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Congresso 3G: Ponti fra isole – Dove nasce la psicopatologia tra trauma, attaccamento e storia interazionale – Report dal Simposio

Nella terza giornata del Congresso 3G Ponti fra Isole, il simposio dal titolo: Dove nasce la psicopatologia tra trauma, attaccamento e storia interazionale

Di Alessia Incerti

Pubblicato il 23 Nov. 2018

Aggiornato il 03 Dic. 2018 09:05

La terza giornata del Congresso 3G “Ponti fra isole: mindfulness, acceptance, compassion”, tenutosi dal 14 al 16 Novembre, ha visto l’alternarsi di diversi esperti e delle loro relazioni nel Simposio dal titolo “Dove nasce la psicopatologia tra trauma, attaccamento e storia interazionale”

 

Introduce e modera il Professor Paolo Moderato.

Robin D. Walser: life after trauma

Il primo intervento di questa tavola rotonda è affidato a Robin D. Walser che ascoltiamo in videoconferenza. PhD, psicologa clinica, direttrice di TL Consultation Services e co-direttrice del Bay Area Trauma Recovery Center. Lavora presso il National Center per il PTSD sviluppando e diffondendo metodi innovativi per tradurre la scienza in interventi applicati, e svolge il ruolo di assistente professore presso il dipartimento di psicologia dell’Università della California, a Berkeley. È co-autrice di vari libri sull’ACT e il PTSD.

Life after trauma, il titolo della sua presentazione. “Il primo punto che vorrei trattare con voi è considerare la perdita dell’ordine dopo il trauma” così la relatrice introduce il suo intervento.

La relatrice mostra immagini concernenti lo tzunami e ricorda che dopo l’evento era stata costituita una linea telefonica di aiuto per prevenire il suicidio dei sopravvissuti, proprio a conferma degli effetti psicologici degli eventi traumatici. L’intensa sofferenza può condurre a suicidio. Talvolta, prosegue, è difficile calcolare gli effetti nel tempo di questi disastri: 230 sono state le persone morte in unico evento, il terremoto in Haiti, ma non si possono calcolare gli esiti a lungo termine di questi traumi sui sopravvissuti. Viviamo in un tempo e in un mondo che sottopone l’uomo a continui traumi, ci sono milioni di persone migranti che durante il loro percorso subiscono esperienze traumatiche.

Il trauma dunque ha un impatto, ma le conseguenze del trauma continuano a impattare nella vita delle persone: immagini e pensieri intrusivi.

La relatrice pone quindi una domanda in merito:

Cosa dunque possiamo fare per le persone che vivono traumi cosi gravi, come facciamo a ridare il senso di vivere a queste persone, dove si trova la vitalità dopo esperienze di questo genere? Come esseri umani dovremmo lasciare andare questi eventi, per andare avanti, e abbiamo trattato queste persone con ordine e metodo, ci creiamo delle storie su come la vita dovrebbe essere in una cornice di coerenza e sicurezza. Ma la vita umana non è ordinata, nel mondo non vanno così le cose ora e non è mai andato così. Tuttavia pensando al trauma non solo è scarso l’ordine che c’è fuori, ma anche dentro di noi le cose non sono ordinate.

Quando lavora con i sopravvissuti, la dottoressa cerca di riportarli sull’obiettivo di fare esperienze di vita di qualità, non necessariamente esperienze ordinate in una cornice di sicurezza e coerenza, la rigidità di questa cornice ci crea pensieri ed evitamenti esperienziali.

L’accettazione delle esperienze traumatiche è processo complesso e doloroso ed è importante prima di tutto cercare di capire cosa significa questo processo per chi ha vissuto esperienze traumatiche. Come spiega la relatrice:

Che cosa significa avere disordine dentro? Le persone vengono da noi nell’idea che la guarigione comporti un controllo, si sentono spezzati dal trauma e per potersi ricostruire e reintegrarsi fanno molti sforzi per controllare i pensieri e i sentimenti che sopraggiungono improvvisamente. Diventano vittime di se stessi perché cercano ad esempio di bloccare tutto per sperimentare di vivere senza dolore.

Le persone traumatizzate si ripetono costantemente nella loro mente di voler tornare indietro nel tempo, prima del trauma. Questo non è possibile ma come terapeuti li indirizziamo a una soluzione e ed essa sta nell’accettazione dell’accaduto. Possiamo condurre i pazienti a creare uno spazio dove possano entrare in contatto con il dolore, possiamo far capire loro che non è il dolore che muove la loro vita, e riconducendoli a guardare il mondo così com’è realmente, non ordinato e prevedibile come ci illude che sia.

La persona che ha subito traumi prova emozioni intense e negative: vergogna, tristezza, colpa, rabbia e ritiene che il mondo sia ingiusto. Lavorare sull’accettazione comporta il creare spazio per sentire queste emozioni, ciò diminuisce l’impulso a evitare e a usare sostanze per anestetizzarsi dinanzi a queste emozioni dolorose.

Attraverso compassione e flessibilità possiamo ridare un modo per vedere le cose – termina la relatrice.

Sandra Sassaroli: il ruolo della storia evolutiva del paziente

La tavola rotonda prosegue con l’intervento della dottoressa Sandra Sassaroli, direttore delle scuole di psicoterapia Studi Cognitivi Network e pilastro del cognitivismo italiano. Il suo intervento si avvia proprio da alcuni momenti della storia del cognitivismo in Italia.

Nella tradizione cognitivista italiana c’è sempre stata una grande attenzione a come alcune esperienze di vita importanti orientano comportamenti tardivi, la dottoressa Sassaroli ricorda come il suo incontro con J. Bowlby ha stimolato la sua attenzione allo studio della relazione tra pattern di attaccamento e psicopatologia.

Tuttavia non è sempre il momento di trattare la storia evolutiva del paziente ma non è neanche sempre il momento di trattare i processi di funzionamento del paziente stesso o il contenuto dei suoi processi stessi. Inoltre come afferma la dottoressa:

Il modello liottiano considera il trauma dell’attaccamento deficit relazionale e della coscienza e propone un intervento terapeutico come relazione cooperativa di compenso affettivo e ripartivo.

Ricorda inoltre il modello di Semerari e collaboratori che formula una teoria del deficit metacognitivo e secondo questa teoria concettualizza il caso.

Con Roberto Lorenzini, prosegue la relatrice, nel 1987 ho concettualizzato il caso ponendo in relazione gli stili di attaccamento con gli stili di personalità e il funzionamento del paziente, ora come sapete lavoro sul modello Libet, che non è una nuova terapia ma un modo per concettualizzare il caso e comprendere il funzionamento del paziente.

Al tema centrale di questa tavola rotonda tradotto nella domanda: ”Quale potrebbe essere un modello ideale che spieghi il funzionamento di un paziente?” la dottoressa Sassaroli risponde quindi proponendo il modello Libet, al quale già si riferì nella scorsa edizione di questo congresso.

LIBET è l’acronimo di Life themes and plans implications of biased beliefs: elicitation and a treatment. Il modello Libet è attenzionale, metacognitivo ed evolutivo, descrive la sofferenza secondo due coordinate: temi e piani.

  • Tema: è uno stato mentale doloroso emotivamente intenso, evolutivamente appreso nella storia di vita personale, rigido, inflessibile e giudicato intollerabile. I temi individuati sono tre: minaccia terrifica, inadeguatezza /disamore e infine tema dell’indegnità personale.
  • Piani: strategie semi adattive e di meta controllo che hanno funzionato e che hanno in parte permesso a un ritorno alla dimensione di sicurezza. I piani individuati sono i seguenti:
    • Prudenziale: la persona non pensa ai temi dolorosi, li evita e non esplora.
    • Prescrittivo: qui la persona monitora la minaccia e si sforza di prevenirla con comportamenti rigidi e d’iper-controllo.
    • Immunizzante: il soggetto ignora la minaccia sforzandosi di tenere uno stato desiderato, la ricerca di possibilità estrema.

Secondo la dottoressa Sassaroli dunque, sensibilità (tema) apprese nell’infanzia sono correlate con il malfunzionamento e la sofferenza attuale che il paziente gestisce mediante strategie (piani). Infatti, spiega Sassaroli:

Quando si è instaurato il circuito meta controllo, si autoalimenta ma la soluzione funziona solo in quella finestra spazio temporale e solo in quella famiglia solo in quel periodo. Hanno senso in quell’ambiente ma poi si cristallizzano e generano inflessibilità e rifiuto, diventano piani rigidi e inflessibili e m’impediscono di vedere quello che posso vedere. I miei piani si possono rompere e produrre l’emersione del sintomo reattivo e un circuito di mantenimento sintomatico.

Secondo il modello Libet, l’intervento è basato principalmente sull’analisi approfondita del contenuto doloroso del tema, sul compenso emotivo nella relazione terapeutica ed ha come scopo la riduzione del condizionamento e della dolorosità del proprio tema e inoltre punta ad aumentare il distacco del paziente dal proprio piano.

Sandra Sassoroli, termina il suo intervento rammentando che:

E’ importante dunque accettare che quella storia è dolorosa ma non la posso riscrivere!

Giovambattista Presti: la concettualizzazione contestualista della psicopatologia

Il terzo relatore, Giovambattista Presti, MD, Ph.D, è professore di Psicologia presso l’università di Enna e presso IULM, Milano. Peer Reviewed ACT trainer, IESCUM, ACT Italia e past president di ACBS.

Nanni Presti interviene alla tavola rotonda con un contributo sul tema della concettualizzazione contestualista della psicopatologia, tracciando un filo rosso che lega la clinica alla ricerca ovvero l’ambulatorio al laboratorio.

Il modello dell’Acceptance and commitment therapy (ACT) spiega la psicopatologia secondo un approccio contestualista, poiché nasce da una matrice comportamentismo.

I teorici della Relational Frame Theory (RFT), mediante l’approfondimento dello studio del linguaggio e della cognizione hanno fornito una chiave di spiegazione dell’insorgenza e del mantenimento della psicopatologia: l’inflessibilità psicologica.

I Relational frames ci consentono di pianificare, valutare, confrontare e ricordare, ma se rigidi e inflessibili possono sviluppare o alimentare la sofferenza attraverso tre modalità:

  • Ubiquità del dolore
  • Fusione cognitiva
  • Evitamento esperienziale

Nanni Presti ci presenta studi e ricerche effettuate per illustrarci in che modo la RFT può offrire un modello esplicativo dell’eziopatogenesi. La Relational Frame Theory, spiega il relatore:

Può essere modello esplicativo della psicopatologia collegandosi alla tradizione operante e ampliando quando scoperto e formalizzato da Skinner.

Ripercorre la storia del comportamentismo partendo da questi momenti e punti di studio:

Come rispondiamo R, prima a una cosa che indichiamo con S, poi rispondiamo ad aspetti simbolici della stessa cosa e infine rispondiamo allo stesso stimolo con la mediazione del linguaggio e dei significati. Rispondiamo ai nomi che diamo a quello stimolo S. La RFT concettualizza un se deittico: io-tu qui-li adesso prima e adesso dopo e un se gerarchico: inclusione di storia e di elementi in un gran contenitore che chiamo io. Ognuno di noi cerca continuamente coerenza e integrazione di significati.

Dagli studi della RFT deriva l’acceptance and commitment therapy (ACT). Obiettivo principale dell’ACT è incrementare la flessibilità psicologica ovvero la capacità della persona di mettere in atto o persistere in comportamenti che siano in linea con i propri valori. Il relatore ci presenta ricerche che hanno approfondito il ruolo dell’evitamento esperienziale. L’impegno pluridecennale di Presti nelle scienze del comportamento è noto al pubblico che applaude il suo intervento, importante per il raccordo tra clinica e ricerca.

La tavola rotonda si conclude con la seguente domanda posta dal moderatore Professor Paolo Moderato:

Gli studi della RFT, gli studi processuali dell’ACT e il modello di concettualizzazione LIBET ci stanno spingendo forse verso una CBT di quarta generazione: la generazione di processi in terapia?

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Alessia Incerti
Alessia Incerti

Psicologa e Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale

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