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Chi siamo? Quando l’identità era solo personale e sociale

Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad un radicale passaggio dall'identità sociale e personale a quella che mostriamo sui social network

Di Mariangela Monaca

Pubblicato il 02 Ott. 2023

Identità personale e identità sociale

Quando ci viene chiesto chi siamo, basta pensarci poco. Iniziamo con nome, età, professione, breve descrizione familiare. Possiamo aggiungerci colore e musica preferita, preferenze per lo sport. La nostra identità personale è fatta di quelle poche nozioni basilari che servono a dare un’idea di ciò che, almeno a livello superficiale e grossolano, rappresentiamo.

Altra storia per quanto riguarda l’identità sociale. Questa rappresenta la tendenza dell’individuo a sentirsi appartenente ad un gruppo o categoria e, perciò, identificarsi con esso (Tajfel & Turner, 1986). In tutto ciò sono inclusi sentimenti di lealtà e fiducia verso gli altri componenti del gruppo, voglia di collaborare, percezione di “distintività” e “unicità” di ciascun individuo appartenente al gruppo rispetto ai componenti dei gruppi opposti (outgroup), per utilizzare i termini proposti dagli studiosi che si sono dedicati alla teoria, o meglio, all’approccio dell’identità sociale.

Dall’identità sociale all’identità social

Negli ultimi tempi, in particolare durante l’ultimo ventennio, stiamo assistendo ad un radicale passaggio dalle identità personali e sociali all’identità social. Come diceva Lancini (2019, p.71) “il concetto di identità [..] permette di definirsi come un soggetto appartenente a un determinato contesto, con il quale si intrattengono relazioni e nel quale si ricoprono ruoli riconosciuti e relativamente stabili”. Nel caso dei social network l’individuo presenta se stesso in una forma di identità desiderata e, per così dire, ideale piuttosto che per quella reale. A partire dalle foto. Si ha la particolare tendenza a modificare una semplice foto di se stessi con filtri, sfondi, frasi e musiche ad accompagnare, quasi per sviare l’altro e farlo focalizzare su ciò che può attrarre piuttosto che su una foto acqua e sapone.

Ma riprendendo Lancini, l’identità non è un dato innato e statico ma qualcosa sempre in divenire, fatto di processi cognitivi e affettivi allo stesso tempo. Inoltre, “nel principio della vita psichica c’è la dipendenza dallo sguardo dell’altro adulto, la necessità di “essere visti”, che significa anche essere compresi [..]” (Lancini, 2019, p. 72). Stessa cosa accade attraverso i social. L’individuo necessita di essere visto, notato, apprezzato e riconosciuto. I social sono diventati, per dirla alla Lancini, “l’altro adulto” di cui abbiamo bisogno per interfacciarci.

Ma quando sono diventati così rilevanti i social? Marc Prensky già nel 1985 coniava il termine di millennials per fare riferimento alle nuove generazioni di nativi digitali che nascevano e crescevano nell’era delle nuove tecnologie (Prensky, 2013). Erano gli anni dei primi pc con sistema operativo Windows e di tutto ciò che verrà riprodotto a partire dai semplici pc. I millennials sono tutti coloro che sono cresciuti in totale simbiosi e armonia con qualsiasi cosa concerne le nuove tecnologie e senza le quali si sentirebbero a disagio.

Nonostante sia un mezzo caratterizzato dalla comunicazione a distanza e dall’assenza del corpo, la rete ha cominciato progressivamente a “prendere corpo”. Le nuove tecnologie, infatti, non vengono più utilizzate come mero strumento informativo ma, a partire dall’introduzione di un’immagine digitale, come già anticipato precedentemente, iniziano ad acquisire sempre più importanza e centralità all’interno della vita dell’individuo. La corporeità la si può trovare in vari modi. Ad esempio, con YouTube una canzone si può ascoltare, ma soprattutto vedere, e ci rendiamo conto che spesso è più soddisfacente e appagante fruire del video di un concerto live piuttosto che ascoltarlo soltanto. Perché, oltre ad ascoltare, la musica la ‘vediamo’, la completiamo con una partecipazione emotiva maggiore. Ci sembra quasi di essere lì, nel momento in cui si è svolto quel concerto e godere, insieme alla folla, dell’esibizione (Denicolai, 2014).

I social network, sono diventati, quindi, reti “emotive” fatte di conoscenza, condivisione, contatto. Così facendo, la rete assume un ruolo nel processo di costruzione identitaria. Ma presentarsi sul Web implica scegliere “cosa” e “come” presentarsi e aspettarsi di ricevere in base ai rimandi che si ottengono (quantità e qualità di like e followers dicono molto della nostra identità social). Le interazioni avvengono spesso online attraverso i social, e questi ultimi contribuiscono anche a veicolare le emozioni esperite (Cerulo M, 2020). È questo lo “standard de facto” (Massarotto, 2011) con cui le persone si stanno abituando a comunicare e ad instaurare relazioni interpersonali, di natura affettiva ma anche lavorativa e professionale.

Quali cambiamenti

Come far fronte a questo repentino cambiamento? Come destreggiarsi tra l’identità fuori e quella dentro i social? Siamo realmente capaci di distinguere chi siamo da chi vorremmo essere? E a che tipo di identità andranno incontro le nuove generazioni? A questa tipologia di domande ha cercato di dare delle risposte Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco naturalizzato inglese.

Egli parte dal concetto di desembedding (sradicamento, in italiano) di Antony Giddens che si soffermava sulla costruzione delle relazioni in epoca post-moderna con la continua mobilità e, perciò, alla diversa formazione dell’identità intesa come percezione del proprio posto nel mondo. Bauman dice: “se il moderno problema dell’identità riguardava come costruire un’identità e mantenerla solida e stabile, il problema post-moderno dell’identità riguarda primariamente come evitare la solidificazione e lasciare aperte le strade”. Secondo l’autore, infatti, viviamo nell’incertezza rispetto alla nostra collocazione sociale. Non sapendo come collocarci rispetto all’altro risulta difficile adottare misure di comportamento adeguate e ci misuriamo in base a chi abbiamo davanti. Di conseguenza, secondo Bauman l’identità è un’invenzione moderna, in quanto la ricerca di coerenza dipende dai continui cambiamenti a cui è sottoposta la società. Saranno le nuove generazioni, allora, ad indicare la strada per un nuovo significato tutto da costruire intorno al concetto di identità. O magari il “problema” dell’identità verrà sostituito da altro e rimarrà solo un lontano ricordo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bauman Z. (1995). Life in fragments. Essays in postmodern morality. John Wiley and sons Ltd. 
  • Cerulo M. (2020). Giovani e social network. Emozioni, costruzione dell’identità, media digitali. Roma. Carocci Editore.
  • Denicolai L. (2014). Riflessioni del sé. Esistenza, identità e social network. MEDIA EDUCATION –Studi, ricerche, buone pratiche© Edizioni Centro Studi Erickson S.p.a.ISSN 2038-3002-Vol. 5, n. 2, anno 2014, pp. 164-181
  • Giddens A. (1994). Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio. Sicurezza e pericolo. Il Mulino. 
  • Lancini, M. (2019). Il ritiro sociale negli adolescenti. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Massarotto M. (2011). Social network. Costruire e comunicare identità in rete. Apogeo. Milano.
  • Prensky M. (2013). La menta aumentata. Dai nativi digitali alla saggezza aumentata. Erickson. 
  • Tajfel, H., & Turner, J. C. (1986). The social identity theory of intergroup behavior. In S. Worchel & W. G. Austin (Eds.), Psychology of intergroup relations (pp. 7-24). Chicago: Nelson Hall.

Sitografia

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