In questo articolo si vuole brevemente accennare ad un possibile significato condiviso di dolore cronico come malattia e non mera condizione psico-fisica. Ciò che verrà affrontato più approfonditamente è come sotto al cappello delle tecniche CBT ve ne siano due che cercano di affrontare il dolore in modo specifico.
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Dolore cronico: è possibile una definizione condivisa?
Una premessa prima di parlare di dolore cronico. L’organizzazione mondiale che si occupa dello studio del dolore è l’International Association for the Study of Pain (IASP) che ha dato la definizione di dolore maggiormente condivisa e citata in modo più o meno completo in molti articoli. Per evitare ridondanza di informazioni presenti in molte altre pubblicazioni, preme ricordare solo alcuni punti: il dolore è un’esperienza soggettiva, non è sempre legato ad un danno tissutale, vi è una connotazione emotiva concomitante e la memoria di esso può condizionare i nostri comportamenti (IASP, 1979).
Le dimensioni sono quindi multiple, ma non le modalità per classificare il dolore che si basano su criteri eziopatogenetici, – quindi sulla fisiopatologia – e su criteri temporali – cioè sulla sua durata. Nell’approccio clinico di uno psicologo si utilizzano soprattutto questi ultimi parametri suddivisibili in tre macro tipologie (non certamente omnicomprensive): acuto, cronico, totale. Per motivi di spazio mi limiterò a trattare solamente il dolore cronico che ha un’insorgenza lenta, persistente, ricorrente per un periodo uguale o superiore a 3 mesi (qui l’OMS afferma invece “oltre la normale guarigione”), è per lo più disconnesso dall’evento che lo ha generato ed è indipendente dal disturbo così come dall’intensità dello stimolo (McGrath e Finley, 1999). Non ha funzione protettiva e la sua persistenza condiziona il sonno e uno stile di vita normale. In alcuni casi può essere definito essenziale o idiopatico cioè che sussiste senza cause apparenti come ad esempio nelle cefalee (Pappagallo, 2005).
Nel trattamento multidisciplinare del dolore e del dolore cronico, un ruolo centrale è rappresentato dalla psico-educazione e dalla psicoterapia quando è cronico e condiziona la qualità della vita e le relazioni sociali. L’approccio psicoterapeutico più consolidato e con maggiori evidenze di efficacia è quello sotto il cappello delle CBT con una durata dell’intervento variabile a seconda della sede/entità del disturbo e dei problemi concomitanti (Glombiewski et al, 2018). Primariamente non viene trattato il dolore tour-court, quanto tutto quello che è connesso ad esso (qualità di vita, comportamenti, cognizioni, emozioni), perciò questa premessa è fondamentare per contestualizzare che il trattamento psicologico è parte di una presa in carico a più mani e competenze.
Recentemente è stato indagata come l’accettazione (flessibilità psicologica) riferita alla condizione di dolore, medi i cambiamenti nei risultati nel tempo in un programma di trattamento basato sulla CBT e come essa si rapporti ad altre tre variabili poste come potenziali mediatori nella CBT standard: controllo sulla propria vita, sofferenza affettiva e supporto sociale (Åkerblom et al. 2015). La direzione attuale sembra andare verso l’integrazione degli strumenti propri della CBT classica con la DBT e l’ACT (Carlson, 2014).
Dolore cronico e ACT
Principi sottesi all’ACT e modalità di approccio verso il dolore ed il dolore cronico.
L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), fa parte degli approcci cognitivo-comportamentali mindfulness-based, è una terapia ben consolidata che per certi versi rivoluziona la psicoterapia con il concetto di “lasciare spazio” piuttosto che il combattere contro.
Sottolinea la necessità dell’accettazione (attiva, presente, consapevole) del dolore al fine di migliorare il funzionamento dell’individuo. Secondo l’ACT il dolore è simile a ciò che accade se ci trovassimo intrappolati nelle sabbie mobili: tanto più si lotta, tanto più si verrà risucchiati all’interno. Su questa considerazione viene consigliato ai pazienti (anzi è più un assunto) di entrare in contatto, di prendere confidenza, di dare spazio al proprio dolore affinché si riesca ad essere nuovamente liberi, cercando quindi di imparare a vivere con il dolore piuttosto che lottarci (Dahl & Lundgren,2014).
Il linguaggio è centrale nell’approccio ACT, ma l’informazione è solo una parte, mentre contano molto di più le connessioni, il come queste vengono create con o senza il linguaggio (quindi con i pensieri ed i comportamenti – ed i rinforzi nel mantenimento del comportamento derivante dal dolore sono stati ben studiati e teorizzati da Fordyce nel lontano 1976). Ecco che gli assunti della teoria di base RFT (Relational Frame Theory) vengono in aiuto nel modellare cognizioni e comportamenti attraverso l’impiego di analogie e metafore (Dahl & Lundgren,2014).
Lo studio dei 6 processi centrali – il modello hexaflex – viene proprio utilizzato in tal senso, ovvero per evidenziare sei abilità psicologiche necessarie a scardinare l’inflessibilità psicologica: accettazione, defusione cognitiva, consapevolezza del momento presente, contatto con sé come contesto, formulazione dei valori e azioni impegnate (Hayes, Strosahl, & Wilson, 2012). Dal punto di vista clinico si tende ad usare invece un diagramma differente per interagire con i pazienti (la matrice) che permette di “collocare le storie di vita”, cogliendo quelle parole che possono diventare parte di una storia che tende a mantenere bloccate le persone, creando connessioni (risposta relazione derivata). In questo modo, tramite la matrice, si aiuta il paziente a scegliere come rispondere e comportarsi, facendogli notare la fattibilità e quindi gli aspetti funzionali per poter vivere nonostante il dolore (Schoendorff, Olaz & Polk, 2017).
Di fondo però l’ACT non vuole occuparsi del dolore di per sé, quanto della sofferenza, cioè – secondo i teoretici di questo approccio, di quel dolore sporco che amplifica il disagio ed il malessere causato dal dolore stesso, dato che la sofferenza è insita nell’esperienza delle persone e che sono i processi psicologici ad essere potenzialmente distruttivi esacerbando la sofferenza stessa (Dhal, Wilson & Nillsson, 2004, Hayes, 2011). Tutto questo sempre in un’ottica contestuale (l’ACT ha le sue radici filosofiche nel contestualismo funzionale) in grado di promuovere una maggior flessibilità psicologica, ovvero accettare le sensazioni dolorose, i pensieri ed i sentimenti ad esse connesse, con un’attenzione focalizzata sulle opportunità offerte dalle situazioni attuali piuttosto che rimuginare sul passato o catastrofizzare sul futuro. Il comportamento quindi è focalizzato sulla realizzazione dei valori piuttosto che sul controllo del dolore (McCracken & Vowles, 2014).
Una recente metanalisi (Hughes et al., 2017) che ha incuso 11 trial basati sull’ACT ha evidenziato che essa è più efficace rispetto ai gruppi di controllo che non svolgevano alcun trattamento oppure a quelli standard (usuali per la clinica). In particolare è stato trovato un effetto medio-ampio per ciò che riguarda la flessibilità psicologica e l’accettazione del dolore (centrali nell’ACT), ma non vi sono stati ulteriori effetti significativi rispetto ad altri trattamenti attivi. Come limite principale evidenziato anche in un’altra metanalisi (Veehof et al, 2016) vi è la qualità della progettazione e conduzione degli studi, per cui è importante migliorare i disegni al fine di valutazioni più consistenti.
Un ultimo punto da ricordare sono le modalità di intervento sul dolore cronico: quelli orientati all’ACT prendono di mira i processi spesso predominanti del linguaggio e del pensiero nelle loro inutili influenze sul comportamento. I metodi sono basati sull’esposizione, esercizi di consapevolezza, esercizi di concentrazione sensoriale, giochi di ruolo, prove dirette e metodi che usando il paradosso o la confusione possono operare in questa modalità “esperienziale” prevalentemente non verbale basata sull’esperienza. Anche le metafore sono usate frequentemente (Yu & McCracken, 2016).
Dolore cronico e REBT
Perché la REBT tra le tecniche CBT? La Terapia Razionale Emotiva Comportamentale – REBT – è il fondamento di tutte le terapie cognitivo-comportamentali (Jorn, 2015). Nel dolore cronico, la Terribilizzazione e la Catastrofizzazione sono credenze irrazionali che incrementano il dolore e portano ad esiti inferiori delle terapie mediche (Quartana et al., 2009).
Non tutti i teorici della REBT concordano nel definire le credenze irrazionali centrali, ma vi è un generale accordo nell’affermare che si innescano su tre categorie: Amore e Approvazione, Successo e Realizzazione, Percezione di Sicurezza (Smith, Herman & Smith, 2015). Se ne capisce meglio la ragione se pensiamo che gli obiettivi fondamentali che una persona si pone per la propria vita includono il desidero razionale di sopravvivere, essere felici e la relativa libertà dal dolore (Ellis, 1991) (quest’ultimo riferito al dolore emotivo da Ellis e non quello fisico).
Sin dalle prime formulazioni della REBT (RET- Ellis 1962), è stata sottolineata l’importanza del ruolo del paziente nel creare il proprio disturbo emotivo e quindi della necessità di compiere sforzi attivi da parte sua per superare e cambiare in modo permanente convinzioni e comportamenti disturbanti. A tal fine, i pazienti sono incoraggiati a incrementare la consapevolezza interna sul fatto che: (a) le credenze irrazionali sulle avversità causano la maggior parte dei disturbi emotivi; (b) il mantenimento di questi disordini è in gran parte causato dalla ripetizione di queste convinzioni; (c) la riduzione o l’eliminazione di questi dolori emotivi richiedono un lavoro coerente e costante.
Alcuni studi hanno dimostrato che la disabilità derivata dal dolore e l’esperienza del dolore stesso è moderata dalle convinzioni negative e irrazionali e dai relativi comportamenti compensatori (Ehde et al. 2014; Komasi et al., 2016). Quindi se l’adattamento alla disabilità (ricordiamoci che il dolore cronico è esso stesso malattia che può portare ad una disabilità derivata) si muove lungo un continuum, l’implementazione di comportamenti di autogestione va nella direzione di migliorare l’adattamento alla disabilità (Roditi & Robinson, 2011).
Nell’interessante paper di Jorn (2015), viene ipotizzato un nuovo modello dove le basi teoriche della REBT sono state adattate al campo della gestione del dolore cronico per cercare di chiarire i punti salienti del desiderio umano di essere liberi dal dolore (Terapia Razionale Emotiva riferita alla salute definita come REBT-H). Viene contestualizzato il dolore come un insieme degli aspetti emotivi e fisici, affermando che gli outcomes medici mediocri e la disabilità sono probabilmente generati in gran parte dalla credenza irrazionale di dover stare bene a tutti i costi. Questa modalità genera a sua volta la Terribilizzazione e probabilmente un bassa tolleranza alla Frustrazione circa l’esperienza del dolore, che a sua volta si traduce in comportamenti di autogestione maladattivi, scarsi esiti medici e aumento della disabilità, creano così un circolo difficile da spezzare.
La Rational Emotive Behavior Therapy-Health (REBT-H), nella cura al dolore cronico, si pone quindi l’obiettivo generale di riuscire ad ottenere una miglior concettualizzazione dell’adattamento del paziente, mostrando allo stesso i suoi punti di forza e debolezza concorrenti alla disabilità e all’autogestione nei termini di uno specifico quadro cognitivo-comportamentale. Il coinvolgimento attivo ed il lavoro da parte del paziente fanno parte di questo modello di cura che sostiene la responsabilità in prima persona del percorso volto ad una miglior gestione del dolore.
Dolore cronico: accordi e limiti tra terapie
Va tenuto a mente che, per ogni terapia, il sollievo totale dal dolore è un obiettivo irrealistico ed i trattamenti dovrebbero concentrarsi sul miglioramento del funzionamento nonostante il dolore (Turk et al., 2011).
Come detto, il concetto di accettazione, in particolare di un sé incondizionato, dell’altro e della vita, è un forte valore filosofico a fondamento degli interventi terapeutici in REBT (Ellis 1962; Ellis e Dryden 1987), e anche dell’ACT (Harris, 2011).
Va però fatta una doverosa distinzione per evitare confusione nei due approcci. L’accettazione incondizionata non era un concetto unico per Ellis (2001) quanto relativo, dato che considerava l’assolutismo come l’errore di fondo in grado di generare una valutazione globale. L’accettazione incondizionata, nella REBT, implica la sospensione delle valutazioni assolutistiche sull’intero sé o su quello di un altro o della vita. Questa sospensione comporta la consapevolezza cosciente delle credenze irrazionali e quindi, l’obiettivo finale della REBT è che i pazienti realizzino cambiamenti profondi e duraturi adottando atteggiamenti flessibili e preferenziali sugli obiettivi, adottando un atteggiamento di accettazione incondizionata (Ellis, 2001).
L’ACT sottolinea l’accettazione del dolore in funzione della riabilitazione, non tanto in termini di guarigione, quanto di restituzione di una vita piena ovvero quello “spazio nel quale poter fare qualcos’altro” (Presti, 2017), muovendosi sulla base dei propri valori. In pratica nell’ACT viene sottolineata questa scelta di poter fare diversamente in quel luogo virtuale che sta tra lo stimolo e la risposta, perché quest’ultima, indipendentemente dall’antecedente, può essere diversa.
In conclusione, mentre alcuni esperti hanno sostenuto che l’ACT e la REBT hanno sovrapposizioni significative e che ACT può essere semplicemente un’altra tecnica REBT (Ellis 2005; Velten 2007), altri affermano che le abilità che l’ACT tende ad incentivare sono più focalizzate, e che possono essere divise in due processi concomitanti, vale a dire consapevolezza e accettazione da una parte e cambiamento di impegno e comportamento dall’altra (Hayes, Pistorello, & Levin, 2012). Forse si potrebbe ragionare in termini di strutturazione ed evidenze specifiche: da un lato la REBT è più protocollare ma vi sono poche evidenze nel suo uso specifico nel trattamento del dolore e del dolore cronico mentre l’ACT si adatta maggiormente alle fasi evolutive della persona. Sono certamente necessari ulteriori serio disegni RCT per supportare la mole sempre maggiore di studi a favore dell’efficacia del trattamento dell’ACT e approfondire gli elementi dell’intervista biopsicosociale proposta da Jorn (2015) basata sul modello REBT per un miglior inquadramento iniziale.