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La guerra, i gattini e la percezione dell’orrore – Psicologia

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del giorno 15 Febbraio 2015

È cambiata la percezione nel nostro tempo presente, in cui siamo al tempo stesso protetti  – almeno in Occidente – come non mai rispetto alle guerre e al tempo stesso siamo espostissimi come non mai non solo a informazioni, ma a rappresentazioni crudamente realistiche di queste guerre? Direi di si, ma solo in parte.

Strane coincidenze.  Due giorni fa Linkiesta m’invita a scrivere su come è cambiata la percezione della guerra e dei conflitti e, poche ore prima, alcuni colleghi mi parlavano del colonnino destro dei giornali online, luogo a quanto pare sempre misteriosamente pieno di tette e di gattini.

Che c’entra? Beh, la spiegazione di una collega era che il colonnino destro servisse a bilanciare tutte le notizie alla sua sinistra, nella parte seria dello schermo: guerre, massacri, ecatombi in mare. La collega aveva preferito usare la parola “evitamento”, termine tecnico probabilmente poco noto al grande pubblico. Per intenderci, l’evitamento somiglia a quel che Freud chiamava rimozione: l’eliminazione di rappresentazioni mentali sgradevoli. Nella psicologia moderna non c’è più l’eliminazione completa, la cancellazione dalla memoria, il rimosso. Si pensa che la mente si limiti a spostare l’attenzione, a evitare il contenuto sgradevole. E a sostare su un paio di tette. O anche su un gruppo di teneri gattini.

È questa la risposta da dare a Linkiesta? La percezione della guerra è oggi per noi tutti un solo grande evitamento? Facciamo tutti finta di niente, aggrappandoci a un paio di tette e ai dolci gattini esposti a destra? Se è così, mi tocca produrre un po’ di dati sul fenomeno e un po’ di nozioni tecniche per il lettore. Cos’è l’evitamento?

Però, a pensarci bene, non sono convinto. Che evitamento sarebbe, scusatemi? C’è un colonnino a destra pieno di tenere ed erotiche distrazioni e tre quarti di spazio a sinistra pieno di guerre, rapine, stragi e sangue. Dov’è l’evitamento?

Per spiegarmi questo colonnino guardo un po’ di letteratura neurologica e apprendo che il movimento oculare naturale va da sinistra a destra, che infatti è anche la nostra direzione di lettura (Arnheim, 1954; 1974). Il che poi potrebbe non significare nulla: la direzione sinistra destra non è quella di tutte le scritture, come sappiamo. Mi chiedo: chissà se i giornali scritti da destra a sinistra piazzano altrove il colonnino pruriginoso.

Insomma, sembra che la nostra attenzione sia consapevolmente guidata – da redazioni scafatissime in neurologia – ad atterrare, dopo un percorso accidentato di stragi e di sangue, su contenuti più dolci e consolanti. Tutto questo non mi pare propriamente un volgere altrove l’attenzione; è semmai un dosaggio accattivante di tensione e distensione che cattura l’attenzione e la tiene desta, ma non la devia e nemmeno la distrae.

Io credo che oggi siamo molto più consapevoli dell’orrore rispetto a una volta. Confrontiamo ad esempio l’iperrealismo della violenza nei film di ora con l’ingenua rappresentazione che ne davano i film del passato. Oggi vediamo con evidenza l’esplodere sanguinoso della carne colpita dai proiettili, la deformazione disumana del corpo colpito a morte. Nei film di un tempo la morte violenta era uno svenimento stilizzato, un improvviso afflosciarsi dell’attore senza troppo sangue sparso, afflosciarsi la cui funzione era teatrale e non realistica: segnalare che il personaggio usciva di scena, oltre che dalla vita.

Che poi, percettivamente, non è affatto detto che gli zampilli e gli schizzi impazziti siano davvero più realistici. Alcuni complottisti hanno elucubrato che la morte del poliziotto Ahmed Merabet, ucciso dagli attentatori di Charlie Hebdo, fosse una messinscena proprio in base alla mancanza di schizzi di sangue. In effetti nel filmato la morte del povero Ahmed non è grandguignolesca come nei film di Tarantino. Tuttavia il sonoro dei colpi di fucile è reale e raggelante, molto più raggelante sia degli spari educati dei vecchi film in bianco e nero che dell’iperfracasso tridimensionale dei film di oggi.

L’esposizione alla guerra e alla violenza è cambiata? Si, ma forse non in un’unica direzione.

Per certi aspetti è aumentata, per altri diminuita. È aumentata la consapevolezza della terribilità della guerra e dei massacri. Per secoli le rappresentazioni sono state stilizzate o assenti. Ricordiamoci che anche dopo la seconda guerra mondiale per quindici anni si tacquero le stragi perpetrate a danno degli ebrei. Non che non si sapessero, ma mancava un’esposizione pubblica. Tutto cambia solo con il processo ad Adolf Eichmann, il criminale di guerra che organizzò la deportazione degli ebrei d’Europa nei campi di concentramento. Fu catturato in Argentina dal Mossad nel 1960 e processato in Israele nel 1961. Il processo fece esplodere l’esposizione mediatica dei crimini nazisti in una misura fino a quel momento assente. Dal 1945 al 1961 fanno sedici anni di silenzio.

Lo ripeto: questo non vuol dire che ci sia una direzione unica di cambiamento. Sicuramente dagli anni ’60 in poi, probabilmente con i film sulla guerra del Vietnam, la guerra e il conflitto sono rappresentati sempre più come una macelleria con poco o nulla di eroico. Anche i western, da Sergio Leone in poi, hanno reso la violenza sempre più cruda e meno elegante. Nei decenni precedenti la rappresentazione della guerra era meno vivida e precisa nella mente del pubblico. Questa incoscienza spiega il pazzo entusiasmo che travolse i popoli europei allo scoppio della prima guerra mondiale. I giovani soprattutto si buttarono a corpo morto in quella festa mondiale della morte nel luglio del 1914, tutti sicuri di andare a fare un’eroica scampagnata e di tornare a casa per Natale.

Attenzione, però: già dopo quella guerra ci fu un movimento opposto, con i libri dei reduci, a cominciare dal “Niente di nuovo dal fronte occidentale” di Remarque. Una letteratura disillusa e cruda fece cadere il velo dell’eroismo e la realtà orribile della carne maltratta dagli spari e straziata dalle bombe divenne evidente. In una scena durante un combattimento, il soldato Haje Westhus è ferito gravemente alla schiena. La ferita è così profonda e ampia che Haje può vedere attraverso lo squarcio il suo stesso polmone spugnoso allargarsi e restringersi. Certo, per un Remarque disilluso c’era uno Jünger altrettanto crudo, ma tutt’altro che smitizzante: “Nelle tempeste d’acciaio” nobilita la guerra. Fatto sta che l’ingenuo entusiasmo del 1914 non si rinnovò più e divenne rassegnata accettazione per la seconda guerra mondiale e la guerra di Corea e infine aperto rifiuto per il Vietnam.

Andando indietro nel tempo le oscillazioni continuano. A bilanciare un Kipling che nobilita il conflitto ci sono ancor prima un Tolstoj e uno Stendhal che rappresentano il caos insensato delle battaglie del periodo napoleonico, e l’orrore delle mutilazioni nelle terribili sale chirurgiche da campo. E così indietro nel tempo. Avete letto l’Iliade? Fatelo. Non attendetevi solo nobili eroi. Omero rappresenta la morte in battaglia con crudo realismo: i versi rendono esplicitamente e onomatopeicamente, perfino in traduzione, il raccapricciante spaccarsi e frantumarsi delle ossa sotto i colpi delle aste dei guerrieri.

Avete letto Plutarco? Fatelo. Non attendetevi solo nobili eroi. Il centurione Crastino, soldato di Giulio Cesare, morto nella battaglia di Farsalo, viene descritto orrendamente sfregiato dalla spada che lo ha ucciso: “colpito in bocca da una spada, così che la punta di questa gli squarciò la nuca”. La morte di Crastino è descritta anche da Cesare in persona nel De Bello Civili con toni molto più composti e senza il gusto plutarchiano per il sanguinolento. Come si vede, oscillazioni percettive ci sono sempre state, ed epoche violentemente incoscienti si sono sempre alternate ad altre molto meno entusiaste della guerra.

Le oscillazioni possono essere anche più vicine nel tempo. Possono avvenire e poi rovesciarsi anche nel volgere di pochi anni. Inoltre lo stesso gusto realistico e grandguignolesco può funzionare anche per celebrare la guerra e non solo per condannarla e generare repulsione. In concomitanza con la guerra irachena del secondo Bush furono pubblicati o ripubblicati una serie di libri di argomento militare il cui obiettivo era proprio fornire una rappresentazione realistica delle battaglie, dall’antichità in poi. La battaglia nel suo svolgersi concitato di mischia caotica, di corpi che cercano di sopraffarsi fisicamente, con tutto ciò che c’è di bestiale e penoso in un simile spettacolo. La battaglia, insomma, come qualcosa di radicalmente diverso dalla metafora degli scacchi o del nobile duello.

Tra questi i migliori restano i libri di Victor D. Hanson: “L’ arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica“ e “Il volto brutale della guerra. Okinawa, Shiloh e Delio: tre battaglie all’ultimo sangue”. È interessante osservare, lo ripeto, come in Hanson la nobilitazione della guerra non avviene affatto attraverso una stilizzazione eroica e asettica, ma nasce proprio dall’analisi realistica degli aspetti più agghiaccianti e repulsivi, compresa la descrizione delle defecazioni che sfuggivano agli opliti greci nel momento della carica, della corsa col cuore i gola e con le aste dritte di fronte a se precipitando a sbattersi in faccia all’esercito nemico, anch’esso in moto affannoso con le lunghissime aste spianate. In quei momenti terribili, ci racconta Hanson, gli eroi ammassati nella falange greca, uno addosso all’altro -spalla a spalla come si dice nella retorica della guerra- mollavano a ritmo continuo delle gran palle di merda che cadevano, nella concitazione della corsa a perdifiato, addosso un po’ a tutti.

L’intento di Hanson è paradossalmente celebrativo: egli fa un continuo parallelo tra questa attitudine al violento scontro frontale degli eserciti occidentali e lo sviluppo della libertà personale dei cittadini, ovviamente in Occidente. E senza tanti complimenti contrappone quest’attitudine occidentale allo scontro unico e decisivo all’attitudine orientale alla guerriglia, agli agguati e all’anti-eroico conflitto cronico a bassa intensità, mettendola in relazione a un’altra classica opposizione che risale ai tempi di Erodoto: libertà occidentale contro dispotismo orientale. Non basta. Hanson ulteriormente sviluppa la sua visione in libri dai titoli sempre più crudi -per esempio “Massacri e Cultura; Le battaglie che hanno portato la civiltà occidentale a dominare il mondo”- e collegando insieme attitudine alla guerra frontale, libertà e sviluppo capitalistico, inteso come frutto di questo virilismo occidentale. Chiaramente questa letteratura diventò strumento di propaganda quando Bush lanciò la sua crociata in Iraq dopo l’attentato al World Trade Center.

Per rispondere alla domanda iniziale: è cambiata la percezione nel nostro tempo presente, in cui siamo al tempo stesso protetti  – almeno in Occidente – come non mai rispetto alle guerre e al tempo stesso siamo espostissimi come non mai non solo a informazioni, ma a rappresentazioni crudamente realistiche di queste guerre? Direi di si, ma solo in parte.

Dexter - Immagine: Copyright © 2011 - Showtime
Dexter lo psicopatico e la mentalizzazione degli stati emotivi

Da una parte la nostra epoca è molto meno propensa rispetto alle precedenti all’idealizzazione eroica e stilizzata della guerra. Al tempo stesso, non è vero che le epoche passate non abbiano saputo guardare al volto orrendo della guerra e non è nemmeno vero che l’orrore sia sempre e solo repulsivo. Quello stesso orrore, quell’odore raccapricciante del sangue può affascinarci. Come ci affascina tutta la letteratura dell’orrore o come mi affascina lo splatter della serie TV “Dexter”. La sto guardando spesso in queste sere e mi piace molto. Ve la raccomando. È meglio della guerra e anche meglio delle tette sui colonnini destri.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Arnhem, R. (1954). Art and Visual Perception. A Psychology Of The Creative Eye. Rewgents of The University of California. Tr. It. Arte e percezione Visiva. Milano, Feltrinelli, 1974.
  • Hanson, V. D. (1989). The Western Way of War: Infantry Battle in Classical Greece. New York: Alfred A. Knopf. Tr. It.  L’arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica. Milano: Garzanti, 2009.
  • Hanson, V. D. (2001). Carnage and Culture: Landmark Battles in the Rise of Western Power. New York: Doubleday. Tr. It. Massacri e Cultura. Le battaglie che hanno portato la civiltà occidentale a dominare il mondo. Milano: Garzanti, 2002.
  • Hanson, V. D. (2003). Ripples of Battle: How Wars Fought Long Ago Still Determine How We Fight, How We Live, and How We Think. New York: Doubleday. Tr. It. Il volto brutale della guerra. Okinawa, Shiloh e Delio: tre battaglie all’ultimo sangue. Milano: Garzanti, 2005.

La Demenza in famiglia: la riabilitazione attraverso gli interventi sui familiari

L’importanza del ruolo di un supporto psicologico diretto ai famigliari risulta da uno studio che ha riconosciuto una significativa riduzione dei livelli di depressione, nei caregivers di individui affetti da demenza, partecipando a un programma di supporto telefonico (Tremont et al, 2014).

 

Nei prossimi 20 anni il numero delle persone colpite da demenza aumenterà drammaticamente a causa dell’incremento della longevità umana. In Europa, la popolazione anziana è in continua crescita, grazie al benessere e al miglioramento della qualità della vita, con uno sbilanciamento a favore delle donne soprattutto nelle classi più vecchie.

Come conseguenza si stimano nel mondo 48 milioni di soggetti con demenza, che nei successivi venti anni, potrebbe raggiungere una cifra superiore agli 81 milioni, per la stragrande maggioranza concentrata nei paesi in via di sviluppo. Nei soli paesi dell’Unione Europea (EU) le più attendibili stime prospettano di superare nel 2020, i 15 milioni di persone affette da demenza, con una proporzione di 2:1 per il genere femminile rispetto a quello maschile. Un rapporto tra disabilità e costi ha evidenziato come il peso della demenza è pari al doppio di quello prodotto dal diabete.

I costi nel 2008 corrispondevano a oltre 160 miliardi di Euro, le sole cure informali sono intorno al 56% del totale. Le previsioni basate sull’evoluzione demografica in Europa fanno ipotizzare un aumento di circa il 43% di tali costi entro il 2030 (Ministero della Salute, 2013). Nel Regno Unito 700.000 persone attualmente sono affette da demenza (>1% dell’intera popolazione del Regno Unito) e in prospettiva si calcola che ce ne saranno un milione. Fra 20 anni saranno il doppio (Ferri, 2005; Knapp, 2007). Nel Regno Unito, il costo delle cure, relativo alla demenza, equivale a 17 bilioni di sterline per anno e si stima che arriverà a 50 bilioni nei prossimi 30 anni. Il costo sale in relazione all’aumento del numero delle persone anziane (Knapp; Departement of Health).

In Italia, nel 2009 si contavano 1,012,819 persone con demenza(Alzheimer.it). In Europa, la nostra nazione, è uno dei paesi con più alto tasso di persone con demenza. Circa il 62,5% delle persone con disabilità ha più di 75 anni (Disabilità in Cifre, 2009), ciò fa pensare che il fenomeno della demenza incide molto sul Sistema Sanitario Nazionale.

La demenza danneggia le persone che ne sono malate, i loro famigliari e l’intera società in quanto genera maggiore dipendenza e un cambiamento dei comportamenti individuali e di interazione sociale. Un recente studio ha sottolineato che circa due terzi delle persone con demenza vive a casa con i propri parenti. Questi si prendono cura di loro e si confrontano ogni giorno con la malattia.

Oltre a partecipare alla gran parte degli oneri finanziari del congiunto o parente i famigliari di quest’ultimo subiscono il peso psicologico della disabilità. Si è scoperto infatti che circa il 40% di loro sviluppa stati di ansia e/o depressione a livello clinico, mentre il restante 60% è affetto da sintomi di natura psicologica (Mahoney et al, 2005; Cooper et al, 2007). Studi recenti evidenziano anche un legame tra depressione e demenza e ciò porta a riflettere come la prima possa essere un fattore di rischio dell’insorgenza precoce della seconda (Wilson et al, 2014).

L’importanza del ruolo di un supporto psicologico diretto ai famigliari risulta da uno studio che ha riconosciuto una significativa riduzione dei livelli di depressione, nei caregivers di individui affetti da demenza, partecipando a un programma di supporto telefonico (Tremont et al, 2014).

Inoltre, un’ulteriore studio ha mostrato che parenti che beneficiano di un supporto psicologico in un servizio diurno di cura, circa due volte alla settimana, hanno valori più elevati di DHEA-S un ormone associato al miglioramento a lungo termine della salute (Penn State, 2014). Il fattore più importante per predire la qualità della loro salute mentale è risultato essere l’utilizzo di strategie di coping funzionali (Livingstone et al, 2014). Le strategie di coping sono risultate essere anche più rilevanti della comorbilità cognitiva e psichiatrica delle persone di cui loro si prendono cura e delle ore di assistenza che gli vengono fornite (Supplemento Livingstone G.).

Invero, i familiari che usano strategie di coping emotion-focused e meno strategie di coping disfunzionali sono meno ansiosi e con livelli di depressione minori (Cooper et al, 2008). Il trattamento dell’ansia e della depressione, nonché dei sintomi psicologici associati alla situazione di malattia del parente, dei famigliari dei soggetti affetti da demenza passa attraverso la promozione di strategie di coping emotion-focused.  I gruppi basati sulle strategie di coping sono un intervento valido ed efficace per migliorare la qualità della vita e riabilitare ai rapporti sociali persone che altrimenti sarebbero trascinate dal peso della malattia del proprio parente.

Negli USA si attuano da anni interventi di gruppo, denominati “Coping with Caregiving programmes”, per favorire il passaggio a strategie di coping funzionali nei parenti di persone con demenza. A Londra è stato testa il programma STRART (STrAtegies for RelaTives, strategie per parenti) che ha raggiunto una probabilità 7 volte inferiore rispetto alle cure tradizionali di sviluppare quadri clinici di ansia/depressione (Livingstone et al). Il programma è composto da 8 fasi e comprende un periodo che dalle 8 alle 14 settimanali. Le sessioni sono settimanali e possono avvenire anche a domicilio della famiglia che ne richiede il servizio. Nei gruppi si lavora per aumentare l’utilizzo di strategie di problem-solving ed emotion-focused. Studi condotti negli USA e nel Regno Unito hanno evidenziato come l’utilizzo di questi gruppi ha coinciso con un netto miglioramento dei livelli di ansia e depressione dei famigliari di persone dementi (Goode et al, 1998; Mausbach et al, 2006; Cooper et al, 2007).

Le terapie basate sul coping ed attuate attraverso dei gruppi sembrano essere lo strumento più efficace e conveniente per affrontare questo fenomeno sociale e clinico (Cooper, Balamural, 2007). Ci sono numerose prove che dimostrano come questi interventi siano efficaci nella riduzione dei sintomi legati all’ansia (Cooper), alla depressione (Gallagher-Thompson et al, 2001, 2003; Coon et al, 2003, Steffen, 2000) e nell’aumento della self-efficacy (Steffen).

L’utilizzo di questi interventi potrebbe ridurre la spesa che il Sistema Sanitario Nazionale impiega nella cura di suddetti sintomi, poiché oltre a non avere più sintomatologie psicologiche, e fisiche correlate alla sfera psicosomatica, i familiari delle persone con demenza saranno in grado di gestire meglio lo stress e le difficoltà associate all’assistenza del proprio famigliare malato. Tutto ciò con una qualità della vita e una salute mentale migliore per tutti.

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BIBLIOGRAFIA:

La percezione del tempo nello sviluppo tipico e atipico – Neuropsicologia

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Autrice: Fabiana Nuccetelli

La percezione del tempo nello sviluppo tipico e atipico

Abstract

Il modo in cui il cervello costruisce una rappresentazione mentale del passaggio del tempo sembra essere un fenomeno molto complesso. Il nostro cervello deve stimare il passaggio di brevi intervalli di tempo con precisione molto elevata, al fine di eseguire azioni estremamente elaborate, come ad esempio le prestazioni atletiche o artistiche. D’altra parte, la percezione del tempo è fondamentale per la vita quotidiana, in quanto è necessaria per la realizzazione delle attività in cui è necessario stimare il passare del tempo (secondi o minuti). Molti studi hanno indagato la capacità di elaborazione temporale nella popolazione adulta, pochi, invece, sono stati gli studi che hanno affrontato questa tematica in una prospettiva evolutiva. Questa carenza presente in letteratura è la motivazione di base di questo lavoro sperimentale che ci ha portato ad indagare la percezione del tempo nello sviluppo tipico (esperimento 1) e atipico (esperimento 2), attraverso un compito di bisezione temporale.

Abstract in inglese

The way in which the brain constructs a mental representation of the passage of time seems to be a very complex phenomenon. Our brain has to estimate the passage of brief intervals of time with very high accuracy, in order to perform actions extremely elaborate, such as athletic performance or artistic. On the other hand, the perception of time is essential for everyday life, as it is necessary for the realization of the activities in which it is necessary to estimate the passage of time (seconds or minutes). Many studies have investigated the ability of temporal processing in the adult population, few, however, have been studies that have addressed this issue in an evolutionary perspective. This deficiency in the literature is the basic motivation of this experimental work that has led us to
investigate the perception of time in typical development (experiment 1) andatypical ( experiment 2), through a task of temporal bisection.

ALLEGATO

KEYWORDS

Percezione, Tempo, Sviluppo, Bisezione temporale, Sindrome di Williams.

PREMIO STATE OF MIND 2014

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Stress in gravidanza e benessere del feto: quale esito a lungo termine?

FLASH NEWS

I ricercatori credono che la quantità di glucocorticoidi materni possa influenzare la quantità di nutrienti trasmessa al feto e lo stato di benessere a lungo termine.

Un recente studio messo a punto dal Dipartimento di Fisiologia, Sviluppo e Neuroscienze dell’Università di Cambridge ha mostrato come nei topi, lo stress eccessivo durante la gravidanza potrebbe indurre ad assumere una maggiore quantità di cibo, compromettendo, in questo modo, la crescita e la salute della prole.

Succede che in seguito a condizioni stressanti, l’organismo secerne maggiori quantità di ormoni legati allo stress, meglio noti come glucocortioidi, che agiscono sulla regolazione del metabolismo dei carboidrati sia negli adulti che nel feto. Gli autori della presente ricerca, dunque, hanno indagato in che modo questi ormoni, se presenti nella madre in gravidanza, possano influenzare la quantità di glucosio trasmesso al proprio figlio tramite placenta.

Per riprodurre condizioni di forte stress, ai topi fu somministrata un’alta quantità di glucocorticoide (corticosterone),  in diversi momenti della gravidanza; i topi in gravidanza furono divisi poi in gruppi diversi: ad un primo gruppo era consentito di mangiare liberamente, a un secondo gruppo di mangiare con moderazione, e l’ultimo gruppo non riceveva nessun tipo di trattamento sperimentale. Infine è stata misurata la  quantità di glucosio trasmessa al feto attraverso la placenta, l’organo che fornisce tutte le sostanze necessarie per la crescita fetale del feto.

Dai risultati è emerso che quando il corticosterone era somministrato negli ultimi giorni della gravidanza, e ai topi era consentito mangiare liberamente, la placenta trasportava una quantità di glucosio insufficiente per una crescita adeguata. Al contrario quando l’ormone era somministrato precocemente in gravidanza o quando la dieta era controllata, il feto non presentava problemi relativi alla dimensione, peso e salute a lungo termine.

I ricercatori credono, dunque, che la quantità di glucocorticoidi materni possa influenzare la quantità di nutrienti trasmessa al feto e lo stato di benessere a lungo termine. Non è ancora chiaro se i risultati di questa ricerca possano essere estesi a un campione di donne che vivono reali situazioni estremamente stressanti. Per questo, nelle future ricerche si potrebbe comprendere meglio la relazione esistente negli essere umani tra stress materno, quantità di ormoni dello stress rilasciati dall’organismo e il funzionamento della placenta per la trasmissione di sostanze nutritive al feto necessarie a garantire un buono stato di salute a lungo termine.

 

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Dognition: il website per scoprire quanto è intelligente il nostro cane

Il Dott. Brian Hare, antropologo evoluzionista alla Duke University, ha creato Dognition, un sito internet che aiuta i proprietari di cani a capire meglio la mente del loro amico a quattro zampe. Attraverso i giochi interattivi che gli esperti consigliano si può finalmente comprendere meglio l’intelligenza del nostro cane. Un grande aiuto per i tutti i cinofili e non solo… attraverso il sito internet i ricercatori possono fare ricerca a costo zero sulla cognizione canina, un campo assolutamente affascinante ma poco finanziato. 

 

With Dognition, owners go to the website, register their dogs, complete a personality questionnaire and play games  to find out the strategies their dogs use to navigate the world. At the same time, the data goes into a database that can help contribute to our knowledge of all dogs (…) My hope is that this could become a modern model for science — part crowdfunding, part citizen science — as well as fun way to discover something new with your best friend.

Dognition: il sito web per scoprire quanto è intelligente il tuo caneConsigliato dalla Redazione

Il Dott. Brian Hare, antropologo evoluzionista alla Duke University, ha creato Dognition, un sito internet che aiuta i proprietari di cani a capire meglio la mente del loro amico a quattro zampe. (…)

Tratto da: LiveScience.com

 

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Nasce la Consulta delle Scuole di Psicoterapia cognitivo-comportamentale: Intervista a Ezio Sanavio

In un clima collaborativo è facile essere costruttivi e possono nascere molte buone cose. Penso ad una formazione meno autoreferenziale e ad una maggiore e migliore internazionalizzazione.

 

Il giorno 10 febbraio 2015 è nata la Consulta (GALLERY) delle Scuole di Psicoterapia cognitivo-comportamentale, il Professore Ezio sanavio ha risposto ad alcune nostre domande a riguardo:

(SOM)Abbiamo saputo che è stata costituita la consulta delle scuole cognitivo-comportamentali italiane il 10 febbraio 2015. Può raccontarci gli scopi di questa nuova associazione?

(Sanavio)A parte gli aspetti legali, non credo che questa Consulta sia da considerare un’altra associazione, ma piuttosto un ‘ombrello’ che permette alle varie scuole di psicoterapia di incontrarsi e dialogare. Presupposto di tutto è il convincimento che gli elementi che uniscono siano più forti di quelli che dividono. Le finalità sono ben descritte dall’art. 2 dello statuto che più sotto riporto; credo si possano riassumere in pochissime parole: mettere in contatto degli enti con simile veste istituzionale e favorire un clima di dialogo.

(SOM)Perché la necessità di costituire ora la consulta?

(Sanavio)Permettetemi uno sguardo di lungo periodo. Il secolo scorso ha visto la nascita e la diffusione della psicoterapia e, per molta parte del secolo, psicoterapia e psicoanalisi sono state sinonimi. Il nuovo secolo si è aperto con una diversa egemonia, quella CBT (sia sul piano della innovazione scientifica, sia su quello dei risultati e della diffusione internazionale). La storia della psicoanalisi è stata contrassegnata da diaspore, scomuniche, culto della personalità, rivalità di scuole. Il nuovo secolo non è costretto a ripercorrere tutto ciò.

(SOM)Ci sono state difficoltà nel fare accettare a scuole così variegate un discorso comune?

(Sanavio)No, anzi è stato un processo sorprendentemente rapido e semplice. Tutto è nato da un convegno scientifico, promosso per i vent’anni della rivista ‘Psicoterapia cognitiva e comportamentale’, che invitava a riflettere sul tema: Dove sta andando la Psicoterapia cognitiva e comportamentale in Italia? Dal dire si è passati al fare: segno che i tempi erano maturi.

(SOM)Può raccontarci i componenti del direttivo?

(Sanavio)Paolo Michielin è stato il primo presidente nazionale dell’Ordine degli Psicologi. Paolo Moderato è stato presidente dell’associazione delle società CBT d’Europa, l’European Association for Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT). Sandra Sassaroli ha sempre dimostrato fiuto e capacità di riconoscere quel tanto di innovativo che si muove in giro per il mondo. Conosco meno gli altri membri eletti, che appartengono ad una più giovane generazione: Cecilia Volpi cagliaritana, Adriana Pelliccia comasca, Giuseppe Romano per l’appunto romano.

(SOM)Cosa pensate di ottenere?

(Sanavio)Mi ripeto: la cosa più importante è creare un clima collaborativo. Una Consulta può rappresentare un interlocutore importante per il Ministero dell’Università e della Ricerca, specificamente per la Commissione tecnico-consultiva per il riconoscimento degli istituti di psicoterapia. Non penso al livello burocratico dei regolamenti e delle procedure, dove già esiste un coordinamento e dove il collega Zucconi è impareggiabile. Penso ad un interlocutore culturale e scientifico su temi di fondo.
Ma penso soprattutto al Ministero della salute. Già si intravede una sensibilità diversa dal passato in temi come le linee-guida per l’ADHD, l’autismo, gli esordi psicotici. Potremo chiedere un incontro col Ministro. Temo che i vertici politici ignorino l’esperienza inglese del piano IAPT (Improving Access to Psychological Therapies). Sarebbe bello portare in Italia lord Richard Layard e farlo intervistare da Vespa o dalla Gabanelli.

(SOM)In che modo pensate di gestire i rapporti con le associazioni italiane come AIAMC e SITCC e con quelle internazionali?

(Sanavio)Proporrò un incontro sia col direttivo AIAMC sia col direttivo SITCC, confido possa esserci condivisione di obiettivi e programmazione di iniziative concrete. Discorsi sul piano internazionale mi paiono prematuri.

(SOM)Lei pensa che questa consulta possa avere un ruolo nel favorire un miglioramento della qualità formativa delle scuole di specializzazione e se sì in che modo?

(Sanavio)Se le scuole funzionano meglio la qualità della formazione non potrà che migliorare. In un clima collaborativo è facile essere costruttivi e possono nascere molte buone cose. Penso ad una formazione meno autoreferenziale e ad una maggiore e migliore internazionalizzazione. Unendo le forze, per es., ci vorrebbe poco per organizzare delle settimane residenziali di altissima formazione. Molti dei passaggi in Italia di colleghi stranieri sono dovuti a fattori accidentali: amicizie personali o l’intraprendenza commerciale di personaggi che girano per le colonie, come il Watzlawick di buona memoria, per vendere a caro prezzo le loro collanine di vetro. Penso al nodo irrisolto della formazione personale ingarbugliato attorno all’opaca dizione di ‘analisi personale’. Penso allo sbilanciamento tra didattica d’aula e supervisione clinica. I canoni formativi di uno psicoterapeuta CBT non dovrebbero mai appiattirsi sulle idiosincrasie dei direttori e sul rispetto burocratico delle disposizioni ministeriali, ma valorizzare la pratica supervisionata, come in uso nei cinque continenti e come indicato dagli EABCT Standards for the training and accreditation of Behavioural and Cognitive Therapies. Penso ad una bibliografia minima comune: siamo appunto tutti membri di una comunità che si estende per cinque continenti.

(SOM) La ringraziamo per il suo tempo! 

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Articolo 2 – Finalità

1. La Consulta delle Scuole Italiane di Psicoterapia Cognitiva e comportamentale si prefigge i seguenti scopi:

a. sostenere le Scuole aderenti e rappresentare nei rapporti con le istituzioni, in particolare il MIUR, e con i portatori di interessi;

b. promuovere lo studio, la ricerca e la formazione nell’ambito della Psicoterapia Cognitivo e Comportamentale (CBT);

c. favorire la conoscenza da parte delle istituzioni e dei cittadini della CBT e delle sue applicazioni utili al benessere psico-fisico dell’individuo e della comunità;

d. promuovere nella pratica dei Servizi Socio-sanitari e nella pratica professionale privata gli interventi psicologici empiricamente validati, con particolare riferimento alla CBT;

e. Favorire la disponibilità e l’accessibilità per le persone con disturbi emotivi comuni e con altre specifiche condizioni di sofferenza psicologica dei necessari trattamenti Cognitivo e Comportamentali, anche in riferimento all’impegno del Servizio Sanitario Nazionale di garantire i Livelli Essenziali di Assistenza.

Per il raggiungimento degli scopi sociali, si propone di:

1.    potenziare il coordinamento tra le Scuole di formazione in CBT e la possibilità di svolgere iniziative collaborative e in comune, sia in ambito scientifico-culturale che in difesa dell’immagine della CBT e degli psicoterapeuti con formazione cognitivo-comportamentale;

2. curare, con la collaborazione delle Scuole, la produzione e la divulgazione di materiale informativo, anche in forma audiovisiva, sulla CBT e le sue applicazioni;

3. dotarsi di mezzi multimediali per la comunicazione di massa, anche in collaborazione con le Università, con gli Ordini professionali, con altre associazioni scientifico-culturali e con le associazioni di utenti, e condurre specifiche campagne di comunicazione su temi socialmente rilevanti;

4. organizzare, con il concorso delle Scuole, congressi, convegni,conferenze, simposi, seminari ed altre attività scientifiche e divulgative aperte alle istituzioni, ai portatori di interesse e alla cittadinanza;

5. mettere a disposizione degli psicoterapeuti formatisi presso  le Scuole aderenti Linee guida, protocolli diagnostici e di trattamento, strumenti e materiali per la diagnosi e il trattamento già esistenti o, se necessario, promuoverne l’elaborazione, la messa a punto e la diffusione.

 

Francine Shapiro: Lasciare il passato nel passato. Auto aiuto nell’EMDR (2013) – Recensione

 

Francine Shapiro, ideatrice del protocollo EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), spiega lo sviluppo della nostra capacità di rispondere agli eventi della vita in modo più o meno funzionale come associato alla costruzione dei ricordi, attraverso reti mnemoniche.

Il tempo non guarisce tutte le ferite. Il tempo può congelare il ricordo in memoria, generando reazioni automatiche, che creano sofferenza e disagio. L’elaborazione di tali ricordi traumatici ci aiuta a trovare sollievo e a liberarci dal passato, nonché a volgerci al futuro con fiducia e benessere.

Francine Shapiro, ideatrice del protocollo EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), spiega lo sviluppo della nostra capacità di rispondere agli eventi della vita in modo più o meno funzionale come associato alla costruzione dei ricordi, attraverso reti memnemoniche. Il tema centrale è capire il perché di ciò che accade a noi e a chi ci circonda e, soprattutto, cosa si può fare a riguardo. Chiarire perché siamo chi siamo e cosa possiamo fare di fronte alla sofferenza, allo scopo di sbloccare ciò che ci impedisce di limitarla, attraversarla e superarla, lasciandola nel passato.

La prefazione di Isabel Fernandez (Presedente dell’Associazione EMDR Italia) sottolinea come l’EMDR rappresenti un intervento efficace sull’elaborazione di ricordi inerenti sia episodi di portata collettiva (lutti, malattie, disastri naturali) sia episodi soggettivamente traumatici, propri dell’anamnesi privata. Quindi traumi col la T maiuscola e minuscola.

Il libro si sviluppa in 11 capitoli, in cui sono esposte sia le basi teoriche, sia le tecniche di intervento utili a riconoscere e gestire i ricordi e la sofferenza connessa ad essi, sia alcune storie cliniche attraverso le quali comprendere lo sviluppo e la risoluzione adattiva della memoria traumatica.

I primi due capitoli (1.Viaggiare col pilota automatico; 2. La mente, il cervello e ciò che conta) spiegano come le nostre esperienze di vita siano influenzate dal modo in cui interpretiamo chi siamo noi, chi sono gli altri e come funziona il mondo. In particolare, si evince come tali esperienze siano immagazzinate in memoria sottoforma di ricordi, in comunicazione tra loro, attraverso reti neurali, che costituiscono la base delle nostre percezioni, quindi delle nostre interpretazioni, nonché dei nostri comportamenti. Poiché i ricordi formano le basi delle caratteristiche della nostra personalità e del modo in cui reagiamo alle situazioni quotidiane, essere di fronte a un trauma significa essere di fronte a un gruppo di informazioni immagazzinate ma non elaborate dal nostro cervello.

I due capitoli successivi (3. Si tratta del clima o del tempo atmosferico; 4. Cos’è che conduce il gioco nella nostra vita) si concentrano sulla comprensione della sofferenza che “Mi fa sentire bloccato” nello scorrere della vita. Una sofferenza che può procrastinarsi di generazione in generazione, quando gravi traumi, quindi raggruppamenti di episodi/ricordi, non siano stati elaborati dai nostri avi. Una sofferenza che può ripresentarsi, attraverso reazioni automatiche, agli eventi esterni, generando sintomi e psicopatologie.

Il libro procede quindi ad esplorare (5. Il paesaggio nascosto; 6. Se potessi lo farei, ma non posso) come si costruisce in noi un senso di vulnerabilità/mancanza di sicurezza, accanto a cognizioni negative e emozioni difficili da gestire in modo efficace. Sono quindi esposte tecniche per esplorare se stessi e comprendere dove abbiamo imparato a giudicarci attraverso cognizioni negative.

Si prosegue (7. La connessione tra cervello, corpo e mente; 8. Che cosa vuoi da me?) individuando come si sviluppano le problematiche psicosomatiche, in quanto il cervello, fonte di tutte le risposte corporee, è la stessa sede dell’organizzazione mnestica dei nostri ricordi di vita. Ne consegue, l’importanza di connettere la genetica, con il funzionamento cognitivo-emotivo-comportamentale, nonché relazionale/sociale per capire le difficoltà familiari e col gruppo di pari, che possiamo riconoscere come parte del nostro soffrire.

Arriva il momento di affrontare (9. Una parte del tutto; 10. Dallo stress al benessere) categorie di persone che abbiano colpito noi o chi amiamo: molestatori di bambini, autori di abuso domestico, stupratori, tossicodipendenti, al fine di chiarire come traumi irrisolti possano danneggiare e influenzare il singolo, il gruppo, la comunità. Si chiude, quindi, con la riflessione sull’importanza dell’impegno personale: non solo volto allo sbarazzarsi della sofferenza, ma anche rivolto ad ampliare le proprie potenzialità, al fine di godere di emozioni di gioia e felicità, nonché del benessere raggiunto.

Uno degli obiettivi del libro è comprendere meglio noi stessi e coloro che ci circondano, muoverci nelle relazioni sociali con maggiore consapevolezza e permetterci di partecipare alla costruzione di una comunità in cui sentirci al sicuro. Il focus della vita è rappresentato dalle esperienze, positive e negative, che raccogliamo nel corso degli anni. L’insieme dei ricordi che ripercorriamo nella nostra mente aiuta a dare un senso e un valore al nostro muoverci nel mondo. Se i ricordi non elaborati sono, spesso, l’origine dei sintomi e del dolore, i ricordi elaborati stanno alla base della salute mentale: quella che desideriamo tutti e che possiamo raggiungere con l’aiuto di professionisti e protocolli, come l’EMDR, che possono indirizzarci verso di essa.

 

EMDR – Intervista a Isabel Fernandez

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L’eco della violenza: l’EMDR per il trattamento di vittima e aggressore

BIBLIOGRAFIA:

  • Shapiro, F. (2013). Lasciare il passato nel passato. Tecniche di auto-aiuto nell’EMDR. Astrolabio Editore: Roma.  ACQUISTA ONLINE

Per i senzatetto è maggiore il rischio di sviluppare deficit cognitivi

FLASH NEWS

Lo studio si rivela importante soprattutto per le persone che lavorano a diretto contatto con questo tipo di soggetti svantaggiati, poichè sottolinea il bisogno di apportare alcuni miglioramenti e introdurre degli accorgimenti alle proposte di supporto che si offrono ai senza-tetto.

Si stima che nel territorio canadese vi siano più di 200.000 senzatetto. La prevalenza di malattie mentali tra queste persone è più alta rispetto al resto della popolazione: circa il 12 percento dei senza-tetto soffre di malattie mentali gravi, l’11 percento circa presenta disturbi dell’umore e quasi il 40 percento è alcolizzato o tossicodipendente.

La dottoressa Vicki Stergiopoulos, responsabile del reparto di psichiatria al St. Michaels Hospital e ricercatrice presso il Centre for Research on Inner City Health, ha condotto una ricerca che coinvolge 1.500 senzatetto di cinque diverse città canadesi. Lo studio, pubblicato sul giornale online Acta Psychiatrica Scandinavica, indaga indicatori funzionali quali la velocità di elaborazione mentale, le capacità verbali e la memoria.

Da tali indagini, emerge che tutti i partecipanti hanno sofferto nel corso della vita di qualche malattia mentale. Circa la metà soddisfa i criteri per psicosi, depressione, abuso di alcol o sostanze, e lesioni cerebrali di origine traumatica: “Questo sottolinea l’esistenza di un problema spesso non riconosciuto in Canada”, dice il Dottor Stergiopoulos.

Fattori quali età avanzata, basso livello di istruzione, malattie psicotiche, il fatto di essere una minoranza poco considerata e di avere un linguaggio differente dall’inglese o dal francese, risultano direttamente correlati con le scarse prestazioni cognitive. Lesioni cerebrali e abuso di sostanze non sono invece direttamente in relazione con i risultati ottenuti alle prove.

Afferma Stergiopoulos: “Tali dati non ci consentono di predire con esattezza se una persona svilupperà o meno un disturbo cognitivo. Ci mostrano però che, se si tratta di un senza-tetto, è facile che vada incontro a tale problematica. Inoltre, ci suggeriscono che la scarsità di capacità cognitive decrementa ulteriormente la possibilità di queste persone di trovare un lavoro o una casa, segnando per sempre il loro destino”.

Lo studio si rivela importante soprattutto per le persone che lavorano a diretto contatto con questo tipo di soggetti svantaggiati, poichè sottolinea il bisogno di apportare alcuni miglioramenti e introdurre degli accorgimenti alle proposte di supporto che si offrono ai senza-tetto. La scarsa collaborazione riscontrata tra queste minoranze, infatti, sembra non essere dovuta al fatto che rifiutino un aiuto, ma che non si rendano conto di averne bisogno. Occorre allora maggiore allenamento tra le persone che lavorano a stretto contatto con i senza-tetto, al fine di migliorare le loro capacità di approccio e le strategie utilizzate, in un’ottica maggiormente funzionale alle necessità di tale minoranza.

In un’altra serie di test effettuata per indagare le funzioni neurocognitive dei senzatetto, 7 su 10 partecipanti hanno mostrato abilità verbali e capacità di memoria problematiche, mentre 4 su 10 presentavano difficoltà nell’ambito delle funzioni esecutive e della velocità di elaborazione di informazioni. Tali deficit si rifletteranno inevitabilmente su abilità più generiche come il ragionamento, la flessibilità mentale, le capacità di problem solving, di pianificazione ed esecuzione.

“Se è vero che in una minoranza di setting particolari dedicati al lavoro con i senza-tetto sono messe in atto pratiche per il recupero di tali funzioni, è altrettanto vero che è necessario un programma più ampio che coinvolga tutti coloro che lavorano sul campo in maniera sistematica e metodica”, conclude l’autore della ricerca.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Illusioni ottiche: come gli occhi ingannano la nostra mente

Le illusioni ottiche sono la prova del fatto che la nostra mente sia portata a formarsi delle idee e delle ipotesi su come è organizzato il mondo e del come, a volte, i nostri occhi osservano ma la nostra mente può esserne ingannata. Nell’articolo consigliato potrete osservare una lista delle maggiori illusioni ottiche e delle teorie avanzate nel corso della storia da chi voleva scoprire fino in fondo i meccanismi di tale inganno. 

 

Throughout history, curious minds have questioned why our eyes are so easily fooled by these simple drawings. Illusions, we have found, can reveal everything from how we process time and space to our experience of consciousness.

How your eyes trick your mindConsigliato dalla Redazione

Look closer at optical illusions, says Melissa Hogenboom, and they can reveal how you truly perceive reality. (…)

Tratto da: BBC Future

 

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Neuroscienze e spiritualità. Mente e coscienza nelle tradizioni religiose (2014) – Recensione

Che cosa è la coscienza? Che rapporti essa ha con la mente e il corpo? 

In questo testo a cura di Franco Fabbro un gruppo di autori provenienti da diverse discipline, dalla filosofia alle scienze bibliche passando per la storia delle religioni e della spiritualità orientale sino alle neuroscienze, dialogano sul tema della coscienza, con particolare attenzione per le connessioni tra neuroscienze e spiritualità.

L’opera è il resoconto scritto di una serie di seminari sul tema tenutisi presso l’Università di Udine nel 2013, coordinati da Fabbro e finanziati attraverso la fondazione nordamericana Mind and Life.
L’obiettivo di Fabbro vuole essere quello di favorire una riflessione critica su come poter promuovere una “ricerca scientifica” che coinvolga più discipline provenienti dal mondo scientifico ed umanistico. Obiettivo questo che potrebbe per alcuni sembrare scontato ai giorni nostri, ma che ad una più attenta analisi appare di grande complessità, poiché richiede un “cambio di prospettiva”, un graduale passaggio da una concezione riduzionistica della realtà (così produttiva e limitante allo stesso tempo) verso una concezione pluralista del sapere, fondata sul costante dialogo tra discipline differenti, ognuna di eguale valore.

E se ci pensiamo bene questa “federazione delle coscienze”, così come la chiama Fabbro, non è intuitivamente sbagliata, laddove sempre più ci rapportiamo con il tentativo di spiegare una realtà intrinsecamente complessa e multi-fattoriale. È questo il caso del problema della coscienza, il cui tentativo di comprensione è forse antico quanto l’uomo e multi sfaccettato tanto quanto lo sono le discipline scientifiche (e non) che hanno tentato di spiegarlo. Intorno a questo tema si snodano i contributi dei diversi autori di questo libro, che da prospettive differenti analizzano il problema della coscienza e della sua natura.

Di grande interesse è quindi il contributo di Gabriele De Anna, che dedica un capitolo alla descrizione accurata degli obiettivi e dei metodi della filosofia, esplicitando in che modo tale disciplina può giocare un ruolo centrale nel pensiero e nella ricerca scientifica. Ecco che quindi la filosofia, da “non scienza” diventa valore aggiunto per la scienza, laddove è possibile instaurare una discussione aperta e consapevole tra filosofi e neuroscienziati sui temi della coscienza, della religione e della spiritualità.

I capitoli successivi offrono al lettore la possibilità di addentrarsi nello studio della mente e della coscienza secondo la prospettiva delle neuroscienze da un lato e dell’ interpretazione naturalistica dell’autocoscienza dall’altro, sino alle interessanti riflessioni sulla natura della coscienza che sono state elaborate da pensatori provenienti dalla cultura ebraica, cristiana, induista e buddista. Sotto questo punto di vista sono riportati alcuni recenti dati circa l’attivazione neuronale connessa con la pratica meditativa ispirata alla tradizione induista e buddista, che vedono il dominio delle strutture dei lobi temporale e parietale nella prima e le strutture del lobo frontale nella seconda.

Di grande interesse e attualità appare la trattazione della pratica della meditazione mindfulness tra neuroscienze e spiritualità, soprattutto visto il suo sempre più frequente utilizzo in ambito medico e psicologico. Basti pensare al metodo Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) e alla più recente Terapia Cognitiva Basata sulla Mindfulness (MBCT) sempre più utilizzate nel trattamento della sofferenza mentale. Fabbro e Crescentini a questo proposito sottolineano come l’uso clinico e sperimentale di tali pratiche non dovrebbe ignorare il contesto spirituale e religioso in cui esse sono state sviluppate, ma dovrebbe invece integrarlo fortemente, alla luce degli effetti che la spiritualità può avere nel processo di guarigione.

Un esempio di questa nuova integrazione tra meditazione e spiritualità nella pratica clinica è la Meditazione Orientata alla Mindfulness (MOM), un percorso meditativo ideato all’Università di Udine, che integra la dimensione neuropsicologica con quella storico-religiosa e spirituale.

L’opera di Fabbro, ed i contributi in essa racchiusi, offre una scorrevole lettura e rappresenta un ottimo tentativo di stimolare nel lettore la curiosità e la riflessione verso un nuovo modo di fare ricerca sulla coscienza e la spiritualità, dove le discipline umanistiche diventano di indispensabile valore per le neuroscienze così come di grande rilievo nella pratica clinica meditativa.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Fabbro, F. (2014). Neuroscienze e spiritualità. Astrolabio Editore: Roma.   ACQUISTA ONLINE

Scienza del comportamento & Fun Theory: l’iniziativa divertente per modificare il comportamento in ambito urbano – The Nudge Italia

A cura di Massimo Cesareo, Team Nudge Italia, IESCUM

«Cosa accadrebbe se i nostri automobilisti, invece di essere puniti con delle contravvenzioni per aver infranto delle norme stradali, venissero premiati per la loro buona condotta? Sarebbero indotti a proseguire nel loro comportamento virtuoso».

LEGGI ANCHE: Quella spintarella che migliorerebbe la vita di tutti: gli effetti del Nudging

«La scienza del comportamento», ci spiega il professor Paolo Moderato, ordinario di Psicologia presso l’Università IULM di Milano e Presidente di Iescum — Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano, «può fare molto nelle situazioni motivazionali, ovvero relativamente a ciò che muove le azioni personali. All’interno di un contesto di segnali verbali e non verbali, assume estrema importanza che l’individuo possa apprendere dalle conseguenze dirette della propria azione sull’ambiente. Accade, però, che una persona non possa vedere tali conseguenze, a causa di un ostacolo dell’ambiente stesso o del tempo. Quell’ostacolo si definisce costo della risposta: è uno sforzo che compiamo o, in altre parole, una punizione.

Eliminare quell’ostacolo — lo sforzo, il costo della risposta — consentirebbe di apprezzare le conseguenze della propria azione. Il vedere le conseguenze è un segnale non sempre verbale, ricevuto nel breve o brevissimo periodo, che induce un cittadino, nel caso degli esempi riportati, a modificare il proprio comportamento. Pertanto, l’ingegneria sociale deve puntare a rimuovere gli ostacoli, cioè i costi della risposta, e a offrire conseguenze alle azioni socialmente utili».

Un esempio pratico chiarisce questo concetto. «Pensiamo alla gestione della raccolta differenziata dei rifiuti in ambito urbano», ci spiega il professor Moderato, «anche il cittadino più motivato a differenziare i rifiuti vede un ostacolo nella eccessiva distanza dei cassonetti dalla propria abitazione; quella distanza è il costo della risposta, è uno sforzo che impedisce alle conseguenze di irrobustire l’azione socialmente utile. Al contrario, una iniziativa di ingegneria sociale che consentirebbe buoni risultati, nello stesso ambito, è quella di premiare il cittadino virtuoso nel differenziare: un premio, ad esempio, può essere uno sgravio fiscale, anche minimo».

È ciò che accadeva ai concittadini del sindaco Mockus: nell’esatto momento in cui rispettavano le norme stradali, un clown li premiava con fiori e sorrisi. Un esempio, peraltro, che fa riflettere sull’intero sistema normativo, anche italiano: il nostro codice stradale, ma anche quello penale, sono fondati sull’idea dell’evitare la pena, la punizione. «Scappare da una punizione è un’azione di breve respiro, che non porta a modificare i propri comportamenti nel lungo termine», spiega Moderato,

«cosa accadrebbe se i nostri automobilisti, invece di essere puniti con delle contravvenzioni per aver infranto delle norme stradali, venissero premiati per la loro buona condotta? Sarebbero indotti a proseguire nel loro comportamento virtuoso».

Spunti concreti ad un approccio comportamentista nella gestione urbana ed ambientale possono essere rinvenuti nell’edizione speciale di The Behavior Analyst, la rivista ufficiale della SABA, Society for the Advancement of Behavior Analysis, dedicata al cambiamento climatico. Nell’introduzione — curata da William L. Heward della Ohio State University e Paul Chance del Cambridge Center for Behavioral Studies — si parte da una semplice domanda: “come può un piccolo essere umano agire ottenendo come risultato il cambiamento climatico globale?”. La risposta arriva proseguendo nella lettura: “noi siamo progettati per modificare il nostro comportamento in risposta alle conseguenze dello stesso, conseguenze che siano certe, intense ed immediate, ma molti dei problemi che incontriamo oggi comportano conseguenze malcerte, deboli, e postposte nel tempo”.

Un metodo idoneo a perseguire azioni con conseguenze “certe, intense ed immediate” può essere trovato nell’applicazione della scienza comportamentale all’economia, ovvero nella behavioral economics. «L’adozione di una visione comportamentale, in economia, serve — fra l’altro — ad insegnarci non a spendere meno, a livello macroeconomico, ma a spendere senza sprechi. Una visione comportamentale, e dunque scientifica, aiuta a modificare i comportamenti economici, valutandone l’efficacia», chiarisce Moderato.

Un buon esempio di questi principi si ritrova nella Fun Theory, una iniziativa sponsorizzata dal gruppo Volkswagen basata sui principi della scienza comportamentale. L’intento è chiaro fin dalla presentazione sul sito web che raccoglie le molteplici applicazioni pratiche della teoria: “questa iniziativa è dedicata ad una semplice idea: ciò che è semplice e divertente è il modo migliore per modificare un comportamento per il meglio”.

Proposte pratiche, come il semaforo con display sul quale appaiono notizie utili e curiose o il cestino per i rifiuti sonoro, aiutano a comprendere il funzionamento della Fun Theory, riportandoci alla nostra riflessione iniziale: si può modificare un comportamento, in ambito urbano, in maniera divertente, con risultati efficaci, proprio come ha fatto il sindaco Mockus.

È questo meccanismo di gentile incentivo a modificare i propri comportamenti che ha fatto sì che ci si riferisca al nudging come ad una sorta di “paternalismo libertario”, definizione degli stessi Sunstein e Thaler.

Al di là degli esperimenti sociali di Mockus ed in seguito all’esempio statunitense, diversi governi – in tutto il mondo – hanno scelto di avvalersi della consulenza di esperti in scienze del comportamento: per restare all’Europa, dal governo inglese, che ha costituito il “Behavioral Insight Team”, a quello francese, che si avvale dello SGMAP – Secretariat General for Government Modernization. È recentissimo l’annuncio, da parte della Cancelliera Angela Merkel, della volontà di istituire un nudge team tedesco, mentre in Italia la teoria nudge ha appena fatto capolino, nelle pagine della riforma scolastica presentata dal Governo Renzi.

Nel Regno Unito, l’azione del BIT, il “Behavioral Insight Team”, voluto da David Cameron, si è rivolta innanzitutto alla lotta all’evasione fiscale: semplificando i metodi di pagamento delle imposte, dai moduli alla tempistica, si è avuta una riduzione dell’evasione.

In Italia, un gruppo di giovanissimi ricercatori – coordinati dal Professor Paolo Moderato, Ordinario di Psicologia Generale presso l’Università IULM e presidente di IESCUM – Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano – ha dato vita a “Nudge Italia”, primo team di esperti in scienze del comportamento applicate alle politiche pubbliche, membro del TEN – The European Nudge Network, la rete europea dei nudge team presentata nel giugno 2014 a Copenaghen, presso l’Università di Roskilde.

“Nudge Italia”, a pochi mesi dalla sua nascita, è stato contattato dal MIUR, il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca, al fine di collaborare alla semplificazione normativa ed alla riorganizzazione delle classi e dei laboratori scolastici italiani.

“Nudge Italia” è stato presentato in apertura dei lavori, durante la giornata di studio “Scienze del comportamento, società, cambiamento” che si è svolta a novembre 2014, lo IULM, all’interno dell’XI Edizione dell’ICBS International Congress on Behavior Studies, con una serie di dibattiti dedicati a “Behavior Science and Policy”, cui hanno partecipato accademici provenienti da tutta Europa: dal professor Pelle Guldborg Hansen, dell’Università danese di Roskilde, fondatore del network europeo dei nudge team, a Eric Singler, responsabile del nudge team francese.

Un recente appuntamento dedicato al nudging ha visto Paolo Moderato ospite di uno degli eventi di formazione organizzati dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia, un webinar dedicato al nudging, svoltosi il 10 febbraio 2015 presso la sede dell’Ordine.

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Rimuginio: ridurlo attraverso l’immaginazione ed il pensiero visivo

Per ridurre la tendenza al rimuginio ed aumentare le proprie capacità di concentrazione occorre allenarsi con una buona frequenza a stimolare le proprie capacità immaginative. 

Il rimuginio è un fenomeno mentale che indica la tendenza a ‘stare a pensare alle cose negative che potrebbero accadere in futuro’, soprattutto in condizioni generali di incertezza. Il rimuginio si accompagna all’ansia e, qualora eccessivo, rappresenta una pessima abitudine per la salute delle persone perché sostiene una condizione di ansia e stress duratura nel tempo (Borkovec, 1994).

Una delle conseguenze negative del rimuginio è la cattura di tutte le capacità mentali dell’individuo. Esiste un limite alle cose che possiamo fare contemporaneamente con la mente e il rimuginio tende a consumare tutte le risorse. Per questa ragione quando rimuginiamo non riusciamo a concentrarci con efficacia su altri compiti, a studiare, a svolgere prestazioni cognitive buone.

 Una recente ricerca ha mostrato come questo danno del rimuginio sia principalmente dovuto all’imponente carica verbale che lo contraddistingue (Leigh & Hirsch, 2011).

I grandi rimuginatori parlano molto con sé stessi mentre non sono abituati a usare l’immaginazione, il pensiero visivo o sensoriale.

Questi risultati suggeriscono che per ridurre la tendenza al rimuginio ed aumentare le proprie capacità di concentrazione occorre allenarsi con una buona frequenza a stimolare le proprie capacità immaginative.

In sintesi imparare a usare l’immaginazione può ridurre il rimuginio e fornirci più risorse mentali.

 

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Pratiche di Mindfulness nei programmi scolastici: abilità sociali ed emotive

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Uno studio condotto presso la University of British Columbia ha recentemente indagato l’effetto dell’inserimento di alcune semplici pratiche di mindfulness e di esercizi che insegnano a prestare attenzione agli altri all’interno di programmi scolastici volti a favorire lo sviluppo di abilità sociali ed emotive.

Lo studio ha coinvolto ricercatori appartenenti a diverse discipline, dalle neuroscienze, alla pediatra, alla psicologia dello sviluppo e all’ educazione, allo scopo di indagare in modo particolare gli effetti del programma MindUP™, nel corso del quale era previsto l’insegnamento di alcune pratiche di mindfulness, quali pratiche di esperienza sensoriale e pratiche con focus sul corpo e con focus sul respiro, su di un campione costituito da 99 bambini che frequentavano quattro diverse classi del quarto e del quinto grado.
Dallo studio è emerso come i bambini che avevano preso parte a questo programma fossero capaci di mettere in atto strategie di regolazione dello stress più efficaci e si mostravano, inoltre, più ottimisti e collaborativi con gli altri rispetto a bambini loro pari inseriti in un programma simile ma nel corso del quale non era previsto l’insegnamento di alcuna pratica di mindfulness. Rispetto a questi bambini, coloro che erano stati inseriti nel programma MindUP™ mostravano, inoltre, prestazioni scolastiche migliori in matematica.

Sulla base di questi risultati, secondo Schonert-Reichl, autrice dello studio, è quindi possibile affermare che

“i bambini a cui vengono insegnate pratiche di mindfulness, il cui scopo è quello di imparare a prestare attenzione al momento presente in maniera intenzionale e non giudicante, risultano più avvantaggiati sia in situazioni scolastiche sia della vita di tutti i giorni”.

L’effetto dell’insegnamento di tali pratiche è certamente legato a diversi fattori. Una spiegazione possibile potrebbe essere, secondo Schonert-Reichl, che l’insegnamento di queste pratiche promuove l’apprendimento all’interno di una situazione di interazione sociale, in un clima meno stressante e più attento, favorendo così lo sviluppo di una maggiore tendenza alla condivisione e all’aiuto degli altri ed un più facile raggiungimento dei propri obiettivi, tra i quali ottenere risultati scolastici migliori.

È questa una delle prime ricerche che hanno indagato in maniera empirica gli effetti derivanti dall’ insegnamento di pratiche di mindfulness sul benessere di bambini in età scolare. Gli studi condotti fino a questo momento hanno infatti indagato l’effetto di tali pratiche soprattutto negli adulti. Nello specifico, nel corso dello studio, sono state valutate alcune abilità cognitive, quali memoria, concentrazione e attenzione, attraverso test che misurano le funzioni esecutive. È stata, inoltre, valutata la capacità di regolazione dello stress attraverso l’analisi dei livelli di cortisolo e lo stato di benessere soggettivo attraverso misure di tipo self-report. Infine, aspetti legati alle abilità sociali sono stati misurati attraverso il giudizio riportato dai pari.
I risultati di questo studio sembrano quindi suggerire che questo tipo di programmi, volto allo sviluppo delle abilità sociali ed emotive, possa permettere l’identificazione di strategie che consentano non solo di aiutare bambini in difficoltà ma possa promuovere anche un migliore stato di benessere, aiutando i bambini nella loro crescita.

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Quella spintarella che migliorerebbe la vita di tutti: gli effetti del Nudging

A Cura di Massimo Cesareo, Team Nudge Italia, IESCUM

Il nudging è la disciplina che, grazie alle scienze del comportamento, facilita ovvero spinge gentilmente le decisioni delle persone verso opzioni di scelta più in linea con i loro valori, tutelando al contempo la loro libertà di scegliere.

Cosa fare per migliorare le scelte alimentari di una popolazione, per incrementarne l’attività fisica o per aumentare il numero di persone che pagano le tasse o che si recano a votare?

Ricorrere al nudging: la spinta gentile teorizzata dall’economista Richard H. Thaler e dal giurista Cass R. Sunstein, nel saggio Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness, edito in Italia da Feltrinelli, nel 2008, con il titolo Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità.

Il nudging è una visione socio economico multidisciplinare, che si sviluppa all’interno delle scienze del comportamento.

 Le scienze del comportamento sono figlie del Comportamentismo, approccio alla psicologia, del quale si è soliti indicare come data di nascita quella della pubblicazione dell’articolo dello psicologo statunitense John Watson La psicologia così come la vede un comportamentista (1913).

L’applicazione delle scienze del comportamento alle politiche sociali, all’economia, alla gestione della cosa pubblica, ha portato, nel corso del XX secolo, dapprima allo sviluppo del filone economico denominato Behavioral Economics, economia comportamentale, ed in seguito – nell’ultimo quinquennio – alla nascita di appositi nudge team, ovvero team di esperti in supporto all’operato governativo.

Il nudging, pertanto, è materia di studio e di ricerca assai recente e che molto sta facendo parlare di sé: è la disciplina che, grazie alle scienze del comportamento facilita, ovvero spinge gentilmente le decisioni delle persone verso opzioni di scelta più in linea con i loro valori, tutelando al contempo la loro libertà di scegliere.

Sulla scia della svolta aperta dal volume Nudge (2008, Thaler and Sunstein), le scienze del comportamento sono diventate un valido alleato nella gestione istituzionale della cosa pubblica.

Un primo esempio di nudge team va trovato nella nomina, da parte del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, di Cass R. Sunstein quale responsabile dell’Office of Information and Regulatory Affairs.

Come funziona il nudging? Semplice!- direbbe Cass R. Sunstein, che proprio così ha intitolato un suo recente volume, in cui viene descritto l’operato del Nudge Team statunitense: una regolamentazione intelligente, che spinga gentilmente i cittadini a comportamenti più efficienti per se stessi e per gli altri, può rendere la vita della società, dei cittadini, delle imprese, meno complessa. Nudging, pertanto, significa esplorare le potenzialità della semplificazione normativa. Ma non solo: come insegnano le scienze del comportamento, misurare, raccogliere dati, valutare, applicare il metodo scientifico alle politiche pubbliche aiuta i governanti ad indirizzare i comportamenti dei cittadini verso scelte più efficaci. La spinta gentile, insomma, può essere applicata ai mille ambiti della vita collettiva: dall’alimentazione alla gestione del traffico urbano, dalla lotta all’evasione fiscale all’aumento della percentuale degli elettori che si recano alle urne, fino ad un più consapevole rapporto con l’ambiente. Il nudging, infatti, si rivela un ottimo alleato per implementare la raccolta differenziata nei contesti urbani.

Un esempio di politiche di nudging che hanno realmente portato a miglioramenti dei comportamenti sociali può essere trovato nel sito governativo statunitense dedicato all’alimentazione, per il quale Cass Sunstein ha realizzato l’immagine di un piatto contenente le giuste percentuali di nutrienti da assimilare durante il giorno. Il passaggio dalla classica piramide alimentare al piatto ha semplificato l’accesso degli utenti al sito e la comprensione delle informazioni veicolate.

Altri esempi possono essere rilevati nell’azione amministrativa di Antanas Mockus, ex sindaco di Bogotà, capitale della Colombia, azioni che spingono a riflettere sulle possibilità offerte dall’ingegneria sociale nella gestione urbana.

Mockus — filosofo, matematico e pedagogo — nella sua esperienza di amministratore pubblico è divenuto noto alle cronache internazionali per i suoi esperimenti sociali. Già nel 2004, Maria Cristina Caballero scriveva, sull’Harvard University Gazette, di questo professore senza esperienza politica che — reduce da un incarico di prestigio presso la Colombian National University — aveva applicato su una città di sei milioni e mezzo di abitanti le sue teorie sociali.

Bogotà, all’epoca, era una metropoli piagata dalla criminalità, dal traffico, dall’inquinamento. Mockus stesso spiegò come era riuscito a ridurre l’incidenza di questi fenomeni negativi durante una lezione tenuta presso la Kennedy School’s Institute of Politics, al termine del suo secondo mandato come sindaco di Bogotà. Agli studenti di Harvard, Mockus spiegò che nel passaggio dalla teoria alla pratica, nella gestione urbana democratica, era stato fondamentale invogliare il cittadino a modificare il proprio modo di pensare, utilizzare incentivi materiali per ridurre la corruzione, ricorrere alla disapprovazione della comunità verso i gesti criminali o in qualche modo non congruenti alla pacifica vita della comunità stessa.

 Gli esempi più noti della sua politica del cambiamento sociale — quelli che indussero a definire un miracolo il volto nuovo di Bogotà — furono l’idea di mandare 400 mimi nelle strade della capitale, con il compito, da un lato, di prendere apertamente in giro gli automobilisti indisciplinati, dall’altro di rappresentare sul palcoscenico reale della strada cosa volesse dire osservare le regole, e l’intuizione di rendersi testimonial di una campagna per la riduzione dello spreco dell’acqua. Entrambe le iniziative diedero ottimi risultati: ci fu una sensibile diminuzione degli incidenti stradali nell’area urbana e un risparmio dell’acqua che arrivò a toccare il 40% del precedente consumo totale.

L’idea di mandare dei clown a dirigere il traffico, per i suoi buoni risultati, venne — anni dopo, nel 2011 — rimessa in pratica da Carlos Ocariz, politico ed ingegnere, a capo della Municipalità di Sucre, una delle aree più povere di Caracas, capitale del Venezuela. L’esperimento ebbe successo e venne riportato dalle cronache italiane.

Jacopo Fo, per il Fatto quotidiano, descrivendo le iniziative tanto di Ocariz, quanto di Mockus ai lettori italiani, affronta un punto essenziale per la scienza del comportamento promossa da Iescum: una bella mattina gli automobilisti di Bogotà trovarono i semafori presidiati da gruppi di clown buffoni, che piangevano a spruzzo se non ci si fermava col rosso e invece danzavano e offrivano fiori se si rispettavano le precedenze. Fiori per chi rispettava le regole: un rinforzo, si direbbe in termini comportamentali.

 

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Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo – Introduzione alla Psicoterapia

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (03)

 

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è un disturbo d’ansia caratterizzato generalmente dalla presenza di ossessioni e compulsioni, anche se in alcuni casi possono essere presenti ossessioni senza compulsioni.

Le ossessioni sono pensieri, impulsi o immagini mentali che vengono percepite come sgradevoli o intrusive dalla persona. Il contenuto delle ossessioni può variare da persona a persona, alcuni temi ricorrenti riguardano impulsi aggressivi verso altre persone, il timore di essere contaminati o altri pensieri di natura sessuale o soprannaturale. L’elemento in comune delle ossessioni è che sono impulsi non voluti dalle persone, che producono emozioni di paura, disgusto o senso di colpa.

Questo disagio emotivo può essere tanto intenso che le persone si sentono costrette a mettere in atto una serie di comportamenti (rituali) o di azioni mentali per neutralizzare le ossessioni o eliminarle dalla mente. Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi (es: lavarsi le mani, ripetere più volte una stessa azione) o azioni mentali (es. contare, ripetere formule superstiziose) che permettono alla persona di alleviare momentaneamente il disagio provocato dalle ossessioni. Attraverso le compulsioni la persona riesce a ridurre la sgradevole sensazione che qualcosa non va o che potrebbe accadere qualcosa di brutto.

Tuttavia le compulsioni non eliminano le ossessioni, che possono aumentare o ripresentarsi nel tempo. Inoltre le compulsioni possono diventare molto debilitanti, impegnare molto tempo e costituire esse stesse un problema. La persona con disturbo ossessivo-compulsivo può iniziare a evitare tutte le situazioni associabili alle ossessioni e limitare notevolmente la propria vita sociale o lavorativa.
Il disturbo ossessivo compulsivo può essere curato. Gli studi scientifici attuali mostrano che gli unici trattamenti che hanno dato prova di efficacia sono la terapia farmacologica e la terapia cognitivo-comportamentale (NCCMH, 2011).

 

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I litigi dei bambini e l’intervento degli adulti: tecniche psicopedadogiche di mediazione dei conflitti infantili

I litigi dei bambini e l’intervento degli adulti: le tecniche psicopedagogiche di mediazione dei conflitti infantili

 

Keywords: Bambini, Litigi, Mediazione, Genitori, Insegnanti, Psicologia dell’Educazione

Abstract

I litigi fra bambini sono delle occasioni di crescita cognitiva, emotiva e sociale. Frequentemente gli adulti ignorano la valenza positiva di queste contrapposizioni e le vivono con estrema tensione, ponendosi l’obiettivo di interromperle tempestivamente. In questa maniera privano i piccoli di un patrimonio esperienziale utile al loro fisiologico sviluppo.

Le caratteristiche dei litigi infantili

Per i bambini il litigio rappresenta un evento fisiologico nell’ambito dei rapporti interpersonali. Minori e adulti, sovente, danno dei significati differenti alle dispute. Talvolta i genitori e gli insegnanti attribuiscono dei contenuti impropri alle controversie dei propri figli e alunni. Per i bambini il litigio è un fatto naturale, quasi un’attività ludica endemica alle dinamiche relazionali. Inoltre, i conflitti, secondo la Nigris (2002, pag.34), “risultano una condizione per lo sviluppo armonico del soggetto”.
I contrasti fra i piccoli, come Novara fa notare (2014, pag. 54), sono caratterizzati da due archetipi, ovvero la notevole frequenza temporale e il localizzarsi nell’ambito di processi amicali. La Garvey, citata in Novara (2014, op. cit., pag. 54), afferma che in una scuola dell’infanzia, per esempio, i bambini litigano con una media di 11- 12 alterchi all’ora. Queste dispute hanno una breve durata: infatti, nel giro di qualche minuto gli infanti ritornano a giocare insieme, come se nulla fosse accaduto.

L’autoregolamentazione dei bambini

I motivi alla base delle contese infantili sono molteplici. Solitamente i bambini litigano perché vogliono possedere una cosa che l’altro ha o perché desiderano giocare con gli stessi giocattoli o, ancora, perché aspirano a ricoprire lo stesso ruolo all’interno di un gioco di gruppo o la stessa funzione nell’ambito della vita quotidiana della classe o, semplicemente, perché hanno opinioni contrastanti sulle stesse tematiche (Carugati e Selleri, 1996, pag. 136 – 142; Berti e Bombi, 2005, pag. 309 – 310; Carugati e Selleri, 2005, pag. 207 – 212).
I piccoli solitamente, come Novara sostiene (2014, op. cit., pag. 56), hanno delle notevoli capacità di autoregolamentazione. Frequentemente i loro litigi non trascendono in episodi di violenza, come molti adulti temono, ma si risolvono in maniera naturale senza lasciare traccia di risentimento.

photolangage e supporto alla genitorialità 2© Michael Brown - Fotolia.com
L’utilizzo del Photolangage nel supporto alla genitorialità.

Esistono delle tecniche che consentono ai bambini di migliorare la naturale capacità di risoluzione dei conflitti. Alcune di esse non prevedono la partecipazione degli adulti di riferimento (genitori e insegnanti).
Novara (2014, op. cit., pag. 56), per esempio, propone una strategia di risoluzione di conflitti, che sfrutta le capacità maieutiche dei minori. Qualche volta, però, accade che i bambini trasmodano nei loro litigi perché hanno come punto di riferimento il giudizio degli adulti, ovvero è come se volessero conquistare l’approvazione di un adulto importante che hanno interiorizzato, per cui percepiscono la disputa nell’ambito della dinamica bontà-cattiveria. È un modo per attribuire all’altro l’inizio del litigio, e quindi il ruolo di “cattivo”, e a se stessi la funzione di vittima, ossia di personaggio buono.

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L’intervento inopportuno degli adulti

Novara (2014, op. cit., pag 57) sostiene che l’intervento dell’adulto nell’ambito dei litigi fra bambini è inopportuno, in quanto cerca di imporre una soluzione che spesso è distante da quella che i minori naturalmente trovano.
L’adulto, inoltre, interviene interrompendo il contrasto. Questo non consente ai piccoli di portare la disputa a termine con la finalità di trovare una mediazione, attraverso l’esercizio delle abilità comunicazionali.
In alcune circostanze sono gli stessi bambini che chiamano in causa l’adulto, con la funzione di arbitro, per stabilire chi ha ragione. L’adulto, in questo caso, non deve arrogarsi il compito di decidere chi ha ragione, ma semplicemente evidenziare quanto c’è di valido e congruente nelle ragioni dell’uno e dell’altro. Di frequente chi cede in un litigio è quello che emotivamente è più forte, ovvero riconosce che lo stare bene con l’altro è più importante, per esempio, del possesso di un oggetto.

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Efficacia del metodo maieutico di risoluzione dei conflitti

La ricerca svolta da Novara e Di Chio in alcune scuole dell’infanzia e primarie della provincia di Torino (2014, op. cit., pag. 54) ha reso evidente che il metodo maieutico di risoluzione dei conflitti, che abitua i bambini a risolvere da sé i propri litigi, fa decrescere la loro frequenza. Inoltre il permettere che i bambini gestiscano da soli i propri contrasti, li aiuta a sviluppare tre paradigmi:
quello di implementare il principio di realtà, cioè l’adattare i propri desideri e bisogni al contesto esterno;
quello del decentramento emotivo e cognitivo, per cui si agevola la consapevolezza che esistono le emozioni vissute dagli altri e punti di vista cognitivi differenti dal proprio;
quello del pensare in modo creativo – divergente. In altre parole, il bambino si abitua a pensare a soluzioni, frutto del pensiero creativo – divergente, che possono accontentare entrambi i contendenti.

Contesti scolastici, conflitti e mediazione

Naruto: il cartone che aiuta a pensare le emozioni difficili
Naruto: il cartone che aiuta a pensare le emozioni difficili

Nei contesti scolastici, l’insegnante è chiamato esplicitamente in causa per risolvere una disputa, divenuta violenta, fra due alunni. In questo caso il compito del docente è quello di aiutare gli allievi a reperire una forma di obiettività che consenta di dirimere pacificamente il conflitto. Nello specifico, il docente deve invitare i due membri ad esprimere le emozioni provate in quel momento e le ragioni alla base dei loro comportamenti. Successivamente deve sollecitare i due minori a mettersi uno nei panni dell’altro, con l’intento di esporre le emozioni provate dall’altro e le sue ragioni. In ultimo, attraverso una strategia di problem solving, è opportuno impegnare l’uno e l’altro in una ricerca volta a trovare più soluzioni al contrasto, con il proposito di escogitare quella giusta, ovvero quella che soddisfa ambedue, permettendo la riconciliazione (Carugati e Selleri, 2005, pag. 74 – 75).

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BIBLIOGRAFIA:

  • Berti, A.E. e Bombi, A.S. (2005). Corso di psicologia dello sviluppo. Bologna: Il Mulino.  ACQUISTA ONLINE
  • Carugati, F. e Selleri, P. (2005). Psicologia dell’educazione. Bologna: Il Mulino.  ACQUISTA ONLINE
  • Carugati, F. e Selleri, P. (1996). Psicologia sociale dell’educazione. Bologna: Il Mulino.  ACQUISTA ONLINE
  • Garvey, C. (1985). I discorsi dei bambini. Roma: Armando.
  • Nigris, E. (2002). I conflitti a scuola. Milano: Paravia – Bruno Mondadori.  ACQUISTA ONLINE
  • Novara, D. (2014), Litigare bene. Psicologia Contemporanea, n. 4, Luglio – Agosto 2014, pag. 54 – 59.

L’utilizzo delle nuove tecnologie nel trattamento del disturbo mentale

FLASH NEWS

Da un recente studio, condotto presso la Clemson University, in collaborazione con i ricercatori dell’Indiana University e del Centerstone Research Institute, è tuttavia emerso come queste nuove tecnologie possano essere molto utili anche nel trattamento della malattia mentale.

Smartphone e cellulari sono diventati ormai qualcosa di irrinunciabile per milioni di persone, senza il quale proprio non si può stare. Da un recente studio, condotto presso la Clemson University, in collaborazione con i ricercatori dell’Indiana University e del Centerstone Research Institute, è tuttavia emerso come queste nuove tecnologie possano essere molto utili anche nel trattamento della malattia mentale.
Lo studio, pubblicato su Personal and Ubiquitous Computing, ha coinvolto un campione di 325 pazienti affetti da diverse forme di malattia mentale. Scopo della ricerca è stato quello di determinare la proprietà dei telefoni cellulari dei pazienti e le loro modalità di utilizzo.

I risultati ottenuti hanno messo in evidenza che soggetti affetti da malattia mentale possiedono un telefono cellulare in maniera comparabile ad un campione di soggetti “sani”, ad eccezione del fatto che un maggior numero di pazienti rispetto ai non pazienti condividono con altri il proprio cellulare.

Dallo studio è emerso, inoltre, che persone affette da malattia mentale utilizzano il proprio telefono cellulare soprattutto per scambiare messaggi ed inviare sms. Circa l’80% dei soggetti che hanno partecipato allo studio ha affermato di utilizzare il cellulare per questo scopo piuttosto che per scaricare applicazioni, che è risultata, invece, essere la modalità di utilizzo meno diffusa del proprio smartphone. Coloro che hanno affermato di trovarsi a loro agio nell’ utilizzare il cellulare per scambiarsi messaggi riportavano, inoltre, di sentirsi più a loro agio anche con l’idea di scambiarsi sms con il proprio medico curante.

Secondo Kelly Caine, co-autrice dello studio e assistente universitario presso il Clemson University’s School of Computing, questi risultati sembrano suggerire che scambiarsi sms potrebbe costituire una possibile modalità di aiuto al trattamento per pazienti affetti da malattia mentale.

Ed ancora, che l’utilizzo di queste forme di tecnologia, ormai familiari e diffuse in gran parte della popolazione, potrebbe rappresentare una forma di trattamento supplementare per coloro che hanno un reddito basso e che per questo non riuscirebbero altrimenti ad avere accesso ad alcuna forma di trattamento. Sulla base dei dati raccolti dal Substance Abuse and Mental Health Services Administration, infatti, la diffusione del disturbo mentale è in crescita, ma il 62% di coloro che è affetto da qualche forma di malattia mentale non riceve alcun trattamento per la propria malattia.

Nonostante siano numerose le ricerche che hanno indagato come le nuove tecnologie possano costituire un aiuto nel monitoraggio dello stato di salute dei pazienti, nella gestione delle forme di malattie croniche e nella prevenzione, molte meno sono state, invece, le ricerche che hanno indagato come le tecnologie disponibili possano essere usate nel trattamento di persone affette da malattia mentale. Il presente studio, si propone di colmare questo gap, promuovendo un tipo di intervento basato su nuove forme di trattamento mobile, valutate sulla base delle modalità di utilizzo e dei bisogni dei pazienti.

La speranza dei ricercatori è che sia possibile indagare, nel corso di ricerche future, quali misure di riserbo possano essere sviluppate al fine di usare la tecnologia mobile come aiuto al trattamento, specialmente per pazienti che condividono il proprio telefono, ed esplorare i tipi di aiuto di trattamento mobile che potrebbero essere più facilmente attuabili ed efficaci.

 

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Lo stigma sul peso e l’obesità “divertente” Siani e Sanremo 2015 – Psicologia

Segnaliamo un articolo di Giovanni Sabato, pubblicato su L’Espresso il giorno 11 Febbraio 2015

 

Il Giornalista de L’Espresso intervista il Dottor. Daniele Di Pauli, Psicologo Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale e già autore per State of Mind di articoli e recensioni sul tema dell’obesità e dello stigma sociale a cui è associata. Il tema dell’articolo parte dalla gaffe di Alessandro Siani all’edizione 2015 del Festival di Sanremo, dove con una battuta molto poco felice ha cercato l’ironia ai danni di un bambino sovrappeso.

 

«Il problema non è Siani e non serve scagliarsi contro di lui. Il comico ha fatto scalpore per aver irriso un bambino obeso a Sanremo, ma il problema non è la sua eventuale insensibilità, se mai è l’esatto contrario: quel che fa riflettere è che battute simili siano comuni e accettate a livello sociale. Rafforzando la diffusa idea negativa dell’obesità e lo stigma verso le persone sovrappeso, con tutti i suoi danni». Così la vede Daniele di Pauli, psicologo e psicoterapeuta che collabora fra l’altro con le associazioni Diamole Peso e CIDO (Comitato italiano per i diritti delle persone affette da obesità e disturbi alimentari)

Alessandro Siani, il pregiudizio e il peso delle paroleConsigliato dalla Redazione

Chi insulta un nero è razzista. Chi insulta un gay è omofobo. Chi insulta un ciccione è simpatico. Ma forse oggi non più. Anche se in Germana e Stati Uniti le donne guadagnano tanto meno quanto più pesano (…)

Tratto da: l'Espresso

 

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