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Lo strano caso della Coscienza nella guerra tra Cognizioni ed Emozioni

Il rapporto tra cognizione ed emozione e il ruolo della coscienza. Si tratta di dibattiti teorici che hanno contraddistinto la psicoterapia cognitiva (forse l’intera psicologia) sin dal giorno della sua nascita.

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 17 Gen. 2012

Aggiornato il 02 Feb. 2015 11:51

 

Lostrano caso della coscienza. Immagine: © puckillustrations - Fotolia.comMi interrogo da molto tempo, per la precisione da quando ho iniziato questo mestiere, su due temi affascinanti: il rapporto tra cognizione ed emozione e il ruolo della coscienza. Si tratta di dibattiti teorici che hanno contraddistinto la psicoterapia cognitiva (forse l’intera psicologia) sin dal giorno della sua nascita.

Penso ai padri fondatori della Psicoterapia Cognitiva: Aaron Beck e Albert Ellis (Beck et al., 1987; Ellis, 1989). Uno degli elementi che i due teorici condividevano era l’idea che le emozioni fossero il prodotto di diverse valutazioni del mondo (cognizioni).

Ecco che allora anche eventi stressanti come la fine di una relazione sentimentale possono essere letti come “finalmente riprendo in mano la mia vita” o come “resterò solo”. Due valutazioni cognitive differenti che danno adito a due emozioni differenti. La teorizzazione di Beck ed Ellis non poteva che essere condizionata dal contesto storico-scientifico in cui si stava sviluppando. Un nuovo pargolo, il cognitivismo, aveva bisogno di sgomitare in mezzo ai due colossi allora imperanti: la psicoanalisi e il comportamentismo. Quest’azione di sgomitamento portò inevitabilmente queste prime teorie cognitive a estremizzarsi su alcuni punti. Quali? Beh, quelli che maggiormente marcavano il confine con i due oppositori. Ecco che:

1.Primo punto (anticomportamentista): della mente si può parlare, non siamo davanti a una scatola nera anzi è proprio nella mente dell’individuo che si riscontra quel mediatore che produce differenti emozioni soggettive a fronte delle stesse esperienze.

2.Secondo punto (antipsicoanalista): tutto questo processo è totalmente cosciente, i processi impliciti inconsapevoli non vengono (inizialmente) tradotti all’interno di queste nuove cornici teoriche, figuriamoci il concetto di inconscio.

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A onor del vero questa spinta estremista iniziale si è decisamente moderata negli anni, anche da parte degli stessi autori. Tuttavia ha marchiato la nascita del cognitivismo e ha fatto in tempo a generare qualche confusione nelle generazioni successive. Questa confusione, chiamiamolo pure limite, può essere identificata nella sovrapposizione quasi totale tra cognizione e coscienza (“le cognizioni sono solo coscienti”).

 

Teniamo questa piccola deformazione nel cassetto del corredo genetico del cognitivismo e vediamo il suo impatto lungo la sua storia evolutiva. Dopo una prima età dell’oro in cui il cognitivismo cresceva con grandi successi, vincendo numerose sfide cliniche, eccolo incocciare nei primi intoppi: i cosiddetti “pazienti difficili” (Roth & Fonagy, 2004). Tra i vari punti critici che sollevava l’incontro con simili pazienti, uno di quelli che faceva storcere il naso ai cognitivisti era proprio lo strano rapporto tra pensieri ed emozioni. In particolare la legge del paradigma cognitivo sembrava non reggere, le emozioni apparivano indipendenti dalle valutazioni coscienti. Non solo, ma non si riusciva nemmeno a identificare la presenza di un pensiero o di una valutazione, ma l’emozione poteva giungere in modo inspiegabile alla mente dell’individuo.

Immagino la brama di alcuni e l’entusiasmo di alti nell’aver colto la falla nel sistema dei grandi padri fondatori. E la conseguente aspirazione a fondare un nuovo movimento, l’alzata degli stendardi dell’emozione e il radunarsi di aspiranti teorici, talvolta passionali talvolta semplicemente individualisti. Nacque il tempo della rivoluzione teorica e del ribaltamento emotivo. Da troppo tempo nelle mani di freddi e biechi sostenitori del razionalismo, si doveva finalmente riconoscere la vena romantica e sentimentale dell’essere umano e recuperare il ruolo principe delle emozioni come nucleo, unico e solo, della lettura e del trattamento dei disturbi psicologici!

Ed ecco, com’è affascinante il comportamento umano, che quella necessità di mettersi totalmente dalla parte della coscienza ha generato negli anni la frattura su cui si è instaurata la rivoluzione emotiva. Ma guardiamola bene questa rivoluzione emotiva. Vedete, tutti i rivoluzionari emotivi hanno avuto bisogno di sgomitare oltre il padrone e gigante cognitivo-comportamentale. E ancora una volta, questo sgomitare per raggiungere certi riflettori porta a essere un po’ troppo estremisti e a dimenticar dei pezzi. I rivoluzionari emotivi avevano quindi bisogno di prendere le distanze dal cognitivismo e lo fecero lungo due assi:

  • Le emozioni possono essere precognitive, la valutazione cognitiva è solo una valutazione a posteriori.
  • Alcune emozioni nascono da vulnerabilità sviluppatesi durante la storia evolutiva dell’individuo (sotto forma di stili genitoriali dannosi o esperienze traumatiche), fuori cioè dalla sua coscienza.

Due cardini del cognitivismo messi sotto attacco: (1) il ruolo delle cognizioni sulle emozioni, (2) l’importanza del funzionamento attuale su quello storico-evolutivo.

Ma a guardar bene, cosa è rimasto inalterato in questa terza ondata? L’efficacia non mostra differenze sostanziali, anche se qualche innovativo spunto è stato raggiunto (Ost, 2008). Ma soprattutto non cambia la sovrapposizione tra cognizione e coscienza. Nonostante la percezione del malessere si inserisce nella coscienza e talvolta nemmeno in modo chiaro, ciò non significa che non siano stati precedentemente attivati processi cognitivi. Come può non esserci un diverso processo percettivo, attentivo, valutativo anche se non necessariamente cosciente, precursore dell’attivazione fisiologica di varia natura? Ma il fatto che non siano coscienti, significa che non sussistono?

Forse la strada della futura integrazione passa attraverso uno studio scientifico più approfondito su come cambia l’espressione fenotipica del rapporto tra cognizioni ed emozioni lungo il continuum di diversi gradi di coscienza, piuttosto che una lotta per focalizzare l’intervento su uno dei due aspetti. L’inserimento della variabile “coscienza”nel rapporto tra cognizioni ed emozioni potrebbe aprire uno spiraglio di alleanza tra le parti di questa diatriba e forse fittizio dilemma. Forse così potremmo smettere di assistere al proliferare costante di nuove teorie della mente (talvolta più filosofiche che scientifiche) che funzionano solo per una porzione di individui e che appaiono soddisfare soprattutto i bisogni di chi le promuove.

Ovvio che da ricercatore la domanda malinconica è: ma la scienza può muoversi secondo questi circuiti distorti e parziali fatti del bisogno umano di contrapporsi e rifondarsi? Beh, siamo uomini quindi evidentemente può, ma anche qui introdurre la nostra coscienza può aiutarci nel buon discernimento.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Beck, A.T.; Rush, J.A., Shaw, B.F. & Emery, G. (1987) Terapia Cognitiva della Depressione. Torino: Bollati Boringhieri
  • Ellis, A. (1989). Ragione ed emozione in psicoterapia. Roma: Astrolabio
  • Ost. L.G. (2008). Efficacy of the third wave of behavioral terapie: A systematic review and meta-analysis. Behavior Research and Therapy, 46(3), 296-321. (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S000579670700246X)
  • Roth, A. & FonagyP. (2004). What Works for Whom?. Guildford Publisher

 

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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