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Le strutture dinamiche relazionali – La Gestalt dialogica

Il linguaggio e il dialogo nelle relazioni consentono l'espressione di sensazioni ed emozioni e questo accade sin dall'infanzia e si riproduce in terapia.

Di Roberto Minotti

Pubblicato il 13 Feb. 2017

Aggiornato il 24 Mag. 2017 15:18

I flussi d’informazione psicobiologici scambiati durante la gravidanza trasmettono le “conoscenze” di base, con una modalità metabolica, ma anche simbolica (introiettiva). Il flusso dialogico attivo fin da subito, organizza le strutture mentali per lo sviluppo delle competenze relazionali, ciò che Ed Tronick chiama IRSS (Infant Regulatory Scoring System), ovvero l’espansione diadica di coscienza.

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“La relazione è un diamante: le sue parti, contemporaneamente,
riflettono luce e irradiano ombra.”

Il sé confluente e lo stile sociale

La confluenza, questo modo di esserci e di comunicare, caratterizza tutti i momenti fondamentali della nostra esistenza come: il concepimento, la gestazione, la nascita, il sesso, l’amore, la morte ecc., tutti stati esistenziali in cui i confini non sono più limiti.

Nella confluenza, la madre e il bambino durante la gravidanza, sono separati ma uniti, capaci di sentire completamente l’altro e se stessi: [blockquote style=”1″]questa capacità è alla base dell’empatia, è una qualità naturale che oggi nelle neuroscienze viene chiamata empatia incarnata.[/blockquote] (Spagnuolo Lobb, 2012).

Il feto è una creatura che sente ed apprende mentre è nell’utero ed è in grado di ricevere messaggi e di inviarne. Numerosi studi sottolineano come sullo sviluppo di un adeguato attaccamento materno-fetale influiscano i fattori psicologici e psicopatologici, non solo della madre ma anche del contesto familiare in cui essa vive. Infatti, il clima emotivo, in cui madre e feto sono inseriti, riveste notevole importanza. Lo sfondo familiare crea e trasmette un tipo di «tra» al bambino molto prima della sua nascita.

I flussi d’informazione psicobiologici scambiati durante la gravidanza trasmettono le “conoscenze” di base, con una modalità metabolica, ma anche simbolica (introiettiva). Il flusso dialogico attivo fin da subito, organizza le strutture mentali per lo sviluppo delle competenze relazionali, ciò che Ed Tronick chiama IRSS (Infant Regulatory Scoring System), ovvero l’espansione diadica di coscienza.

In terapia, tali momenti sono scanditi dallo scambio continuo tra il terapeuta e il cliente di sensazioni che costituiscono l’indicibile; questo metabolismo è fondamentale, in quanto costruisce lo sfondo creativo all’incontro che si sta co-creando, fornendo l’energia al reciproco cambiamento.

Durante una seduta un paziente riferisce:[blockquote style=”1″] potrei stare per ore in silenzio con te, perché sento, senza trovare le parole, che sto scoprendo me stesso e che in qualche modo riesco ad arrivare a te. Mi sento con te parte di un tutto, differenti ma simili. [/blockquote]Mentre diceva queste parole, un profondo silenzio ha iniziato a riempire ogni angolo dello studio; sembrava che si fosse fermato il tempo e che lo spazio non avesse più distanze. In quel momento c’erano soltanto le sensazioni, minime, ma allo stesso tempo sconfinate. Nel qui-e-ora si era instaurata una comunicazione indicibile.
È fondamentale, quindi, porre l’attenzione alle più sottili sensazioni, amplificare l’analisi del minimo contatto attraverso la narrazione, descrivere le più piccole capacità, i più lievi sussulti che la persona sta esperendo nel setting terapeutico. Questo stile confluente che si può definire sociale è il primo momento in cui l’essere umano si relaziona, sia fisicamente, che psicologicamente con l’altro, costruendo quel potenziale spazio mentale condiviso che nella sua esistenza costantemente ricercherà e accoglierà come forma relazionale.

 

Il sé simbolico e lo stile ideativo

Sia la personalità, che la coscienza, non preesistono all’attività dell’uomo, ma sono generate da questa (Vygotskij L. S., 1931). Le esperienze iniziali hanno una loro specifica valenza educativa, [blockquote style=”1″]Il bambino tra energia e senso di sé lasciando che il mondo lo plasmi […] Questa modalità di contatto si sviluppa per tutta la vita e sta alla base della capacità di apprendere.[/blockquote]

Il bambino mentre apprende il linguaggio, non introietta soltanto la parola bicchiere arricchendo il suo “vocabolario”, ma lega ad essa l’insieme di sensazioni, emozioni e immagini legate a quell’esperienza, come ad esempio il desiderio di afferrare l’oggetto, il volto della madre, la sua voce il senso di frustrazione, il suo protendersi, le tensioni corporee, gli odori, il piacere del contatto con l’oggetto, ecc. (Vigotskij, 1934). La parola che funge da attrattore, forma un «complesso» unico, divenendo il simbolo di un’esperienza relazionale complessa. Nella prospettiva psicoterapeutica, sembra quindi fondamentale riconsiderare una fenomenologia della parola e della narrazione (Husserl, 1952), ovvero come le parole prendono forma, quale ritmo dialogico si va delineando durante l’incontro, la densità dei silenzi, le pause e la ripresa del discorso, il tono, il volume ecc. L’aspetto cognitivo-verbale non può scindersi da quello sensorio-corporeo, proprio perché l’uomo con il suo pensiero ricapitola tali funzioni, operando una sintesi.

Durante una terapia un paziente disse che quando provava a ricordare un evento molto doloroso della sua primissima infanzia, la parola che più di altre gli ritornava alla mente era: “zitto!” Gli venne proposto di ripeterla con gli occhi chiusi e subito i suoi avambracci ed i polpacci gli si irrigidirono, e iniziò a sentire un peso sullo stomaco. Parlava della sensazione di nausea e d’impotenza insieme a quelle di solitudine e smarrimento. Gli venne chiesto di collegare tale vissuto ad un’immagine, e riferì che quasi immediatamente si era visto al buio e aveva sentito un odore intenso di disinfettante.

Questi vissuti furono osservati successivamente con altri pazienti, in cui la parola non rappresentava solo un vissuto cognitivo-verbale, ma sensoriale, corporeo ed immaginativo.

L’essere umano, fin da subito, attraverso il linguaggio si costruisce mentalmente come essere relazionale e l’io ed il noi divengono un binomio inscindibile.

Per questo motivo, l’unicità individuale è di fatto un’illusione, poiché nasciamo in relazione, in un costante dialogo e le nostre rappresentazioni mentali si configurano in una forma duale in continuo rapporto. La dimensione relazionale che è inscritta nel nostro DNA, attraverso il rapporto con l’altro trova la sua attuazione e la gestalt si compie.

Come l’apprendimento precede lo sviluppo, così la relazione precede il contatto: infatti, non “entriamo” in relazione per mezzo del contatto, ma faccio contatto perché vogliamo relazionarci. Con questa diversa prospettiva, l’interesse clinico si orienta sempre più all’intenzionalità relazionale, evidenziando ogni aspetto che possa costruire la dimensione dialogica necessaria alla formazione dell’insieme relazionale.

 

Il sé espressivo e lo stile estetico

[blockquote style=”1″]La capacità (del bambino ndr) di tuffarsi nel mondo, affidando la sua energia all’altro e nell’ambiente […] la capacità ed il piacere di lanciarsi nel mondo. […] Il bambino è curioso di tutto e usa la propria energia per conoscere il mondo […] Apre qualunque cosa sia chiusa, proiettando il sé dove non c’è e dove potrebbe essere. […] L’immaginazione, il coraggio della scoperta, l’uso del corpo come promotore di cambiamento.[/blockquote]

Se per il sé introiettivo la sua funzione principale è quella di apprendere “simboli condivisi” per decifrare l’esistenza, per quello proiettivo questa consiste nell’esplorare il mondo, «inventare» e plasmare, in modo antropomorfo, la realtà.

A tale prospettiva, si desidera aggiungere un concetto che si ritiene fondamentale: qualsiasi oggetto che l’uomo crea, ha una forma: linee, tratti, cerchi, quadrati, piramidi, cubi, figure “impossibili” ecc., qualcosa che ha una caratteristica “particolare” solamente umana.

Eppure l’uomo non assomiglia né a una linea, tanto meno a un cerchio, e in natura non esistono forme così “perfette”. Dove ha visto tali conformazioni, dove ha appreso questi schemi, come ha fatto la sua mente a pensarli? Considerare la proiezione come stile comunicativo, cioè come risorsa relazionale, invece che una dinamica difensiva, è stato riportato in una seduta da una paziente: […] [blockquote style=”1″]L’utilizzo del concetto di proiezione ha senso in un processo di isolamento. Cioè riconoscere qualcosa di te nell’altro non serve a farti riconoscere la proiezione punto, ma serve a rompere l’isolamento. Perché il problema delle persone è l’isolamento, no? Cioè che staccano il contatto con la realtà col quotidiano, ma riconoscere di aver fatto una proiezione ti rimette in contatto col mondo. […] Io sono arrivata a capire: cosa ci fa male? Ci fa male questo isolamento perché genera dei mostri e non sono più in contatto, quindi quando io riconosco una proiezione riconosco l’altro […]. La proiezione è un tramite, un ponte, per riconoscere l’altro. E quindi nel momento in cui io riconosco che sono come l’altro, in questo Tra, transitare da me a te e da te a me, io ridimensiono il fatto e paradossalmente creo anche se al “negativo”, un legame. Perché mi riprendo qualcosa e «tac» rifaccio contatto seppure su una cosa negativa.[/blockquote]

La proiezione vista come competenza e non più come difesa o interruzione al contatto, si rivela in tutta la sua forza comunicativa, un link relazionale. Il terapeuta per comprendere tale comportamento, deve modificare il suo approccio, ovvero intuire che lo stile proiettivo è sempre e comunque un atto estetico della persona che rivela parti di sé da cogliere e non interruzioni da osservare.
Secondo la presente prospettiva, quindi, la proiezione non è soltanto la competenza dell’uomo di creare creatività, ma è soprattutto una modalità per comprendere se stesso e gli altri, attraverso la sua attività. Potremmo affermare che il nostro sé è un nucleo creativo che irradia forme nel mondo, e grazie a ciò che continua a creare può scorgere il suo logos profondo.

 

Il sé metacognitivo e lo stile dialogico

La struttura retroflessiva è di fatto una modalità riflessiva. I simboli introiettati nella primissima infanzia (immagini, suoni, parole, sensazioni ecc.) lentamente vengono elaborati dal nostro cervello che attraverso le esperienze genera le nostre rappresentazioni mentali. Se con la proiezione “gettiamo” nell’ambiente ciò che era nel mondo in modo trasformato e rielaborato, con la retroflessione tali rappresentazioni vengono proiettate all’interno della nostra mente come immaginazione e/o dialogo interiore, determinando quello che potremmo definire la competenza della mente di auto osservarsi o metacognizioni. Tutto questo si definisce attraverso la mediazione delle sensazioni e successivamente delle emozioni che condizionano il nostro comportamento, insieme al linguaggio che orienta e organizza la nostra attività nel mondo.

Quando, ad esempio, il bambino inizia a disegnare, ci comunica cosa ha prodotto soltanto alla fine del suo lavoro; tale attività, lentamente, grazie allo sviluppo delle sue competenze comunicative, sposta la descrizione all’inizio dell’attività. Dall’affermazione iniziale: “Che bello! Ho disegnato una casa!», passa alla pianificazione: “disegnerò una casa, poi un albero, ecc”.

Le competenze narrativo-riflessive di un’attività, in altre parole la capacità di descrivere cosa “me stesso farà” attraverso un dialogo interiore, si attuano grazie alla combinazione delle competenze confluenti, proiettive e introiettive.

Tale capacità, che può apparire puramente intrapsichica, è prevalentemente sociale; gli esperimenti di L. S.Vygotskij (1934) hanno dimostrato come la produzione del linguaggio sottovoce e la loro attività durante il gioco in gruppi di bambini, cessava completamente quando questi comprendevano che il resto del gruppo non poteva capire il loro linguaggio. Senza la possibilità di essere compresi il linguaggio e l’attività che esso guida perdono di significato perché non vi è più un’intenzionalità relazionale. Ciò dimostra come il rapporto con gli altri sia fondante nell’apprendimento e nella comunicazione, nel bene e nel male. Quando pensiamo non facciamo altro che parlare a noi stessi su noi stessi, perché non possiamo non comunicare e nello stesso tempo non possiamo non stare in relazione.

Oltre ciò, in questa dinamica, il sé può «ascoltare» quali siano le istanze del proprio essere, quale «voce» e che tipo di «narrazione» l’io utilizza emergendo dal profondo. Questo momento è stato ben espresso da William James quando ci descrive la distinzione tra Io e Me, in cui il Sé come soggetto si rapporta al Sé come oggetto. Le funzioni metacognitive, in cui la mente attraverso l’autogenerazione di domande, risposte, impressioni moltiplica i suoi punti di vista e crea nuove prospettive di pensiero. Come suggerisce lo stesso Perls, tale stile si evidenzia, ad esempio, con il linguaggio attraverso l’uso del pronome personale riflessivo (mi, ti, ci, si ecc.) e nella terapia, l’osservazione delle competenze riflessive avviene, ad esempio, con il lavoro con le poliedricità e la loro armonizzazione. Tale tecnica differisce dal lavoro con le polarità e le multipolarità che, secondo questa visione, è troppo rigido e poco relazionale e divide in modo dicotomico e molto spesso arbitrariamente le parti del sé; le strutture dinamiche relazionali tendono invece a complessificare, armonizzare e condividere ogni sfaccettatura della persona inserendola in un “insieme relazionale”.

 

Il sé sincronico e lo stile trascendentale

La struttura del sé egotistico (sincronico) è il luogo della sintesi, in cui figura/sfondo, mente/corpo, possibilità/necessità, ovvero le oscillazioni del sé si armonizzano nel qui-e-ora.

Le sue potenzialità tendono costantemente alla realizzazione di questa sincronia e questa tensione, con gradi e intensità diversissimi, appartiene ad ogni essere umano, anche quando l’individuo, per ragioni innate o acquisite, non può esprimerle. Ma è un altro gap che lo stile sincronico, in combinazione con le atre strutture, può ridurre la distanza rappresentata dall’indicibile e il dicibile, ovvero lo spazio costituito tra il linguaggio ontico con quello ontologico. Le nostre intuizioni e le prime emozioni che emergono dallo sfondo delle sensazioni, non hanno parole che possano descriverle in quanto appartengono alla sfera dell’essere; quando tentiamo, attraverso il linguaggio, di descrivere questi stati d’animo, qualcosa si perde inevitabilmente. Tale «frattura», che appare insanabile, in terapia può assottigliarsi se il terapeuta e il paziente riescono ad attivare quella sintesi che soltanto il rapporto dialogico può raggiungere.

Quando in terapia riusciamo a toccare questi momenti, percepiamo una densità diversa e l’atmosfera nel campo relazionale cambia completamente: il tempo rallenta e lo spazio si dilata. È la sensibilità di entrambi e l’insieme delle competenze relazionali del terapeuta che permettono di dar vita alla più profonda empatia condivisa.

Sentire che lo sfondo del singolo può divenire una comune base trasmissibile, dà origine ad un sentimento di apertura e fiducia assoluti. È l’armonia tra la struttura dinamica del sé metabolico e quello sincronico a creare questa forma che, nella terapia, è evidenziata dall’oscillazione emotiva del sé e da come il dominio della confluenza può tradursi in parole e linguaggio.

In questo senso, la terapia gestaltica da egualitaria o simmetrica, diviene dialogica spostando il suo orizzonte dall’intenzionalità del «tra» a quello dell’«oltre», ovvero verso un punto archimedico che trascende entrambi gli interlocutori.

Infatti, se l’altro non diviene Altro, nessuno potrà superare se stesso poiché [blockquote style=”1″]senza un terzo assoluto che possa offrirsi come misura, inevitabilmente uno dei due interlocutori assumerà la funzione di misura, traducendo il discorso in termini di plagio.[/blockquote]

È proprio quando si crea questo spazio/tempo che il linguaggio ontico può trovare una connessione con quello ontologico, connettendo le sensazione e le emozioni con gli aspetti più cognitivi della persona, divenendo un linguaggio universale.

 

Conclusioni

Siamo esseri relazionali, poiché ogni individuo ha in sé l’archetipo della relazione (Jung, 1954), una gestalt primigenia che può completarsi soltanto nel rapporto con l’altro. Ciò significa che la persona non può misconoscere la sua dimensione più profonda costituita da questa icona relazionale, e l’intenzionalità che tende alla creazione di questo spazio. L’io è sempre un noi, e quando non riesce a tradurre in atto ciò che in potenza sente per l’altro, il sé diminuisce, s’immiserisce e ripiega nei propri confini.

La sofferenza non può essere considerata solo un disagio soggettivo, individuale, personale, ma soprattutto relazionale e transpersonale. Per tale ragione, parlare di «patologia» o sofferenza del campo relazionale ci pone in una prospettiva più ampia rispetto all’analisi del sintomo o del malessere individuale. La psicopatologia (es. i DDP) andrebbe riesaminata, osservando il campo condiviso co-creato e le dinamiche che si sviluppano al suo interno; le classificazioni o le catalogazioni dei sintomi, sembrano avere il principale scopo di rassicurare il professionista, pretendendo di misurare ciò che non può essere misurato: la soggettività della persona.

Come ormai appare chiaro, ciò che avviene in terapia ha un significato relazionale e va inscritto in una visione plurale e polifenomenologica. L’osservazione dell’insieme relazionale è uno delle competenze principali che il terapeuta gestaltico dovrebbe possedere, esaminando sia il «tra» condiviso, sia il paziente che il proprio sentire per comprendere le nuance esistenziali che emergono da quel campo.

Il terapeuta si inserisce così in una dinamica osservatore/osservato divenendo uno strumento relazionale in azione, un elemento trasformativo per sé e per l’altro.
Si è più volte evidenziato come ogni espressione umana sia intrinsecamente connessa al desiderio di conoscere e svelare le sue strutture profonde, partendo dalla struttura del sé simbolico, in cui l’uso del segno che diviene simbolo (parola), rappresenta il mezzo con il quale l’uomo si lega al mondo, comprende ciò che osserva e inizia il viaggio verso la conoscenza di se stesso.

Si è parlato della struttura dell’espressione, il dominio del “fare” con la produzione di “cose” con cui possiamo comprendere le forme di cui il nostro stesso io è costituito.

Quello della metacognizione, con lo sviluppo della riflessività e la generazione della mente, che si auto-osserva e si ascolta in un dialogo personalissimo, in cui l’individuo può udire la “voce” del suo intimo sé.

La struttura del sé sociale, che trova la sua sintesi nell’armonizzazione determinata dalla sincronicità, in cui il sogno primigenio, il dialogo intimo iniziato con la madre in gravidanza, lo spinge oltre se stesso e la sua esistenza, verso il significato universale della vita.

Il cambiamento di prospettiva e di approccio che si è proposto, può trasformare costruttivamente la struttura del campo: si passa da interruzione-difesa-necessità-chiusura a comunicazione-competenza-possibilità-apertura, accogliendo tutta la persona come possibilità al cambiamento.

La terapia come «situazione» relazionale per eccellenza, può divenire un contesto «paideico», in cui il dialogo si approfondisce e si amplia e l’immagine del terapeuta, che emerge da questa prospettiva, è quella di colui che, mentre è tecnicamente proteso a contribuire nel modificare i modelli di consapevolezza della persona, è estremamente attento a valorizzare le oscillazioni emotive osservate nel «tra» per facilitare la comprensione di quanto si va pazientemente co-costruendo.

Le esperienze sono un insieme di emozioni, aggregati indistricabili di sensazioni e percezioni che non possono essere sezionate e ordinate secondo un nostro vantaggio logico o ricondotte strumentalmente in cornici teoriche precostituite. “La vita è un gomitolo che qualcuno ha aggrovigliato” e l’esistenza della persona umana rappresenta un esperimento unico e irripetibile ed è proprio per tale ragione che nella realtà non potremmo mai osservare un fenomeno “ideale” da manuale.

Un approccio che cerca di imporre un ordine a priori o dei modelli, che tentano di trasformare le qualità della persona e del suo sentire in qualcosa di quantitativo misurabile, non potrà mai corrispondere all’autentica dimensione esistenziale dell’individuo.

Come possiamo pretendere di descrivere oggettivamente le emozioni quando molte di esse, come ad esempio la nausea, l’inquietudine, il tedio, il senso dell’assurdo, il rimpianto, la leggerezza del cuore, la spontaneità, sono così sottili e complesse che persino noi stessi che le proviamo, spesso non riusciamo neppure ad intercettarle e ad attribuirgli un nome?

L’osservazione costante dell’insieme relazionale, l’accettazione autentica dell’altro, la paziente e fiduciosa ricerca delle possibilità celate dietro alle difficoltà, la condivisione del silenzio, e molte altre nuance relazionali, che costituiscono la nostra base trasmissibile, sono le fondamenta di quello che si è definita: gestalt dialogica.

[blockquote style=”1″]Ci siamo sistemati un mondo in cui poter vivere – con l’ammettere corpi, linee, superfici, cause ed effetti, movimento e quiete, forma e contenuto; senza questi articoli di fede nessuno, oggi, sopporterebbe la vita! Ma con tutto ciò essi non sono ancora per nulla qualcosa di dimostrato. La vita non è un argomento: per le condizioni della vita ci potrebbe essere l’errore.[/blockquote]

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ducci E. (a cura di). (2004). Aprire su paideia. Roma: Anicia
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