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Di Battista, Matteo Salvini campioni mondiali di bufale e il “pensiero emotivo”

Privo di idee per questo editoriale, mi soccorrono segnalandomi la notizia della classifica mondiale delle balle riportate dal New York Times e rimbalzata in Italia dal Post e da Linkiesta. Penso: se ne parliamo anche noi facciamo doppio o triplo rimbalzo; ma è anche vero che non ci sono idee in magazzino. E poi le balle hanno il loro risvolto psicologico, che noi di State of Mind dovremmo essere in grado di approfondire meglio di quegli altri arrivati prima di noi. Si spera.

A insaporire il tutto ci sarebbe l’allusione de Linkiesta al fatto che noi italiani saremmo primi in classifica in questa gara di balle e di sciocchezze. Sarebbe un bel contrasto con l’editoriale della settimana scorsa in cui prendevo in giro gli altri paesi europei. Ora tocca agli italiani. Già vedo il mio capo-redattore godere a mettere in crisi la mia anti-esterofilia.

In fondo, ci sta. C’è tutta una tradizione di pensiero che sottolinea la propensione irrazionalistica non solo dell’italiano medio, ma addirittura del pensiero alto e filosofico in Italia. È la cosiddetta Italian Theory, una corrente filosofica che pare stia conquistando il mondo, descrivendo la nostra tradizione filosofica come una tempesta gravida di passioni da Machiavelli in poi fino a Gianni Vattimo, passando per Giordano Bruno e Giambattista Vico. Vari libri documentano questi corrente di studi, sia in inglese (Borradori, 1988; Hardt & Virno, 1996; Chiesa & Toscano, 2009) ma anche, per fortuna, in Italiano. In particolare raccomando il bel libro “Pensiero Vivente” di Roberto Esposito (2010). Godibile e leggibile, che ci crediate o no.

Nel bene e nel male noi italiani saremmo bravi a mantenere il contatto con l’origine emotiva del pensiero, con le associazioni intuitive e automatiche che danno forza alle passioni.

Gli automatismi irrazionalistici del pensiero non sono del tutto insensati. Essi sono frutto di scorciatoie (in termini tecnici: di “euristiche”) che non obbediscono a una dettagliata valutazione analitica della situazione, che non prendono in considerazione tutto il ventaglio di possibilità esplicative disponibili, che non sono sottoposte a un controllo di coerenza logica e nemmeno a processi di revisione critica.

Le euristiche sono strategie di pensiero semplificate, scorciatoie logiche -o illogiche- che ci permettono di giungere a valutazioni e decisioni rapide in situazioni comuni e quotidiane, dove più spesso capita di avere a disposizione poche e inaccurate informazioni. Due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman, (1983) hanno studiato a fondo queste euristiche.

Ho detto: nel bene e nel male. Mantenere il contatto con la propria emozionalità ha anche i suoi contro. È vero: controllare le informazioni è utile ma noioso. Un istinto automatico ci induce a credere e a diffondere le notizie nella loro forma più grossolana, ma che permette l’interpretazione più chiara e immediata. Che poi sarebbe la nostra. Al polo opposto di questo automatismo troviamo il pensiero critico, il critical thinking (Glaser, 1941) ovvero la facoltà di considerare in maniera ponderata le informazioni, confrontando varie fonti e esaminando le inferenze logiche passo per passo.

Arrivato qui, sarebbe tempo che mi abbandonassi a una filippica su noi italiani, proni alle associazioni mentali facili ed emotive, populistiche e demagogiche. Il che è anche vero. E che sarebbe anche confermato dal New York Times, secondo il quale noi italiani saremmo i campioni mondiali delle balle facili e semplicistiche. Tanto è vero che primo in classifica troviamo Alessandro Di Battista, esponente politico del Movimento 5 Stelle, con la sua sparata sulla Nigeria:

[blockquote style=”1″]60 per cento del territorio è in mano ai fondamentalisti islamici di Boko Haram, la restante parte Ebola[/blockquote]

smentita da Pagella Politica. La seconda balla in classifica è quella che dice che la Commissione Europea si appresterebbe ad abolire i tostapane doppi, è invece internazionale ma divulgata da un italiano: Matteo Salvini della Lega Nord. E in quanto tale sarebbe italiana (o padana?) Dopodiché basta, il resto della balle provengono da oltralpe.

Sta bene. Pagato il pedaggio al pressapochismo italiano, mi appresto però a parzialmente confutarlo (o a confermarlo? Vedremo). Noto che il New York Times si è limitato a fornire una lista di balle da tutto il mondo, non a scrivere un articolo sull’Italia campione di balle, come sembra suggerire il titolo di alcuni articoli italiani. Si vede che però limitarsi a riportare la lista delle balle non era abbastanza eccitante. Occorreva rincarare la dose con una mezza balla, ponendoci al centro dell’interesse mondiale per le balle, in un curioso narcisismo all’incontrario. Forse è una mezza balla che secondo il New York Times noi cacciamo balle. Il che però sembra confermare la tendenza italiana alla balla.

Vi siete persi? Tranquilli. Anche io. Succede, a leggere troppe balle.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Glaser, E.M. (1941). An Experiment in the Development of Critical Thinking, Teacher’s College, Columbia University, 1941
  • Borradori, G. (Ed.) (1998). Recoding Metaphysics. The New Italian Philosophy. Louisville, KY, USA: Evanston.
  • Chiesa, L., & Toscano, A. (Eds.) (2009). The Italian Difference between Nihilism and Biopolitics. Melbourne, Australia: re.press.
  • Esposito, R. (2010). Pensiero Vivente. Origine e Attualità della Filosofia Italiana. Torino: Einaudi. English translation by Hanafi, Z. (2012). Living Thought: The Origins and Actuality of Italian Philosophy (Cultural Memory in the Present). Stanford, CA, USA: Stanford University Press.  
  • Tversky, A., Kahneman, D. Extentional versus intuitive reasoning: The conjunction fallacy in probability judgement. In «Psychological Review», 90, 1983, pp. 293-315.
  • Hardt, M., & Virno, P. (Eds.) (1996). Radical Thought in Italy. A Potential Politics. Minneapolis & London: University of Minnesota Press.

L’ABC delle mie emozioni: alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT

 

Attraverso esercizi mirati, letture, fiabe, disegni, il bambino è guidato dall’adulto in questo percorso che gli consente, nei vari capitoli, di accrescere le proprie abilità emotive.

“A volte ci sentiamo contenti, a volte ci sentiamo arrabbiati, altre volte può capitare di sentirci tristi, altre volte ancora ci capita di sentirci spaventati. [ ] ”

Il libro “L’ABC delle mie emozioni 4-7 anni. Programma di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT” è uno strumento che consente di lavorare in maniera progressiva e mirata sulle competenze emotive del bambino che va dai 4 ai 7 anni. E’ un manuale rivolto a genitori, insegnanti o educatori che intendono iniziare un percorso di educazione emotiva con uno o più bambini, con lo scopo ultimo di ampliare le abilità emozionali. L’autore, Mario Di Pietro, è psicologo e psicoterapeuta, e da anni si occupa di  problematiche emotive dell’età evolutiva. Ha pubblicato svariati libri sull’argomento per Edizioni Erickson Trento.

Il libro si basa sul presupposto teorico che la capacità di comprendere e di gestire le proprie ed altrui emozioni sia una competenza fondamentale per l’adattamento sociale e relazionale di ogni essere umano. Conoscere le emozioni rappresenta per l’appunto un’abilità primaria che ci consente di sviluppare strategie di coping e risorse per fronteggiare le difficoltà e per stabilire buone relazioni sociali.

LEGGI ANCHE: ABC delle mie emozioni: alfabetizzazione socio-affettiva secondo il modello REBT

Il testo si basa sui principi teorici della REBT (Terapia Razionale Emotiva Comportamentale) di Albert Ellis: utilizzando il modello ABC, si focalizza l’attenzione sui pensieri “irrazionali” (o pensieri “dannosi”, per utilizzare un linguaggio più accessibile ai bambini) che portano necessariamente a sperimentare emozioni negative, con lo scopo finale di sostituirli con pensieri più “razionali” (o meglio, pensieri più “utili”).

E’ quindi fondamentale imparare ad ascoltare e comprendere il modo in cui il bambino parla a sé stesso, per poi insegnargli a pensare in modo più positivo nelle varie situazioni. Questo processo naturalmente, presuppone che il genitore, l’insegnante, l’educatore (o comunque chi sta utilizzando il presente manuale), abbia una conoscenza sufficientemente approfondita dei principi teorici e delle idee principali che sottostanno alla teoria della REBT e che in sostanza costituiscono le fondamenta del presente laboratorio. Proprio per questo motivo il libro presenta alcuni capitoli iniziali (semplici ed essenziali ma al contempo molto efficaci) dedicati alla spiegazione dello strumento e dei suoi presupposti teorici a chi lo andrà ad applicare.

Attraverso esercizi mirati, letture, fiabe, disegni, il bambino è guidato dall’adulto in questo percorso che gli consente, nei vari capitoli, di accrescere le proprie abilità emotive. Nei primi capitoli, al bambino viene insegnato ad ampliare il suo lessico emotivo; descrivendo le varie emozioni con i rispettivi correlati fisiologici, mimico-facciali e cognitivi. Successivamente i vari capitoli si concentrano sulle emozioni di  rabbia, paura e tristezza presentando al bambino varie tecniche e strategie per meglio comprenderle e gestirle. Infine, l’ultimo capitolo lavora sul riconoscimento dei pensieri e su come questi ultimi possano influenzare le  emozioni che proviamo.

“Ricorda! Quelli che pensi può farti sentire bene o farti stare male, può farti sentire sereno, felice oppure triste, spaventato, arrabbiato. Stai attento ai tuoi pensieri e scegli quelli che ti aiutano a stare meglio.”

Il libro è ricco di esercizi e di giochi ed è sicuramente uno strumento molto utile per chi intende lavorare con i bambini nell’area dell’educazione all’emotività; tuttavia non è da escludere che, con i suoi esempi pratici e diretti, possa essere direttamente spunto di riflessione anche per gli adulti che lo leggono.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Di Pietro, M. (2014). L’ABC delle mie emozioni (4-7 anni). Programma di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT. Erickson Editore. ACQUISTA ONLINE

Attaccamento, regolazione emotiva e depressione: qual è la relazione tra queste componenti?

L’attaccamento è uno dei costrutti più conosciuti e utilizzati nell’ambito della psicologia cognitiva, sia da un punto di vista diagnostico che prognostico, che esplicativo della psicopatologia.

In sostanza, quando nasciamo siamo portati in modo innato a mettere in atto una serie di comportamenti al fine di assicurarci la vicinanza con chi ci fornisce le cure (solitamente la mamma); diciamo che questa è la strategia di elezione che tutti noi proviamo a utilizzare per sopravvivere.

Nella migliore delle ipotesi i caregiver rispondono in un modo adeguato e pertinente alle richieste del figlio, aiutandolo a regolare le emozioni, alleviando il suo disagio e proteggendolo dai pericoli. Fin qui insomma tutto bene: io ho bisogno, la mamma c’è, mi costruisco nel tempo un’idea di me come al sicuro, dell’altro come disponibile e del mondo come un posto interessante da esplorare.

Quando invece la mamma per qualche motivo non è in grado di rispondere in modo consono alle richieste di vicinanza del bambino, questo mette in atto il piano B, che consiste in strategie di regolazione delle emozioni (cioè strategie per non rimanere angosciati a lungo) diverse dalla ricerca dell’adulto e che possono sfociare in una relazione di attaccamento che viene definita insicura (Main, 1990).

In particolare, si possono aprire due strade: il bambino può sviluppare un attaccamento ansioso o evitante. Un bambino con un attaccamento ansioso si iper-attiva richiedendo continuamente vicinanza e cura, in uno stato sempre iper-vigile verso i pericoli esterni e con una continua preoccupazione nel tentativo di anticipare possibili pericoli. Purtroppo, questa strategia solitamente ha l’unico esito di aumentare il disagio e l’angoscia che il bambino sente.

Dall’altra parte, un bambino che ha percepito una mamma distante e non disponibile si sposterà verso un attaccamento evitante, caratterizzato dalla tendenza a arrangiarsi e a contare solo su di sé, nella sensazione generale che le relazioni di vicinanza siano in realtà una fregatura inutile e pericolosa; in quest’ottica, svilupperà delle strategie di gestione delle emozioni che portano a una distanza dall’altro, insieme al tentativo di sopprimere ricordi dolorosi e brutti pensieri (lontano dagli occhi lontano dal cuore).

Si è poi visto che questi tre stili di attaccamento (sicuro, ansioso e evitante) vengono imparati dal bambino e immagazzinati  come modelli che influenzano a loro volta il modo in cui una persona adulta cerca di gestire le proprie emozioni e i propri comportamenti, e che si riflettono nelle relazioni significative da grandi.

Le persone con un attaccamento evitante si porteranno dietro un’idea negativa degli altri, che renderà per loro difficile stare emotivamente vicino alle altre persone e praticamente impossibile dipendere emotivamente da qualcun altro. D’altra parte, le persone con un attaccamento ansioso si porteranno dietro un’idea negativa di sé in termini di basso valore personale, e di conseguenza nelle relazioni tenderanno a ricercare in modo continuo la vicinanza dell’altro, a preoccuparsi e a rimuginare.

A un certo punto diventiamo grandi. Quando siamo adulti, volenti o nolenti, in qualche modo le emozioni impariamo a gestirle. In questo senso si parla di “regolazione emotiva” per descrivere quel processo con cui moduliamo le emozioni, e cioè impariamo a non farci sopraffare dal dolore di una perdita e a non andare nel panico se siamo preoccupati per qualcosa. Ci sono sostanzialmente due tipi di regolazione emotiva: quella utile (adattiva) e quella non utile (maladattiva).

Un esempio di regolazione emotiva utile si ha quando cerchiamo il lato positivo delle situazioni, quando analizziamo le cose in modo costruttivo, quando sappiamo mettere in campo le nostre capacità di problem solving. La regolazione poco utile (e a volte dannosa) consiste invece per esempio nella soppressione delle emozioni e dei pensieri e nell’evitamento, così come nella tendenza a mantenere un’eccessiva distanza dagli altri o nella propensione a concentrarci sui problemi facendoci le domande sbagliate, che non ci portano a risolverli ma a affondarci dentro.

Quest’ultimo è il caso della ruminazione, che è stata definita come un processo di pensiero ripetitivo che riguarda l’umore depresso, le sue cause e conseguenze (Nolen-Hoeksema, Wisco, Lyubomirsky, 2008). Molte ricerche hanno sottolineato la relazione tra attaccamento insicuro (ansioso o evitante) e sintomi depressivi sia in adolescenza (Cooper, Shaver, Collins, 1998) che nell’età adulta (Mickelson, Kessler, Shaver 1997).

D’altra parte, la depressione è spesso considerata come un disturbo che deriva da strategie inutili di regolazione delle emozioni, prima tra tutti proprio la ruminazione (Nolen-Hoeksema, 2000).  Ma in che relazione stanno esattamente l’attaccamento, la regolazione emotiva e i sintomi depressivi?

Da questa domanda si sono mossi tre autori (Malik, Wells, Wittkowski, 2015) che in un articolo pubblicato quest’anno dal Journal of Affective Disorders hanno rivisto la letteratura finora esistente, per capire meglio quale fosse la relazione tra queste due componenti (l’attaccamento e la regolazione emotiva) e i sintomi depressivi.

A quanto pare, mentre ci sono evidenze discordanti sul rapporto tra attaccamento evitante, strategie di regolazione emotiva e sintomi depressivi, c’è una certa concordanza in letteratura circa il ruolo di mediatore delle strategie di iper-attivazione nella relazione tra attaccamento ansioso e sintomi depressivi.

Questo significa che in qualche modo la relazione tra l’attaccamento ansioso e la presenza di sintomi depressivi passa per il tipo di strategia che usi per gestire le emozioni, in particolare una strategia che ti iper-attiva, cioè ti rende molto attento e fa di te un esagerato pensatore, con lo scopo di analizzare le situazioni e cercare di anticipare eventuali difficoltà.

Questo risultato da una parte esclude un pericoloso pseudo-determinismo. Visto che non abbiamo molta possibilità di decidere noi quale tipo di attaccamento sviluppare nell’infanzia, il fatto che quello non determini lo stato emotivo adulto ci dà qualche speranza. Dall’altra parte, da un punto di vista clinico, questo ci dice che è preferenziale, in terapia, insegnare al paziente strategie diverse e più utili di regolazione delle emozioni, piuttosto che addentrarci in interventi ben più intensivi (e delicati per il paziente) finalizzati a correggere gli effetti di esperienze di attaccamento precoci.

Come dire, per capire dove stiamo andando è importante sapere da dove veniamo, ma è più importante sapere dove siamo ora e che strada possiamo imboccare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

True Detective (2014): una Pastorale Americana nella Lousiana Cajun

Senza mai diventare invadente, la critica che l’autore porta a quelle società rurali prevalentemente incardinate sui principi morali è costante e fa da sfondo a un’umanità decadente, affaticata, fallita nei suoi buoni propositi di rettitudine e creatrice essa stessa dei mostri che combatte.

True Detective è una serie televisiva statunitense trasmessa per la prima volta nel 2014. Venti anni dopo Twin Peaks, in maniera più concisa e meno surrealista di Twin Peaks, la serie ripropone uno dei grandi temi thriller cari a letteratura e cinematografia americana: la caccia al mostro. Questa volta al posto del metodico Cooper e della sfuggente Diane troviamo i detective Martin Hurt (Woody Harrelson)e Rustin Cohle (Mattew McConaughey), rispettivamente e per loro stessa ammissione un tipo “normale” e un tipo “critico”.

Tra i principali poli attrattivi c’è sicuramente l’interazione tra le due personalità, dove la normalità del primo nasconde il compromesso che lo pone in conflitto tra bisogni sessuali extraconiugali e bisogni affettivi familiari e dove il cinismo del secondo svela l’introversione tipica di un assetto schizoide di personalità, che favorisce il rimuginio e allontana dai valori affettivi comuni.

Nic Pizzolatto, ideatore e sceneggiatore della serie, ambienta la vicenda nella Louisiana degli uragani atlantici Andrew (1992), Katrina (2005), Irene (2011), terra dalle tipiche acque lente e fangose per secoli palude di diritti civili. La regia propone suggestive vedute aeree che svelano un territorio desolato fatto di alberi spogli, case modeste senza fondamenta e cumuli di detriti. La colonna sonora squisitamente folk (The Handsome Family), country (Cuff the Duke),  blues (John Lee Hooker), con incursioni psichedeliche (13th Floor Elevator, The Black Angels), alternata a gospel laici e musica nera popolare, lega indissolubilmente con le immagini. Il risultato di sintesi è una pastorale americana persino più acida e amara di quella raccontata da Philip Roth (Pastorale Americana, 1997), dove al posto delle buone famiglie e dei college prestigiosi troviamo i bar per camionisti e l’accademia cristiana.

L’atmosfera prevalente che si è voluta rappresentare in True Detective è la diretta emanazione di un luogo dalla genetica complessa, con radici religiose afferenti al protestantesimo, all’evangelicalismo, alla santeria e al voodoo dei creoli del sud; immersi in questa “psicosfera” (come la definisce qualcuno) i detective Hart e Cohle indagano su una serie di omicidi con apparenti connotazioni anticristiane.

La serie ha ricevuto decine di nomination e incassato già diversi premi, non ultimo quello per la migliore sigla di apertura.

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Anche se la maggiore attrattiva della serie è rappresentata dal personaggio del detective Cohle, intelligente e alienato, ipercontrollato, dalla personalità  oscura e profonda direbbero i profani ma spesso a confine tra la genialità deduttiva e l’originalità delirante tipica di chi dà prova di avere forzato la soglia dello spettro autistico, episodio dopo episodio emerge che il legante che sorregge efficacemente la trama e accomuna tutto rispecchiandosi nelle persone, nei luoghi e persino nella sigla di apertura dove la pelle suggestivamente si presta alla commistione con altre entità, sembra essere una compromissione dell’integrità.

L’integrità della pelle, quell’entità biologica con funzioni psicologiche descritta da Anzieu che opportunamente mantiene il giusto grado di separazione tra contenuti mentali e mondo esterno; nei diversi personaggi di volta in volta l’integrità perduta sarà quella morale, quella familiare o quella psichica di chi è stato sottoposto troppo a lungo a fattori stressanti.  E’ questo il caso del detective Cohle, tra le altre cose portatore di un lutto, irrisolvibile come può esserlo la perdita di una figlia, che si riflette nella predisposizione all’isolamento e all’alcolismo.

L’unico in grado di condurre le indagini a una svolta, grazie anche a un apparato percettivo particolare, sarà proprio il personaggio più sofferente e provato dagli eventi, dannato e senza Dio in quanto libero da influssi romantici e creazionisti, poiché come converrebbe a qualsiasi mente seriamente dedita all’analisi, esiste un indubbio vantaggio nel guardare ai fenomeni da una prospettiva dove l’Uomo è una specie animale al pari di altre, dove le emozioni e i sentimenti, in senso darwiniano, sono strumenti pre-programmati per la conservazione della specie e dove la coscienza, da una prospettiva illuminista, è un dispositivo di manipolazione tecnica dell’esistenza.  

In questa prima stagione di otto episodi sembra esserci in seno alla sceneggiatura un esercizio latente di crocifissione del protagonista interpretato da McConaughey, operazione che lo rende più appetibile allo spettatore perché conferisce quell’aria spiccatamente dannata che piace e forse anche perché apre la strada all’idea perturbante che chiunque si spinga troppo oltre nell’evoluzione (delle idee) rischia di perdere tutto, famiglia, affetti, contatto con la realtà. Effettivamente alcuni monologhi somigliano a una predica metafisica che fa perno sulla suggestione tanto quanto qualsiasi omelia ortodossa. Ma è un valore aggiunto a tutta la produzione.

Alla fine il mondo disegnato da Pizzolatto sembra popolato da personaggi in malinconica lotta contro sé stessi, incastrati tra il passato e il presente di una terra che lava costantemente i peccati con gli uragani ma che lascia intatta la contraddizione tra una fervente comunità religiosa e il suo esatto opposto fatto di dissolutezza, alcolismo e prostituzione.

Senza mai diventare invadente, la critica che l’autore porta a quelle società rurali prevalentemente incardinate sui principi morali è costante e fa da sfondo a un’umanità decadente, affaticata, fallita nei suoi buoni propositi di rettitudine e creatrice essa stessa dei mostri che combatte.

 

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I nostri pensieri sono influenzati dalle circostanze esterne, anche quando non lo vogliamo

FLASH NEWS

Siamo spesso abituati a pensare di avere pieno controllo sui nostri pensieri coscienti, in realtà ricerche recenti rivelano che le circostanze esterne ci influenzano molto più di quanto potremmo credere.

È quanto emerso anche da uno studio condotto da Ezequiel Morsella, professore associato di psicologia presso la San Francisco State University, che ha messo in luce come i nostri pensieri coscienti siano fortemente influenzati da ciò che accade intorno a noi e che il controllo che abbiamo su di essi sia molto inferiore rispetto a quanto potremmo immaginare.

Al fine di verificare il grado di influenza delle circostanze esterne sui nostri pensieri, nel corso dello studio sono state presentate a coloro che hanno preso parte alla ricerca 52 immagini in bianco e nero, raffiguranti parole familiari di diversa lunghezza, tra le quali per esempio una volpe, un cuore ed una bicicletta. A ciascun soggetto è stato inoltre chiesto di non pensare alla parola corrispondente all’immagine mostrata o al numero di lettere che componevano la parola stessa.

Nonostante il compito possa sembra piuttosto semplice, i risultati dello studio hanno messo in evidenza come, in media, circa il 73% delle persone evocava automaticamente la parola corrispondente all’immagine mostrata ed il 33% dichiarava di aver contato mentalmente fino al numero corrispondente alle lettere che costituivano la parola stessa.

In questo modo, secondo Morsella, la situazione sperimentale creata nel corso della ricerca ha permesso di dimostrare come anche la sola richiesta di non fare qualcosa possa innescare due differenti tipi di pensiero non intenzionale, in grado di interferire con la genesi dei nostri pensieri coscienti.

Ciò è risultato essere vero soprattutto quando le immagini mostrate si riferivano a parole di breve lunghezza. Per esempio, quando veniva presentata un’immagine raffigurante un sole, ben l’80% delle persone affermava di aver evocato la parola “sole” e circa la metà di esse confermava di aver contato mentalmente fino a 3. Quando, invece, le immagini si riferivano a parole costituite da 6 o più lettere tale effetto diminuiva di oltre il 10%. Secondo Morsella, tale fenomeno potrebbe indicare il limite stesso dei processi non consapevoli capaci di influenzare la genesi dei nostri pensieri coscienti.

“In questo modo è stato possibile capire non solo come funziona la nostra mente, ma anche che, in alcune circostanze, dovrebbe essere proprio questo il modo in cui dovrebbe funzionare”, sostiene Morsella. Nonostante possa sembrare contro-intuitivo, egli ritiene infatti che l’incapacità di fermare l’azione dei pensieri non consapevoli sulla mente cosciente possa svolgere, in particolari circostanze, una funzione adattiva.

Per spiegare ciò a cui si riferisce, Morsella porta come esempio il sentimento di colpa che, nonostante il  valore affettivo negativo che veicola, risulta difficile da reprimere. Il fatto di sentirci in colpa dopo aver compiuto qualcosa di sbagliato ha lo scopo adattivo di portarci a cambiare il nostro comportamento in futuro, spiega Morsella, allo stesso modo l’incapacità di fermare l’insorgere di questo tipo di pensieri non consapevoli ha un significato adattivo e funzionale.

 

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Il Prof. Oliver Sacks affetto da un tumore terminale, condivide i suoi pensieri in una lettera aperta

 

Oliver Sacks, neurologo di fama mondiale e professore presso la New York School of Medicine, ha recentemente scoperto di avere un tumore in fase terminale. In questa commovente lettera aperta pubblicata sul New York Times condivide con il mondo le sue considerazioni su questa nuova, grave, consapevolezza:

 

I feel a sudden clear focus and perspective. There is no time for anything inessential. I must focus on myself, my work and my friends. I shall no longer look at “NewsHour” every night. I shall no longer pay any attention to politics or arguments about global warming.

This is not indifference but detachment — I still care deeply about the Middle East, about global warming, about growing inequality, but these are no longer my business; they belong to the future. I rejoice when I meet gifted young people — even the one who biopsied and diagnosed my metastases. I feel the future is in good hands.

I have been increasingly conscious, for the last 10 years or so, of deaths among my contemporaries. My generation is on the way out, and each death I have felt as an abruption, a tearing away of part of myself. There will be no one like us when we are gone, but then there is no one like anyone else, ever. When people die, they cannot be replaced. They leave holes that cannot be filled, for it is the fate — the genetic and neural fate — of every human being to be a unique individual, to find his own path, to live his own life, to die his own death…

Oliver Sacks on Learning He Has Terminal CancerConsigliato dalla Redazione

Oliver Sacks - Professor of Neurology at the NYU School of Medicine
I am now face to face with dying. But I am not finished with living. (…)

Tratto da: New York Times

 

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Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) in teatro operativo: interventi per aumentare la resilienza

Maurizio Stavola

Il PTSD maturato in un teatro operativo è diverso da quello nato a seguito di una catastrofe naturale, poiché investe la fiducia nei valori in nome dei quali il militare intraprende una professione profondamente integrata con la propria vita personale. Egli necessita, pertanto, di essere posto al centro di un percorso di studio psicologico del trauma che si confronti con la vulnerabilità della natura umana.

In guerra, nessuna persona è immune dal vivere un evento traumatico che può lasciare profonde ferite fino a manifestarsi in Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD). Una conferma a tale assunto è fornita dalle statistiche inerenti ai casi di diagnosi di PTSD tra i reduci dai teatri operativi.

E’ opportuno soffermarsi sull’idea che il PTSD maturato in un teatro operativo sia diverso da quello nato a seguito di una catastrofe naturale, poiché investe la fiducia nei valori in nome dei quali il militare intraprende una professione profondamente integrata con la propria vita personale. Egli necessita, pertanto, di essere posto al centro di un percorso di studio psicologico del trauma che si confronti con la vulnerabilità della natura umana.

Le conseguenze dell´evento traumatico (classificabili principalmente in sintomi di iperattivazione, sintomi intrusivi e sintomi di evitamento) sono influenzati dalla durata, dalla natura, dall’intensità dell’evento, dal particolare momento biografico dell’individuo e dalle sue peculiarità difensive che condizionano una serie di sviluppi fisio-psicologici e possono condurre a manifestazioni psicopatologiche a carattere acuto e cronico. La comparsa di queste espressioni patologiche dipenderà anche da una variabile individuale, determinata dalla capacità di adattamento del soggetto, denominata resilienza e capace di collocare e dare significato all’evento all’interno della propria storia personale.

Il trauma psichico può essere sinteticamente definito come una lacerazione improvvisa, violenta ed imprevedibile dell’integrità psichica, capace di provocare un’alterazione permanente delle capacità di adattamento del soggetto.

Le caratteristiche dell’evento traumatico, importanti da analizzare ai fini di una netta distinzione tra stress e trauma, sono la subitaneità e l’imprevedibilità, fattori che non permettono manovre difensive immediate. 

Tuttavia, negli ultimi anni sono state eseguite molte ricerche sul PTSD in ambito militare, soprattutto negli Stati Uniti che offrono una popolazione oggetto di studi di notevole rilevanza, i cui risultati hanno portato ad elaborare un percorso di supporto psicologico per i militari basato su interventi preventivi, d’emergenza e successivi all´impiego del militare in teatro operativo. Molti Paesi coinvolti in interventi operativi hanno, già da tempo, elaborato piani di supporto psicologico ai militari, dislocando, in ogni Reparto presente in teatro, un’Unità di Combat Stress Control, costituita da un nucleo operativo di Psichiatri e Psicologi.

Nel contempo, sono stati implementati appositi processi addestrativi e procedure riabilitative, ponendo una particolare enfasi su prevenzione, sensibilizzazione, empowerment e sostegno. Ciò significa che, prima di impiegare un militare in teatro operativo, sono attivati dei piani di formazione specifici, seguiti dal monitoraggio in loco, e, inoltre, viene fornito un supporto alle famiglie soprattutto in caso di eventi traumatici occorsi al congiunto.

E´ opportuno suddividere gli interventi sulla base di due differenti obiettivi temporali: breve/medio termine e lungo termine. Gli attori principali presi in considerazione come oggetto di intervento sono tre: i comandanti (al fine di fornire loro strumenti per riconoscere, valutare e supportare casi di PTSD), i combattenti e le famiglie. Il protagonista attivo dell´intervento è il personale qualificato (Psichiatri e Psicologi) che svolge un ruolo fondamentale durante tutto il Deployment Cycle (comprendente le fasi di dislocamento di un’Unità: pre-deployment, deployment, post-deployment).

Supporto a breve e medio termine

  • Pre-Deployment: un Team di Supporto in Patria (presso il contingente o durante il corso di indottrinamento) che opera al fine di far acquisire un´adeguata conoscenza sulla psicofisiologia dello stress in operazioni, sulle strategie di coping, sul controllo delle reazioni da combat stress ed affrontare le situazioni prevedibilmente traumatiche e stressanti tramite tecniche di gestione dell´evento traumatico, come ad esempio: Stress Inoculation Training (modalità di intervento psicologico per far fronte alle conseguenze disfunzionali dello stress sulla base di un modello di analisi dell’esperienza del soggetto sottoposto ad opportune sollecitazioni ambientali che rappresentano potenziali eventi traumatici.
    ) e Comprehensive Soldier Fitness Program (programma multifunzionale sviluppato da US Army per rafforzare la resilienza). L´attività da svolgere in questa fase è fondamentale, in virtù del fatto che il PTSD si presenta quando la reazione all´evento traumatico è pervasa da intensa paura, impotenza e orrore (criterio A2 secondo DSM-IV-TR, eliminato dalla lista dei criteri nel DSM 5 poiché esprime elementi soggettivi non utili ai fini diagnostici). Il livello di resilienza a questi tre elementi può aumentare con un adeguato addestramento basato sull´acquisizione di metodologie specifiche come: respirazione tattica (tecnica utilizzata per ottenere un controllo su risposte fisiologiche e psicologiche allo stress al fine di una migliore gestione della frequenza cardiaca, delle emozioni, della concentrazione e al fine di prevenire la paura intensa), esercitazioni in ogni scenario (per ridurre il senso di impotenza), inoculazione di fattori traumatizzanti (per limitare il senso di orrore);
  • Deployment: un Team di Supporto in teatro operativo costituito da personale specializzato in psicologia d´emergenza che utilizza strumenti specifici: colloqui e questionari, pronto soccorso emotivo individuale o di gruppo, programmi di gestione dello stress da incidenti critici come il defusing (tecnica di pronto soccorso emotivo basata su un intervento breve organizzato per il gruppo reduce da un evento traumatico da effettuare subito dopo l’episodio. L´intervento tende ad aiutare a diminuire la tensione e lo stress traumatico, attraverso la condivisione verbale dell’esperienza), tecniche di debriefing come il Critical Incident Stress Debriefing (il CISD mira a gestire emozioni intense attraverso la verbalizzazione del trauma, con il sostegno di un team o dei pari, sfruttando fattori terapeutici del gruppo utili alla riduzione dello stress post traumatico), tecniche di intervento sulla fatica da combattimento, interventi di desensibilizzazione e rielaborazione emozionale del trauma come l`Eye Movement Desensitization And Reprocessing (EMDR), terapie farmacologiche, strumenti di preparazione al rientro);
  • Post-Deployment: un Team di Supporto in Patria (presso il contingente o strutture sanitarie militari) che agisce al fine di supportare il personale con PTSD tramite tecniche specifiche (Terapia cognitiva-comportamentale, EMDR, terapie farmacologiche). Un militare potrebbe non facilmente poter evitare gli stimoli associati al trauma (criterio C sia nel DSM-IV-TR sia nel DSM 5) e dovrà affrontarli e riviverli tramite lenti processi di reintegro degli stessi utilizzando metodi di addestramento realistici (ad esempio i simulatori);
  • Supporto familiare: un Team di Supporto durante tutte le fasi del Deployment Cycle (presso il contingente o strutture sanitarie militari) al fine preparare e supportare il nucleo familiare (adulti e bambini). Il PTSD non ha impatto solo sul militare traumatizzato, bensì su tutti coloro che siano a lui legati. Occorrerà, quindi, intervenire anche sui suoi familiari per limitare qualsiasi conseguenza del trauma diretto o indiretto.

Supporto a lungo termine

  • Creazione di un Center for Deployment Psychology, all´interno del settore sanitario militare, che si occupi di ogni tipo di problematica psicologica inerente al dislocamento in teatro operativo e che possa coordinare le attività svolte dai Team di Supporto, svolgere corsi specialistici per formatori, comandanti, combattenti e familiari finalizzati alla preparazione agli eventi traumatici e allo stress conseguente, seguire il decorso del personale e dei familiari, elaborare studi statistici ed analizzarne i risultati, svolgere attività divulgativa sulla problematica;
  • Creazione di una Combat Military Psychology Community specializzata in attività di intervento durante il Deployment Cycle a stretto contatto con il mondo accademico e militare nazionale ed internazionale;
  • Supporto familiare Strutturato che possa far riferimento ad una struttura militare specializzata nel settore di intervento orientato alle famiglie;
  • Sviluppo di una logistica operativa orientata al benessere del militare nel periodo di dislocamento che possa aiutarlo a rafforzare la resilienza (attività fisica, sociale, culturale, spirituale, ludica).

 

La grande lezione che le guerre continuano ad impartirci è che esse non terminano con il cessate il fuoco, ma continuano nelle menti degli attori, attivi e passivi, i quali sviluppano spesso conseguenze potenzialmente debilitanti.

Ogni militare, prima di essere inviato in teatro operativo, necessita di acquisire un addestramento specifico finalizzato ad affrontare al meglio ogni evento potenzialmente traumatico. Non recuperare un militare che ha subìto un trauma significa rischiare di avere un professionista che non ha superato l’evento critico, con tutte le conseguenze derivabili sul piano socio-comportamentale e visibili sia in ambito lavorativo sia privato.

Per raggiungere efficacemente l’obiettivo di riabilitare un militare dopo un evento traumatico è necessario elaborare un programma di supporto psicologico, da svolgere durante il Deployment Cycle, caratterizzato da una multidimensionalità di intervento e da immediatezza dell’azione, a sostegno del militare e anche della sua famiglia, basato su un approccio olistico alla problematica, definendo un insieme di interventi tra loro armonicamente collegati.

 

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American Sniper: un riflettore sul PTSD nei veterani di guerra – Cinema & Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association. (2000). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Quarta Edizione Rivista. Tr. it. Milano. Masson.
  • American Psychiatric Association. (2014). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Quinta. it. Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA

SITOGRAFIA:

Arti marziali & benessere psicologico – II parte

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

Nelle arti marziali così intese, il tramite principale tra corporeità, lo sviluppo delle capacità autoregolatorie e le potenzialità interiori della persona, è la respirazione. Nel tai chi chuan le tecniche vengono eseguite sempre sulla base di un corretto allineamento dei segmenti osteo-muscolari, tra di loro e rispetto alla forza di gravità.

La pratica marziale condotta da un istruttore esperto e preparato richiede all’allievo un continuo monitoraggio degli stati del suo corpo. Ciò serve per raggiungere una condizione di rilassamento dalle tensioni muscolari che compromettono la qualità della tecnica. Il bravo istruttore segnala gradualmente e in modo sempre più sofisticato quale segmento del corpo è teso e impedisce la fluidità del movimento; porta continuamente l’attenzione dell’allievo in quel segmento, abituandolo a compiere poi da solo questa operazione in modo sempre più sofisticato ed efficace. In altre parole, l’istruttore favorisce un’amplificazione della percezione dello stato del corpo dell’allievo.

Questa amplificazione propriocettiva ed enterocettiva col tempo si estende oltre i momenti della pratica, ed è facilmente rievocabile anche nel corso di stati emotivi problematici. A lungo andare l’allievo vede incrementare la propria capacità di decodificare lo stato del suo corpo, e di modificarlo sensibilmente, anche in situazioni che esulano dal contesto dell’allenamento.

Nelle fasi più avanzate dell’apprendimento, la pratica è tesa  a sviluppare una coesione mentale di ordine superiore, che deriva dalla capacità di regolare gli stati mentali problematici regolando il corpo. L’allievo impara a riconoscere che uno stato mentale ansioso, preoccupato, si associa costantemente a uno stato del corpo specifico; mentre uno stato mentale efficace, pronto, recettivo e concentrato si associa ad uno stato del corpo rilassato e fluido. Diventerà automatico conservare nel corpo la memoria dello stato rilassato e riprodurlo quando è necessario.

Nelle arti marziali così intese, il tramite principale tra corporeità, lo sviluppo delle capacità autoregolatorie e le potenzialità interiori della persona, è la respirazione. Nel tai chi chuan le tecniche vengono eseguite sempre sulla base di un corretto allineamento dei segmenti osteo-muscolari, tra di loro e rispetto alla forza di gravità. Questo allineamento crea le condizioni per una “centratura” del corpo rispetto allo spazio; mentre ogni movimento imparerà ad essere generato dal ritmo della respirazione diaframmatica profonda. Il respiro decide il ritmo e la forza del movimento. Se il respiro viene emesso lentamente e gradualmente, il corpo, centrato, si muoverà lentamente. L’emissione violenta del respiro produrrà un movimento esplosivo.

Lo studio di questa respirazione nel contesto del tai chi chuan ha importanti implicazioni psicologiche. Esistono prove sperimentali su come essa sia correlata significativamente con una riduzione dello stress (Lee et al., 2003; Zhang et al., 2014). Chapell, in un articolo apparso nel 1994 su Perceptual and Motor Skills, ha indagato la relazione tra respirazione diaframmatica e mediatori cognitivi dello stress. L’ipotesi che l’autore propone su base empirica è che l’evidente riduzione dello stress determinata dalla respirazione diaframmatica sia dovuta a un’attenuazione del cosiddetto “chiacchierio interno”, quella sorta di rumore cognitivo di fondo, che in alcuni soggetti si intensifica fino alla ruminazione, e che occupa la nostra mente durante le attività quotidiane, impedendo una vera attenzione sulle cose e sul momento presente. Il chiacchierio interno si  associa ad attivazioni involontarie e irregolari dei movimenti respiratori e dei muscoli connessi con la fonazione; movimenti simili a quelli che si realizzano quando parliamo realmente.

La respirazione diaframmatica, grazie alla sua lentezza, regolarità e profondità, compete secondo Chapell con quelle attivazioni muscolari irregolari, quindi ridurrebbe il chiacchierio interno associato ad esse. L’attenuazione del chiacchierio interno implica un rallentamento della successione dei pensieri, soprattutto quelli afinalistici e fuori contesto. La mente diventa più attenta e focalizzata sul momento presente, perchè più libera dal rumore di fondo del chiacchierio interno e dalla sollecitazione neurovegetativa ad esso correlata. Diverrà più facile e immediata l’intuizione delle connessioni tra eventi contingenti e pensieri, e dei processi mentali che ci portano ad attribuire significati spesso disfunzionali a quanto ci accade, alimentando emozioni negative.

Su questa base sarà possibile porre sotto uno sguardo critico quei processi. Riusciremo più prontamente a dire a noi stessi che quel dato evento ha generato in noi un’emozione così dolorosa perchè lo abbiamo letto in un determinato modo; comprenderemo che è stata la nostra lettura, la percezione di sè che dietro essa si cela, a dotare l’evento di una carica così dolorosa. Il chiacchierio interno sarà allora sostituito da un “dialogo” interno della mente con se stessa e della mente col corpo. Sulla base di questo dialogo abbiamo inoltre accesso al senso della sostanziale transizionalità dell’emozione negativa: l’emozione  è alimentata dal significato doloroso; non appena rivediamo criticamente quel significato, l’emozione si disperde o si attenua.

I risultati di Chapell hanno ricevuto numerose conferme empiriche. Per esempio, Philippot e Dallavalle (1998) hanno mostrato come le modalità e la qualità delle respirazione abbiano un impatto significativo sullo stato emotivo: la respirazione diaframmatica è correlata con una più efficace regolazione emotiva, e quindi con un maggior benessere psicologico.

Esistono diverse evidenze empiriche circa i meccanismi fisiologici alla base di questa correlazione. Gli ampi movimenti che il diaframma compie attraverso le fasi di questa respirazione determinano un’alternanza continua di compressione e decompressione degli organi addominali.

Lo studio di Zhang et al. (1992), ha misurato le variazioni di pressione esofagea e gastrica nelle fasi di inspirazione ed espirazione durante la pratica del tai chi chuan in un gruppo di otto soggetti. Gli autori hanno riscontrato che le variazioni significative di pressione negli organi addominali determinata dalle escursioni diaframmatiche genera le condizioni per una sorta di “massaggio dolce” agli organi addominali stessi. Questo determina a sua volta una vasodilatazione e un conseguente aumento della superficie del letto capillare. Il flusso ematico nei tessuti aumenta, il metabolismo cellulare viene stimolato e viene favorita l’eliminazione delle sostanze di rifiuto.

Inoltre, la stimolazione meccanica degli organi addominali e l’aumento della pressione negativa toracica determinato dall’ampia escursione diaframmatica in inspirazione favoriscono un aumento naturale del ritorno venoso; il che si traduce in un miglioramento dell’efficienza dei processi che fanno riconfluire il sangue dagli organi addominali e toracici alle vene cave e quindi al cuore, che può a sua volta trasferirlo più efficacemente nel circolo sistemico. Questo si traduce in un aumento del flusso a livello di tutti gli organi peiferici e in una loro più efficace ossigenazione e nutrizione. Dal punto di vista fisiologico, quindi, i benefici di questo tipo di respirazione saranno evidenti a livello sistemico.

Esistono diverse prove empiriche dei benefici della pratica protratta della respirazione tai chi anche sulle funzioni cerebrali superiori. Litscher e collaboratori (2001), per esempio, hanno studiato gli effetti sulle funzioni corticali in due maestri mediante ultrosonografia doppler, riscontrando un aumento del flusso ematico cerebrale, con conseguente miglioramento dell’ossigenazione e dell’efficienza delle cellule nervose. Altri studi mostrano una correlazione significativa tra pratica del tai chi chuan e miglioramento della modulazione vagale, che a sua volta è correlata con sensazioni soggettive di calma e tranquillità (Lu e Kuo, 2003).

Questo dato è coerente con quanto riportato da Ryu et al. (1996), che aveva evidenziato un significativo incremento dei livelli ematici di endorfina durante la respirazione tai chi. Altri autori hanno evidenziato gli effetti benefici che questi cambiamenti neurofisiologici determinano sulla qualità del sonno (Li et al., 2004), sui sintomi depressivi (Tsang et al., 2002), sui sintomi ansiosi (Sharma & Haider, 2014), e più in generale sul benessere psicologico (Tsang et al., 2003).

Questi sono solo alcuni tra i riscontri empirici più significativi sul rapporto tra arti marziali e benessere psicologico. Prima di concludere, però, può essere interessante citare un dato di review nettamente contrastante. Endresen e Olweus (2005) hanno esaminato i possibili effetti dei “power sport” (tra cui le arti marziali orientali) sul comportamento aggressivo e antisociale nei soggetti tra gli 11 e i 13 anni, riscontrando che queste discipline sembrano correlate con un’amplificazione di tali condotte.

Come spiegare una discrepanza del genere? Equilibrio psicofisico, sviluppo delle potenzialità personali, regolazione emotiva…tutte chiacchiere? In realtà, andando al sodo, sempre di menare le mani si tratta? La risposta più ovvia spontanea. Dipende dal maestro. Esattamente come per la psicoterapia.

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BIBLIOGRAFIA:

Attacco di panico: che cos’è e come funziona?

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (04)

 

 

L’Attacco di Panico è un periodo di paura o disagio intensi in assenza di vero pericolo e accompagnati da almeno sintomi cognitivi o somatici. L’attacco di panico raggiunge rapidamente l’apice e si manifeste con breve durata, solitamente non superiore ai 10 minuti.

Gli attacchi di panico possono essere

(1) inaspettati quando non è possibile associare l’attacco a un fattore specifico preciso,

(2) sensibili alla situazione se sono associati a contesti specifici (es: la guida in autostrada).

I sintomi che possono caratterizzare l’attacco di panico sono: palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, sensazione di soffocamento, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento, derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi), paura di perdere il controllo o di impazzire, paura di morire, parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio), brividi o vampate di calore.

Il circolo del panico si fonda sulla paura della paura, cioè il timore di tutti quei segnali fisici che corrispondono alla paura (es: affanno, tachicardia, brividi, pressione al petto ecc…). La paura è un emozione che si attiva quando l’individuo percepisce una minaccia. La paura prepara il corpo a reagire a questa minaccia. 

Cosa succede quando uno dei segnali corporei della paura viene esso stesso interpretato come una minaccia (paura della paura)? Il corpo reagisce aumentando i segnali della paura. Si innesca in questo modo un vortice di apprensione e la paura si trasforma in panico.

Il vortice del panico è favorito dal fatto che il cambiamento fisiologico iniziale è spesso improvviso e inspiegabile. Il panico può spaventare a tal punto da diventare oggetto di preoccupazione anticipatoria. Cioè la persona può iniziare a temere di avere nuovi attacchi di panico.

Il rischio è reagire evitando tutte le situazioni che possono attivare un attacco di panico oppure affrontare le situazioni solo se accompagnati da qualcuno. In questo modo si innesca un problema di agorafobia, intesa come la paura relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali può essere difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nei quali può non essere disponibile aiuto in caso di un improvviso attacco di panico. Una delle conseguenze pericolose dell’agorafobia è quello di ridurre l’autonomia e rinunciare ad attività quotidiane piacevoli o utili per la soddisfazione personale.

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La tetrade oscura: sadismo, narcisismo psicopatia e machiavellismo a portata di collega

Viene chiamata “Dark tetrad”, concetto che aggiunge aspetti di sadismo alla “Dark Triad“, la triade nera, quel gruppo di personalità caratterizzate da tratti narcisistici, psicopatici e machiavellici. Sono più comuni di quanto ci si aspetta e si incontrano spesso nei ruoli dirigenziali, negli uffici, tra i business man. Sono persone maligne e sfruttatrici ma non così tanto da cadere in azioni malevoli tali da essere allontanate o arrestate. Ma una cosa è certa: è importante saperle riconoscere. 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Many features of corporate psychopaths can be mistaken for leadership or positive traits. For instance, their lack of emotional responsiveness can be seen as a good business trait for leaders to possess, their grandiose promises and ambition to be successful can be seen positively for corporations.

How to tell if the guy in the next cubicle is an everyday sadistConsigliato dalla Redazione

The Dark Tetrad of personalities: they don’t get along? They get ahead. (…)

Tratto da: Quartz

 

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Facebook: il confronto con gli altri può renderci depressi? – Psicologia del Social Network

FLASH NEWS

“Facebook può essere un passatempo salutare e divertente se lo si utilizza per restare in contatto con la propria famiglia o con qualche vecchio amico. Tuttavia, se esso è utilizzato per indagare il benessere economico di un conoscente o la relazione sentimentale di un amico intimo – cose che causano invidia agli altri utenti – può conseguirne lo sviluppo di una sintomatologia depressiva”.

L’utilizzo di Facebook è diventata un’attività quotidiana per molti milioni di persone, nel bene e nel male. Proprio perché l’impatto di tale social network è stato così ampio, gli psicologi sono interessati ad approfondire il vissuto emotivo a esso associato e studiare il modo in cui il suo utilizzo quotidiano può influenzare la salute mentale degli individui.

In particolare, i ricercatori dell’University of Missouri hanno scoperto che l’utilizzo di Facebook può suscitare invidia tra i suoi fruitori, portando conseguentemente allo sviluppo di sintomi depressivi. Margaret Duffy, docente di comunicazione strategica presso l’ MU School of Journalism, afferma che la modalità e gli scopi con cui si utilizza il social network determinano le reazioni emotive delle persone. Più precisamente, “Facebook può essere un passatempo salutare e divertente se lo si utilizza per restare in contatto con la propria famiglia o con qualche vecchio amico. Tuttavia, se esso è utilizzato per indagare il benessere economico di un conoscente o la relazione sentimentale di un amico intimo – cose che causano invidia agli altri utenti – può conseguirne lo sviluppo di una sintomatologia depressiva”.

Insomma, un conto è l’utilizzo intelligente di un social network in quanto tale, ovvero come strumento per mantenere attivamente una rete di contatti interpersonali; diverso è invece utilizzarlo per ficcanasare, spettegolare, scuriosare i fattacci altrui e rimanere costantemente delusi e insoddisfatti quando qualcuno dei nostri contatti pubblica le foto di una vacanza costosa in qualche luogo da favola, o immortala momenti intimi di apparente perfezione con il proprio partner o, ancora, fotografa la propria lussuosa auto nuova fiammante.

Quello che Duffy e Edson Tandoc, dottorando presso l’MU ed assistente docente presso la Nanyang Technological University a Singapore, definiscono “survelliance use of Facebook”, consiste nel servirsi di esso come strumento per confrontare la propria condizione e stile di vita con quelli altrui.

In questo studio, gli autori hanno osservato molti giovani utenti intenti nell’utilizzo del social network, concludendo che nel momento in cui se ne fa un utilizzo del tipo “surveillance” si tendono a provare sentimenti d’invidia ed una serie di sintomi depressivi ad essa associati. Queste persone dimenticano probabilmente che uno dei motivi che spinge le persone ad utilizzare i media è la possibilità di riflettere tramite questi un’immagine positiva di sé stessi. Insomma, provare invidia, oltre ad essere controproducente, è anche del tutto immotivato: nessuno pubblicherà mai foto del proprio partner colto sul fatto mentre tradisce, nessuno diffonderà un selfie scattato nel momento successivo alla comunicazione del proprio licenziamento, nessuno condividerà la foto di quel giorno che siamo tornati a casa e l’abbiamo trovata devastata dopo che degli abili topi d’appartamento vi hanno fatto visita. Sarebbe comunemente ritenuto assurdo dare un’immagine di sé stessi come traditi, licenziati, derubati … in altre parole, deboli e sfortunati. Sarebbe un colpo basso inferto alla propria autostima!

“E’ importante che si studi l’impatto dei social media” dice Tandoc.Basandoci sui nostri studi, che d’altra parte sono in linea con quanto riscontrato fino ad ora da altri ricercatori, l’utilizzo di Facebook può avere effetti positivi sul benessere personale. Ma quando causa invidia tra gli utenti, allora questa è tutta un’altra storia. Le persone dovrebbero essere consapevoli di quanto sia importante nella nostra società l’immagine che si dà di sé stessi, motivazione che spinge gli individui a postare solo foto e commenti che possano dare un’idea positiva e un aiutino all’autostima che, probabilmente, è tanto scarsa da calpestarla. Questa consapevolezza diminuirebbe senz’altro i sentimenti d’invidia e il conseguente sviluppo di tratti depressivi, dandoci modo di utilizzare Facebook come quel che dovrebbe essere, una risorsa che ci consenta di mantenere attiva la nostra rete sociale.”

 

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Il contagio emotivo su Facebook è possibile? I risultati della ricerca

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia: Bando 2015 per 2 Borse di Studio da 3000€

!!! SCADENZA 31 MARZO 2015 !!!

È indetto pubblico CONCORSO NAZIONALE per l’assegnazione di due borse di studio dell’importo di € 3.000,00 (€ Tremila/00) ciascuna per un lavoro inedito in materia di NEUROSCIENZE e PSICOLOGIA sul tema:

MALATTIE NEURODEGENERATIVE: ASPETTI CLINICI, PSICOLOGICI ED ASSISTENZIALI

La partecipazione al concorso è riservata:

  • laureati in Medicina e Chirurgia
  • laureati in Psicologia

che abbiano conseguito il titolo non prima dell’anno accademico 2005/2006. I lavori, inediti, devono pervenire in sei copie entro il 31 MARZO 2015 alla

 

Segreteria del Premio Nazionale

Fondazione “Opera Santi Medici Cosma e Damiano – Bitonto – ONLUS” Piazza Mons. Aurelio Marena, 34 – 70032 Bitonto (Ba)

 

I lavori, in formato cartaceo e digitale su cd rom, anonimi e contrassegnati da un motto, devono essere chiusi in un plico che dovrà altresì contenere una busta chiusa con all’interno:

  • foglio che riporti il motto e le generalità del candidato;
  • copia del certificato di Laurea e/o attestato del Responsabile del Centro presso cui il lavoro di ricerca è stato eventualmente effettuato;
  • sintesi del lavoro presentato (non più di tre cartelle);
  • curriculum vitae et studiorum del candidato;
  • dichiarazione del consenso del trattamento dei dati personali ai sensi del D. Lgs. 196 del 2003.

Il giudizio della Commissione esaminatrice, composta da rappresentanti della scienza medica, nominata e presieduta dall’Arcivescovo di Bari-Bitonto, è insindacabile.

Il Premio Nazionale Santi Medici sarà consegnato nel mese di Maggio 2015

SCARICA LA LOCANDINA

 

 ARGOMENTI CORRELATI: PSICOLOGIANEUROSCIENZE

PREMIO STATE OF MIND PER LA RICERCA IN PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA

Giornata mondiale della sindrome di Asperger: i mille volti del disturbo in tv e al cinema

Dal protagonista di “Adam” a Sheldon Cooper di “The big bang theory”: i mille volti della sindrome di Asperger al cinema e in tv

Il 18 febbraio, in occasione della Giornata mondiale sulla sindrome di Asperger, Erickson e Spazio Asperger ONLUS presentano una carrellata sulle rappresentazioni cinematografiche di un disturbo molto più diffuso di quanto si creda.

Domani, 18 febbraio, è la giornata mondiale della Sindrome di Asperger, una condizione dello spettro autistico lieve che nelle persone si traduce in una serie di difficoltà nella reciprocità sociale ed emotiva, e nella comunicazione non-verbale.

ARTICOLI E RISORSE SU: DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

Le persone Asperger hanno un profilo atipico per quanto riguarda sensi, emozioni, pensieri e comportamenti. Possono sembrare persone bizzarre o maleducate, solitarie o altezzose. E con interessi limitati, preoccupazioni inusuali e una certa propensione verso azioni ripetitive e atipiche.

[blockquote style=”1″]Sono le persone che nessuno immagina che possano fare certe cose quelle che fanno cose che nessuno può immaginare.[/blockquote]

Dal film “The Imitation game”

Sicuramente tutti noi abbiamo incontrato almeno una persona Asperger. Forse l’abbiamo giudicata semplicemente un po’ insolita, fuori dagli schemi. Mentre ne abbiamo conosciute molte altre attraverso gli schermi televisivi e cinematografici. Tra film e serie tv, la Sindrome di Asperger è stata raccontata in molti modi diversi e proprio le storie narrate nei film ci permettono di capirla un po’ più facilmente. Con la consulenza di David Vagni di Spazio Asperger Onlus abbiamo cercato di ricostruire l’unicità e l’identità nella Sindrome di Asperger attraverso la sue diverse rappresentazioni. Perché così come ogni Asperger è diverso, ogni personaggio può manifestare, esplicitamente o in maniera latente, solo alcuni tratti della sindrome.

C’è però un aspetto che accomuna le storie di molti Asperger: «È il senso di non appartenenza, la costante sensazione di essere pesci fuor d’acqua, fuori sincronia e sordi alla danza sociale che avviene intorno a noi. È la Solitudine dei numeri primi» dice David Vagni.

ARTICOLI SU: IL SENSO DI APPARTENENZA

Uno dei più famosi “numeri primi” narrati dal cinema è Adam, un ragazzo cresciuto, a causa delle sue difficoltà, in un ambiente iperprotettivo, consapevole di essere Asperger e intrappolato da questa etichetta. Non riesce a capire i desideri e i sentimenti degli altri. Vive una storia di amore intensa ma piena di incomprensioni a causa delle sue interpretazioni letterali e della sua tendenza a dire sempre tutto quello che gli passa per la mente.

Molto diverso è Oskar: a soli 9 anni, se ne va in giro con già in tasca un biglietto da visita. Spinto al miglioramento dal padre, è un bambino brillante, con interessi particolari, differenti da quelli dei coetanei. Ha un linguaggio molto ricercato, ricco di termini enciclopedici. Oskar esplora New York con la sua macchinetta fotografica e registra persone, oggetti, dettagli. Ha bisogno di trasformare la vita in immagini da non dimenticare. Ma non provate ad abbracciarlo, altrimenti si agita. E se lo invitate a una festa, non alzate il volume della musica perché i suoni alti lo farebbero gridare. Emozioni? Intense e difficili da esprimere. Il suo mondo è Molto forte incredibilmente vicino. Vi condurrà in un’avventura di crescita personale.

Ben-X, come accade spesso nei ragazzi Asperger, ha come proprio interesse specifico il computer, in particolare un gioco di ruolo online, dove impersona un cavaliere leale e dalla forte integrità morale che difende la principessa Scarlite, avatar di una ragazza che guiderà il giovane nel corso del film verso un´imprevedibile soluzione finale. Ben subisce, senza riuscire a capire come evitarla, l’aggressione di coetanei bulli che arrivano a umiliarlo al punto di fargli decidere di abbandonare la scuola e ritirarsi a vivere segregato in casa. Come sostiene lo psicologo australiano Tony Attwood, il più grande esperto mondiale sulla sindrome di Asperger, questi ragazzi «non soffrono a causa della sindrome, ma a causa delle persone che li circondano».

Anche se è certo che la sindrome di Asperger è più comune nei ragazzi che nelle ragazze, negli ultimi tempi donne e ragazze Asperger che iniziano a essere rappresentate anche nei film.

Il riccio presenta un bel rapporto tra una giovane Asperger e un mentore saggio in grado di capirla. I problemi alimentari e famigliari si intrecciano con i preconcetti di una cultura che non accetta la diversità. Destino migliore Amelie che ci trasporta nel suo fantastico mondo. Un personaggio che sembra uscito da una favola, ingenua e pulita, desiderosa di aiutare il prossimo e capace di stupirsi davanti alle piccole cose. Una storia felice che spesso purtroppo nella realtà non è tale.

Passando ai telefilm, incontriamo Bones, antropologa forense le cui abilità sul lavoro e la cui onestà sono inversamente proporzionale alle sue abilità sociali. Completamente diversa è Lisbeth: giacca in pelle nera, piercing, tatuaggi. Odia gli Uomini che odiano le donne. Calcolatrice e a volte spietata è tra i migliori hacker al mondo. La sua storia costellata di abusi e violenza ha nascosto a lungo il suo cuore.

Come dice Attwood: «Ci sono le brave ragazze, perfette nell’evitare i guai, anche troppo. E quelle che dicono: “Ah. Va all’inferno. Mi tingo i capelli, mi faccio piercing e tatuaggi. Odio il mondo e… vada a quel paese… il mondo intero!” Ed escono fuori dai binari perché odiano il mondo e quindi pensano: “Perché dovrei essere coerente?”».

Un altro tipo di donna Asperger è presente in Crazy in Love, film che racconta la storia di amore tra due Asperger, in qualche modo prototipi di due lati spesso mescolati caoticamente dell’essere Asperger. Ragione ed emozione. Un ragazzo rigido, preciso e iper-razionale; una donna artistica ed emotiva: come andrà a finire?

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Protagonista di una famosissima sit-com è Sheldon Cooper: fisico teorico di professione, ossessivo e infantile, all’apparenza cinico, spesso in rapporto conflittuale con il suo gruppo di amici in The Big Bang Theory, uno stereotipo comico della sindrome di Asperger che attraverso l’ironia rende possibile l’accettazione. Altro scienziato, questa volta storico, è Alan Turing, ritratto in The Imitation Game. Il suo contributo alla criptografia ha permesso di salvare milioni di vite durante la seconda guerra mondiale.

Perché, quindi, non chiudere questo breve carosello con una delle frasi finali del film: “Ora, se desidereresti essere nato normale… Ti posso giurare che io non lo desidero. Il mondo è un posto infinitamente migliore precisamente perché non lo sei”.

 

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Disturbi dello Spettro Autistico – Autismo

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Le Edizioni Centro Studi Erickson si occupano dal 1984 di didattica, educazione, psicologia, lavoro sociale e welfare attraverso la produzione di libri, riviste, software didattici e servizi on-line. Pubblicazioni molto conosciute e apprezzate, perché affiancano la presentazione scientificamente rigorosa di teorie e metodologie innovative a suggerimenti operativi, studi di caso e buone prassi. Attualmente le Edizioni Erickson hanno un ricco catalogo che tocca i temi delle difficoltà di apprendimento, della didattica per il recupero e il sostegno, dell’integrazione delle persone diversamente abili, delle problematiche adolescenziali e di quelle sociali. Ampio spazio è dedicato anche all’autismo e alla sindrome di Asperger.

Spazio Asperger ONLUS è un’associazione di professionisti e persone nello Spettro Autistico, impegnata nella ricerca scientifica e nella diffusione di buone pratiche e cultura attraverso la formazione e il supporto di persone, famiglie e professionisti. La sua missione è la valorizzazione della neurodiversità attraverso l’educazione, la comprensione e l’inclusione sociale.

Per maggiori informazioni: [email protected]

Dalla paura all’ansia – Introduzione alla Psicologia (03)

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (03)

 

 

Ansia e paura hanno lo stesso interruttore nel cervello, ovvero sono codificate nella medesima area cerebrale, ma i motivi per cui si manifestano sono diversi.

 

Proviamo a fare un gioco? Chiudi gli occhi e immagina qualcosa di molto spaventoso. D’istinto, cosa hai voglia di fare? Scappare, giusto! Infatti, la fuga è la prima reazione automatica che utilizziamo quando percepiamo di essere in pericolo. Lo scopo è quello di difenderci o di scappare dalla situazione pericolosa.

Questa risposta, chiamata in gergo ‘attacco-fuga’, è accompagnata da una serie di modificazioni fisiologiche che avvengono nel nostro corpo: il cuore batte più velocemente del solito, ci sentiamo tesi, respiriamo rapidamente, sudiamo, abbiamo la bocca secca e siamo molto più vigili perché dobbiamo capire istantaneamente cosa fare per metterci al sicuro o ci paralizziamo totalmente. La paura è una emozione provata da tutti, soprattutto in condizioni di reale pericolo.

Capita, a volte, che la paura diventi qualcosa di diverso e, a questo punto, ci troviamo a imboccare un sentiero più tortuoso e dissestato, che chiameremo ansia.

Ansia e paura hanno lo stesso interruttore nel cervello, ovvero sono codificate nella medesima area cerebrale, ma i motivi per cui si manifestano sono diversi. Nel primo caso, quando proviamo paura, siamo spaventati da qualcosa di reale. Se dovessimo sostenere un esame, è normale aver paura, ma nel momento in cui vorremmo andasse tutto secondo i nostri piani, cioè prendere assolutamente un trenta e lode, e chiaramente non si ha la certezza che questa cosa si verifichi, allora parleremo di ansia e non di paura. Insomma, l’ansia si scatena quando si effettuano previsioni negative e catastrofiche su eventi percepiti come importanti o pericolosi.

Anche in questo caso ci sono una serie di modificazioni fisiologiche simili a quelli della paura: giramenti di testa, vertigini, senso di confusione, mancanza di respiro, senso di costrizione o dolori al torace, appannamento della vista, senso di irrealtà, il cuore batte in fretta o salta qualche battito, perdita di sensibilità o formicolii alle dita, mani e piedi freddi, sudore, rigidità muscolare, mal di testa, crampi muscolari, paura d’impazzire o di perdere il controllo.

Insomma, un’esperienza molto intensa che può spaventare molto.

L’ansia è generata spesso dalle valutazioni che si effettuano su un determinato evento, o meglio dai pensieri, previsioni il più delle volte, su quello che accadrà in futuro. Nell’incertezza che un evento possa non andare come ci piacerebbe, vorremmo controllare evenienze nefaste, a questo punto l’ansia aumenta e si alimenta.

L’ansia, però, potrebbe presentarsi anche senza un motivo apparente, manifestandosi in modo eccessivo e privo di ogni controllo. In questo caso si otterrà una risposta eccessiva e sproporzionata, che innescherà sensazioni di ansia future.

In generale, i pensieri che possono generare ansia sono:

  • Sopravvalutazione del pericolo: Se mi espongo in pubblico sarò un fallimento
  • Sottovalutazione delle proprie capacità di affrontare una situazione: non essendo capace di gestire una situazione di gruppo, allora la evito

Quando le situazioni generano un’ansia difficili da gestire in maniera autonoma e appropriata , ci si rivolge a un psicoterapeuta che fornisce gli strumenti adeguati per affrontarla.

Anche questo viaggio è finito, ci diamo appuntamento alla prossima settimana.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Morto un vecchio frac se ne fa un altro? – Musicoterapia

Quel gruppo mi ha fatto riflettere per l’ennesima volta su come una semplice (ma non banale…) canzone possa essere ricca di significati personali e di letture diverse e possa essere uno strumento utile anche nel lavoro con persone affette da patologie psichiatriche gravi.

Non avevo mai ascoltato bene il testo della canzone Vecchio frac di Domenico Modugno (1955), fino a quando un paziente ha chiesto di ascoltarla durante il gruppo di musicoterapia che tengo settimanalmente nel reparto psichiatrico dove lavoro. Quella mattina il gruppo era iniziato in modo insolito, con due giovani pazienti che avevano pensato di farmi una sorpresa intonando a cappella, dall’inizio alla fine, la celeberrima Margherita di Cocciante (che non sentivo dai tempi delle gite in pullman alle medie). Oltre a portarmi vicino alla commozione, queste sorprese tendono a spiazzarmi e ad alleggerire di un bel po’ la pesantezza e la difficoltà dell’usurante lavoro nell’ istituzione psichiatrica, che per sua natura ha la tendenza a mettere la malattia davanti alla persona (“lunedì trovami un posto letto per uno psicotico”, “No signora, in questo reparto curiamo solo i disturbi del comportamento alimentare, che però non abbiano mai commesso gesti autolesivi”, etc.).

Il brano di Modugno racconta di quest’uomo elegantissimo, un po’ speciale e completamente immerso in una peregrinazione nella solitudine della notte. Tranne un gatto occasionale, gli altri personaggi della canzone sono tutti soggetti inanimati (strade, caffè, fanali, bastone, etc.) e senza quasi che te ne accorgi l’uomo va incontro leggero e fischiettante al tragico finale in cui il frac “se ne scende lentamente, sotto i ponti verso il mare, verso il mare se ne va…”, lasciandoti una sensazione di stupore e di lieve sgomento. Non mi sarei aspettato che nel lontano 1955 il grande Modugno potesse cantare di un suicidio in modo quasi spensierato, ispirato tra l’altro da un fatto reale (il suicidio del principe Raimondo Lanza di Traiba che si defenestrò da un hotel romano).

Il problema era che quella mattina nella sala, su dieci partecipanti al gruppo, almeno quattro avevano considerato seriamente il suicidio nell’ultimo periodo o l’avevano tentato e questo un po’ mi preoccupava, forse in nome del “primum non nocere”, uno dei principi cardine della medicina, che ti inculcano già dai primi anni di università. Capita infatti abbastanza frequentemente che certi brani, proprio per il potere evocativo della musica, possano causare forti reazioni emotive soprattutto nelle persone con la “pelle psichica” più sottile, come i pazienti con personalità borderline, con il rischio conseguente che in questi stati mentali commettano qualche agito.

Lo spettro del suicidio poi, anche solo tentato, aleggia costantemente nei luoghi di cura della psichiatria e nelle teste degli operatori psichiatrici, ben consapevoli in realtà che se uno è determinato a farlo, non può essere impedito neanche da un ricovero nell’ ospedale più sicuro del mondo.

In realtà quella volta, come spesso succede nel nostro lavoro, andò molto diversamente da come paventavo. La persona che aveva fatto la richiesta motivò la propria scelta dicendo che il brano risuonava con i propri pensieri di poter scomparire dal mondo e questo gli procurava una certa serenità e un senso di liberazione dalla sofferenza. Altre persone, anche quelle con recenti tentativi in anamnesi, condividevano lo stesso pensiero e non parevano per nulla turbate dalle parole di Modugno.

Mi pare che questo atteggiamento possa confermare le attuali tendenze psicoterapiche, sempre più ricche di evidenze, che considerano fondamentale l’accettazione anche dei fenomeni mentali più spaventosi. L’evitamento della sofferenza mentale e la tendenza a scappare dall’esperienza psicologica sgradita in realtà possono rappresentare dei fattori di rischio rispetto alla messa in atto di comportamenti suicidari (Luoma JB e Villatte JL, 2011). D’altra parte la sola presenza di ideazione suicidaria, pur meritando sempre la massima considerazione, può tuttavia essere presente in modo transitario in tantissime persone (in certi studi fino al 30%) della popolazione generale (ten Have et al., 2009), senza esitare in gesti autolesivi.

Tornando al gruppo di quella mattina, solo una voce si distingueva dal “coro”: quella di una delle ragazze che all’inizio mi aveva cantato la canzone di Cocciante. Anche lei pareva rasserenata dall’ascolto, ma per un motivo diverso. Nel brano trovava infatti la ricerca del nuovo, immaginando che il protagonista gettasse il proprio frac nel fiume, liberandosi di un pesante fardello per indossare un vestito diverso (“si chiude una porta e si apre un portone!”).

Leggendo il testo anche questa interpretazione ci può stare, perché letteralmente sono il frac e il cilindro a galleggiare, anche se poi nell’ ultima strofa si parla di un “Addio al mondo”, che potrebbe essere inteso (con un eccesso di ottimismo) come il vecchio mondo della persona, pronto a essere rinnovato. La ragazza era alla fine del ricovero e forse, anche grazie al percorso compiuto, mostrava un atteggiamento più positivo, più capace di rielaborare ulteriormente gli stimoli della canzone.

Il gruppo accolse bene anche questa diversa lettura del brano ed alcuni mostrarono un certo stupore.
La cosa curiosa è che tanti anni prima l’impietosa commissione di censura di Stato spingeva l’ascoltatore verso questa interpretazione, quando Modugno fu costretto a cambiare il verso ricorrente “chi mai sarà quell’uomo in frac” in “di chi sarà quel vecchio frac”.

A quei tempi non si parlava ancora di accettazione e mindfulness ed era ancora abbastanza fresco l’“effetto Werther”, l’imitazione dei comportamenti suicidiari ispirati dagli eroi della letteratura. Quel gruppo mi ha fatto riflettere per l’ennesima volta su come una semplice (ma non banale…) canzone possa essere ricca di significati personali e di letture diverse e possa essere uno strumento utile anche nel lavoro con persone affette da patologie psichiatriche gravi. La domanda nasce spontanea: più serenate e meno Serenase?

 

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Arti marziali & benessere psicologico – I Parte

 Sul tatami, con i suoi fratelli di allenamento, vive per la prima volta nella sua vita un senso di appartenenza che trova la sua profonda radice nella corporeità. Condividere la fatica, il sacrificio, il divertimento governato da regole. Apprendere attraverso il proprio corpo, e attraverso il corpo dell’altro.

Alfredo (chiamiamolo così) ha diciannove anni. Dice di avere un corpo di legno. Gli sembra che i segmenti del suo corpo non riescano a evitare di litigare tra loro quando si tratta di intraprendere qualsiasi azione. Le gambe, per esempio, sempre a polemizzare con le braccia invece di collaborare con loro per creare un movimento coordinato. Che so, per camminare. Correre, poi, non se ne parla. Fare sport, un desiderio congelato, che ha smesso di nutrire da quando aveva otto anni. Che strano, però, a guardarlo da fuori Alfredo non sembra affatto il burattino di legno che descrive. Magro, è magro, ma di una magrezza vitale. Segaligna, ma in qualche modo pulsante, muscolare, bisognosa di esprimersi.

Me lo dice dopo i primi dieci minuti della prima seduta: ha letto da qualche parte sul web che insegno arti marziali. Di arti marziali, mi dice, non c’ha capito mai molto, ma – non sa perchè – quell’insolito connubio tra Freud e Bruce Lee lo ha incuriosito. Forse è il motivo principale per cui ha scelto me. Forse per i terapeuti vale la stessa cosa che si dice dei libri. Che non li scegliamo noi, ma sono loro a sceglierci.

Gli dico che fare arti marziali è il modo principale attraverso cui mi prendo cura di me stesso. Sembra colpito. Abbassa lo sguardo e mi dice che anche lui ha bisogno di un modo per prendersi cura di sè. Non è mai riuscito a farlo, dice.

La terapia prenderà forma plasmandosi ogni volta, ad ogni seduta, sull’immediatezza. Aiutarlo a fare un po’ salotto insieme va bene per sciogliere momentaneamente l’esoscheletro stratificato attorno alla sua esistenza. Potrà anche essere di legno ogni volta che entra nel mio studio, ma quando esce voglio che senta di essere fatto di carne viva. Almeno per un po’.

Capiremo insieme che da quando ha ricordo di sè, ha ricordo di una rigidità anche più interna rispetto a quella corporea. Momenti, sempre più frequenti fino a diventare un tono di fondo, in cui l’attenzione rivolta su di sè diventava opprimente. Osservarsi e vedersi vulnerabile, inadeguato, estraneo agli altri.

Comprendiamo cause, svisceriamo copioni interni, attribuiamo colpe a genitori che poi, insieme, perdoniamo. (Ovviamente, senza  usare la parola colpa; in fondo la psicoterapia, tra le altre cose, è anche un po’ questo: dare colpe senza mai darne l’impressione). Confezioniamo cornici di significato che levighiamo con cura. Un giorno, Alfredo ha anche un’intuizione importante. Tutte le volte, numerose, che ha invidiato la forza fisica e la padronanza del corpo che mi ha attribuito nella sua immaginazione, forse ha esagerato. (Si sente fuori campo la voce dei miei menischi rotti che gli danno ragione). Capiamo che forse era solo un altro modo in cui si manifestava la sua percezione di sè come uno che nella vita passerà sempre inosservato.

Passa un anno. Alfredo si innamora. Questo gli era già successo molte volte. La novità è che stavolta la ragazza in questione ne viene informata. La terapia volge lentamente al termine. Ci interroghiamo però su perché, nonostante la strada fatta, ogni volta che una situazione, anche la più innocua, gli elicita quel senso di vulnerabilità ontologica, il corpo ritorni ad essere di legno. Una partita a bowling con la fidanzata e gli amici di lei. Ora sa osservare meglio sul nascere pensieri come “sono tutti migliori di me…più belli, più intelligenti, più spigliati…lei avrebbe potuto scegliere uno di loro, e probabilmente lo farà”. Sa anche metterlo in discussione. “Col dottore abbiamo visto tante volte quanto questo dipenda dal mio schema basato sul rifiuto subito”. Ma questo non basta ad arrestare quella trasformazione della carne in legno. Ad assistere alla perdita dell’immediatezza nello scambio che il corpo stabilisce con lo spazio. Infatti, nella partita a bowling non azzecca manco un tiro. La palla calamitata ogni volta dal canaletto a margine della pista. Quello messo lì apposta perché gli imbranati non facciano danni. Fa perdere la sua squadra tre volte di seguito. Attorno a sè, solo persone sorridenti, che vorrebbero scherzarci su, ma rimangono disarmate dal suo sguardo che diventa sempre più spento. La sua fidanzata vorrebbe abbracciarlo, ma sta imparando che in questi momenti è meglio lasciarlo stare. Ci sarà tempo dopo, quando saranno soli, per rassicurarlo. E a quel punto lui saprà leggere solo la fatica a cui, cronicamente, la costringe. “Sicuramente si stancherà di me”.

Secondo me tra un terapeuta e un maestro di arti marziali non c’è molta differenza, sempre che uno faccia il terapeuta e il maestro di arti marziali in un certo modo. Così mi confeziono la giustificazione della violazione del setting e del confine terapeutico che sto per commettere. Gli dico che la prossima seduta sarà in palestra. Una lezione privata con me e poi, se la roba che gli mostrerò gli piace, valuteremo la possibilità di inserirlo nella collettiva. Non sembra molto sorpreso. Come se si fosse sempre aspettato da me un’uscita del genere. L’occulta simmetria della relazione terapeutica. Tu conosci il paziente e non ti rendi conto che lui finisce per conoscere te.

Fatto sta che accetta, senza farmi molte domande. Solo, vuole sapere che tipo di arte marziale. Gli spiego che pratico due discipline complementari. Tai chi chuan e il jiu jitsu brasiliano. La differenza tra loro è che il secondo è esterno, il primo interno. Esterno vuol dire che studia come produrre ed emettere forza attraverso l’uso, sempre più economico, dei muscoli; interno vuol dire che persegue il medesimo obiettivo attraverso l’uso della respirazione.

Dopo tanti anni di pratica, però, questa distinzione perde senso. L’esterno diventa interno e viceversa. Un’altra differenza importante è che il tai chi chuan studia il combattimento in piedi, mentre il jiu jitsu brasiliano enfatizza il combattimento a terra. Portare l’avversario al suolo, per poi neutralizzarlo e indurlo a desistere dal combattimento, senza l’utilizzo di colpi. Gli dico che secondo me per lui è meglio il jiu jitsu.
Come introduzione teorica è un po’ essenziale. Come terapeuta sono logorroico, come insegnante di arti marziali l’esatto contrario. Comunque gli basta.

Ovviamente, quando sale sul tatami si sente di legno. Quando gli spiego le tecniche, gli parte un riflesso verbale. “Non ci posso riuscire”. Tanto che a un certo punto gli dico, ma con tono calmo – il che rende piuttosto efficace l’intervento terapeutico – che non deve rompere co’ sta storia, perchè è evidente che le cose le sta riuscendo a fare. Ride.

Poi lottiamo. Nel jiu jitsu brasiliano si lotta già nella prima lezione. Il messaggio che sta dietro questo è che la lotta a terra è una  routine ancestrale che condividiamo con molte specie animali, ma che poi perdiamo. I neonati, e i bambini fino a circa quattro anni, compiono spontaneamente molti movimenti tecnici del jiu jitsu brasiliano. Non occorre molto tempo per recuperare questo retaggio motorio evoluzionisticamente fondato, basato sul gioco della lotta a terra come mezzo sicuro, tra fratelli, per acquisire destrezza nel combattimento ed aumentare le possibilità di sopravvivenza.

Un noto maestro disse:

[blockquote style=”1″]”Prendete due persone, insegnategli una tecnica di jiu jitsu ciascuno; poi metteteli su un’isola deserta con la consegna di lottare ogni giorno cercando di utilizzare quell’unica tecnica; tornate dopo tre mesi; troverete due lottatori di jiu jitsu”[/blockquote]

Mentre lotta, Alfredo sembra attraversare diversi stati emotivi. Si arrabbia, perchè ha quasi un quarto di secolo meno di me e ad avere il fiatone è lui (questo è inevitabile quando si lotta con un compagno di allenamento più esperto); gli viene da ridere quando lo faccio volare per poi riachiapparlo in aria e annullare l’impatto col tatami; si sente vulnerabile quando lo immobilizzo per qualche secondo per spiegargli che quello è l’obiettivo quando si lotta.

Sembra anche intuire che io non sto semplicemente insegnandogli, ma mi sto allenando con lui. E mi sto divertendo con lui. Che è molto molto diverso dal divertirsi alle sue spalle. Quella vitalità, che avevo intuito in lui già al nostro primo incontro, trova un canale espressivo. Lui sembra esserne spettatore stupito. Al termine della lotta è stremato.

Si iscrive al corso collettivo. La sua psicoterapia finisce, inizia la pratica marziale. Dopo tre mesi, è un lottatore di jiu jitsu. E si è dimenticato di essere di legno.

Sul tatami, con i suoi fratelli di allenamento, vive per la prima volta nella sua vita un senso di appartenenza che trova la sua profonda radice nella corporeità. Condividere la fatica, il sacrificio, il divertimento governato da regole. Apprendere attraverso il proprio corpo, e attraverso il corpo dell’altro.

Quel senso di appartenenza, è riuscito ad esportarlo anche fuori. Ora, in mezzo agli altri, la memoria somatica del suo corpo, forte, flessibile, fluido, rigido solo nei momenti giusti, immerso in quella via di mezzo tra gioco e combattimento, plasma una diversa percezione di sè. Si può essere vulnerabili, come quando si subisce un’immobilizzazione da un avversario più esperto, ma questo non significa soccombere. Non significa mai essere umiliati. E’ una posizione dell’animo che si può abitare, continuando a lottare-giocare con un altro che tante altre volte, anche lui, ha sperimentato quella stessa vulnerabilità. Chi lotta, nel jiu jitsu, lo fa sempre sentendosi vulnerabile.

Alfredo non rappresenta un caso eccezionale, secondo me. In fondo, uno schema sè/altro ha origine da esperienze radicate nella corporeità. Da stati emotivi somaticamente marcati vissuti in esperienze interpersonali prototipiche. Plausibile che uno schema si possa anche modificare funzionalmente attraverso un approccio sofisticato basato sulla corporeità. Insegnando al corpo a ripensare la mente.

Nella seconda parte approfondirò le basi empiriche su cui si basa questa ipotesi, descrivendo nel dettaglio i processi psicofisiologici che si attivano in alcune pratiche marziali.

CONTINUA DOMANI CON LA SECONDA PARTE

 

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Criminalità & Psicopatia: le punizioni sono sempre utili?

FLASH NEWS

Un programma di prevenzione potrebbe dunque essere più efficace di un provvedimento punitivo: è difatti dimostrato che insegnare ai genitori di bambini che mostrano queste problematiche come affrontare al meglio quella fase dello sviluppo porta a significative riduzioni dei problemi di condotta.

Come è noto, le punizioni oltre a scoraggiare gli atti di delinquenza servono soprattutto a far riconoscere l’errore e trasmettere un nuovo quadro valoriale. Ma questa metodologia è efficace con tutti i tipi di criminali? Un recente studio dell’università di Montreal sostiene di no.

Secondo Blackwood, un criminale con tratti psicopatici presenta delle caratteristiche diverse da un criminale comune, primo fra tutti è l’incapacità di apprendere dalle punizioni. Criminali di questo tipo sembra non traggano alcun beneficio dai programmi di riabilitazione: hanno tassi maggiori di recidività e scontare la pena sembra non influenzi affatto la loro condotta.

Visto che in media uno su cinque dei criminali violenti è anche psicopatico, fare un tentativo per identificare i meccanismi neurali sottostanti il loro comportamento è indispensabile per sviluppare interventi più efficaci.

In questa ricerca gli autori hanno utilizzato le Immagini di Risonanza Magnetica per studiare la struttura e le funzioni cerebrali in un campione di criminali violenti (condannati per omicidio, stupro, tentato omicidio e lesioni personali gravi) in Inghilterra; 12 di loro con diagnosi di disturbo di personalità antisociale e psicopatia, 20 presentavano un disturbo di personalità antisociale ma non erano diagnosticati psicopatici e il gruppo di controllo era invece composto da 18 non-criminali sani.

I risultati mostrano l’esistenza di anormalità strutturali della materia grigia (riduzione bilaterale del volume della corteccia prefrontale rostrale anteriore e dei lobi temporali) in entrambi i gruppi di criminali, ma il gruppo di psicopatici presenta anche anormalità specifiche della materia bianca.

Aver individuato la presenza di alterazioni specifiche della materia bianca potrebbe aiutare a spiegare perché i criminali psicopatici persistono nei loro atti violenti nonostante le punizioni ricevute. Quale alternativa potrebbe essere utile, allora?

Come spiega Blackwood gran parte dei crimini violenti sono commessi da uomini che avevano messo in atto condotte problematiche già da piccoli: gli antecedenti della psicopatia emergono infatti già in giovane età: è allora che la struttura e il funzionamento cerebrale si delineano in maniera più dettagliata, ma è anche il momento il cui ci sono ancora le potenzialità per poter effettuare delle modificazioni.

Un programma di prevenzione potrebbe dunque essere più efficace di un provvedimento punitivo: è difatti dimostrato che insegnare ai genitori di bambini che mostrano queste problematiche come affrontare al meglio quella fase dello sviluppo porta a significative riduzioni dei problemi di condotta, quantomeno nei bambini che non sono ancora del tutto insensibili agli altri.

Ovviamente le dinamiche dei comportamenti violenti persistenti sono sottili e complesse e le anormalità cerebrali associate agli stessi non sono di facile individuazione. Ricerche di questo genere sono cruciali per ottenere le informazioni necessarie per sviluppare programmi di prevenzione e interventi specifici per provare a modificare il comportamento e diminuire il rischio di commettere crimini violenti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Ordine degli Psicologi e MIUR: la figura dello psicologo a scuola come supporto al corpo docente

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Lauro Mengheri, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Toscana, ha annunciato l’accordo tra il MIUR e il Consiglio Nazionale degli Psicologi per promuovere la presenza dello psicologo nelle scuole italiane come aiuto ai docenti ed alunni:

 

È recentissimo l’accordo tra Consiglio Nazionale degli Psicologi e MIUR sulla formazione agli insegnanti su Bisogni Educativi Speciali e Disturbi Specifici dell’Apprendimento, in virtù del quale gli psicologi del territorio nazionale saranno nelle scuole di tutta Italia a promuovere una politica di valorizzazione delle diversità che va ben oltre la certificazione della disabilità e le diagnosi di Disturbi dell’Apprendimento.

[ Toscana ] Psicologi a scuola per valorizzare la diversità. C’è l’accordo tra l’ordine e il MIUR | gonews.itConsigliato dalla Redazione

Per la prima volta l’Ordine degli Psicologi è tra i formatori del mondo della scuola per temi delicati quali la lettura della diagnosi e la personalizzazione della didattica senza costi aggiuntivi per le scuole «È recentissimo l’accordo tra Consiglio Nazionale degli Psicologi e MIUR sulla formazione agli insegnanti su Bisogni Educativi Speciali e Disturbi Specifici dell’Apprendimento, in virtù del quale gli psicologi del territorio nazionale saranno nelle scuole di tutta Italia a promuovere una politica di valorizzazione delle diversità che va ben oltre la certificazione della disabilità e le diagnosi di Disturbi dell’Apprendimento» (…)

Tratto da: gonews.it

 

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