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Psicoterapia Cognitiva e Relazioni Oggettuali: Dialogo Possibile?

Può la psicoterapia cognitiva dialogare con la teoria delle relazioni oggettuali? Possiamo pensare ad un possibile dialogo?

Di Gianluca Frazzoni, Silvia Dioni

Pubblicato il 09 Gen. 2013

 

Psicoterapia Cognitiva e Relazioni Oggettuali: Dialogo Possibile?. - Immagine: © djama - Fotolia.comPuò la psicoterapia cognitiva dialogare con la teoria delle relazioni oggettuali? Possiamo pensare ad un possibile dialogo?

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Possiamo pensare, da terapeuti cognitivisti, che i pazienti riproducano con noi gli stessi schemi disadattivi che hanno imparato nelle loro relazioni familiari più significative? E soprattutto, possiamo credere che anche un lavoro terapeutico di impronta cognitivista possa orientarsi all’individuazione di conflitti che agiscono nell’organizzazione mentale del paziente?

A nostro avviso sì, con alcune precisazioni. In primo luogo, i pattern relazionali che Kernberg e collaboratori (2012) considerano inconsci e risultanti dall’applicazione di meccanismi difensivi rigidi, nella prospettiva cognitivista possono essere descritti come automatismi di processo che il paziente segue nel tentativo di preservare significati coerenti e controllabili su di sé e sul mondo; in seconda battuta, ciò che dal punto di vista psicoanalitico viene definito “conflitto” può essere riformulato in termini cognitivisti parlando di inflessibilità degli scopi o del progetto di vita. E questa rigidità che preclude al paziente l’esplorazione di possibilità alternative si forma in relazioni familiari – oggettuali? – che legittimano e consolidano una modalità univoca di lettura dell’esperienza.

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Elisa è una paziente affetta da sintomatologia ossessiva, con una famiglia gravemente criticista e squalificante; la sua passione più grande è la pittura, che durante il percorso terapeutico assume connotati sempre più precisi: attraverso l’arte Elisa cerca riscatto e consolazione dalla relazione coi genitori, tuttora incapaci di riconoscere le sue qualità umane (sensibilità, creatività) prima che pittoriche. Il costrutto fondamentale che regola l’esperienza di Elisa, “sono stupida”, le impedisce di abbandonare le ossessioni e coltivare serenamente l’attività artistica, per due motivi: da un lato la convinzione di non avere capacità le fa sovrastimare la possibilità di insuccesso in tutte le azioni che intraprende – fra le altre, realizzare nei suoi lavori le istruzioni dell’insegnante di disegno -, dall’altro la necessità di dimostrare il proprio valore ai genitori conduce ad un aumento sproporzionato degli standard perfezionistici, premessa di nuovi insuccessi. Lo scopo di Elisa, “devo convincere i miei genitori che non sono stupida”, è diventato un piano di vita inflessibile che non trovando mai risoluzione genera stati emotivi intollerabili; il funzionamento ossessivo – timore del contagio e lavaggio delle mani – rappresenta quindi il tentativo non mentalizzato di controllare l’emozione penosa.

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Leggendo questo caso secondo i tratti delle relazioni oggettuali e conservando un legame di senso con la teoria cognitivista, è possibile affermare che Elisa abbia elaborato il proprio tema di vita come logica conseguenza dell’esplicita invalidazione che i genitori hanno rivolto a lei e al suo scopo originario, diventare una pittrice.

Nella relazione col terapeuta Elisa riproduce lo schema conosciuto, definendosi a più riprese stupida e testando il clinico sulle reazioni che queste parole elicitano in lui. “Sarò stupida anche per il terapeuta?” sembra chiedersi quando racconta di sé; il lavoro sulla relazione assume un ruolo centrale affinché Elisa possa sperimentare un modello di accettazione emotiva credibile, superando i conflitti e le tematiche inflessibili che l’hanno portata a sviluppare il suo malessere.

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Sabrina sta per laurearsi in medicina, ma si è bloccata al penultimo esame; sostiene di aver frequentato l’università solo ed esclusivamente per accontentare i genitori e critica aspramente l’ambiente ospedaliero, che detesta. Nel tempo libero realizza bomboniere e oggettistica in decoupage, che poi rivende nei mercatini della sua zona; se fosse libera di scegliere opterebbe senza alcun dubbio per dedicarsi a tempo pieno a questa sua attività creativa, ma l’immagine dei genitori che scuotono la testa e si rammaricano di avere una figlia inetta che non riesce neanche a laurearsi la paralizza in una condizione di stallo su entrambi i fronti.

Il rapporto con i genitori, in particolare con il padre, è infatti una storia di umiliazioni e bisogni frustrati, in cui la paziente si ricorda oggetto, da una parte di irragionevoli pretese di eccellenza, e dall’altra di lamentele rabbiose per la pochezza delle sue doti intellettuali e le abilità ordinarie e scadenti.

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 Nella relazione terapeutica è molto accondiscendente: sempre puntualissima agli appuntamenti, non dimentica mai di svolgere con la massima cura un compito a casa, se le capita di dover rimandare un incontro lo fa con decine di messaggi infarciti di faccine e desolazione; spesso durante il colloquio chiede conferma di aver capito bene la domanda e di aver risposto adeguatamente. Non sembra orientata più di tanto a stabilire un rapporto collaborativo che l’aiuti a chiarirsi le idee e a capire il perché delle sue difficoltà, benché questa sia stata la sua domanda iniziale; quello che le preme prima di tutto è dimostrare di essere una brava bambina, esorcizzando così il rischio di poter essere criticata e malgiudicata. Lei per prima si affanna a definirsi pasticciona, distratta, smemorata, quasi a volermi scoraggiare dal prendermi la briga di essere io a farle delle osservazioni; la sua autosvalutazione è tale che non avrei spazio per rincarare la dose. In realtà però dagli aneddoti della sua giornata emerge poi il ritratto di una ragazza estremamente scrupolosa e competente, l’unica che possa vantare un buon repertorio di valori morali su un palcoscenico di lazzaroni, e a stento trattiene la rabbia all’idea che gli altri interpretino come pedanteria la sua diligenza. Si ha effettivamente la sensazione che la relazione terapeutica riattivi prepotentemente uno schema antico, innescando ogni volta nella paziente il conflitto tra il bisogno assoluto di dimostrarsi all’altezza ed essere apprezzata e il tentativo narcisistico di proteggere un’autostima massacrata da anni di rimproveri e svalutazioni. Tuttavia, dietro questa tendenza passiva a compiacere a tutti i costi, si intravede una rabbia latente che rischia di tradursi in un inaudito ultimo atto, con il sabotaggio a sorpresa del progetto esistenziale formulato per lei dai genitori: l’abbandono dell’università a un passo dal traguardo.

In conclusione si può ritenere che la teoria delle relazioni oggettuali, pur essendo concettualmente distante dall’impostazione cognitivista, fornisca spunti utili a interpretare la storia e l’evoluzione sintomatologica del paziente, la sua organizzazione poco flessibile; lavorare sul funzionamento psicologico, sulla struttura che determina il mantenimento degli aspetti problematici, significa in primo luogo instaurare dei legami fra il contesto attuale e i diversi apprendimenti disfunzionali, individuando nelle relazioni più significative il luogo in cui tali acquisizioni sono maturate.

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Silvia Dioni
Silvia Dioni

Psicologa Psicoterapeuta laureata presso l’Università degli Studi di Parma e specializzata in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale all’Istituto “Studi Cognitivi” di Modena.

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