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Fede e resilienza: quale relazione?

Negli ultimi anni, in campo psicologico si è assistito ad un incremento degli studi sul rapporto tra fede e resilienza, in precedenza ampiamente trascurato

Di Maria Romeo

Pubblicato il 25 Giu. 2021

Il concetto di resilienza, in riferimento all’individuo, indica la capacità di mantenere una buona integrità psico-fisica nonostante l’esposizione ad eventi particolarmente avversi e di raggiungere un adattamento positivo.

 

Resilienza, dunque, come capacità di nuotare nel mare in tempesta per arrivare alla riva, evitando di annegare, di farsi schiacciare dalle onde.

Una delle principali critiche alla concettualizzazione del termine resilienza, è quella di non riconoscere la stessa come parte integrante della vita quotidiana; essa, infatti, non è limitata al solo adattamento positivo a seguito di avvenimenti estremi, ma entra in gioco anche nelle sfide che si incontrano ordinariamente (Ögtem-Young; 2017).

Negli ultimi anni, in campo psicologico si è assistito ad un incremento degli studi sul rapporto fede-resilienza, rapporto ampiamente trascurato per buona parte del XX secolo (Pargament, Cummings; 2010).

Per prima cosa, è necessario fare una distinzione tra fede e religione, nonostante i due termini vengano spesso utilizzati in maniera interscambiabile. In generale, la fede è più individuale, è una scelta personale di relazionarsi al Sacro, ad un Potere Superiore che può incarnarsi in un Dio, nella Natura, nell’Universo; la religione, invece, è largamente intesa come collettiva, essendo un sistema di credenze, valori, rituali e pratiche condivise da una comunità per connettersi con la Divinità (Foy, Drescher, Watson; 2018).

Il comportamento umano è spesso influenzato dalla religiosità (Georgiades; 2016), per cui, quest’ultima può diventare un vero e proprio strumento di resilienza.

La fede permette di dare un senso e un significato specifico alle cose, perfino alla sofferenza; dunque, curare la propria relazione con il Divino, aiuta a tamponare le conseguenze velenose che fanno seguito ad una circostanza spiacevole (Georgiades; 2016). È il pensiero di poter essere risollevati e assistiti da un Dio durante le difficoltà, ad essere confortevole.

Tra i fattori legati alla religiosità che contribuiscono alla resilienza, vi sono: la richiesta di supporto nei membri della propria comunità religiosa, che a sua volta facilita la coesione e la solidarietà sociale; la ricerca di sostegno spirituale e di conforto nella cura di Dio; la speranza; la fiducia in una Forza Superiore, che non abbandona; l’interpretazione delle difficoltà come prove, sfide o anche doni di Dio (Mhaka-Mutepfa, Maundeni; 2019), grazie ai quali ci si fortifica; il non sentirsi soli durante le avversità. La preghiera, nello specifico, è un importante fattore di protezione soprattutto nei casi di malattia.

Tuttavia, è anche vero che alcune forme di religiosità possono esacerbare, piuttosto che mitigare, gli effetti dei fattori stressanti della vita, per cui, accanto a questo aspetto positivo della fede nel processo di resilienza, è necessario riconoscerne quello negativo.

Si pensi all’incremento dei livelli di paura a causa di convinzioni religiose erronee, alle valutazioni punitive di esperienze negative (Ho peccato, dunque Dio mi punirà), all’ansia legata a questioni sulla presenza e il potere di Dio (Foy , Drescher, Watson; 2018).

Inoltre, vi sono credenze religiose che possono interferire con la possibilità di adattamento e con la messa in atto di adeguate strategie di coping: talvolta, infatti, la fede conduce alla passività, a rimanere ancorati in situazioni di stallo nella convinzione di non poter controllare l’andamento delle cose, ma di dover lasciare le redini delle propria vita ad una Forza Ultraterrena.

 

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