La vita è un trauma o i traumi aiutano a vivere meglio?
Negli ultimi anni, sembra che la società abbia sviluppato una sensibilità crescente verso i traumi e i disagi psicologici. Questo fenomeno, se da un lato può favorire una maggiore consapevolezza e attenzione alla salute mentale, dall’altro può portare alla banalizzazione della sofferenza e delle patologie psicologiche.
Nella società contemporanea, il concetto di trauma sembra essere diventato una sorta di status symbol. Si assiste alla tendenza a vedere ogni esperienza spiacevole come una cicatrice indelebile. Anche esperienze che un tempo erano considerate normali tappe del processo di crescita sono ora etichettate come veri e propri traumi.
Le difficoltà quotidiane, una volta viste come parte integrante della vita, sono ora considerate traumi da evitare a tutti i costi.
Questo è un bene? Abbiamo finalmente dato dignità e un giusto riconoscimento alla sofferenza o rischiamo di mettere tutto in un calderone livellando senza distinguere tra esperienze dolorose, che comunque riusciamo ad affrontare e ci permettono di crescere, ed esperienze che, al contrario, condizionano le traiettorie delle nostre vite in senso negativo, rendendoci più vulnerabili?
La vita non è sempre equa, lo sappiamo e ci dobbiamo fare i conti. Alcune di queste sofferenze però non sono così annichilenti e ci temprano, ci insegnano ad affrontare e superare ostacoli, frustrazioni e ingiustizie.
Avanzando nella vita, le difficoltà aumentano, ogni sfida ci mette alla prova, ma è anche grazie a queste sfide che impariamo a rialzarci e a continuare a lottare. Ciò che ci consente di crescere, imparare e trovare la nostra strada è la capacità di provare, fallire e riprovare.
La vera forza non risiede nell’assenza di problemi, ma nella capacità di affrontarli con coraggio e perseveranza. Non è la sofferenza stessa, ma la nostra capacità di resisterle e superarla che ci rende più forti: è la resilienza, per usare un termine molto di moda (e talvolta abusato).
Superare difficoltà ed esperienze spiacevoli è una grande occasione per aumentare la nostra “finestra di tolleranza”, per dirla come Siegel (1999), la nostra capacità appunto di tollerare emozioni e attivazioni psicofisiologiche sempre più ampie senza perdere la capacità di regolazione.
Ad una condizione: che queste esperienze negative non siano soverchianti, cioè che non siano così dolorose, spaventose o in qualche modo terribili da superare le capacità e le risorse che in quel momento abbiamo per affrontarle.
Se tutto è trauma allora nulla lo è realmente
È qui, infatti, che risiede un pericolo ancora più grande: banalizzare i traumi.
Se tutto è trauma, allora nulla lo è veramente. Quando tutto diventa un trauma, rischiamo di minimizzare l’impatto di eventi veramente traumatici. Il termine perde significato e, di conseguenza, le esperienze veramente devastanti vengono sminuite.
È un equilibrio delicato: da un lato, non possiamo etichettare ogni disagio come trauma, dall’altro non dobbiamo ignorare il dolore reale che può scaturire da eventi particolarmente gravi.
Prendiamo l’esempio del silent treatment, di cui molto si parla negli ultimi tempi. Ma come se ne parla? Se diamo un’occhiata ad articoli e post in rete (non solo divulgativi) troviamo posizioni drammatizzanti e altrettante posizioni minimizzanti sul tema. Da esperienza profondamente traumatica a caso emblematico di come molti disagi comuni e quotidiani siano stati elevati a disturbi psichici con nomi altisonanti e risonanti, il “non ti parlo” delle elementari assurto a grave problema psicologico.
Anche qui è imperativo distinguere: non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, né in un senso né nell’altro.
Non è la stessa cosa se a non rivolgerti la parola per settimane è il tuo vicino di banco delle medie o se a non parlarti è tua madre e tu hai 4 anni, solo perché hai rovesciato il bicchiere del latte.
Certo, entrambe sono esperienze dolorose e spiacevoli e in modo diverso entrambe lasciano un segno, ma nel caso del vicino di banco posso avere gli strumenti per affrontarlo, attraversare questa sofferenza e andare avanti, parlare con altri amici e comunque continuare la mia vita, ma se sono un bambino e la persona che non mi parla è la persona da cui (letteralmente) dipende la mia vita, è annichilente, spaventoso, devastante.
Il dolore è dolore, su questo non si discute e non è giusto banalizzarlo né minimizzarlo. Mai. Il dolore merita rispetto, sempre. Ma non tutte le ferite sono uguali. Ci sono ferite che guariscono in fretta, magari col tempo non si vedranno nemmeno le cicatrici o magari quelle cicatrici saranno testimonianza della nostra capacità di guarire. Queste ferite ci insegnano ad affrontare la vita con maggiore determinazione, ci insegnano che possiamo resistere e ci rendono più forti.
Non possiamo né dobbiamo evitare a tutti i costi questo tipo di esperienze, l’obiettivo non può essere quello di mettersi sempre al riparo da ogni esperienza negativa, altrimenti rischiamo di diventare totalmente inadatti alla vita su questo pianeta, che non è certamente priva di rischi e difficoltà.
D’altra parte ci sono ferite che segnano profondamente e invece di rafforzare indeboliscono, creano maggiore fragilità. Non è vero che ciò che non uccide fortifica, non sempre, a volte spezza in modo drammatico e profondo. I traumi reali devono essere riconosciuti e trattati con la serietà che meritano.
C’è una sofferenza utile e c’è una sofferenza dannosa.
La banalizzazione del trauma e delle patologie psichiche
In questa stessa cornice si colloca la banalizzazione delle patologie, la tendenza a distorcere e semplificare i disturbi mentali. Così come ogni esperienza negativa rischia di essere catalogata come trauma, ogni emozione negativa diventa patologica, dunque da evitare a tutti i costi.
Il malumore, da un momentaneo stato d’animo, ha ricevuto una promozione in piena regola: è diventato una tragedia. Non è raro sentire qualcuno definirsi “depresso” quando era semplicemente triste o angosciato o dire “ho avuto un attacco di panico” quando si trattava soltanto di un momento di paura o un picco di ansia. Allo stesso modo avere sbalzi d’umore non vuol dire essere bipolari e mettere i maglioni in ordine di colore nell’armadio è solo una piccola mania innocua, non un disturbo ossessivo compulsivo. Accomunare gravi disturbi a normali esperienze quotidiane non è solo pericoloso, ma anche irrispettoso.
Esiste la patologia ed esiste il disagio che non è patologico.
La tendenza a etichettare ogni disagio come un trauma psichico grave riflette una generazione che si percepisce sempre più fragile. Articoli, post sui social media e discussioni pubbliche sembrano amplificare questa percezione, creando un clima di ipersensibilità collettiva e patologizzazione dei comportamenti comuni che ci rende meno resilienti e più inclini a vedere problemi, invece che capaci di accettare semplicemente le difficoltà come parte della vita.
Appunto, se tutto diventa un trauma, allora nulla lo è veramente.
E il trauma vero scompare ancora una volta dalla nostra consapevolezza collettiva, appiattito in una visione bidimensionale che non lascia spazio alla complessità e alle differenze.