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Prendersi cura della morte psichica

L'incontro terapeutico con un individuo avviluppato dalla morte psichica è un'esperienza limite per entrambi i soggetti coinvolti: paziente e terapeuta..

Di Marco Tarantino

Pubblicato il 11 Giu. 2019

Aggiornato il 07 Gen. 2020 11:32

La morte è un evento difficile da metabolizzare, solitamente non fa parte delle possibilità che contempliamo nella nostra professione, perché rischia di minare le convinzioni teoriche ed etiche di noi “professionisti” della salute mentale; tali convinzioni costituiscono il fondamento più o meno solido su cui poggia la fiducia nella propria possibilità di essere d’aiuto nell’incontro con l’altro sofferente

 

Ma che dire della vita che subisce contrazioni successive, finché non rimane che un nodo strozzato? Una volontà che si serra su sé stessa come un pugno che non può aprirsi… e seguita a serrarsi, intrappolata dalla sua stessa densità, come un buco nero, sempre più denso e più buio col passare del tempo

M. Eigen, “Legami danneggiati”

 

Nei giorni scorsi si è molto parlato delle vicende umane di Noa Pothoven, giovane ragazza olandese che, dopo aver tentato invano di ottenere dallo stato l’autorizzazione per il suicidio assistito, si è lasciata morire a casa, accompagnata dai propri genitori, o almeno questo è quello che abbiamo potuto sapere dalla lettura dei giornali. La sua storia ha avuto un effetto dirompente nel discorso pubblico, per diversi motivi: innanzitutto, anche grazie alla grossolana disinformazione con cui la notizia è stata riportata all’inizio, si è riacceso il confronto – scontro sull’eutanasia, in senso generale e poi nello specifico quando questa sia correlata alla sofferenza psichica; successivamente ci si è interrogati sull’enormità di questioni che apre la vicenda umana di un’adolescente, vittima di violenze e di uno stupro, che dopo aver tentato di metabolizzare invano queste esperienze, anche attraverso la scrittura di un libro, sceglie di morire e conseguentemente si lascia morire.

In quanto psichiatra e psicoterapeuta, vorrei soffermarmi su quest’ultimo tema, perché è quello che mi ha colpito di più: la morte è un evento difficile da metabolizzare, solitamente non fa parte delle possibilità che contempliamo nella nostra professione, perché rischia di minare le convinzioni teoriche ed etiche di noi “professionisti” della salute mentale; tali convinzioni costituiscono il fondamento più o meno solido su cui poggia la fiducia nella propria possibilità di essere d’aiuto nell’incontro con l’altro sofferente, pertanto la loro crisi rischia di esitare nella messa in discussione dell’identità professionale del terapeuta. Il mio obiettivo è interrogarmi su quali possono essere gli strumenti clinici più adeguati ed efficaci in situazioni come questa, che mettono di fronte ai rischi della nostra professione e alla necessità che ognuno di noi ha di non essere una monade isolata in balìa degli eventi, ma piuttosto di far parte di una rete di supporto e sostegno tra pari e non solo.

La morte psichica nella relazione terapeutica

Quali sono i modi in cui la morte psichica può presentarsi nella relazione psicoterapeutica? Ne L’inchiostro della malinconia, Starobinski descrive la desertificazione a cui va incontro il mondo melanconico:

Agli occhi del depresso, capita sovente che il paesaggio circostante appaia come privo di consistenza e di realtà. Il mondo non è più all’altezza. E’ contaminato da qualcosa di falso e ingannevole. Le attività umane sembrano destituite di senso. Gli uomini attendono alle loro occupazioni, ma il loro andirivieni, per il malinconico, è solo un gesticolio inquietante e assurdo (Jean Starobinski, “L’inchiostro della malinconia” – Pag. 178)

Ovviamente non è solo nell’incontro con la grave depressione che il clinico viene a contatto con la morte psichica, ma questa è l’evenienza con più letteratura disponibile e pertanto può fungere da paradigma. Il soggetto sperimenta una progressiva presa di distanza dal mondo, che perde i suoi contorni, la sua consistenza, e finisce per condurre un’esistenza scarnificata, mettendo tra parentesi il leib (il corpo vivo, per Husserl) e rapportandosi ad un korpe altro da sé, ostile. Un’altra caratteristica del mondo psichico di questi individui è l’assenza o quasi di oggetti investiti riconoscibili, sia in positivo, come oggetti caldi e nutrienti, che in negativo, come origine di eventuali traumi: non dico che non esistano, ma sono irraggiungibili, non rappresentabili in parole né in immagini. Per parafrasare la famosa metafora di Tellenbach (in Binswanger, 2006), prima di occuparsi di chi lo ha appiccato, l’obiettivo terapeutico principale è spegnere l’incendio prima che bruci tutto, sapendo che l’ultimo combustibile a bruciare è la vita stessa. Non stupisce quindi che la qualità dell’angoscia in questi individui abbia a che vedere non tanto con la costruzione del “senso” dell’esistere, quanto piuttosto con la perdita della possibilità di “poter restare ancora in vita” (Binswanger, 2006).

In questo progressivo allontanamento dal mondo condiviso, il soggetto prende sempre più commiato dal mondo degli uomini:

Ai confini del silenzio, col più flebile dei soffi, la malinconia mormora: <<Tutto è vuoto! Tutto è vanità>>. Il mondo è inanimato, colpito a morte, aspirato dal nulla. Ciò che si possedeva un tempo è andato perduto. Ciò che si era sperato non è avvenuto. Lo spazio è disabitato. Ovunque regna il deserto infecondo. E se uno spirito aleggia al di sopra di questa distesa, è quello della constatazione desolata, la nuvola nera della sterilità, dalla quale mai scoccherà il lampo di un fiat lux. Di ciò che la coscienza aveva contenuto, cosa resta? Appena qualche ombra. E forse le vestigia dei limiti che facevano della coscienza un ricettacolo, un contenitore – come le mura rase al suolo di una città devastata. Ma, per il malinconico, la vastità, nata dalla devastazione, si oblitera a sua volta. E il vuoto si fa più esiguo della più angusta segreta (Jean Starobinski, “L’inchiostro della malinconia” – Pag. 463)

L’incontro terapeutico con un individuo segnato, avviluppato dalla “morte psichica” (Eigen, 1998) è un’esperienza limite, se non per certi versi paradossale, per entrambi i soggetti coinvolti: il paziente, come abbiamo visto, incontra qualcuno che è impossibilitato ad incontrare perché di fatto disabita il mondo in comune, il terapeuta invece si trova di fronte ad una presentificazione dell’abisso nietzschiano e deve fare ricorso a tutto il suo armamentario di tecniche e di esperienze per guardarvi senza sprofondarvi dentro. Qui si aprono questioni importanti, che attengono in parte alla psicoterapia in sé e in parte al modello di riferimento dei singoli terapeuti. Per chi, come me, è un terapeuta della Gestalt, l’incontro con questi pazienti presenta delle difficoltà peculiari: la terapia della Gestalt non ha una metapsicologia vera e propria, come sosteneva Barrie Simmons più che su una teoria psicologica è da intendersi come il “reparto operativo di una filosofia esistenziale. L’unico postulato, l’unica certezza a priori su cui tutto il modello poggia e che dà sostanza al nostro agire terapeutico è la fiducia nella saggezza organismica, l’idea che, liberato dalle briglie costruite nel corso degli anni in successive stratificazioni di conflitti rimossi, evitamenti del contatto, cristallizzazioni di polarità, abitudini caratteriali, l’individuo è abile a rispondere alle richieste dell’ambiente adattandovisi creativamente e perseguendo il proprio bene. Ora, è evidente che nell’incontro con la morte psichica, tutto questo subisce almeno apparentemente uno scacco, e tutti i tentativi di mobilizzare una vita che ha già smesso di essere viva possono essere frustrati e frustranti per il terapeuta oltre che poco utili per il paziente.

E’ possibile riportare qualcuno al di qua della morte psichica?

Con un paziente con queste caratteristiche, il primo passo da compiere è, per così dire, resuscitare l’altro, riportarlo in vita, riportarlo nello spazio relazionale, “recuperare l’integrità dell’essere uomini tramite il rapporto che c’è tra loro” (R.D. Laing, in P.M. Bromberg). Senza questo movimento, nessun percorso terapeutico è possibile, perché la psicoterapia è possibile tra due persone almeno parzialmente vive. E come è possibile riportare qualcuno al di qua della morte? Al di là dell’approccio terapeutico utilizzato, è centrale la disponibilità del terapeuta a guardare nell’abisso, controllando la propria vitalità perché non debordi difensivamente e allo stesso tempo non svapori nel nulla dell’altro, al fine di essere in qualche modo infettato dal vuoto dell’altro per trasformarlo faticosamente da vuoto mortifero a vuoto fertile:

Il paziente esperisce la possibilità che qualcuno metabolizzi ciò che gli era sembrato impossibile rielaborare. Egli apprende in tal modo che non è del tutto indigesto, anche se non è neppure interamente digeribile, e che, comunque, una parziale attività di trasformazione non gli è soltanto possibile, ma anche necessaria (Eigen, “La morte psichica”, 1998 – Pagg. 191 – 192)

In questo processo di guarigione che avviene per così dire per contagio, il terapeuta è esposto al vuoto mortifero dell’altro e necessita certamente di fiducia nelle proprie possibilità, ma non solo: è cruciale che sia disponibile ad “affondare” (ibidem) l’uno nell’altro e allo stesso tempo che mantenga un contatto con se stesso, in quella pratica della “Simpatia” che Perls ha così chiaramente consigliato (anche in opposizione ai pericoli che nasconde invece il concetto di empatia, soprattutto in condizioni simili). E’ altresì cruciale che il terapeuta non sia solo: non solo perché questi pazienti “difficili” richiedono tutto il sostegno possibile (intervisioni, supervisioni, eventi formativi ecc), ma anche per restituire all’altro nell’incontro il nostro essere moltitudini, affinché possa apprendere come l’esistenza trascenda il singolo e si dispieghi nella molteplicità.

Concludo queste riflessioni con un’esortazione che mi pare possa riassumere il senso di quanto ho scritto:

La funzione della terapia è in parte quella di durare, resistere, sopravvivere alla distruttività. Ma anche in terapia c’è distruttività. Che senso ha per la terapia sopravvivere a sé stessa? Autodistruggersi? Ritentare e continuare a tentare di nuovo? E questo tentare e ritentare riesce infine a filtrare nel legame danneggiato e a cambiare qualcosa? Aspettare e tentare; nella pazienza, una grande bellezza (Michael Eigen, Legami danneggiati – pag. 128)

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Jean Starobinski, “L'inchiostro della malinconia” Einaudi Ed. 2014, pag.178
  • Ludwig Binswanger, “Melanconia e mania”, Bollati Boringhieri, 2006. Pag. 58
  • Jean Starobinski, “L'inchiostro della malinconia” Einaudi Ed. 2014, pag. 463
  • Michael Eigen, “La morte psichica”, Astrolabio 1998
  • R.D. Laing, citato in P.M. Bromberg “Clinica del trauma e della dissociazione”R. Cortina Ed., pag.144
  • Michael Eigen, “La morte psichica”, Astrolabio 1998 pagg. 191 - 192
  • Michael Eigen “Legami danneggiati” Astrolabio 2007, pag. 128
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