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Disturbi di Personalità & Schizofrenia – Report del Seminario

Disturbi di Personalità & Schizofrenia - Report del Seminario: Unire la pratica psicoterapeutica con i dati della ricerca psicologica e neuroscientifica.

Di Redazione

Pubblicato il 20 Mag. 2013

 

Di Carmelo la Mela

Scuola Cognitiva di Firenze 

Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva

 

Sabato 11 maggio a Firenze c’era il sole.

 

Dal Seminario:

Disturbi di Personalità & Schizofrenia

 

 

Seminario 11 Maggio 2013, Firenze – Disturbi di Personalità & Schizofrenia

Un modo moderno di fare e insegnare psicoterapia che cerca di unire la pratica psicoterapeutica con i dati della ricerca psicologica e neuroscientifica.

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C’era una bell’aria sabato scorso a Firenze, finalmente un bel sole che invitava a stare fuori, andare al mare o fare un bel giro in moto o un po’ di cicaleccio seduti ad un bar con gli amici. Circa 150 persone hanno preferito venire a sentir parlare di terapia cognitiva della schizofrenia e dei disturbi di personalità.

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Perversione? Parafilia? Non lo so, so che era una bella sensazione vedere una sala piena di giovani ed ancora più bello vedere che sono rimasti tutti fino alla fine della giornata. Certo, il menu della giornata ed i  cuochi erano di primo livello: Paul Lysaker, Giancarlo Dimaggio, Raffaele Popolo, Roberto Lorenzini , Giovanni Ruggiero e Sandra Sassaroli che parlavano di “Nuove acquisizioni della terapia cognitiva per la schizofrenia e i disturbi di personalità” presentando i  rispettivi modelli, di Terapia Metacognitiva Interpersonale i primi, ed un nuovo modello proposto dal gruppo di Studi Cognitivi per la terapia dei pazienti difficili chiamato LIBET. Il sottoscritto ha coordinato i lavori e partecipato alla tavola rotonda sui disturbi di personalità.

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com -
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Il presupposto di partenza era chiaro: la terapia cognitiva funziona, è supportata da solidi dati di efficacia forniti da ricerche controllate, la sua azione terapeutica viene studiata anche con ricerche di neuroimaging  (Goldapple, 2004) che ne chiariscono la specificità dei meccanismi d’azione.

E anche le conseguenze erano implicitamente chiare: per certi pazienti affetti da alcune patologie tipicamente ben descritte in letteratura, è deontologicamente corretto applicare il protocollo terapeutico di CBT standard così come descritto in molti testi, anche in italiano, e come viene insegnato nelle nostre scuole. La CBT che funziona è questa, stop, le contaminazioni teoriche più o meno affascinanti hanno un alto  prezzo in termini di affidabilità dei risultati.

Questa premessa ci è servita per mettere meglio a fuoco il tema del nostro convegno, cosa si fa coi pazienti difficili? Quei pazienti che vengono usualmente nei nostri ambulatori, con doppie diagnosi, con tratti o disturbi di personalità associati a sintomi di asse I, con modalità relazionali tali da mettere in difficoltà fin dall’inizio l’alleanza terapeutica.

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Un paziente che non sai mai come prendere, che non offre un punto di partenza oppure ne offre troppi, per cui la terapia diventa una serie di prime visite sempre con un problema nuovo. Le relazioni presentate hanno proposto 2 modelli di intervento con questi pazienti difficili, il primo, da una prospettiva metacognitiva, il secondo, presentato da Sassaroli, rappresenta una cornice teorica originale che integra gli aspetti tipici del cognitivismo standard per la comprensione del funzionamento attuale del disturbo, con elementi della storia evolutiva del paziente per una concettualizzazione che permette di comprendere i limiti e la vulnerabilità dell’assetto personologico, dando così senso allo scompenso sintomatico.

Un primo elemento da sottolineare è che le due prospettive  si muovono entrambe  in  grande coerenza teorica  con il modello CBT, si tratta realmente di modelli di intervento per  pazienti che la CBT standard droppa, quindi propongono strumenti terapeutici nuovi ma in sintonia con la “casa madre”. Tranquilli però, non si tratta né di nuove ondate (la quarta? la terza bis?) né di risacche autoreferenziali, ma di uno sforzo serio partendo dalla clinica e dai pazienti “veri”, di applicare il programma di ricerca tipico della CBT: come funziona la mente di questo paziente? Perché non smette di soffrire? Quali sono gli interventi terapeutici coerenti con il modello di funzionamento psicopatologico?

Lysaker, Dimaggio, Popolo hanno enfatizzato il deficit metacognitivo come disturbo di base nella schizofrenia e nei disturbi di personalità, presentando un modello di psicoterapia, derivato dal lavoro di ricerca da loro svolto negli ultimi anni in collaborazione con altri gruppi internazionali, che focalizza l’intervento su una costante operazione di monitoraggio e controllo dei contenuti mentali propri e dell’altro con la finalità di migliorare la gestione degli stati problematici e la regolazione emotiva.

Non siamo dalle parti di Wells e delle sue convinzioni disfunzionali sui pensieri automatici negativi, ma in un’area che studia un’abilità che sottende la capacità di comprendere i propri e gli altrui stati mentali per poter fare delle ipotesi sulle motivazioni alla base del comportamento degli altri finalizzati al miglioramento della relazione interpersonale.

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Insomma qualcosa che ha molto a che fare con il senso di sé, con l’immagine che abbiamo dell’altro e del modo con il quale costruiamo e regoliamo le relazioni. Iniziano ad accumularsi dati riguardo al substrato neurobiologico e ai circuiti neurali coinvolti nel funzionamento di queste funzioni psicologiche (Fleming, 2012) e questo dà al lavoro di Dimaggio e dei suoi colleghi una prospettiva di verifica e supporto neuroscientifico che attualmente rappresenta l’unica strada per proporre nuovi modelli psicologici di funzionamento mentale.

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L’altra strada è quella intrapresa da Sassaroli e dal suo gruppo, chiamiamola bottom up, dove l’esperienza clinica con pazienti che non rispondono alla terapia protocollata né alle varianti più o meno ortodosse, li ha portati a ripensare il percorso terapeutico: l’evidenza di difficoltà nella relazione terapeutica ed il fatto che spesso questi pazienti vengono da storie difficili, relazioni precoci complicate, caratterizzate da episodi dolorosi ripetuti nell’età di sviluppo, hanno portato Sassaroli all’ipotesi che un sistema cognitivo si costituisca a partire dalla sintesi di “temi dolorosi”, nuclei di significato centrali nel sistema cognitivo, che funzionano come principi organizzatori che, in modo non consapevole, fanno da volano alla costruzione di un progetto esistenziale più o meno funzionale che consente di dare una direzione e un senso alla propria esistenza, “piano di vita” lo definiscono gli Autori.

Un piano di vita  diventa patologico quando è caratterizzato da un insieme limitato di scopi, evitanti e protettivi, inflessibili e monodimensionali, che non permettono l’esplorazione di altri scopi e bisogni esistenziali, con il rischio di andare incontro ad uno scompenso  e  alla comparsa di una sintomatologia clinica. A questo punto il lavoro terapeutico permette al terapeuta di comprendere il sintomo all’interno di una cornice personologica, fatta di temi e piani di vita, e di proporre al paziente l’attuale fase clinica anche come l’esito di uno stile di vita che ha avuto la sua ragion d’essere, funzionale e adattiva nel passato, ma che è attualmente disadattivo e limitante.

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Da questo presupposto concettuale, condiviso col paziente, prende il via un intervento terapeutico finalizzato alla risoluzione della sintomatologia ma all’interno di un progetto di ristrutturazione del piano di vita attraverso l’uso di tecniche standard cognitive, comportamentali insieme a tecniche relazionali ed esperenziali, in sintonia con l’obiettivo terapeutico che vogliamo raggiungere in quel momento. 

E’ evidente da quanto detto, che esperienze relazionali precoci di tipo traumatico, pattern di attaccamento insicuro o ancor di più, una disorganizzazione dello stile di attaccamento, possono rappresentare elementi particolarmente significativi nella sintesi di temi di vita patologici.

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Ed è per un altro verso un dato ormai acquisito il rapporto tra qualità dello sviluppo di abilità metacognitive ed eventi relazionali traumatici, con una relazione diretta tra esperienze traumatiche e deficit metacognitivi.

L’ ipotesi che ho proposto alla riflessione di tutti è che proprio gli esiti deficitari sulle capacità metacognitive  dovuti ad una storia evolutiva caratterizzata da traumi cumulativi precoci fanno sì che in certi pazienti non sia identificabile un unico tema di vita doloroso, gerarchicamente sovraordinato, che diventi il principio organizzatore di sistema organizzato su uno o pochi piani semiadattivi e patologici.

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A volte in alcuni pazienti gravi possiamo rintracciare più temi non organizzati gerarchicamente tra loro, che hanno portato a più piani di vita anch’essi non coerentemente organizzati tra loro, in modo tale da farci apparire la loro vita (cosi come a volte le  sedute con loro) confusa, caotica ascopica perché multiscopica  o forse meglio caleidoscopica, con fasi temporalmente circoscritte di funzionamento: un pezzo di famiglia, un figlio, qualche anno di lavoro, ma nel complesso disorganizzate.

Un quadro clinico di questo tipo trova nel nuovo DSM-5 una sua descrizione perfetta nella sezione dei disturbi di personalità, non più descritti in modo categoriale ma attraverso un sistema che dà la possibilità di misurare anche il funzionamento della personalità attraverso due domini, il dominio del sé e quello interpersonale. E’ il primo quello che ci interessa rispetto alla dimensione dell’autodeterminazione, definita come la capacità di perseguire obiettivi coerenti e significativi sia a breve termine che esistenziali, di utilizzare standard di comportamenti interni costruttivi e prosociali, di riflettere su sè stessi in maniera produttiva.

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Il convegno si è concluso con una tavola rotonda nella quale si è discusso ciò che unisce e ciò che differenzia i diversi modelli proposti, con la sensazione condivisa di una sintesi possibile e prossima.

Il Disturbo Borderline di Personalità - Una Cascata Emotiva - State of Mind
Il Disturbo Borderline di Personalità – Una Cascata Emotiva – State of Mind

E’ questo direi lo spirito che anima le scuole di Studi Cognitivi, scuole che vogliono insegnare la CBT standard, ma che continuano a studiare e fare ricerca originale per rispondere a quei pazienti “difficili”, per cui la CBT non funziona, mettendo a punto un modello di intervento coerente con i presupposti teorici, compatibile ed integrabile con altri dati provenienti dalla ricerca psicologica, e che vuole confrontarsi con i temi attuali della metacognizione, della gestione e regolazione della relazione terapeutica.

Un modo moderno di fare e insegnare psicoterapia che cerca di unire la pratica psicoterapeutica con i dati della ricerca psicologica e neuroscientifica.

C’era un bel sole sabato scorso a Firenze, ma anche l’aria che si respirava al convegno in via fratelli Rosselli non era affatto male.

LEGGI:

CONGRESSI –  SCHIZOFRENIA – DISTURBI DI PERSONALITA’ – PSICOTERAPIA COGNITIVA – SCOPI ESISTENZIALI – TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

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