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Psiche & Legge #6 – La Mente Esplode. Parola alle Neuroscienze

Psiche & Legge #6 - Oggi andrò oltre, fino a tracciare un sentiero particolare, sul quale appronteranno passi importanti le neuroscienze.

Di Selene Pascasi

Pubblicato il 01 Mar. 2013

PSICHE E LEGGE #6

 Rubrica a cura di Selene PASCASI, Avvocato, Giornalista Pubblicista, Autrice

 

    La mente “esplode”.

Il delitto è frutto del volere criminale o del gene malvagio?

La parola passa alle Neuroscienze

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Psiche & Legge #6 - La Mente Esplode. Parola alle Neuroscienze. - Immagine: © konradbak - Fotolia.comPsiche & Legge #6 – Oggi andrò oltre, fino a tracciare un sentiero particolare, sul quale appronteranno passi importanti le neuroscienze.

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Come si ricorderà, nelle scorse rubriche, ho affrontato le delicate tematiche inerenti la nozione di imputabilità, legata a quella di capacità d’intendere e di volere, e di pericolosità sociale del reo. Trattasi, è evidente, di questioni di estrema rilevanza nell’ambito di un processo penale, laddove l’accertamento del vizio di sanità mentale dell’assistito, deciderà le sorti della sentenza, sia in punto di trattamento sanzionatorio, che sotto il profilo dell’eventuale applicazione di misure di sicurezza.

È noto, difatti, come nell’ordinamento italiano, il presupposto essenziale per la perseguibilità del soggetto agente, sia il vaglio sul pieno possesso della cosiddetta “capacita di intendere e di volere”, al momento della commissione del delitto. Ed è noto, altresì, come con il termine “reato”, si intenda “l’atto criminale”, letto come comportamento espressamente punito a norma di legge, e perpetrato con intenzione delittuosa. Ebbene, se un individuo non imputabile non potrà mai ritenersi responsabile di un fatto doloso o colposo, andando esente da sanzione penale, sarà doverosa premura, quella di esaminarne con certosina attenzione, l’effettivo stato mentale, con riferimento all’istante in cui se ne sia accertata la perpetrazione dell’azione delittuosa.

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Così, se in precedenza, mi sono già occupata di chiarire il metodo mediante il quale taluno possa ritenersi, o meno, capace di intendere e/o di volere, l’odierno approfondimento, andrà oltre, fino a tracciare un sentiero particolarissimo, sul quale appronteranno passi importanti le novelle conoscenze scientifiche.

Nella corrente analisi, pertanto, si vuole dar risalto al ruolo, fondamentale, oggi rivestito dalle Neuroscienze, ambito scientifico cui gli operatori del diritto potranno fare affidamento – in aggiunta alle metodologie classiche, rinvenibili nei dettami del codice penale – per indagare sullo stato di infermità psichica del reo, quale condizione patologica, non necessariamente duratura, ma comunque in grado di elidere (vizio totale, art. 88 c.p.) o diminuire (vizio parziale, art. 89 c.p.) la capacità del soggetto. Può sostenersi, in altre parole, che l’evolversi del progresso scientifico, abbia plasmato il pensiero della giurisprudenza, guidandone i passi in un iter scandito, principalmente, da tre passaggi di rilievo: la nozione di infermità strettamente legata ai criteri nosografici, che la leggevano come vera e propria malattia del cervello o del sistema nervoso, la nozione di infermità psicologicamente orientata, ed, infine, quella connessa al dato sociologico, implicante valutazioni inerenti il contesto socio-culturale di appartenenza dell’individuo.

Di qui, l’affermarsi della tesi attuale, stesa sulla base di una sinergica ricostruzione delle tre descritte teorie, tanto da forgiarsi un modello di malattia mentale maggiormente elastico, e comprensivo – come sostenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione, con pronuncia n. 9163 del 25 gennaio 2005 – dei disturbi della personalità, purché caratterizzati da una gravità ed intensità tali da elidere o diminuire sensibilmente la capacità del reo.

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Quanto precisato, però, lo si noti, nulla apporta di innovativo ai rilievi svolti in occasione degli altri appuntamenti di rubrica. Ciò che di nuovo si affaccia sullo scenario del processo penale – su cui è mio intento far riflettere – è quel qualcosa in più, cui la scienza e la giurisprudenza stanno rivolgendo attenzione, in maniera sempre più pregnante. Il riferimento, come anticipato, è alla “necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza”, imprescindibile al fine di accertare se, ed in quale misura, le condizioni psichiche dell’agente, possano averne guidato la mano criminale.

E’ in questo contesto, che può saggiarsi e apprezzarsi l’apporto delle Neuroscienze. Ma cosa intendiamo esattamente con tale termine? In via esemplificativa, possiamo definire le Neuroscienze, come scienze tese a studiare il rapporto esistente tra il funzionamento cerebrale, i sintomi psicopatologici propri del reo, e il comportamento delittuoso da questi posto in essere. Con il ricorso a tali conoscenze, si vuole vagliare, dunque, il grado di incidenza di specifiche e riscontrate alterazioni dell’attività celebrale – talora annunciate da sintomi psicopatologici, correlati in taluni casi a un’anomalia funzionale dell’encefalo – e la perpetrazione della condotta violenta. Le domande, allora, saranno molteplici. Quanto l’azione criminale è conseguenza della patologia, e quindi anche in una certa misura del patrimonio genetico del reo?

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Quanto un omicidio è voluto, e quanto, invece, è dettato dal corredo genetico dell’assassino e/o da patologie idonee a compromettere la funzionalità dei lobi frontali, in conseguenza a traumi, a percorsi neurodegenerativi, o a specifiche caratteristiche biologico-genetiche? Quanto, infine, può aver influito l’uso di alcool da parte della donna, durante la gravidanza, sulle anomalie di sviluppo mentale e sulla marcata aggressività del bambino (in seguito reo), alla luce della cosiddetta Alcohol Fetal Syndrome (FAS)? E quali sono le metodologie cui è possibile ricorrere al fine di “frugare” nel cervello umano, per meglio comprendere il nesso esistente tra struttura cerebrale, funzionalità cerebrale, sintomi patologici e comportamento aggressivo?

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A fronte di questi e mille altri interrogativi, ne sovvengono ulteriori: è davvero possibile che il progresso scientifico sia in grado di leggere la mente e il cervello omicida e carpirne il “funzionamento”? L’individuo, è effettivamente dotato di una sorta di libretto di “istruzioni per l’uso”, recante anomalie e conseguenze delle stesse? Le scienze – avvalorate da pronunce di merito, su cui si tornerà a breve – offrono un responso positivo. Del resto, non si tratta, a ben ricordare, di un’impostazione del tutto nuova.

Basti pensare al fatto che i primi studi inerenti la correlazione tra i gravi turbamenti della personalità, ed i traumi cerebrali si rinvengono già a metà degli anni ottocento (cfr. caso Phineas Gage, descritto dal medico inglese Harlow). Viene da se, allora, come il progresso scientifico non sarà che un acceleratore del processo, già avviatosi tempo fa, imperniato sull’utilizzo di strumenti esplorativi del cervello (tomografia ad emissione di positroni, PET; risonanza magnetica strutturale, MRI e risonanza magnetica funzionale, fMRI).

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Così, nell’esaminare “i perché” dell’atto criminale, si studierà, con riferimento al reo: a) la biologia dell’encefalo (anche in relazione ai geni potenziali originatori di atti aggressivi); b) la personalità (ambiti pertinenti alla psicologia e alla psichiatria forense); c) il contesto sociale. Fattori, quelli indicati, di imprescindibile valutazione per far luce sulla concreta “capacità di intendere e di volere” del criminale, alla stregua dei criteri offerti dal DSM-IV, prossimo alla sua quinta edizione, e dall’ICD-10 (decima revisione della classificazione ICD, classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati). Non solo. Quanto alla biologia del cervello, in campo forense è già frequente il ricorso alla risonanza magnetica cerebrale, tesa a scovare le cause delle disfunzioni comportamentali.

Viene da se, dunque, come diritto penale e scienza, non esclusa la genetica molecolare, debbano andare a braccetto in tale delicato settore. Imput, già recepito da attenta giurisprudenza. Si annoveri la nota sentenza emessa dalla Corte di Assise di Trieste (n. 5 dell’1 ottobre 2009), resa in linea con le innovative ed anticipate tecniche di indagine scientifica sulla psiche del criminale. Ad aprire il caso risolto dai giudici triestini, l’omicidio commesso, a seguito di un banale alterco, da un uomo a carico del quale venne riscontrata – a seguito di accertamento peritale – sia una patologia psichiatrica di tipo psicotico, connotata da episodi di delirio, che un rilevante disturbo della personalità.

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Condizione per la quale l’imputato, pur riconosciuto parzialmente infermo di mente, non fu ritenuto meritevole di beneficiare altresì di uno sconto di pena. La difesa, nel contestare la decisione, gioca il jolly delle Neuroscienze. Al fine di dimostrare la sussistenza di una rilevante seminfermità mentale dell’assistito, era necessario – precisò l’avvocato – esperire un’indagine cromosomica sul patrimonio genetico del reo, da affidarsi ad esperti in genetica molecolare, ed in neuropsicologica clinica.

L’esito della perizia fu sconvolgente: il soggetto presentava polimorfismi genetici – allele MAOA (MAOA-L) – “colpevoli” di favorire reazioni eccessivamente aggressive, ed impulsive, ad eventi stressanti. Il suo corredo genetico, dunque, lo rendeva più vulnerabile, potenziandone l’emotività, a fronte di situazioni associate a contesti sociali sfavorevoli.

Sulla base delle risultanze ottenute, la Corte riduce di un anno la pena originariamente inflitta. Pena ridotta – va marcato – non già per la presenza di un “gene malevolo”, come è stato affermato in maniera fuorviante in talune occasioni – bensì per l’essersi avvalorata (grazie alle Neuroscienze) la prova della follia, seppur parziale, del criminale. A conferma, il Nuffield Council on Bioethics, Genetics and Human Behvior, è fermo, da tempo, nel sostenere come la presenza di un allele sfavorevole, sarebbe in grado di sollecitare una condotta violenta. Ancora, si potrebbe portare il caso della sentenza del Giudice per le Indagini Preliminari di Como, emessa maggio del 2011.

Le porte del processo, in quel caso, si spalancarono a seguito della condanna di una giovane donna, a venti anni di reclusione – inflitti con rito abbreviato – per il tentato assassinio della madre, e l’omicidio della sorella, i cui resti, carbonizzati, furono ritrovati due mesi dopo il delitto. Sottoposta a perizia, alla criminale venne riscontrato un vizio parziale di mente. Incapacità parziale accertata, però – lo si noti – non a seguito della somministrazione degli usuali test psichiatrici – bensì con ricorso alle accennate indagini neuropsicologiche, che evidenziarono la presenza di alleli significativamente associati “ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento”.

Gli esiti delle descritte perizie, dunque, non avevano fatto altro che avvalorare – vestendola di valore scientifico – l’ipotesi che le attività cognitive (controllo del comportamento, pianificazione, distinguo giusto/ingiusto), siano legate al funzionamento di specifiche strutture cerebrali, localizzate soprattutto nel lobo frontale. È in quella regione del cervello, pertanto, che risiederà la maggiore differenziazione tra soggetti sani e folli criminali, laddove una diversa densità dei neuroni, unitamente ad altri fattori, potrà segnare il passo tra l’azione coerente e quella delittuosa.

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È agevole affermare, allora, nel chiudere le maglie della rubrica, come sia la pronuncia triestina, che quella comasca, gridino con forza l’esigenza che il sistema penalistico italiano, si allinei allo standard d’oltreoceano, sempre più proteso all’ingresso nel processo di specifiche indagini sulla condizione psichica del reo, condotte mediante le più evolute tecniche peritali (indagini cromosomiche, diagnosi descrittive, risonanza magnetica dell’encefalo).

Il legale dell’individuo autore di un delitto particolarmente cruento, dunque, potrà inserire nel bagaglio difensivo, l’opportunità di far ricorso a perizie neuro scientifiche, tese ad ottenere – dati alla mano – la comminazione di sanzioni adeguate all’effettivo stato mentale riscontrato nell’assassino all’atto di uccidere, stante l’eventuale presenza di anomalie genetiche e biologiche, idonee ad influire in maniera non indifferente, sulla perpetrazione del crimine. E se – come sostiene il Dott. Nicholas Mackintosh, professore di psicologia sperimentale all’Università di Cambridge – avere “un cervello psicotico non costituisce una difesa generica contro un’accusa di reati penali”, sarà consentito azzardare l’ipotesi del delinearsi, mi si permetta l’assunto, di una “nuova” imputabilità, disegnata su misura del singolo individuo sottoposto a processo.

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