Nell’elaborare la nostra identità, co-costruiamo la storia della nostra vita, ignari, probabilmente, che i ricordi non sono delle fotografie fedeli di ciò che ci è accaduto, ma frutto di una ri-elaborazione che, spesso, associa la realtà degli eventi con sensazioni ed interpretazioni personali frutto del momento della narrazione.
…L’esistenza precede l’essenza…
(Sartre, J.P., 1945).
Auto-narrazione e memoria di sé
Il processo di costruzione della narrativa del sé viene definito da Bruner (2004) “self-telling”, ovvero ”auto-narrazione”; questo processo permette ad ognuno di noi di acquisire consapevolezza delle proprie scelte personali.
La letteratura, in tal senso, evidenzia come la ripetizione dei ricordi autobiografici e le aspirazioni per il futuro siano le basi attraverso le quali l’essere umano costruisce e ricostruisce il proprio sé e la propria identità attraverso la narrazione, che diventa quindi un fattore principale nella definizione di se stessi (Fivush & Nelson, 2004).
Costruire la propria identità, intesa come trama di sé stessi, diventa, in questo modo, una vera e propria arte narrativa alla stessa stregua della crescita. L’esigenza di adattarsi alle diverse situazioni socio-ambientali indurrebbe l’individuo a produrre storie di sé stesso e a modificarle, qualora per esempio, queste ultime non corrispondano più all’Ideale dell’IO, che ognuno di noi costruisce attraverso l’amalgamarsi al sociale (Bruner, 2002).
Identità e realtà esterna
Secondo l’autore, quindi, proprio tornando all’Ideale dell’Io –per dirla con le parole di Freud– la costruzione di se stessi è condizionata o vincolata da modelli culturali impliciti che plasmano le rappresentazioni che noi raccontiamo di noi stessi.
In questo modo il senso di unicità di ciascuno di noi dipenderebbe dal confronto, spesso impari, tra il mondo interno fatto di ricordi e di sentimenti personali e dalle aspettative culturalmente connotate della realtà sociale in cui viviamo (Bruner, 2004).
A questo punto si potrebbe fare una riflessione: “Quanto il racconto interno di se stessi, degli episodi della propria vita, e delle aspettative sociali contribuiscono a creare il proprio personaggio?” “Quanto il marchio che sentiamo di portare è frutto della nostra costruzione e quanto, invece è inciso dagli altri?”
“Quanto ciò che sappiamo di noi, attraverso ciò che gli altri ci hanno raccontato, corrisponde a quello che siamo?”
McAdams sottolinea: “il sé è molte cose, ma l’identità è la storia di vita; l’identità assume la forma di una storia, con setting, scene, personaggi e trame”. (McAdams, 1985)
Parafrasando queste parole si può scorgere un trait d’union tra rappresentazioni passate e attuali che vanno a costruire il senso del sé che potrebbe proiettarsi nel futuro.
Durante l’adolescenza e nella prima fase della età adulta inizia a svilupparsi il concetto di identità personale, concetto che non può essere slegato dall’ambiente sociale, culturale e famigliare, nel quale l’individuo inizia a muovere i primi passi.
Durante la narrazione di un ricordo autobiografico bisogna tener conto dell’importanza che assume il “pubblico di ascoltatori”, quindi, il ruolo del narrarsi come atto connotato da un’importante componente sociale che nel bene o nel male influenza la trama della nostra storia personale; nel raccontarci co-costruiamo la storia della nostra vita, ignari, probabilmente, che i ricordi non sono delle fotografie fedeli di ciò che ci è accaduto, ma frutto di una ri-elaborazione che, spesso, associa la realtà degli eventi con sensazioni ed interpretazioni personali frutto del momento della narrazione.
Diventa, inoltre, importante sottolineare il ruolo della componente sociale nella narrazione di un ricordo autobiografico, in quanto comportamento sociale, che va ad influenzare la “life story” nel momento stesso in cui viene narrata.
Costruzione dell’identità e acquisizione del linguaggio
L’approccio evolutivo e socio-interazionista è collegato con il processo di apprendimento e l’acquisizione del linguaggio.
Lo stretto legame tra memoria autobiografica e linguaggio è sottolineato da Nelson (2003), il quale evidenzia come il bambino, intorno ai 3-4 anni, acquisisca la capacità di rappresentare la realtà e quindi, un “sé rappresentazionale”.
La letteratura (Angus et al., 1999), invece, segnala come la memoria autobiografica si sviluppi intorno ai 4-6 anni quando il bambino inizia a raccontarsi attraverso anche il racconto di eventi passati: in questo modo va a stratificarsi quello che è il “sé narrativo”.
Il modello di Nelson (2003) segnala un’ultima tappa della costruzione narrativa del sé: il “sé culturale” (5-7 anni). In questa fase il bambino integra i contenuti della propria storia personale con quelli che sono i ruoli, le regole e le rappresentazioni sociali dell’ambiente culturale e famigliare nel quale lo stesso è inserito.
Alla luce di quanto appena detto sembra lecito chiedersi: ma visto che, ciò che viene selezionato e narrato come memoria del sé deve potersi adattare all’idea che abbiamo di noi stessi in quel momento, esiste il vero Io?.
Joyce (1984) direbbe: “noi siamo un libro, un libro scritto dagli altri”. Offuscando in qualche modo la capacità di costruirci o co-costruirci all’interno di un ambiente che sembra aver scritto già la nostra storia.
Identità e disturbi di memoria
La stessa amnesia, anche nel caso di quella psicogena come per esempio fuga dal trauma, evidenzia come in quel momento l’individuo perde il sé costituente la propria identità, una sorta di identità senza significato che oscilla nella ricerca di un senso.
Un esempio è quello proposto dal neurologo Oliver Sacks (1986) quando ci racconta del caso del quarantanovenne Jimmie G., il “marinaio perduto”, che lotta per rispondere alla domanda “chi sono?” in quanto non riesce a ricordare nulla di ciò che è successo dopo la sua tarda adolescenza. Questo esempio mostra che nel creare narrazioni personali, facciamo affidamento ad un meccanismo di screening psicologico, detto sistema di monitoraggio, che contrassegna certi concetti mentali (ma non altri) come ricordi (Mazzoni, 2018).
Le false memorie, le amnesie permanenti o temporanee, organiche o psicogene, confluiscono in quella che è la nostra struttura identitaria. D’altronde per dirla con le parole di Umberto Galimberti (2009) “Non ci sarebbe “Io” se la memoria non costruisse quella sfera di appartenenza per cui riconosco come “miei” azioni, vissuti, pensieri e sentimenti. Non ci sarebbe “Mondo” se la memoria non cucisse la successione delle visioni, che altrimenti si offrirebbero come spettacoli sempre nuovi, apparizioni tra loro irrelate”.