una amica di Alessia. Prendemmo in considerazione anche l’ipotesi della comunità terapeutica, ma le esperienze di alcuni  amici ce la fecero escludere, trattandosi di soluzione solo temporanea senza risultati stabili.

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L’altro tema importante, su cui all’inizio non avevo prestato sufficiente attenzione, era la dipendenza da Alessia, peraltro ricambiata. Simone, quando non era in compagnia di Alessia, perché lei lavorava, si sentiva del tutto annientato. Nel senso etimologico, di fatto un niente. Spesso non si alzava dal letto, non cucinava e neppure mangiava. L’unica attività era la ricerca di cocaina ma, se questa era impossibile, restava il nulla assoluto. Solo la madre riusciva in parte a compensare l’assenza di Alessia.

Conosco personalmente quel vissuto, in cui un’assenza assorbe in sé l’universo, rendendolo desertico e inutile. Non ne conosco invece la cura, se non la distrazione del fare. Così, lanciai Simone in una serie di attività organizzative preparatorie del progetto “ristorante in Sudamerica”: il recupero dei soldi che molti consumatori gli dovevano o la chiusura della vertenza con i suoi fornitori.

Un giorno Alessia lo accompagnò a studio con, sul volto, i segni di numerose percosse ed un’ infinita disperazione. Aveva trovato nella cassetta dello sciacquone una busta con 500 grammi di cocaina e, convinta che Simone avesse ricominciato, l’aveva svuotata nel gabinetto. In realtà si trattava di ventimila euro di roba che alcuni amici avevano raccolto perché lui li restituisse ai suoi creditori, chiudesse il conto con loro e fosse finalmente libero. Alla vista dei ventimila euro sul fondo del water Simone aveva perso la testa e, per la prima volta, picchiato Alessia. Poi si era sentito come il padre e aveva persino deciso di farla finita. Alessia, riavutasi, aveva preso a consolarlo e tutto era rientrato. Stavano insieme, davanti a me, a parlarmi dei loro sogni sudamericani.

L’ultima parte  del lavoro psicoterapeutico si orientò, soprattutto, nella ricostruzione di un’ identità di Simone diversa da quella del tossico spacciatore. Riscopriva una serie di interessi e capacità che facevano di lui un ragazzo brillante, intelligente e generoso. In passato aveva davvero creduto ad una specie di etica malavitosa, che mette in primo piano alcuni valori come la famiglia e l’amicizia. Sembrava una sorta di primo Vallanzasca, che combatte per la libertà dei deboli ma, guardandosi intorno, non trovava più nulla se non la venerazione del denaro. Era un uomo deluso che, da bambino abusato, aveva reagito costruendosi un immagine di duro che difende i deboli anche se non sempre con mezzi leciti. Ma non c’era riuscito. Era uno spacciatore di morte. Incapace di fare a meno della sostanza e sull’orlo della follia che aveva conosciuto anche  in molti suoi amici, di cui aveva pagate le costose e inutili cure.

 Decise di accelerare i tempi della laurea per poi mettersi a fare gratuitamente l’avvocato dei diseredati. Per togliersi dall’ambiente romano, troppo denso di tentazioni, chiese il trasferimento presso un’altra Università ed io mi spesi personalmente perché lo ottenesse.

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Un giorno arrivò in seduta di nuovo accompagnato da Alessia, si sentiva più minacciato del solito e temeva a girare da solo. L’allarme era stato generato dalla proposta ricevuta da un amico di avere un incontro chiarificatore e definitivo con i suoi creditori. Era in dubbio se accettare o meno e voleva decidere la strategia con me ed Alessia. Aveva due argomentazioni contrapposte. Da un lato sembrava evidentemente una trappola e dunque non bisognava andarci. Dall’altro era troppo evidentemente una trappola per essere veramente tale. La regola che vige in strada è che le cose non si annunciano mai, si fanno. Non andare sarebbe stato segno di viltà infamante e, magari, un’occasione perduta per porre fine alla questione.

Mi chiedeva un consiglio, ma io pensai che non è mio compito consigliare e che non conoscevo le regole dell’ambiente per poter fare previsioni sensate. Ero sensibile alla paura di Simone e di Alessia e considerai perfino di  accompagnarli all’incontro. Nella mia fantasia diventavo il garante dell’ordine e del buon senso e tutto si sarebbe sistemato. Poi avrei ricevuto un invito dal loro hotel in Sudamerica. Non so se sia stata la vergogna di dover poi confessare una tale violazione armata del setting al mio gruppo di supervisione o, più semplicemente, la mia antica vigliaccheria, ma i pensieri non si tradussero in parole. Per fortuna. Concordammo di non andare all’appuntamento. Il noi, che comprendeva loro due e me, era ormai consolidato. Non avrei mai immaginato che di lì a qualche giorno avrei iniziato a parlare per telefono usando circonlocuzioni, nella certezza di essere spiato.

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La paranoia si attacca. La vigliaccheria invece è genetica. Ho aspettato con apprensione l’incontro successivo perché temevo che avesse finito per andarci, per non mostrarsi timoroso, magari portandosi appresso “il ferro” che non sa usare e diventa un pericoloso boomerang. Invece, una mattina alle sei squilla il cellulare con un numero sconosciuto. Rispondo. E’ Alessia singhiozzante. Il sangue nelle vene mi rallenta pericolosamente ed ho la pelle d’oca. Alessia mi grida che lo stanno portando via. Lui, mi dice, è spaventatissimo e nessuno capisce cosa stia succedendo. Non saprà per giorni perché lo abbiano arrestato e non può in alcun modo comunicare con me. Offro la mia disponibilità per visitarlo in carcere. Le notizie mi arrivano per sms da un cellulare ignoto. Non è possibile vederlo, sta in isolamento. E’ disperato e vuole morire. Sembra un pulcino chiuso  in gabbia con un gatto famelico. Temo che riviva l’esperienza con il cugino, per esorcizzare la quale aveva cercato di diventare un duro.

A me resta solo un problema organizzativo. La cartella di Simone dove la metto? Tra i drop-out? Ma un arresto può essere considerato una resistenza agita? Oppure tra i successi? Che, onestamente, non mi sembra, nonostante il ripetersi di sms di ringraziamento da parte di Alessia.

Preferisco che stia tra le terapie in sospeso che, in stand-by, possono riprendere senza lista d’attesa.

Una copia però la metto anche nello scaffale “violazioni del setting” .

 

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“STORIE DI TERAPIE” – DROGHE & ALLUCINOGENI – PARANOIA – VIOLENZA – RELAZIONI INTERPERSONALI – ESPERIENZE TRAUMATICHE 

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E09 Amy & Jake

 

In Treatment – Psicoterapia in TV

NONA PUNTATA

Amy & Jake

LEGGI L’INTRODUZIONE

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E09 Amy & JakeUn quadro raggelante, che demitizza completamente il terapeuta e lo rende debole come i suoi pazienti. O meglio, più debole.

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LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT

Puntata terribile e tristissima, in cui tutto il malessere di Paul Weston risalta in primo piano. Ma prima di tutto questo l’intelligenza drammatica degli sceneggiatori aveva piazzato un inizio ingannevolmente ottimista. La coppia litigiosa e in crisi aveva iniziato l’incontro in maniera promettente, con grande volontà di capirsi e comprendersi. Amy desiderosa di comprendere il desiderio di paternità di Jake, Jake in grado di capire le difficoltà della gravidanza di Amy.

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Ma è un’estate di San Martino che dura poco. La seduta si interrompe anticipatamente per un malessere fisico di Amy che fa temere un aborto spontaneo.Non basta. Nella scena rimasta inaspettatamente vuota va in scena la crisi di un’altra coppia: quella tra Paul e sua moglie Kate. Crisi grave, con Kate che confessa di vedere un altro e che, dopo un attimo di smarrimento, rinfaccia a Paul tutta la sua insoddisfazione.

La coppia in terapia: tra processi di appartenenza e separazione. - Immagine: © ashumskiy - Fotolia.com
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È chiaro che Paul ormai vive solo per il suo lavoro, che in famiglia è un marito e un padre a dir poco assente. Un vecchio senza energie, lo definisce Kate. Qualcuno che non investe più nulla nella famiglia e che ormai vive una sua vita parallela con i pazienti e la psicoterapia, tutto chiuso nel suo studio.

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Un quadro raggelante, che demitizza completamente il terapeuta e lo rende debole come i suoi pazienti. O meglio, più debole. L’effetto è straniante e traumatico, almeno per me. Atterrisce vedere questo terapeuta così sofferente e incapace di maneggiare il proprio dolore emotivo.

Per Paul mi viene in mente il termine “burn-out”, ma al contrario: Paul non mostra il tipico logoramento della passione e motivazione per il lavoro delle persone “bruciate” per il loro mestiere (burn-out significa proprio questo). Non mostra frustrazione, insoddisfazione, cinismo e desiderio di fuga dalla sua attività. Non mostra un tale grado di estraneità per il proprio lavoro da sconfinare nella depersonalizzazione.

Al contrario, sembra così immerso nella psicoterapia da non accorgersi quanto male vada la sua vita fuori dal lavoro. In ufficio è tonico, autorevole. Può fare errori, ma è sempre energico. È fuori dal lavoro che Paul sta diventando un uomo privo di passione. Vero è che in condizioni di burn-out può anche succedere che i terapeuti si facciano un carico eccessivo dei problemi delle persone a cui badano, non riuscendo così più a discernere tra la propria vita e la loro attività (Leiter, Maslach, 2000).

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Uno degli strumenti più diffusi per misurare il burn-out è il Maslach Burnout Inventory (MBI), sviluppato da Christina Maslach insieme alla sua collega Susan Jackson (Maslach, Jackson, 1981), un questionario di 22 domande. L’MBI è un questionario multidimensionale che misura tre diversi campi del burn-out:

  • l’esaurimento emotivo
  • la depersonalizzazione
  • la mancanza di realizzazione personale

Purtroppo Paul sembra averne davvero bisogno. Per fortuna che la settimana lavorativa è finita. Lo attende il suo supervisore, la terribile Gina.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Leiter M.P., Maslach C., (2000) Preventing burnout and building engagement. Jossey-Bass, San Francisco (tr. it.: OCS Organizational Checkup System. Come prevenire il burnout e costruire l’impegno. O.S. Organizzazioni Speciali, Firenze, 2005).
  • Maslach C., Jackson S.E., (1981) MBI: Maslach Burnout Inventory. Consulting Psychologists Press, Palo Alto, CA (tr. it. a cura di Sirigatti S., Stefanile S., (1993) MBI Maslach Burnout Inventory. Adattamento italiano. O.S. Organizzazioni Speciali, Firenze).

Ken Robinson: la scuola uccide la creatività? (Ted Talk)

 

Ken Robinson dice che la scuola uccide la creatività (TED Talk)

Sir Ken Robinson espone una divertente e toccante argomentazione a favore della creazione di un sistema educativo che nutra la creatività (anziché metterla a repentaglio).

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TRADUZIONE (a cura di Katja Comploj):

Buon giorno. Come state? È stato meraviglioso, no? Sono rimasto stravolto da tutto quanto. Infatti, me ne vado. (Risate) Sono emerse tre tematiche durante la conferenza, che sono attinenti a quello di cui vorrei parlare. La prima è l’evidenza straordinaria della creatività umana in tutte le presentazioni che abbiamo visto e in tutte le persone qui. La sua diversità, la sua varietà. La seconda è che ci troviamo in una situazione nella quale non abbiamo idea di quello che succederà in futuro. Non abbiamo idea di come si svilupperà.

Ho un interesse per l’istruzione, per l’educazione. A dir il vero, mi sembra che tutti abbiamo un interesse per l’educazione. O no? Lo trovo molto interessante. Se sei ad una festa e dici che lavori nell’ambito educativo – francamente, non vai spesso alle feste, se lavori in questo settore. (Risate) Non ti chiamano proprio. E, curiosamente, non verrai più reinvitato. Che strano. Se invece lo sei e dici a qualcuno, sai com’è, ti chiedono, “Che lavoro fai?” e tu rispondi che insegni, vedi subito come diventano pallidi in faccia. Pensano “Oh mio Dio, perché proprio a me? … L’unica serata libera in tutta la settimana”. (Risate) Ma se tu chiedi dei loro studi ti attaccano al muro. Perché è qualcosa che ci tocca profondamente, vero? Un po’ come la religione, i soldi e altre cose. Ho un grande interesse per l’educazione e credo che lo abbiamo tutti. Perché ci riguarda un sacco, in parte perché è l’educazione che dovrebbe prepararci per questo futuro incerto. Se ci pensate, i bambini che cominciano ad andare a scuola quest’anno andranno in pensione nel 2065. Nessuno ha la più pallida idea – nonostante tutte le considerazioni esperte presentate in questi quattro giorni – come sarà il mondo tra cinque anni. Eppure abbiamo il compito di preparare i nostri figli per esso. Per cui l’imprevedibilità, io credo, è straordinaria.

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E la terza cosa è che siamo tutti d’accordo, nonostante tutto, sulla davvero straordinaria capacità che i bambini hanno, le loro capacità di innovazione. Sirena l’altra sera era magnifica, no? Solo a vedere che cosa riesce a fare. Lei è eccezionale, però credo che lei non sia, per così dire, un’eccezione tra tutti i bambini. Ciò che qui abbiamo è una persona estremamente dedicata che ha scoperto un talento. E sono convinto che tutti i bambini hanno enormi talenti. E noi li sprechiamo, senza pietà. Quindi voglio parlare di educazione e voglio parlare di creatività. Il mio argomento è che la creatività è tanto importante quanto l’alfabetizzazione e le dovremmo trattare alla pari. (Applausi) Grazie. Tutto qua. Grazie mille. (Risate) Dunque, 15 minuti ancora … Beh, sono nato – no. (Risate)

Recentemente ho sentito una bella storia – amo raccontarla – di una ragazzina durante una lezione di disegno. Aveva 6 anni, era seduta in fondo e disegnava. L’insegnante diceva che questa ragazzina di solito non stava attenta, ma in questa lezione invece sì. L’insegnante era affascinata, andò da lei e le chiese: “Che cosa stai disegnando?”. E la ragazzina rispose: “Sto disegnando Dio”. E l’insegnante disse: “Ma nessuno sa che aspetto abbia”. E la ragazzina: “Lo sapranno tra poco”. (Risate)

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Quando mio figlio aveva quattro anni in Inghilterra – a essere sincero aveva quattro anni ovunque. (Risate) A voler essere rigorosi, quell’anno aveva quattro anni in qualsiasi posto andasse. Partecipava al teatrino della Natività. Vi ricordate la storia? Era una grande storia. Mel Gibson fece il sequel. Forse l’avete visto: “Natività II”. Comunque, James faceva la parte di Giuseppe e noi ne eravamo entusiasti. La consideravamo una delle parti più importanti. Riempimmo il posto con sostenitori in T-shirt: “James Robinson È Giuseppe!”. (Risate) Non doveva dire niente, ma conoscete la parte dove entrano i tre Re. Entrano portando i regali, portano oro, franchincenso e mirra. È successo davvero. Eravamo lì seduti e credo che si fossero scambiati i posti, perché dopo abbiamo parlato con il ragazzino e abbiamo detto “Ti va bene così?” e lui: “Sì, perché, che c’è che non va?”. Si erano semplicemente cambiati di posto, tutto qua. Comunque, i tre ragazzi entrarono, quattrenni con tovagliolini in testa, posarono queste scatole per terra e il primo ragazzino disse: “Vi porto oro”. E il secondo ragazzino disse: “Vi porto mirra”. E il terzo ragazzino disse: “Questo l’ha mandato Frank!”. (Risate)

Ciò che queste cose hanno in comune è che i bambini si buttano. Se non sanno qualcosa, ci provano. Giusto? Non hanno paura di sbagliare. Ora, non voglio dire che sbagliare è uguale a essere creativi. Ciò che sappiamo è che se non sei preparato a sbagliare, non ti verrà mai in mente qualcosa di originale. Se non sei preparato a sbagliare. E quando diventano adulti la maggior parte di loro ha perso quella capacità. Sono diventati terrorizzati di sbagliare. E noi gestiamo le nostre aziende in quel modo, stigmatizziamo errori. E abbiamo sistemi nazionali d’istruzione dove gli errori sono la cosa più grave che puoi fare. E il risultato è che stiamo educando le persone escludendole dalla loro capacità creativa. Picasso una volta disse che tutti i bambini nascono artisti. Il problema è rimanerlo anche da adulti. Io sono convinto che non diventiamo creativi, ma che disimpariamo ad esserlo. O piuttosto, ci insegnano a non esserlo. Dunque perché è così?

Ho vissuto a Stratford-on Avon fino a cinque anni fa. Ci siamo trasferiti da Stratford a Los Angeles. Vi potete immaginare quanto sia stato facile il trasferimento. (Risate) Veramente, abitavamo in un posto di nome Snitterfield, appena fuori Stratford, il posto dove nacque il padre di Shakespeare. Vi viene in mente qualcosa? A me sì. Non pensate al fatto che Shakespeare aveva un padre. No? Davvero? Perché non vien da pensare a Shakespeare come ragazzino, o sì? Shakespeare a sette anni? Io non ci ho mai pensato. Avrà pur avuto sette anni un tempo. Sarà stato nella lezione d’inglese di qualcuno, no? (Risate) Quanto sarebbe seccante? “Più impegno”. Essere mandato a letto dal papà che dice: “Vai a letto, ora!”, a William Shakespeare, “e metti via la penna. E smettila di parlare così, confonde la gente”. (Risate)

Comunque, ci siamo trasferiti da Stratfort a Los Angeles e vorrei dire qualcosa sul trasferimento. Mio figlio non voleva venire. Ho due figli. Lui ha 21 anni ora, mia figlia 16. Lui non voleva venire a Los Angeles. Gli piaceva ma aveva una ragazza in Inghilterra. Era l’amore della sua vita, Sarah. La conosceva da un mese. Festeggiavano già il loro quarto anniversario. Perché è un lungo periodo a 16 anni. Lui era abbastanza lunatico in aereo e disse: “Non troverò mai più una ragazza come Sarah”. E noi eravamo piuttosto contenti, francamente. Lei era la nostra ragione principale per lasciare il Paese. (Risate)

Ma c’è una cosa che ti colpisce quando ti trasferisci in America e se viaggi per il mondo: ogni sistema di istruzione ha la stessa gerarchia di materie. Ognuno. Non importa dove vai. Credi che sia diverso, ma non lo è. In cima ci sono le scienze matematiche e le lingue, poi le discipline umanistiche e in fondo l’arte. Ovunque nel mondo. E, più o meno, anche all’interno di ogni sistema. Esiste una gerarchia nelle arti. L’arte e la musica occupano una posizione più alta nelle scuole rispetto a recitazione e danza. Non esiste sistema educativo sul pianeta che insegni danza ai bambini ogni giorno, così come insegniamo la matematica. Perché? Perché no? Credo che sia importante. Credo che la matematica sia molto importante, ma altrettanto la danza. I bambini ballano tutto il tempo se possono, noi tutti lo facciamo. Abbiamo tutti un corpo, o no? Mi sono perso qualcosa? (Risate) In verità, ciò che succede è che, quando i bambini crescono, noi iniziamo a educarli progressivamente dalla pancia in su. E poi ci focalizziamo sulle loro teste. E leggermente verso una parte.

Se tu visitassi il sistema educativo da alieno e ti chiedessi “A che serve la pubblica istruzione?” credo che dovresti concludere – vedendo il risultato, chi ha successo in questo sistema, chi fa tutto quel che deve, chi viene onorato, chi sono i vincitori – credo che dovresti concludere che lo scopo dell’istruzione pubblica in tutto il mondo sia quello di produrre professori universitari. O no? Loro sono le persone che stanno in cima. E io ero uno di loro, quindi. (Risate) A me piacciono i professori universitari, ma non li dovremmo considerare come il risultato più alto raggiungibile. Sono solo una forma di vita, un’altra forma di vita. Ma sono piuttosto curiosi e lo dico con affetto per loro. C’è qualcosa di curioso nei professori, per quel che è la mia esperienza – non tutti, ma di solito – vivono nella loro testa. Vivono lassù e leggermente da una parte. Sono scorporati, avete presente, quasi in senso letterale. Vedono i loro corpi come un mezzo di trasporto per le loro teste, no? (Risate) È un modo per portare le loro teste ai meeting. Se volete una prova concreta di esperienze extracorporee andate ad una conferenza di accademici attempati e fate un salto nella discoteca, all’ultima sera. (Risate) E lo vedrete, uomini e donne adulti scuotersi incontrollabilmente, fuori tempo, aspettando che finisca per andare a casa e scriverne qualcosa.

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Il nostro sistema educativo è basato sull’idea di abilità accademiche. E c’è una ragione. Tutto il sistema è stato inventato – in tutto il mondo non c’erano scuole pubbliche prima del XIX secolo. Furono create per venire incontro ai fabbisogni industriali. Quindi la gerarchia è fondata su due idee. Numero uno: che le discipline più utili per il lavoro sono in cima. Voi probabilmente siete stati benignamente allontanati da cose che vi piacevano da bambini a scuola, sulla base che non avreste mai trovato un lavoro facendo quello, no? Non fare musica, non diventerai un musicista; non fare arte, non sarai un artista. Avvisi benevoli – ma ora profondamente sbagliati. Il mondo intero è in subbuglio. E, punto secondo, è l’abilità accademica che oggi domina la nostra idea d’intelligenza, perché le università hanno creato il sistema a loro immagine. Se ci pensate, tutto il sistema della pubblica istruzione, in tutto il mondo, si concentra sull’ammissione all’università. E la conseguenza è che tante persone di talento, persone brillanti, creative, credono di non esserlo. Perché la cosa per la quale erano bravi a scuola non le si dava valore, o era perfino stigmatizzata. E credo che non ci possiamo permettere di andare avanti così.

Nei prossimi 30 anni, secondo l’UNESCO, si laureeranno più persone al mondo di tutte quelle che si sono laureate dall’inizio della storia. Più persone, ed è la combinazione di tutte le cose delle quali abbiamo parlato, la tecnologia e il suo effetto di cambiamento sul lavoro e la demografia e il grande incremento della popolazione. Ad un tratto i titoli di studio non valgono nulla, non è vero? Quando ero studente, se avevi una laurea avevi un lavoro. Se non avevi un lavoro era perché non ne volevi uno. E io, francamente, non ne volevo uno. (Risate) Ma oggi giovani con una laurea in tasca spesso sono a casa a giocare con i videogame, perché ti serve la laurea specialistica dove prima ti serviva quella normale e adesso ti serve il PhD per l’altra. È un processo di inflazione accademica. E ci indica che tutta la struttura educativa si sta spostando sotto i nostri piedi. Dobbiamo ripensare radicalmente la nostra idea di intelligenza.

Sappiamo tre cose sull’intelligenza. Anzitutto, che è varia. Pensiamo il mondo in tutti i modi nei quali lo percepiamo. Riflettiamo visualmente, uditivamente, cinesteticamente. Pensiamo in modo astratto, in movimenti. Secondo, l’intelligenza è dinamica. Se guardiamo le interazioni di un cervello umano, come abbiamo sentito ieri da alcune presentazioni, l’intelligenza è meravigliosamente interattiva. Il cervello non è suddiviso in compartimenti. Infatti, la creatività – che io definisco come il processo che porta ad idee originali di valore – si manifesta spesso tramite l’interazione di modi differenti di vedere le cose.

Il cervello stesso lo fa intenzionalmente – c’è un fascio di nervi che connette le due parti del cervello chiamato corpus callosum. È più ampio nelle donne. Riagganciandomi al discorso di Helen di ieri, credo che sia per questo che le donne sono migliori nel multitasking. Perché lo siete. Ci sono un sacco di ricerche, ma lo so anche dalla mia esperienza personale. Quando mia moglie cucina – cosa che non accade spesso, per fortuna. (Risate) Sapete, lei sta facendo – no, è brava in alcune cose – ma se cucina, parla al telefono, parla con i bambini, tinge il soffitto, fa un intervento a cuore aperto. Se cucino io, la porta è chiusa, i bambini sono fuori, il telefono deve aspettare e se lei entra mi irrita. Dico, “Terry, per favore, sto cercando di friggere un uovo. Lasciami stare”. (Risate) A proposito, conoscete quel vecchio detto filosofico, se nella foresta cade un albero e nessuno lo sente, è accaduto veramente? Vi ricordate quella vecchia battuta? Ho visto una T-shirt poco fa con sopra: “Se un uomo dice quel che pensa in una foresta, e nessuna donna lo sente, ha ancora torto?”. (Risate)

E la terza cosa sull’intelligenza è che è distinta. Sto scrivendo un nuovo libro chiamato “Epiphany”, che si basa su una serie di interviste di persone su come hanno scoperto il loro talento. Mi affascina come le persone ci sono arrivate. Nasce da una conversazione che ho avuto con una donna meravigliosa, che tante persone non conoscono, si chiama Gillian Lynne, ne avete sentito parlare? Alcuni sì. È una coreografa e tutti conoscono i suoi lavori. Ha fatto “Cats” e “Phantom of the Opera”. Lei è meravigliosa. Sono stato tra i dirigenti del Royal Ballet, in Inghilterra, come potete vedere. Comunque, abbiamo pranzato insieme un giorno e ho detto “Gillian, come sei diventata ballerina?”. E lei disse, era interessante, quando lei era a scuola era davvero senza speranza. E la sua scuola, negli anni 30, scrisse ai genitori e disse, “Crediamo che Gillian abbia problemi di apprendimento”. Non era capace di concentrarsi, diventava nervosa. Oggi direbbero che ha l’ADHD [Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività]. Non credete? Ma siamo attorno al 1930 e l’ADHD non l’avevano ancora inventata. Non era una condizione disponibile allora. (Risate) La gente non sapeva che poteva averla.

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Comunque, andò a farsi vedere da questo specialista. Stanza in legno di rovere … Ed era là con sua madre, era stata accompagnata e fatta accomodare su una sedia e alla fine stette seduta sulle sue mani per 20 minuti, mentre quell’uomo parlò con la madre di tutti i problemi che Gillian aveva a scuola. E alla fine – perché disturbava la gente, portava il compito in ritardo e così via, era una bambina di appena 8 anni – alla fine, il medico si sedette vicino a Gillian e disse: “Gillian, ho ascoltato tutte quelle cose che tua madre mi ha detto e le devo parlare a quattr’occhi”. Le disse: “Aspettaci qua, non ci metteremo molto”. E se ne andarono. Ma quando lasciarono la stanza egli accese la radio appoggiata sulla scrivania. E quando erano fuori dalla stanza disse alla madre, “Ora la guardi”. E appena se n’erano andati, lei disse, lei era in piedi e si muoveva con la musica. E la guardarono per qualche minuto ed egli disse a sua madre, “Signora Lynne, Gilian non è malata, è una danzatrice. La porti a una scuola di danza”.

Io chiesi “E poi?” e lei mi disse: “Lo fece. Non ti puoi immaginare quanto era bello. Entravamo in quella stanza ed era piena di gente come me. Gente incapace di stare ferma. Gente che si doveva muovere per pensare”. Ballavano balletto, tap, jazz danza moderna e contemporanea. Alla fine fece un’audizione per il Royal Ballet School, diventò una solista ed ebbe una splendida carriera al Royal Ballet. E infine si diplomò alla Royal Ballet School, fondò una sua company, la Gillian Lynne Dance Company, e conobbe Andrew Lloyd Weber. Lei è stata responsabile di alcune tra le più famose produzioni del teatro musicale della storia, ha portato diletto a milioni di persone ed è multi-milionaria. Un altro le avrebbe somministrato qualche farmaco e detto di calmarsi. Ora, credo – (Applausi)

Credo che il punto sia questo: Al Gore l’altra sera ha parlato di ecologia e della rivoluzione partita da Rachel Carson. Credo che la nostra unica speranza per il futuro sia di adottare una nuova concezione di ecologia umana, nella quale cominciare a ricostruire la nostra concezione della ricchezza delle capacità  umane. Il nostro sistema educativo ha sfruttato le nostre teste come noi abbiamo sfruttato la terra: per strapparle una particolare risorsa. E per il futuro non ci servirà. Dobbiamo ripensare i principi fondamentali sui quali educhiamo i nostri figli. C’è una magnifica citazione di Jonas Salk, disse: “Se tutti gli insetti scomparissero dalla Terra, entro 50 anni tutta la vita sulla Terra finirebbe. Se tutti gli esseri umani scomparissero dalla Terra, entro 50 anni tutte le forme di vita fiorirebbero”. E ha ragione.

Ciò che TED celebra è il dono dell’immaginazione umana. Dobbiamo fare attenzione ad usare questo dono saggiamente ed evitare alcuni degli scenari dei quali abbiamo parlato. E lo faremo solo se sapremo vedere le nostre capacità creative per la ricchezza che sono e se sapremo vedere i nostri figli per la speranza che sono. Il nostro compito è di educarli nella loro interezza affinché possano affrontare il loro futuro. Forse noi non vedremo questo futuro, ma loro sì. E il nostro compito è di aiutarli a farne qualcosa. Grazie mille.

 

Copyright: Video e testo riprodotti su Licenza Creative Commons 3.0 – Autore: TED Talks

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Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile.

Luca Sperandeo – Dottore in Giurisprudenza abilitato al patrocinio (Ordine degli Avvocati di Milano)
Andrea Bassanini – Psicologo, Psicoterapeuta in formazione. 

 

Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile. - Immagine: © beaubelle - Fotolia.com

La Suprema Corte ha stabilito che il danno per lo sviluppo del minore affidato a un nucleo familiare omosessuale non può essere presunto ma deve essere provato in concreta, basandosi su certezze cliniche o massime d’esperienza.

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E’ di qualche settimane fa la sentenza (n. 601/2013) con cui la Corte di Cassazione ha affrontando la questione relativa all’effettiva incidenza pregiudizievole dell’omosessualità del genitore affidatario nei confronti del figlio minorenne.

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Così come già rilevato su State of Mind da Giovanni Maria Ruggiero, allo stato attuale: “Nessun parametro psicologico o evolutivo ci ha mostrato numeri che dimostrino che per i bambini sia controindicato crescere con genitori omosessuali”.

Ragionando sul medesimo principio, la Suprema Corte ha stabilito che il danno per lo sviluppo del minore affidato a un nucleo familiare omosessuale non può essere presunto ma deve essere provato in concreta, basandosi su certezze cliniche o massime d’esperienza.

Lo scenario nel quale si colloca la sentenza n. 601/2013 si caratterizza per la presenza di tre elementi distintivi: la violenza, l’elemento culturale-religioso e l’omosessualità.

Il minore, al centro del caso in esame, era conteso tra il padre (di religione mussulmana) e la madre (ex tossicodipendente, legata da una relazione sentimentale con l’educatrice della comunità di recupero che l’aveva ospitata, con la quale successivamente aveva intrapreso una convivenza), immerso in una realtà resa ancora più complessa e delicata dall’aggressione della convivente della madre, ad opera del padre, avvenuta sotto gli occhi del figlio.

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La Corte di Cassazione si è dovuta calare nella fattispecie concreta, sgomberando dal campo qualsiasi sorta di “pregiudizio” e cercando di stabilire quale incidenza, in termini di disagio, avessero potuto provocare nel minore la violenza paterna e l’omosessualità materna.

La stessa rilevava che solo la condotta paterna aveva causato provate ripercussioni negative nel minore (“aveva assistito a un episodio di violenza agita dal padre ai danni della convivente della madre, che aveva provocato in lui un sentimento di rabbia nei confronti del genitore”), mentre non era stata dimostrata in alcun modo la dannosità del contesto familiare materno.

Sicuramente la sentenza in esame, a dispetto del clamore generato, non rappresenta quel punto di svolta, in tema di affidamento dei minori, osannato da alcuni e osteggiato da altri.

Infatti, i giudici di legittimità si sono limitati ad invocare per il caso concreto l’applicazione della regola generale dell’onere della prova, secondo la quale non può essere data per scontata la dannosità per il minore di un contesto familiare omosessuale, in assenza di prove basate su certezze scientifiche o dati d’esperienza.

Crediamo che tale aspetto sia cruciale rispetto a ciò che culturalmente o dogmaticamente possa essere interpretato come principio a favore/sfavore del contesto omosessuale. Spesso la dannosità per il minore viene data per assodata in questi casi, considerando poco o scarsamente le caratteristiche psichiche dei membri del sistema familiare. Sembra, infatti, che l’omosessualità nasconda e oscuri tutto il resto delle caratteristiche del sistema/famiglia, soprattutto le risorse e gli aspetto protettivi e della coppia genitoriale e della famiglia in sé.

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Insomma, in questa sentenza, la Corte non esclude in linea di principio la possibilità che si possa formare una prova a sostegno della tesi sugli effetti dannosi di un nucleo familiare omosessuale, tuttavia, constata che nel caso di specie tale prova non è stata fornita.

La Suprema Corte si è pronunciata rilevando che le richieste del padre muovevano dal mero pregiudizio (presupposto ma non provato) che il vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale fosse di per sé dannoso per l’equilibrato sviluppo del minore, cercando di far passare per assodato un elemento che invece doveva essere dimostrato.

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Pur ridimensionando la portata innovativa della sentenza n. 601/2013, è interessante rilevare come la pronuncia della Corte di Cassazione abbia aperto uno spiraglio riguardo all’ampliamento del concetto di famiglia, ponendosi in contrasto con quanto stabilito dall’art. 29 della Costituzione (che identifica la famiglia soltanto in quella società naturale fondata sul matrimonio) e riconoscendo implicitamente che anche un nucleo familiare composto da soggetti del medesimo sesso possa essere qualificato come famiglia.

Una tale lettura potrebbe rappresentare un primo passo verso il riconoscimento dei matrimoni tra soggetti omosessuali, considerato che il disposto dell’art. 8 della C.E.D.U. si presta a un’interpretazione estensiva della nozione di famiglia in grado di ricomprendere anche la relazione stabile di una coppia omosessuale.

Tale orientamento, infatti, potrebbe concretizzarsi in un incentivo per il legislatore a dettare principi e criteri direttivi in materia, mirando sia a una regolamentazione giuridica delle coppie omosessuali sia all’eventuale apertura alle adozioni di minori a favore delle stesse, in accordo con i diritti fondamentali stabiliti dalla Corte Europea.

Con la sentenza in esame la Cassazione non si è fatta portatrice di una corrente giurisprudenziale innovativa, bensì, ha manifestato l’esigenza e l’auspicio di un intervento chiarificatore da parte del legislatore.

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Tribolazioni 01 – No Conflict. Monografia Psicologica di Roberto Lorenzini

 

 

Intelligenza: la leggenda del Qi? Da sfatare!

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le variazioni più importanti nelle performance sono dovute principalmente a tre componenti: memoria a breve termine, ragionamento e capacità di verbalizzazione. Tuttavia nessuna componente da sola può spiegare il QI.

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Un nuovo studio condotto da Adrian Owen del Western’s Brain and  Mind Institute è pronto a sfatare la leggenda del QI (Quoziente Intellettivo).  La ricerca ha coinvolto oltre 100 mila persone da tutto il mondo, che hanno potuto partecipare attraverso il web. I volontari hanno eseguito 12 test cognitivi che indagavano la memoria, l’attenzione, le capacità di ragionamento e di pianificazione; inoltre erano invitati a compilare un questionario che esplorava le abitudini, lo stile di vita e la situazione socioeconomica e familiare.

Intelligenza? Una questione di Ormoni. - Immagine:© Yuri Arcurs - Fotolia.com
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I risultati ottenuti dai molteplici dati a disposizione hanno messo in luce che le variazioni più importanti nelle performance sono dovute principalmente a tre componenti, ovvero la memoria a breve termine, il ragionamento e la capacità di verbalizzazione. Tuttavia nessuna componente da sola può spiegare il QI.

Il ricercatore ha inoltre sottoposto alcuni soggetti a risonanza magnetica funzionale (fRMI), osservando che le differenze nelle abilità cognitive corrispondono a circuiti cerebrali tra loro differenti. Gli ampi dati hanno reso possibile la valutazione di caratteristiche come l’età, il sesso o le abitudini (ad esempio il gioco on-line) e come esse possano influenzare le capacità cerebrali: l’avanzare degli anni ad esempio incide sul ragionamento e la memoria, il fumo impatta negativamente sulla capacità di verbalizzazione e sulla memoria a breve termine, l’ansia mina in maniera prevalente  la memoria a breve termine, mentre i videogiochi parrebbero favorire il ragionamento e la memoria a breve termine.

Attualmente lo studio sta proseguendo con versioni  nuove del test, a cui si può registrare andando sul seguente sito: www.cambridgebrainscience.com/theIQchallenge. Tuttavia le finalità ultime dello studio non sono state rese note dagli autori per evitare che i risultati dei test possano essere falsati dalle aspettative dei partecipanti.

Un altro studio sembra avvalorare i risultati ottenuti citati precedentemente, infatti Kou Murayama, uno psicologo dell’Università di Monaco, afferma che le capacità matematiche non dipendono dal QI, ma dal grado di motivazione ad apprendere numeri e le operazioni.

La ricerca è stata condotta su 3.500 bambini delle elementari ed ha mostrato che l’intelligenza è effettivamente importante nei primi momenti dell’apprendimento delle competenze di una materia; ma in seguito, per il raggiungimento di alcuni traguardi, ciò che diviene necessario è una buona motivazione e un elevato interesse per la materia che si sta apprendendo, associati ad autostima e capacità nello studio. Gli insegnanti, quindi, potrebbero tenere conto di questi fattori in modo da far progredire gli allievi nello studio nel modo migliore e più sereno possibile.

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BIBLIOGRAFIA:

Andare al lavoro ammalati… andare al lavoro, finché c’è!

 

Finito il dì, col Sol che se ne va.

Andiam a casa a riposar, laggiù ci aspetta il focolar.
Perciò, cantiam.
Per la strada prender sempre un’ascia a fian, fischiando andiam.
Il bosco appar già pieno di mister.
Lassù la Luna apparirà, il buon, cammin ci mostrerà.
Cantiam, che l’Orco non verrà, ma tu, gira dal bosco ner.
Cantiam, fischiam, vogliam, cantar, fischiar, vogliam

 

Andare al lavoro ammalati… andare al lavoro, finché c’è. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

Crisi del lavoro al giorno d’oggi. Quali effetti sulla nostra salute psicofisica? Andare al lavoro ammalati… andare al lavoro, finché c’è!

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Il lavoro, tema centrale di questo periodo chi ce l’ha, chi non ce l’ha, chi proprio non riesce a trovarlo, chi ancora non sa cosa fare, chi ha il contratto in scadenza, chi da sempre ha lavorato a progetto, chi del lavoro ne fa la propria vita, chi è in cassa integrazione e si chiede per quanto… ma quali le possibili ripercussioni sulla nostra salute psicofisiologica?

In un report del Chartered Institute of Personnel and Development si evidenzia come un terzo dei 670 datori di lavoro interpellati ammette di aver riscontrato una netta diminuzione delle assenze dei propri dipendenti nel corso dell’ultimo anno.

Questi dati che potrebbero sembrare positivi ad una prima occhiata nascondono secondo gli esperti un chiaro segnale di ansia che ha paradossalmente ripercussioni sulla qualità ed efficacia del lavoro stesso.

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Infatti, andare al lavoro malati predispone anche i colleghi al rischio di “contagio”, l’efficacia nel proprio lavoro diminuisce e aumenta anche il rischio di commettere errori e oltretutto fa allungare i tempi di recupero.

Precario il Lavoro, Stabile l'Ansia - Il Ritratto Psicologico di una Generazione. - Immagine: © nuvolanevicata - Fotolia.com
Articolo consigliato: Precario il Lavoro, Stabile l’Ansia – Il Ritratto Psicologico di una Generazione.

Sicuramente oggi questo dato più che un segnale di attaccamento al lavoro e di eccessiva doverizzazione dovrà forse essere letto come la paura delle persone di perdere il posto di lavoro tanto agognato rimanendo a casa per malattia troppo a lungo. Con la crisi la paura di perdere il lavoro, la paura di non farcela, la paura e a volte la realtà di non arrivare a fine mese sono diventati “fantasmi” reali nella vita di molti.

In Europa la depressione colpisce il 38,2 % degli individui, ovviamente non tutti i casi sono collegati alla crisi, alla perdita di lavoro e alla perdita del ruolo lavorativo. Ad oggi però l’organizzazione mondiale della sanità rileva un aumento di casi di depressione tra i giovani che faticano sempre di più a trovare un lavoro e tra i cinquantenni che rischiano di perdere il lavoro senza avere davanti alcuna possibile prospettiva di riqualificazione o rioccupazione.

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 “Gli uomini sono più a rischio per il ruolo che hanno all’interno del nucleo familiare – spiega Marialori Zaccaria, presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio – Si sentono i capifamiglia e soffrono di più in caso di perdita del lavoro. Subentra una crisi di identità.”

 

Sempre più giovani si ammalano proprio perché in piena crisi economica trovano molte difficoltà nel realizzare i loro sogni, si trovano senza speranza, non vedono alcuna possibilità di costruirsi un futuro, non sentono l’esistenza di uno spazio per loro. Si sentono troppo spesso senza punti di riferimento, senza carte da spendere in un mercato del lavoro fin troppo chiuso.

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ANSIA – PSICOLOGIA DEL LAVORO – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

Acido Folico in Gravidanza e Autismo nei Bambini: Correlazioni

Di Dario Catania.
Psichiatra e Psicoterapeuta, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

Acido Folico e Disturbi dello Spettro Autistico. -Immagine: © PHOTOERICK - Fotolia.comLe donne che hanno assunto acido folico nei primi stadi della gravidanza hanno mostrato una diminuzione del 40% del rischio di avere un figlio con diagnosi di disturbo autistico, secondo i criteri del DSM IV-TR. Per primi stadi si intende il periodo che va da 4 settimane prima a 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza.

I disturbi dello Spettro Autistico rappresentano un gruppo di condizioni psicopatologiche in cui le competenze sociali attese, lo sviluppo del linguaggio e le modalità di comportamento non evolvono in modo appropriato o si alterano fino a perdersi nell’infanzia, causando una grave e precoce disfunzione persistente.

Questi disturbi generalizzati dello sviluppo, inizialmente considerati di origine psicosociale e psicodinamica, riconoscono un’eziologia di tipo multifattoriale, con numerose prove a favore di un substrato biologico legato ad alterazioni precoci del neurosviluppo. Al momento non si conoscono strategie di prevenzione primaria rispetto a questi disturbi.

Ossitocina: Una Possibile Cura per l'Autismo?. - Immagine: © IKO - Fotolia.com
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L’assunzione di acido folico, una vitamina del gruppo B, prima del concepimento e nei mesi iniziali di gravidanza risulta una efficace strategia di prevenzione per i disturbi  legati alle malformazioni conseguenti alla mancata fusione del tubo neurale, quella struttura embrionale da cui avrà origine, nel corso dello sviluppo, il sistema nervoso.

Nessuno studio ha evidenziato se l’assunzione di questa vitamina possa essere efficace nella prevenzione di altri disturbi del neurosviluppo.

Un gruppo di ricercatori norvegesi ha pubblicato sul numero 13 di febbraio, della rivista “JAMA”, un interessante e originale studio condotto su un campione di 85176 madri norvegesi e rispettivi figli, nati tra il 2002 e il 2008. Le madri del gruppo sono state reclutate nello studio a partire dalla 18a settimana di gravidanza (prima ecografia) fino al parto, dopodiché sono stati monitorati i rispettivi figli, in un lungo follow-up che si è concluso il 31 marzo 2012. Obiettivo di questa ricerca è stato valutare se l’assunzione di acido folico prima del concepimento possa ridurre il rischio di insorgenza di un disturbo dello spettro autistico nell’infanzia (Disturbo Autistico, Sindrome di Asperger e Disturbi Pervasivi dello Sviluppo non altrimenti specificati).

Alla fine del periodo di follow-up 270 bambini (0,32%) hanno ricevuto una diagnosi di disturbo dello spettro autistico e precisamente sono stati riscontrati 114 casi di Disturbo Autistico (0,13%), 56 casi di Sindrome di Asperger (0,07%) e 100 con diagnosi di Disturbi Pervasivi dello Sviluppo non altrimenti specificati (0,12%).

Solo 64 delle 61042 madri che avevano assunto acido folico prima della gravidanza hanno concepito un bambino con diagnosi di Disturbo Autistico (0,10%); nelle 24134 madri che non avevano assunto il supporto di acido folico, i casi di Disturbo Autistico sono stati 50 (0,21%).

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L’Odds Ratio (OR), misura statistica utilizzata per definire il rapporto di causa-effetto tra due eventi, per esempio tra un fattore di rischio e una malattia, per i bambini esposti ad acido folico è risultato pari a 0,61; ciò significa che l’evento studiato rappresenta un fattore di protezione.

L’esiguità dei dati numerici relativamente ai casi di Sindrome di Asperger e a quelli di Disturbo pervasivo dello sviluppo non ha permesso di giungere a risultati simili.

In conclusione, le donne che hanno assunto acido folico nei primi stadi della gravidanza hanno mostrato una diminuzione del 40% del rischio di avere un figlio con diagnosi di disturbo autistico, secondo i criteri del DSM IV-TR. Per primi stadi si intende il periodo che va da 4 settimane prima a 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza.

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Preparare alla Scuola il Bambino con Autismo - Recensione
Articolo Consigliato: Preparare alla Scuola il Bambino con Autismo – Recensione

Lo studio certamente presenta alcune limitazioni che possono avere influenzato i risultati, prima fra tutte il fatto che il campione di donne selezionato presentava caratteristiche sociodemografiche poco rappresentative della popolazione generale: madri alla prima gravidanza, età media elevata, elevato livello d’istruzione, non fumatrici. Altro limite riguarda la diagnosi dei sottotipi di disturbo dello spettro autistico, che in alcuni recenti studi è stata considerata non avere elevata affidabilità, motivo per cui i criteri diagnostici potrebbero essere significativamente modificati nella quinta edizione del DSM, in uscita a maggio 2013.

Se da un lato è evidente che l’assunzione di acido folico nel periodo compreso tra 4 settimane prima del concepimento e 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza è associato ad un minor rischio di Disturbo Autistico, non è possibile, al momento, stabilire alcun rapporto di causalità tra il disturbo e l’uso di questa vitamina del gruppo B. Certamente sarà necessario replicare questi risultati e studiare ulteriormente l’influenza di fattori genetici e biologici nello sviluppo di questa patologia per poter spiegare in modo esaustivo il ruolo e l’importanza dell’assunzione di acido folico in relazione a questi disturbi.

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 DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO –  BAMBINI –  GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Amore: Il cuore di chi si ama va allo stesso ritmo

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Uno studio condotto da ricercatori dell’Università della California rivela che il cuore di mariti, mogli e fidanzati ha lo stesso ritmo.

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Il professore di psicologia Emilio Ferrer responsabile della ricerca ha monitorato 32 coppie in relazioni romantiche. I soggetti volontari venivano fatti sedere a circa un metro di distanza e venivano  agganciati a specifici macchinari che misuravano la pressione, battito cardiaco e ritmo di respirazione.

I risultati mostrano che il battito cardiaco dei membri della stessa coppia era all’unisono, così come il ritmo dell’inspirazione e dell’espirazione dell’aria. I risultati non sono stati replicati  quando i due soggetti monitorati non facevano parte della coppia originaria: i volontari non mostravano sincronizzazione.

 

MONOGRAFIA: LA RELAZIONE DI COPPIA 

La connessione tra due persone va oltre il piano emotivo, ma è fisiologica. Per concludere, come ultimo risultato è stato visto che sono soprattutto le donne ad adeguare la loro respirazione e il loro battito cardiaco a quello dell’uomo e probabilmente la spiegazione di ciò è che hanno più empatia.

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Abstract

A host of theoretical frameworks suggest associations of physiological signals between two individuals within a romantic relationship. However, few studies have provided empirical evidence of such associations using physiological reactivity from both partners in the dyad. In this study we use measures of respiration and heart rate from romantic partners recorded across three laboratory tasks. We examine the interrelations of each measure between both dyad members using coupled linear oscillators (Boker & Nesselroade, 2002). These models were used to capture oscillations in respiration and heart rate, and to examine interdependence in the physiological signals between both partners. Results show that associations were detectable within all three tasks, with different patterns of coupling within each task. Discussion centers on ways to investigate the synchrony of physiological responses across within relationships, including the promises of and obstacles for doing so.

 

MONOGRAFIA: LA RELAZIONE DI COPPIA 

BIBLIOGRAFIA:

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