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Psicologia dell’inganno e dell’impostore: da Odisseo a Pietro

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 15 Marzo 2015

 

Esistono due imposture: una per ottenere vantaggi, l’altra per ottenere attenzione e perfino forse amore.

Odisseo era un impostore efficace e consapevole. Mentiva sapendo di mentire e sempre al fine di ottenere un vantaggio concreto e determinato. Un simulatore, che per la psicologia clinica non è un disturbo.

Dapprima si finse pazzo per non partire per la guerra di Troia. Sgamato da Palamede, a sua volta decise di sgamare un altro aspirante improbabile pacifista e obiettore di coscienza: Achille. Si finse mercante di chincaglierie femminili per avvicinare Achille imboscato alla corte di Licomede re di Sciro per non partire per la guerra di Troia. Travestito da donna si fingeva dama di compagnia per le figlie del re, sotto il nome di Pirra: la rossa. Sorprende questo Achille imboscato e simulatore a sua volta? Vent’anni dopo Odisseo simulò ancora, si finse mendico per avvicinare i Proci, i pretendenti che bivaccavano nel suo palazzo, sorprenderli senza armi e ammazzarli col suo arco.

Pietro invece mentiva inconsapevolmente. Promette a Cristo fedeltà fino alla fine, e invece lo rinnegherà tre volte. Mente e, pare, non sa di mentire. Perciò non simula, è sincero nel suo trasporto superficiale e leggero. Si commuove di se stesso, si commuove delle sue parole al vento e prive di sostanza, della sua virtù non temprata e della sua promessa di fedeltà non messa alla prova e che non gli costa nulla. Ancora non sospetta nemmeno cosa significhi davvero mantenere la fedeltà di fronte al vero rischio di essere arrestato, torturato e infine crocefisso. Il suo facile entusiasmo è privo di spessore. Come mentitore è una frana, e infatti Gesù subito glielo dice: [blockquote style=”1″]“Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte“. Eppure con quale insistenza gli aveva promesso fedeltà davanti al rischio supremo: “egli [Pietro], con grande insistenza diceva: «Se anche dovessi morire con te non ti rinnegherò»” (Vangelo di San Marco, 14, 28 – 31).[/blockquote]

Questa capacità di credere alle proprie stesse bugie in psicologia ha vari nomi. Per alcuni si tratta di un auto-inganno. Per altri è semplicemente un’errata valutazione, un errore sincero, una debolezza umana. Però tutti sono d’accordo nel ritenere che questo tipo di simulazione esprima un disturbo psicologico.

Tra le diagnosi psichiatriche troviamo il “disturbo fittizio”, in cui il mentitore simula o esagera i propri sintomi al fine di assumere il ruolo di malato. Questo disturbo è differente dalla simulazione, in cui la persona cerca di passare da malato per ottenere dei vantaggi concreti e pratici, un po’ come faceva Odisseo. Nel disturbo fittizio, invece, i vantaggi sono solo emotivi e relazionali: ci si finge malati per farsi accudire e amare, per ricevere cura e attenzione. Questo consente all’ impostore di sentirsi sincero. Egli è sinceramente sofferente, e questo in qualche modo fornisce un sapore soggettivamente vero alle malattie che simula.

L’impostore del disturbo fittizio è sincero nel suo inganno e questo potrebbe aiutarlo a ingannare meglio. O no? O, al contrario, è proprio la sincera adesione alla propria impostura che svela l’inganno, come accadde a Pietro? Mentre Odisseo, sempre padrone di se stesso e consapevole delle sue imposture, era molto meno propenso a tradirsi?

Esistono quindi due imposture: una per ottenere vantaggi, l’altra per ottenere attenzione e perfino forse amore.

E su questa strada la psicologia offre una ricca casistica. Abbiamo visto il disturbo fittizio. C’è un grado ulteriore, quella condizione che un tempo si chiamava isteria e che oggi si è ramificata in varie denominazioni, di cui le principali sono due: la prima è il disturbo di conversione e l’altra è il disturbo di personalità istrionico.

Nel disturbo di conversione il paziente presenta dei sintomi neurologici, come alterazioni della coordinazione e dell’equilibrio, paralisi localizzate, afonia, perdita della sensibilità tattile o del dolore, cecità, sordità, allucinazioni, convulsioni. Il tutto però senza alcuna reale alterazione neurologica. Tecnicamente, son tutte balle. Però non si tratta né della simulazione e nemmeno del disturbo fittizio, perché in questo caso non c’è volontarietà, non c’è alcuno stato intenzionale. La persona soffre davvero di stati mentali dolorosamente intensi, verso i quali è così cieca e emotivamente analfabeta che non riesce a decifrarli come stati mentali ma come alterazioni involontarie della sensibilità e delle capacità motorie. Se d’inganno si tratta, esso è così perfettamente eseguito che l’autore stesso è giunto a dimenticarsene e a farsene ingannare. Nel disturbo da conversione, la vecchia isteria, l’impostura funziona anzitutto con se stessi.

L’impostura è presente in forma meno estrema nel disturbo di personalità istrionico.

Qui siamo nel regno della seduzione e della lusinga. L’impostura è rivolta ancora una volta a ricercare attenzione e perfino amore, sia pure a buon mercato. L’istrionico cerca continuamente di catturare l’interesse degli altri con comportamenti teatrali, esagerando episodi di vita, inventando storie e fornendo generosamente descrizioni drammatiche del proprio stato fisico ed emotivo. Gli istrionici possono anche essere provocatori o seduttivi, distribuendo adulazioni, lusinghe, provocazioni sessuali, regali.

Le loro amicizie nascono sempre già mature e al tempo stesso senza sviluppo. Persone intraviste da pochi minuti sono sempre l’amico o l’amore cercato per una vita intera e ora finalmente trovato, in un’abbagliante epifania raccontata al mondo intero seduta stante. Qui l’inganno sembra essere più consapevole, eppure è recitato con tale trasporto, sia pure effimero, da generare il dubbio che sia sincero. Anche perché vale il criterio che queste seduzioni sono di breve durata e facilmente scopribili.

 

La testimonianza inconsapevole le origini del falso ricordo - Immagine: Fotolia_69338564
Mentire non sapendo di mentire.

Insomma, l’impostore inganna anche se stesso?

Chiederlo alla psicologia è naturale. È un peccato che la risposta non sia chiara, se non ingannevole. È il paradosso dell’autoinganno, sul quale ci si combatte da qualche decennio. Per alcuni l’autoinganno decisamente non esiste. E quindi sono tutti simulatori, e le varie distinzioni, tra simulatori veri e propri, persone affette da disturbo fittizio o da conversione, e infine isterici e istrionici non ha molto senso. È la tesi eliminativista: l’autoinganno è impossibile (Kipp, 1980). Per altri, invece, l’auto-inganno è possibile, e questo implica che la mente è almeno parzialmente frammentata in partizioni. E infatti si parla di tesi partizionista (Gur e Sackeim, 1979).

Questo è quanto dice la scienza psicologica sull’ inganno e sull’ impostura. Sospetto che Linkiesta speri in qualche illuminazione psicologica su come funzioni l’impostura in politica e nella vita sociale. Che ci sia, è certo. Che sia un male necessario, lo sappiamo tutti, e tutti ci chiediamo se proprio non ci sia nulla di meglio. Come funzioni, è un mistero.

Soprattutto, i politici sono degli impostori consapevoli, come Odisseo? O degli inguaribili seduttori sempre a rischio di essere scoperti, come Pietro?

E l’impostura della politica è un sincero auto-inganno o una disonesta simulazione che ci auto-somministriamo dall’ inizio dell’avventura umana? Difficile rispondere. Forse non ha caso si è pensato che colui che immediatamente intravide la misera impostura di Pietro, la sua pretesa di essere buono semplicemente dichiarandolo, la sua effimera promessa elettorale, costui, dicevo, si è pensato che non fosse del tutto umano. Mentre l’inganno e l’impostura sono umani, troppo umani.

[blockquote style=”1″]“Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una serva del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo fissò e gli disse:«Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù» ma egli negò: «Non so e non capisco quello che vuoi dire».Uscì quindi fuori del cortile ed il gallo cantò. E la serva vedendolo, ricominciò a dire ai presenti:«Costui è di quelli» ma egli negò di nuovo. Dopo un poco i presenti chiesero di nuovo a Pietro: «Tu sei certo di quelli, perché sei Galileo» ma egli incominciò ad imprecare ed a giurare: «Non conosco quell’uomo che voi dite». Per la seconda volta un gallo cantò. Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte» e scoppiò in pianto.” (Vangelo di San Marco, 14, 66 – 72).[/blockquote]

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La regolazione emotiva nella depressione: quali aree cerebrali sono attivate?

FLASH NEWS

Dallo studio emerge che a livello neurale le strategie di accettazione, rispetto al reappraisal, presentano attivazioni significativamente maggiori proprio nelle regioni deputate alla consapevolezza corporea delle emozioni: quasi a sottolineare -dal punto di vista neurocognitivo – l’importanza dell’accettazione per rimanere in contatto, riconoscere e di conseguenza regolare le proprie emozioni.

Nei disturbi dell’umore la sintomatologia depressiva, oltre ad essere afferente anche ad aspetti fisici e somatici, è strettamente legata a delle difficolta nei processi di regolazione emotiva. A livello neurocognitivo, questo si riflette principalmente nelle alterazioni di attivazione nelle porzioni frontali del sistema limbico nei momenti in cui avviene la regolazione delle emozioni nella popolazione clinica di pazienti con diagnosi di depressione maggiore.

Ma cosa succede a livello cerebrale se si utilizzano diverse strategie di regolazione emotiva? Tra le strategie efficaci vi sono da una parte il reappraisal, che consiste nel modificare nel modo più razionale e alternativo possibile la valutazione della situazione in corso, e dall’altra quella che viene definita accettazione emotiva e cioè sostanzialmente di esperire le emozioni secondo il loro naturale decorso, senza tentare di controllarle strenuamente, senza evitarle ma senza prolungare la naturale evoluzione dei processi emotivi. Entrambe le strategie sarebbero efficaci nel regolare le emozioni negative riducendone la quota di distress soggettivo, l’arousal  e gli evitamenti comportamentali (Wolgast, Lhund, Viborg, 2011).

Gli interventi psicoterapici cognitivo-comportamentali lavorano anche su questi aspetti favorendo l’utilizzo di strategie regolatorie adattive e interrompendo circoli viziosi di mantenimento dei sintomi. Un nuovo studio pubblicato su Social and Affective Neuroscience ha indagato proprio le caratteristiche neurocognitive delle due modalità di regoalzione emotiva nei pazienti con diagnosi di depressione maggiore ma  in via di remissione sintomatologica.

Trentasette soggetti (metà dei quali erano pazienti con precedente diagnosi di depressione maggiore e in fase di remissione; l’altra metà soggetti di controllo) sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale mentre erano impegnati nella regolazione di emozioni negative (in particolare della tristezza) elicitate mediante la visione di immagini.

Secondo i risultati nei soggetti di controllo l’utilizzo della strategia regolatoria dell’accettazione corrispondeva a una maggiore attivazione della corteccia insulare sinistra e nel giro prefrontale destro, mentre una minore attivazione nelle aree frontali. Nel gruppo di pazienti inoltre, rispetto ai soggetti di controllo, si è evidenziata una maggiore attivazione nella corteccia paracingolata e nel giro mediale frontale destro.

In generale, dallo studio emerge che a livello neurale le strategie di accettazione, rispetto al repparaisal, presentano attivazioni significativamente maggiori proprio nelle regioni deputate alla consapevolezza corporea delle emozioni: quasi a sottolineare -dal punto di vista neurocognitivo – l’importanza dell’accettazione per rimanere in contatto, riconoscere e di conseguenza regolare le proprie emozioni.

 

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Autismo e Scienze Cognitive: Intervista a Tiziana Zalla, Ricercatrice

Un articolo di Michela Mori, pubblicato su Brain Factor il giorno 16 Marzo 2015

La redazione di State of Mind consiglia la lettura di questa interessante intervista a Tiziana Zalla sul tema dell’autismo. La Dott.ssa Zalla è direttrice di Ricerca CNRS all’Istituto Jean Nicod, all’Ecole Normale Supérieure di Parigi. E’ specializzata in scienze cognitive e psicopatologia.

 

Dottoressa Zalla, lei studia l’autismo da oltre 15 anni. Come mai questa scelta?

Sono sempre stata affascinata dalle facoltà cognitive che entrano in gioco nella qualificazione del comportamento, permettendo la predizione dell’azione negli altri e la comprensione delle intenzioni sottostanti. Constatando un vuoto nella comprensione della disfunzione cognitiva nel caso di popolazioni psichiatriche, mi è sembrato interessante usare dei modelli provenienti dalla neuropsicologia, la scienza che studia i disturbi cognitivi a partire dalle lesioni cerebrali, applicandoli alle popolazioni psichiatriche. Lo studio delle alterazioni cognitive permette infatti di creare un legame tra la parte clinica sintomatologica, che include, nel caso della schizofrenia per esempio, la disorganizzazione del comportamento e le allucinazioni, e le alterazioni biochimiche e cerebrali. Oggigiorno, questo è possibile grazie alla neuroimaging, che permette di individuare le aree attivate durante lo svolgimento di un compito e così stabilire un legame tra il disturbo anatomico e la sintomatologia comportamentale riscontrata.

Possiamo dire che esiste oggigiorno unanimità nella comunità scientifica rispetto alle cause dell’autismo? 

C’è unanimità sul fatto che l’autismo è multifattoriale. La componente genetica è senza dubbio molto forte, secondo alcuni è all’origine dell’80% dei casi, secondo altri solo del 50% con il concorso di fattori ambientali di vario tipo (infezioni contratte dalla madre in gravidanza, status immunologico materno-fetale, etc.). Recentemente è stata proposta la pista dell’inquinamento ambientale.  

Esiste un differente approccio tra i paesi in cui l’autismo è studiato?

Diciamo che in alcuni paesi, come la Gran Bretagna e i paesi del Nord Europa, la valutazione diagnostica e l’intervento terapeutico nell’autismo sono più avanzati. La Francia ha un approccio particolare, in quanto legata ad una visione psicoanalitica dell’autismo, inteso come una psicosi – e non come disturbo neurologico- che nasce da una cattiva relazione con la madre. Questa teoria e l’efficacia delle varie terapie psicoanalitiche o psicodinamiche non sono state mai scientificamente provate. Purtroppo la differenza di approccio ha un forte impatto sull’inserzione nella società dei bambini autistici. Nel caso dei paesi anglossassoni e nordeuropei oltre l’80-90% di questi bambini frequentano le scuole, in Francia appena il 20% riesce a seguire un percorso scolastico regolare. 

Autismo: intervista a Tiziana Zalla, direttore ricerca al Jean Nicod Consigliato dalla Redazione

Tiziana Zalla - Intervista su Autismo
Intervista a Tiziana Zalla, direttrice di ricerca CNRS all’Istituto Jean Nicod, all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, specializzata in scienze cognitive e psicopatologia, sul tema dell’autismo. (…)

Tratto da: Brain Factor

 

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Corso base di Terapia Metacognitiva Interpersonale: Firenze, 7 e 8 Marzo – Report II parte

Report:

CORSO BASE DI TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE (TMI) – II PARTE

Firenze, 7-8 Febbraio 2015

 

LEGGI LA PRIMA PARTE

Il terapeuta TMI pensa il meno possibile, inferisce poco, fa molte domande, ascolta tanto e presta molta attenzione al comportamento non verbale, con l’obiettivo di arrivare ad una formulazione del caso in cui il paziente si ritrovi.

Durante il weekend del 07-08 marzo si è tenuta a Firenze la seconda parte del corso base di Terapia Metacognitiva Interpersonale organizzato da Scuola Cognitiva Firenze. Questa volta spettava a Giancarlo Dimaggio presentare il modello TMI, il quale ha scelto un’impostazione molto esperienziale: poca teoria frontale, tanta pratica.

Quali sono le maggiori difficoltà che un terapeuta TMI può incontrare in terapia? Le principali riguardano la formulazione degli schemi interpersonali e favorire lo switch dalla formulazione del caso alla promozione del cambiamento, nonché gestire eventuali problemi nella relazione terapeutica.

Ecco che quindi la prima esercitazione pratica del weekend si è concentrata su come costruire la formulazione del caso, che oltre ad essere punto di partenza imprescindibile per impostare la fase successiva di terapia, è anche ancoraggio fondamentale per gestire in maniera efficace la relazione terapeutica in cui il paziente ripresenterà inevitabilmente i propri schemi interpersonali.

Durante l’esercitazione di gruppo la classe si è cimentata nella ricostruzione degli schemi interpersonali di un paziente; partendo dalla narrazione di un episodio di vita del paziente stesso, i partecipanti hanno dovuto identificare le singole componenti dello schema ed individuare gli elementi mancanti che sarebbero dovuti essere target di indagine approfondita durante il colloquio per poter giungere ad una ricostruzione esaustiva.

Il weekend è stato inoltre occasione per osservare dal vivo come lavora in seduta un terapeuta TMI. Il terapeuta TMI pensa il meno possibile, inferisce poco, fa molte domande (“domande semplici, dirette, poco più articolate di quella che farebbe il vostro fruttivendolo preferito”), ascolta tanto e presta molta attenzione al comportamento non verbale, con l’obiettivo di arrivare ad una formulazione del caso in cui il paziente si ritrovi (LEGGI I COMMENTI ALL’ARTICOLO).

Ecco che quindi Dimaggio ha condotto davanti alla classe una prima seduta di 45 minuti con una studentessa che si è offerta volontaria per raccontare un proprio problema personale. Per quanto l’esperienza potesse presentare dei limiti dovuti alla presenza di circa 40 persone come pubblico e allo sforzo del terapeuta di condurre una seduta didatticamente efficace, ci siamo trovati di fronte a quanto di più lontano ci sia da una simulazione; è stata una seduta di psicoterapia vera e propria, che solo all’apparenza poteva sembrare una “semplice chiacchierata”.

Infatti, nonostante lo stile colloquiale della seduta, erano rintracciabili tutte le fasi che caratterizzano la procedura della TMI. Un incontro di TMI inizia da quello che il paziente porta in seduta. Inizialmente il terapeuta resta in silenzio, ascolta attentamente il racconto e presta particolare attenzione al comportamento non verbale, accoglie e valida l’esperienza emotiva del paziente.

Per facilitare la narrazione ed evocare memorie autobiografiche associate in modo da reperire sempre più materiale per costruire lo schema, il terapeuta pone la domanda cardine della TMI: “Mi fa un esempio [di quando si è sentito…]?”. Una volta ricostruito lo schema interpersonale, il terapeuta lo condivide con il paziente per accertarsi che il paziente vi si riconosca.

La seduta e la successiva analisi degli interventi effettuati e della ratio ad essi sottostante sono state particolarmente apprezzate dalla classe, che a gran voce ha richiesto il bis (ed è stata accontentata). Il weekend ha pertanto visto nettamente prevalere la parte esperienziale didattica, che ha permesso ai partecipanti al corso di toccare con mano cosa significhi fare TMI.

Ricordiamo che la TMI prevede due macro-sezioni: la formulazione del caso condivisa con il paziente e la promozione del cambiamento. Quest’ultima avviene attraverso due step che vanno in parallelo: la differenziazione e l’accesso alle parti sane del Sé.

Durante il weekend Dimaggio ha dedicato una parte di lezione frontale alla promozione della differenziazione, illustrando con la verve e lo stile divertente che tanto lo caratterizzano le strategie volte a promuovere nel paziente la presa di distanza critica dai propri schemi patogeni. La parte relativa all’accesso alle parti sane di Sé verrà invece affrontata nel Corso Avanzato di Terapia Metacognitiva Interpersonale (23-24 maggio e 6-7 giugno 2015).

Il Corso Base di Terapia Metacognitiva Interpersonale si è rivelato essere un utile corso formativo: leggere e studiare il manuale di TMI lo si può fare tranquillamente a casa da soli, la forza del corso è che grazie alla forte componente esperienziale ed interattiva delle esercitazioni fornisce concretamente strumenti da utilizzare nella pratica clinica, permettendo ai partecipanti di provare “sul campo” il modello per poi discuterlo in diretta con i docenti, che non è poco.

 

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Anosognosia – Definizione Psicopedia

Anosognosia: in ambito neurologico il termine viene utilizzato per indicare una situazione patologica in cui è presente scarsa consapevolezza di un deficit motorio e/o cognitivo a seguito di una lesione cerebrale o insulto cerebrale, in assenza di un deficit intellettivo rilevabile e generalizzato.

[blockquote style=”1″]It is not only difficult, it is impossible for patients with certain right-hemisphere syndromes to know their own problems – a peculiar and specific ‘anosognosia,’ as Babinski called it. And it is singularly difficult, for even the most sensitive observer, to picture the inner state, the ‘situation’ of such patients, for this is almost unimaginably remote from anything he himself has ever known[/blockquote]

(Oliver Sacks)

La parola “anosognosia” deriva dal greco ed è composta da tre morfemi: “a” come “assenza, “nosos” come “malattia” e “gnosis” come conoscenza. In ambito neurologico il termine viene utilizzato per indicare una situazione patologica in cui è presente scarsa consapevolezza di un deficit motorio e/o cognitivo a seguito di una lesione cerebrale o insulto cerebrale, in assenza di un deficit intellettivo rilevabile e generalizzato.

Il termine viene introdotto per la prima volta da Babinski nel 1914 anche se casi di anosognosia erano già stati riscontrati per esempio da vonMonakov nel 1885 e da Anton (1889). In entrambi i casi i pazienti descritti presentavano un’anosognosia per la cecità: a seguito di un evento cerebrale che aveva colpito le aree deputate alla visione, questi soggetti avevano perso la capacità di vedere ma affermavano di non essere ciechi. Tale fenomeno si associa spesso a confabulazione e può essere visto anche come l’opposto del fenomeno blindsight in cui una persona è in grado di rilevare la presenza di uno stimolo visivo nell’emicampo controlaterale alla lesione, ovvero quello colpito da scotoma. Il fenomeno dell’anosognosia, oltre a riguardare la vista, può essere riscontrato anche per le funzioni motorie quindi in pazienti colpiti da paresi o plegia, per le funzioni linguistiche, per quelle mnesiche, per la demenza, per il neglect e in altre sindromi e condizioni.

Diverse sono le ipotesi che sono state chiamate in causa per spiegare l’anosognosia. Per quanto riguarda l’anosognosia per l’emiplegia la prima ipotesi risale a Weinstein e Kahn (1955) che vedono nel comportamento anosognosico un meccanismo di difesa simile alla negazione, ipotizzando anche una personalità premorbosa con una tendenza, per l’appunto, alla negazione e alla repressione. Sebbene alcuni studi scientifici abbiano supportato tale ipotesi, sono molti anche quelli che l’hanno sfatata (Ramachandran, 1995) portando diverse argomentazioni: se l’anosognosia è un meccanismo di difesa, come è possibile ottenere un miglioramento con la stimolazione calorica vestibolare? Hecaen and Albert (1978) riconducono invece il fenomeno ad uno stato di “confusione”; tuttavia molti pazienti anosognosici hanno prestazioni normali ai test cognitivi che vengono somministrati.

Un’ulteriore ipotesi fa riferimento a una de-afferentazione per cui vi sarebbe un fallimento nella ricezione di un feedback sensoriale: i pazienti anosognosici non sarebbero in grado di ricevere informazioni circa la collocazione del loro arto. Tuttavia anche questa ipotesi pare non spieghi interamente l’apparire di una condizione anosognosica (Heilman, 2014).

Secondo l’ipotesi feed-forward i pazienti con anosognosia avrebbero perso l’intenzione a muoversi; in questo modo non potrebbero rendersi conto di essere in grado o meno di muovere il proprio arto. Tuttavia pare essere vero anche il contrario: nel confronto con pazienti che presentano un neglect motorio, i pazienti con anosognosia hanno aree cerebrali risparmiate dalla lesione che gli consentono di avere un’intenzionalità motoria. Quello che non sono in grado di fare è di paragonare un atto intenzionale con uno effettivamente compiuto  e quindi di cogliere il mismatch tra previsioni di movimento e feedback (Berti et al., 2005).

Sembra quindi non esserci univocità circa le ipotesi eziologiche riguardanti l’anosognosia. Bisogna considerare che l’anosognosia non è un fenomeno “tutto-o-niente” ma il grado di consapevolezza può variare e, parallelamente, anche l’atteggiamento. Infatti il paziente può negare il deficit oppure può riconoscere la sua presenza ma dargli poca importanza, disinteressarsi, non prendere in considerazione le conseguenze che da esso potrebbero derivare (anosodiaforia). Di solito utilizza strategie cognitive per spiegare le ovvie difficoltà che presenta.

Dall’osservazione clinica sembra che soggetti che presentano una lesione a destra abbiano un atteggiamento più euforico e disinteressato mentre quelli con lesione a sinistra abbiano reazioni maggiormente catastrofiche. Spesso l’anosognosia per lesioni a sinistra viene sottostimata a causa dell’afasia che caratterizza tali situazioni e rende quindi difficile la valutazione di questi pazienti. L’anosognosia per l’afasia è un fenomeno complesso che chiama in causa le competenze di automonitoraggio della persona e quelle di autocorrezione (Marshall et al., 1985): il riscontro di queste ultime suggerisce la presenza di un certo grado di consapevolezza implicita. Inoltre sembrano esserci diversi gradi di consapevolezza in relazione a diversi aspetti del linguaggio (Prigatano & Schacter, 1991).

Il fenomeno dell’anosognosia è molto frequente nei soggetti colpiti da ictus, sia a destra che a sinistra, e purtroppo rappresenta un fattore prognostico negativo in quanto può essere di ostacolo alla riabilitazione funzionale del paziente; proprio perché può avere un forte impatto sulla vita del paziente e sulle sue capacità di gestire le attività della vita quotidiana è necessario conoscerla e valutarla per meglio calibrare il trattamento riabilitativo (Vossel et al., 2013). Non si presenta in fase acuta bensì in fase cronica.

Per quanto riguarda le basi neuroanatomiche sembra che la gravità sintomatologica sia maggiore quando sono colpite sia le aree frontali che quelle parietali (Pia et al., 2004). La conoscenza del fenomeno anosognosia è fondamentale per la sua valutazione che passa attraverso le domande del clinico e l’utilizzo e il supporto di alcuni questionari e scale che possono essere rilevati in letteratura (Open Question Arti Inferiori, Berti et al., 1996; AHA – Assessment of Anosognosia For Hemianaesthesia, Spinazzola et al., 2008). Fare domande riguardo alla consapevolezza del paziente è il punto cruciale; infatti, come detto in precedenza, il paziente può avere la percezione del deficit ma sottostimare le sue conseguenze (anosodiaforia), sovrastimarle oppure può non riconoscere il proprio arto plegico come suo (somatoparafrenia). Quindi è necessario condurre una buona indagine per meglio comprendere il grado di consapevolezza al fine di regolare il trattamento.

Per quanto riguarda il trattamento si va dall’utilizzo di stimolazioni sensoriali ad un potenziamento delle capacità di automonitoraggio e metacognizione. L’utilizzo della stimolazione calorica vestibolare nei casi di neglect con anosognosia ed emianestesia ha avuto buoni risultati anche nel miglioramento dell’anosognosia (Cappa et al., 1987; Ronchi et al., 2013).

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BIBLIOGRAFIA:

Training di assertività per pazienti affetti da Bulimia Nervosa

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Training di assertività per pazienti affetti da Bulimia Nervosa

Autrici: Chiara Mazzoni; Marta Ghisi (Università di Padova); Romana Schumann (Centro Gruber Bologna)

 

Abstract

Obiettivo: Difficoltà nelle relazione interpersonali, insicurezza sociale e bassa autostima sono aspetti essenziali nel trattamento dei pazienti affetti da Bulimia Nervosa (BN). Questo studio ha valutato l’efficacia di un percorso terapeutico strutturato, come il Training di Assertività (ATP) nell’aumentare e velocizzare il trattamento interdisciplinare per pazienti affetti da BN. Metodo: un gruppo clinico sperimentale (GSbn) e un gruppo clinico di controllo (GCbn) composti ciascuno da 24 pazienti femmine affette da Bulimia Nervosa (DSM IV R) che presentavano bassi livelli di autostima e alti livelli di insicurezza sociale, hanno seguito una comune fase di assessment di 8 sedute: 4 colloqui con uno psicoterapeuta e 4 colloqui con un medico nutrizionista. Successivamente entrambi i gruppi hanno seguito un ciclo interdisciplinare di 12 sedute di Riabilitazione Psico-Nutrizionale (RPN) che avvenivano parallelamente a 12 sedute di psicoterapia Cognitivo e Cognitivo-Comportamentale. In seguito il gruppo sperimentale ha continuato la Riabilitazione Psico-Nutrizionale a cui è stata affiancato un training di assertività di 20 incontri, mentre il gruppo di controllo, per lo stesso periodo di tempo, ha continuato le sedute di RPN e terapia Cognitivo-Comportamentale poiché si trovava in lista d’attesa per l’ATP. Entrambi i gruppi clinici sono stati confrontati con un secondo gruppo di controllo (GCs) composto da 64 soggetti sani che è servito come valore di riferimento. Risultati: Sono emersi significativi miglioramenti nel gruppo sperimentale nei livelli di autostima, insicurezza sociale, benessere psicologico come per i sintomi che caratterizzano il disturbo alimentare. Discussione: Risultati preliminari supportano l’inserimento di un training di assertività nel trattamento di pazienti BN con alti livelli di insicurezza sociale e bassi livelli di autostima.

Abstract in inglese

Objective: Impairment in interpersonal relationships and social insecurity, as well as low self-esteem are issues to treat in Bulimia Nervosa (BN). This study evaluated the effectiveness of a therapeutic structured group treatment like the Assertiveness Training Program (ATP) in the increase and speed up in outpatient interdisciplinary treatment for BN. Method: The sample of this research consists of two clinical groups: an experimental group (GSbn) consisting of 24 outpatient females with Bulimia Nervosa (DSM IV R) with low self-esteem and social insecurity, that followed a 20 week structured Assertiveness Training Program (ATP) after an initial treatment of 4 CBT + 4 Psychonutritional Rehabilitation (PNR) assessment sessions and 12 CBT + 12 RPN individual interdisciplinary treatment sessions. The second clinical group was the control group (GCbn) consisting of 24 females with BN had the same initial treatment and continued with 20 CBT + 20 PNR individual treatment sessions, being on the waiting list for the ATP. Both clinical groups were compared with a second control group of 64 healthy subjects (GCs) which served as reference value. Results: Significant change emerged on the experimental group’s measures of the social insecurity dimensions, low self-esteem and psychological wellbeing as well as in the eating pathology symptoms. Discussion:  Preliminary results support the inclusion of a structured Assertiveness Training Program in the treatment plan especially in BN with high levels of social insecurity and marked low self-esteem.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

KEYWORDS: Training, assertività, Bulimia Nervosa, insicurezza sociale, autostima.

 

PREMIO STATE OF MIND 2014

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Psicoterapia inefficace: l’esperienza soggettiva dei pazienti

FLASH NEWS

I ricercatori, sulla base delle risposte dei pazienti, sostengono che il possibile errore dei terapisti che hanno lavorato con il gruppo dei pazienti non migliorati potrebbe essere quella di aver aderito troppo rigidamente alla tecnica psicoanalitica tradizionale.

La psicoterapia funziona per la maggior parte delle persone, ma c’è un gruppo di pazienti per i quali potrebbe essere inefficace, o peggio ancora dannosa. Un nuovo studio sostiene di essere il primo a indagare sistematicamente ciò che rappresenta l’esperienza della terapia per i pazienti che non mostrano un miglioramento dopo la terapia, o che addirittura mostrano un peggioramento.

Andrzej Werbart ei suoi colleghi hanno condotto delle interviste rivolte a 20 pazienti che non hanno mostrato miglioramenti o che hanno subìto un peggioramento a seguito di un trattamento di psicoterapia psicoanalitica individuale o di gruppo presso l’ex Istituto di Psicoterapia di Stoccolma (appartenenti ad un gruppo più ampio di 134 pazienti). All’inizio del trattamento i pazienti avevano un’età media di 22 anni, e 17 di loro erano di sesso femminile. I pazienti presentavano disturbi dell’umore, problemi di relazione e disturbi della personalità. Le interviste si sono svolte alla fine del ciclo di terapia, e poi di nuovo un anno mezzo più tardi.

I ricercatori trascrissero le interviste e trovarono una chiave di lettura condivisa tra i pazienti: la sensazione che qualcosa di importante si avvicinava spesso, ma era una sensazione non condivisibile col terapeuta. Alcuni, invece, riferivano di avere una visione generale positiva dei terapeuti ma li consideravano poco impegnati.

Un problema ricorrente tra i pazienti era provare sentimenti di incertezza circa gli obiettivi della terapia e le modalità per raggiungere gli stessi.

I ricercatori, sulla base delle risposte dei pazienti, sostengono che il possibile errore dei terapisti che hanno lavorato con il gruppo dei pazienti non migliorati potrebbe essere quella di aver aderito troppo rigidamente alla tecnica psicoanalitica tradizionale (aver sostenuto momenti di silenzio prolungati orientando il focus della terapia su esperienze infantili nella vita familiare).

In seguito i terapeuti, invitati dai ricercatori a riflettere su una terapia più giusta per questo tipo di pazienti, hanno riconosciuto l’utilità di una terapia più direttiva, più orientata allo scopo e all’azione. Da ricerche precedenti emerse invece che pazienti insoddisfatti della  terapia cognitivo-comportamentale sostenevano di preferire una tecnica terapeutica più focalizzata sulla riflessione e comprensione.

Gli autori hanno riscontrato poi una difficoltà da parte dei terapeuti di riconoscere il momento in cui la terapia non risulta essere efficace. Per rimediare a questo inconveniente, propongono di utilizzare interviste che possano indagare il gradimento del paziente verso la terapia in corso ed eventualmente aprire discussioni utili per garantire l’efficacia della terapia.

Al contrario di quanto avvenuto nel gruppo di pazienti che hanno mostrato un miglioramento immediato grazie alla psicoterapia, un aspetto positivo che ha coinvolto i pazienti che non sono migliorati è che nella fase tra la fine della terapia e il follow-up si ha una diminuzione dei sintomi.

 

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La psicologia della felicità:

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La psicoterapia per il disturbo evitante di personalità

Disturbo Evitante di Personalità -
Disturbo Evitante di Personalità

Il disturbo evitante di personalità richiede trattamento psicoterapeutico specifico dal momento che è un disturbo diffuso, con compromissione significativa del funzionamento sintomatico e associato a sintomi psicologici rilevanti. Una comprensione accurata del disturbo evitante di personalità deve includere i problemi di questi pazienti nella consapevolezza, accettazione e regolazione delle emozioni. Questi pazienti sono alessitimici e tendono ad evitare o sopprimere le proprie emozioni. In alternativa si disregolano, sorgente possibile dell’associazione con abuso di sostanze e alcool.

 

Psicoterapia per il disturbo evitante di personalità

Riguardo alla psicoterapia, la realtà è che gli studi empiricamente a supporto sono pochi. Non c’è evidenza di superiorità di alcun approccio sull’altro (e.g. CBT o psicodinamica), vista anche la carenza delle ricerche di efficacia.

Il paziente con disturbo evitante di personalità ha prima bisogno di capire cosa lo fa soffrire, quali schemi interpersonali lo portano a stare male e ad evitare le situazioni. Poi in un clima di costante e attenta regolazione della relazione terapeutica possono provare ad esporsi. Di solito l’esposizione non ha successo a breve termine e aumenta il dolore psicologico (il che è normale), però grazie all’esposizione aumenta la consapevolezza dei problemi e il clinico può usare la conoscenza in seduta per favorire operazioni di distanza critica. Quando i pazienti hanno acquisito maggiore consapevolezza di essere guidati da schemi interpersonali maladattivi che non sono necessariamente veri possono trovare più semplice esporsi a situazioni sociali temute.

Ritengo discutibile il beneficio del training assertivo, almeno in fase precoce. Per esempio in uno studio di Alden del 1989 la parte dello skills training non contribuiva all’efficacia della terapia. La terapia di gruppo in fase iniziale di trattamento può essere impegnativa e non di particolare efficacia, traduco dalla review di Matusievicz e colleghi.

[blockquote style=”1″]non ci sono dati che supportino l’efficacia della CBT breve di gruppo nel ridurre sintomi del disturbo evitante, ansia, depressione e comportamenti sintomatici come pure il funzionamento sociale complessivo. Benché la ristrutturazione cognitiva e gli skills training siano associati con miglioramenti in terapia, questi non sembrano migliorare l’outcome dell’esposizione graduale… molti pazienti continuano a mostrare problemi significativi dopo la CBT di gruppo… trattamenti di più lunga durata potrebbero essere necessari per cambiare pattern cognitivi e comportamentali di lunga durata…[/blockquote]

 

Aggiungo che la terapia di gruppo è particolarmente difficile per pazienti che hanno difficoltà a decodificare gli stati mentali propri e altrui, e al contrario di quanto suggerito in questo articolo non c’è ragione per considerarla un trattamento di prima scelta. Sull’uso dei farmaci nei disturbi di personalità a parte il borderline non c’è letteratura conclusiva, quindi non c’è motivo di raccomandare gli ansiolitici come trattamento di prima scelta e l’uso degli antidepressivi dovrebbe essere accuratamente valutato.

Studi interessanti vengono dallo Ullevaal project a Oslo e lì si è visto che pazienti con scarse capacità di mentalizzazione potevano rispondere meglio al trattamento ambulatoriale che a quello intensivo di gruppo, probabilmente perché per loro il gruppo poteva essere troppo difficile (Arnevik et al., 2009; Gullestad et al., 2012; 2013).

 

Per chi volesse una lettura accurata di cosa si sa dell’efficacia del disturbo evitante in terapia suggerisco:

  • Alden, L. (1989). Short-Term Structured Treatment of Avoidant Personality Disorder. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 57(6), 756-764.
  • Arnevik, E., Wilberg, T., Urnes, O., Johansen, M., Monsen, J. and Karterud, S. 2009. Psychotherapy for personality disorders: Short term day hospital psychotherapy versus outpatient individual therapy – A randomized controlled study. European Psychiatry, 24: 71–78.
  • Bartak, A., Spreeuwenberg, M. D., Andrea, H., Holleman, L., Rijnierse, P., Rossum, B. V… Emmelkamp, P. M. G. (2010). Effectiveness of Different Modalities of Psychotherapeutic Treatment for Patients with Cluster C Personality Disorders: Results of a Large Prospective Multicentre Study. Psychotherapy and Psychosomatics, 79, 20-30.
  • Emmelkamp, P. M. G., Benner, A., Kuipers, A., Feiertag, G. A., Koster, H. C. & van Apeldoorn, F. J. (2006). Comparison of brief dynamic and cognitive-behavioural therapies in avoidant personality disorder. The British Journal of Psychiatry, 189, 60-64.
  • Gullestad, F.S. , Wilberg , T. , Klungsøyr , O. , Johansen , M.S. , Urnes , Ø. , & Karterud , S. (2012). Is treatment in a day hospital step-down program superior to outpatient individual psychotherapy for patients with personality disorders? 36 months follow-up of a randomized clinical trial comparing different treatment modalities . Psychotherapy Research , 22, 426-441.
  • Gullestad, F.S., Johansen , M.S. , Høglend, P., Karterud, S. & Wilberg, T. (2013). Mentalization as a moderator of treatment effects: Findings from a randomized clinical trial for personality disorders. Psychotherapy Research.Muran, J. C., Safran, J. D., Waller Samstag, L. & Winston, A. (2005). Evaluating an Alliance-Focused Treatment for Personality Disorders. Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, 42(4), 532-545.
  • Matusiewicz, A. K., Hopwood, C. J., Banducci, A. N., & Lejuez, C. W. (2010). The Effectiveness of Cognitive Behavioral Therapy for Personality Disorders. The Psychiatric Clinics of North America, 33(3), 657–685. doi:10.1016/j.psc.2010.04.007
  • Svartberg, M., Stiles, T. & Seltzer, M. H. (2004). Randomized, Controlled Trial of the Effectiveness of Short-Term Dynamic Psychotherapy and Cognitive Therapy for Cluster C Personality Disorders. American Journal of Psychiatry, 161(5), 810-817.

 

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Guida interpretativa del MCMI, Millon Clinical Multiaxial Inventory. Recensione

 

La semplicità d’uso, la ridotta numerosità di item e del tempo di somministrazione, il basso rischio di simulazione e la migliore efficacia nel favorire l’inquadramento diagnostico rispetto all’Asse II del DSM, sono alcuni dei vantaggi che incoraggiano il suo utilizzo.

Guida Interpretativa del MCMI (Millon Clinical Multiaxial Inventory) scritto da James Choca ed Eric Van Denburg rappresenta il primo contributo volto a esplorare in modo dettagliato e accorto il questionario di personalità costruito da Theodore Millon nel 1977. Il volume s’introduce nel panorama testistico come un valido aiuto per i professionisti operanti nel campo della salute mentale interessati a conoscere e sondare le potenzialità di questo inventario di personalità.

Una rassegna particolareggiata di ricerche illustra qualità e limiti del MCMI attraverso dieci capitoli, informando il lettore delle fasi che hanno condotto dalla costruzione e standardizzazione e revisione, fino al suo utilizzo per l’interpretazione della personalità e della psicopatologia.

Gli autori colgono nel segno l’obiettivo di facilitare la comprensione della misurazione della personalità presentando uno strumento snello e di semplice utilizzo e con una teoria sottostante particolarmente utile per la diagnosi psicologica. Una visione teorica che concepisce alla base della personalità tre polarità: piacere/dolore, attività/passività, sé/altro che danno vita ad un insieme di convinzioni su di sé e sul mondo, modi di pensare, di sentire e di comportarsi tipici dell’uomo. Le variazioni patologiche sono qui descritte come il frutto di stili di coping non adattivi della personalità che impediscono il superamento della natura conflittuale dei rapporti tra individuo e ambiente.

La raccolta di dati clinici rilevanti è stata sempre oggetto di riflessione di molti studiosi, si pensi che le prime descrizioni di personalità possono essere fatte risalire ad Ippocrate, sin da allora probabilmente le peculiari qualità dei disturbi mentali e la necessità di un’interpretazione diagnostica obiettiva hanno ostacolato questa operazione rendendola ancora più difficoltosa per i disturbi di personalità. Nel maremagnum di tutte le misurazioni esistenti, un passo in avanti fu compiuto da Theodore Millon e i suoi collaboratori attraverso la costruzione di uno strumento olistico che è in grado di includere in un solo questionario tutti i disturbi di personalità del Diagnostic and Statistical  Manual of Mental Disorder (DSM).

La prima edizione del questionario fu rivista in modo da essere correlata al manuale diagnostico più utilizzato al mondo. Nello specifico la seconda revisione ha avuto lo scopo di adeguare lo strumento ai criteri elaborati per il DSM IV e per la misurazione della personalità depressiva e del disturbo da stress post-traumatico. Tutte le versioni del test offrono la possibilità di una misurazione coerente dei tratti di personalità e dell’eventuale presenza di psicopatologia.

È doveroso ricordare che l’inventario fu costruito per essere usato con pazienti psichiatrici. Infatti, Millon non raccomanda il suo utilizzo con individui che non siano pazienti con psicopatologie. Il test utilizza punteggi base rate ancorati alla prevalenza di attributi nella popolazione psichiatrica. Questi punteggi forniscono informazioni sulla probabilità che un dato soggetto sia simile al gruppo di pazienti psichiatrici che si pensa abbiano un particolare tratto o attributo. Tuttavia, James Choca ed Eric Van Denburg indicano la possibilità di utilizzare il MCMI anche con pazienti non psichiatrici purché sia fatto con cautela.

Il Millon Clinical Multiaxial Inventory è un questionario di autovalutazione composto da 175 item dicotomici vero/falso che attraverso ventiquattro scale cliniche fornisce una misura di stili di personalità, dei disturbi gravi di personalità e delle sindromi cliniche. L’ultimo gruppo di scale è quello delle sindromi cliniche gravi che sono rispettivamente: la scala di disturbo del pensiero, della depressione maggiore, la scala del disturbo delirante. Inoltre il MCMI è provvisto anche di una scala di validità e di indici modificatori, ossia l’indice di Apertura, l’indice di Desiderabilità e l’indice di Svalutazione. Dal punto di vista psicometrico i coefficienti alfa di coerenza interna sembrano accettabili andando da .66 per la Scala Compulsiva a .90 per la Scala di Depressione Maggiore e l’attendibilità è elevata.

La struttura del testo suddivisa in due parti accoglie nella prima la descrizione dello strumento nelle sue qualità e nella seconda conduce il lettore alla conoscenza della più complessa operazione d’interpretazione. Una vasta sezione è assegnata all’interpreazione dell’Inventario, nella quale sono fornite indicazioni dettagliate di come procedere nell’individuazione del profilo di personalità.

Si precisa di seguire come primo step la verifica della validità e la della difensività del profilo, per poi dedicarsi alla comprensione del livello di funzionamento della personalità. Gli autori rilevano che non necessariamente la presenza di picchi tra le otto scale di personalità vada interpretata come presenza di psicopatologia e che è certamente più semplice riconoscere set di risposte di falsificazione negativa quando molte scale presentano punteggi base rate superiori ad 85.

L’interpretazione dei singoli punteggi semplicistica e carente di molte informazioni è poco consigliabile, se ne raccomanda una per picchi indubbiamente più completa. Si procede prendendo in considerazione nelle prime otto scale di personalità il primo numero che rappresenta il picco più alto al di sopra della linea di taglio del punteggio base rate di 75, il secondo numero che rappresenta il secondo picco e il terzo numero che rappresenta il terzo picco. Generalmente nella codifica del profilo si fa utilizzo dello zero quando si vuole indicare che nessuna scala è sopra la linea di taglio.

Nei capitoli a seguire è discusso l’utilizzo del MCMI per la valutazione della psicopatologia e la difficoltà di quest’operazione quando si tratta di distinguere tra disturbi di personalità e sindromi cliniche dati numerosi elementi in comune. Tuttavia la conoscenza di quali scale si elevano maggiormente nei vari disturbi potrebbe semplificare questa operazione.

Inoltre nel testo si approfondisce la validità concorrente dello strumento ricorrendo ad una vasta esposizione di studi che confrontano le tre versioni del MCMI tra loro e rispetto ad altri inventari di personalità. Un aiuto concreto per la valutazione psicologica proviene dalla presentazione di resoconti di casi clinici che illustrano come è possibile giungere ad una visione olistica del soggetto integrando dati storici, dati ottenuti dal MCMI e misure proiettive e secondo quale schema descrittivo potrebbe essere strutturati.

L’augurio per il futuro che gli autori comunicano è di poter pensare all’utilizzo di misure di valutazione psicologiche non solo per finalità diagnostiche, ma anche per indicazioni di trattamento, qualità rintracciabile nel MCMI. Per concludere il volume dona una descrizione onesta di vantaggi e svantaggi del MCMI, che predispongono il clinico alla verifica attraverso la pratica clinica.

Il ventaglio di qualità attribuite al esso, non può essere trascurato, così come l’interesse rivolto ad esso da parte degli studiosi. La semplicità d’uso, la ridotta numerosità di item e del tempo di somministrazione, il basso rischio di simulazione e la migliore efficacia nel favorire l’inquadramento diagnostico rispetto all’Asse II del DSM, sono alcuni dei vantaggi che incoraggiano il suo utilizzo.

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BIBLIOGRAFIA:

Disturbi Alimentari: è possibile considerarli disturbi da dipendenza da cibo?

Questi risultati preliminari aprono la strada alla possibilità di considerare la bulimia, così come il BED, disturbi da dipendenza da cibo e trattarli quindi alla stregua delle dipendenze da altri tipi di sostanze.

Ormai di Disturbi Alimentari si parla spesso: nelle riviste specializzate, a scuola, nei programmi di prevenzione, nell’ambiente della moda, nei libri di testo; si tratta di una categoria che raccoglie un’ampia gamma di problematiche, che vanno dall’eccessiva restrizione alimentare ai comportamenti impulsivi ad uno stile di vita particolarmente selettivo. Sappiamo anche che le situazioni problematiche in questo senso stanno espandendo la loro portata, passando da definirsi come disturbi a insorgenza prevalentemente nell’adolescenza e prima età adulta a una diffusione sempre maggiore anche nell’età più matura.

Sicuramente quello che accomuna questi differenti quadri clinici (Anoressia, Bulimia, ecc.) è un rapporto problematico con il cibo e con il proprio corpo. D’altra parte, si tratta di modalità molto differenti di declinare questo rapporto infelice: non è difficile notare le diverse caratteristiche di personalità che sottostanno a un comportamento molto regolato e ossessivo (tipico per esempio delle pazienti anoressiche) piuttosto che a un pattern ambivalente di impulsività e tentativi di compensazione (tipico delle pazienti bulimiche).

Negli ultimi anni la letteratura scientifica sull’argomento ha proposto un inquadramento differente dei Disturbi Alimentari, avvicinando alcuni di questi alla diagnosi di dipendenza da sostanze. In particolare, il Binge Eating Disorder (BED), che prevede la presenza di episodi di abbuffate in assenza di comportamenti finalizzati a eliminare le calorie ingerite, è stato ampiamente concettualizzato come dipendenza dal cibo e da particolari ingredienti, come lo zucchero (Gearhardt, Davis, Kuschner & Brownell, 2011). Inoltre, l’osservazione delle immagini di risonanza magnetica delle persone con BED ha mostrato un’alterazione nel sistema della dopamina, simile a quanto si osserva nelle risonanze magnetiche delle persone con una dipendenza da sostanze (Hadad & Knackstedt, 2014).

Recentemente, un gruppo di autori tedeschi e austriaci ha esplorato meglio la componente di dipendenza all’interno della Bulimia Nervosa, intervistando i soggetti secondo i criteri definiti dal DSM-IV per la dipendenza da sostanze, declinati in modo da indagare il cibo al posto della sostanza. Nello specifico, questi criteri includono (1) essere incapaci di controllare l’abbuffata, (2) trascurare le relazioni sociali o il lavoro a causa delle abbuffate, (3) sintomi di astinenza, (4) impiegare molto tempo per procurarsi il cibo, abbuffarsi o riprendersi dagli effetti dell’abbuffata, (5) continuare a mangiare nonostante le conseguenze negative, (6) consumare una maggior quantità di cibo di quella che si vorrebbe consumare.

Gli autori hanno testato sulla base di questi criteri un campione di pazienti bulimiche, un gruppo di persone non bulimiche ma con una storia di bulimia passata e un gruppo di persone non bulimiche e che non avevano mai ricevuto la diagnosi in passato. I risultati hanno mostrato che, considerando i criteri per la dipendenza da sostanze adattati rispetto alla “sostanza cibo”, tutte le persone testate che soddisfacevano la diagnosi di bulimia risultavano anche dipendenti dal cibo, mentre questa dipendenza non caratterizzava nessuna delle persone senza diagnosi;

inoltre, il 30% delle persone con un passato di bulimia ma senza diagnosi attuale soddisfaceva i criteri per la dipendenza da cibo. Aggiungere questo ultimo campione ha permesso di evidenziare come la dipendenza dal cibo non sia trasversale alla bulimia, ma possa essere vista come un modo diverso di concettualizzare lo stesso disturbo.

In questo senso, questi risultati preliminari aprono la strada alla possibilità di considerare la bulimia, così come il BED, disturbi da dipendenza da cibo e trattarli quindi alla stregua delle dipendenze da altri tipi di sostanze.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’ABC delle mie emozioni: programma di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il modello REBT (2014) – Recensione

Open School Milano

Suddiviso in 2 volumi rispettivamente rivolti a bambini tra i 4 e i 7 anni e tra gli 8 e i 13 anni, l’ABC delle mie emozioni si propone come un testo psico-educativo semplice e adeguato all’ età dei bambini ai quali si rivolge, accompagnato da molteplici rappresentazioni visive, disegni ed esercizi rivolti a se stessi.

Tuttavia, il libro potrebbe essere utilizzato anche dai genitori come guida per conoscere, comprendere ed educare meglio i propri figli o dagli insegnanti che potrebbero applicare tale protocollo all’interno delle classi al fine di promuovere una maggiore comprensione e regolazione emotiva negli alunni.

Nella filosofia antica e fino all’epoca di Darwin, le emozioni erano considerate opposte alla razionalità umana ed espressione di una incapacità di controllare se stessi e la propria mente e si riteneva che ci fosse una divinità negativa come Le Furie, Pan o Dioniso che si impossessava dell’anima nei momenti in cui le emozioni emergevano in modo incontrollabile. Con “L’espressione delle emozioni nell’ uomo e negli animali” di Darwin (1872) si fa strada l’idea che le emozioni siano un meccanismo adattivo per la sopravvivenza della specie: le emozioni, infatti, influenzano il proprio comportamento e consentono di comunicare agli altri il proprio stato emotivo e questo ha degli effetti benefici sia sul soggetto che sull’ ambiente.

Secondo le scienze psicologiche, attualmente è ormai opinione condivisa che le emozioni siano una componente essenziale per l’individuo e garante della sua sopravvivenza psico-fisica: ad esempio l’ansia ci avverte della presenza di un pericolo e ci mobilita per affrontarlo, la rabbia ci comunica che abbiamo subito un’ingiustizia, la tristezza che abbiamo perso qualcosa che per noi era assolutamente importante, ecc. Insomma, le emozioni svolgono diverse funzioni e, nello specifico, ci consentono di reagire alle avversità, di fronteggiare le frustrazioni, di relazionarci in maniera positiva ed equilibrata con gli altri e il mondo. Vi sono, tuttavia, delle circostanze in cui diventa fondamentale regolare e gestire tali emozioni: questo accade nel momento in cui esse risultano troppo intense e durature, generando malessere emotivo e influenzando negativamente il proprio comportamento.

Le emozioni emergono precocemente nella vita di ciascun individuo e secondo Ekman e Friesen già nelle prime settimane di vita è possibile riscontrare la presenza di 6 emozioni primarie innate e universali: la gioia, la tristezza, la rabbia, la paura, il disgusto, la sorpresa. Nel corso dello sviluppo, le emozioni cambiano a causa sia della maturazione biologica sia dei processi di socializzazione primaria e secondaria ed emergono delle nuove emozioni: ad esempio, la colpa, la vergogna e l’orgoglio compaiono verso il secondo e terzo anno di vita. Col tempo, le emozioni cominceranno ad essere attivate in situazioni differenti e saranno regolate con comportamenti sempre più accettati socialmente.

La competenza emotiva di un bambino, ossia la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni e di riconoscere e rispondere in maniera appropriata alle emozioni altrui, varia a seconda dell’età del bambino e del contesto sociale in cui vive: ad esempio, è stato dimostrato che parlare in famiglia delle emozioni sia proprie che altrui (Dunn, Brown, 1994) permette ai bambini di affrontare meglio le proprie emozioni, di comprendere le emozioni altrui, di condividere le esperienze emotive con gli altri e di relazionarsi in maniera più appropriata con gli altri. Inoltre, durante l’età prescolare, come ci riporta Piaget, nel bambino si sviluppa la cosiddetta “teoria della mente” che consente allo stesso di attribuire all’altro intenzioni, desideri, pensieri ed emozioni che possono essere differenti dai propri; il bambino riesce, dunque, ad assumere una prospettiva diversa dalla propria.

Spiegare ai bambini cosa sono le emozioni, denominarle e insegnare loro delle strategie di gestione delle stesse non sempre risulta un compito semplice per genitori ed insegnanti, in quanto richiede una buona conoscenza dell’argomento ma anche l’utilizzo di un linguaggio semplificato che possa essere compreso adeguatamente dai bambini. L’obiettivo di questo libro è proprio quello di accompagnare passo passo bambini, genitori ed insegnanti nell’esplorazione del mondo delle emozioni.

In un primo momento è fondamentale imparare a riconoscere le emozioni che si provano, attribuire loro il giusto nome e saper definire la loro intensità su un termometro che va da 0 a 100; col supporto di immagini, favole e giochi questa attività può risultare divertente e coinvolgente. Ai bambini più grandi si può insegnare anche che talvolta il corpo può comunicarci l’emozione che stiamo provando e con alcuni esercizi di auto-osservazione e di meditazione si può imparare a prestare attenzione e a riconoscere le sensazioni del proprio corpo.

Successivamente si consigliano ai bambini delle strategie secondo il modello REBT per poter gestire in maniera ottimale le proprie emozioni, tollerare le frustrazioni, stabilire delle relazioni positive con gli altri: dunque, si consiglia di prestare attenzione ad una situazione in cui è emersa un’emozione molto forte e disturbante o quando è stata vissuta una frustrazione, esplicitare i pensieri che sono comparsi nella propria mente in quella circostanza, riconoscere che essi non ci hanno fatto stare bene e non sono stati utili e cercare un pensiero alternativo e più funzionale che ci aiuti a stare meglio e a tollerare quella frustrazione.

Come anticipato, il modello teorico al quale si fa riferimento nella definizione di questo protocollo è quello della REBT (Rational Emotive Behavior Therapy) di Albert Ellis, il quale sostiene che alla base dei disturbi emotivi ci sarebbero dei pensieri irrazionali e disfunzionali che potrebbero essere racchiusi in 3 categorie:

1) doverizzazioni rigide rispetto a come si deve essere e devono essere fatte le cose;

2) alcune situazioni sono reputate terribili e intollerabili;

3) valore personale legato ad un solo ambito ristretto e se si fallisce in quell’ambito, tutta la propria esistenza è considerata un fallimento.

Dunque, le caratteristiche dei pensieri irrazionali sarebbero le seguenti: distorcono la realtà, sono pensieri esagerati e assolutistici, non consentono di raggiungere i propri scopi e portano a reazioni emotive troppo intense e durature.

 

Per esplorare i pensieri e le emozioni, Ellis propone il metodo dell’ABC che consiste nell’individuare la A, ossia una situazione problematica, la B che consiste nei pensieri emersi in quella situazione e la C che corrisponde alle emozioni provate e ai comportamenti messi in atto in risposta. Con questa tecnica, si evince il rapporto esistente tra i pensieri e le emozioni; sono appunto i pensieri a generare le emozioni e, dunque, modificando i pensieri, si modificano le emozioni.

Un altro concetto della terapia cognitiva riportato nel testo è quello relativo ai cosiddetti “virus mentali”; si tratta di bias cognitivi che spesso vengono attivati in maniera automatica ma ai quali è importante prestare attenzione  e riconoscere nel proprio dialogo interiore. I virus mentali presenti nei bambini sono soprattutto i seguenti: pretendere ed esigere (ossia pensare che le cose debbano necessariamente essere fatte in quel modo o che gli altri debbano comportarsi secondo delle regole rigide che noi ci siamo dati); dare interpretazioni sbagliate (ossia fornire delle spiegazioni scorrette su qualcosa che è successo ad esempio attribuendo a se stessi la colpa per qualcosa senza che ce ne sia alcun fondamento oppure ritenendo che l’altro si sia comportato male nei nostri confronti proprio per farci un torto), svalutare (cioè giudicare qualcuno in modo completamente negativo perché ha fatto qualcosa di sbagliato o di sgradevole), ingigantire (ossia ingrandire gli aspetti negativi di quello che succede o che potrebbe succedere) e generalizzare (cioè utilizzare espressioni estreme e generali come mai, sempre, nessuno o tutti, senza essere capaci di circostanziare gli avvenimenti).

Una volta riconosciuti i pensieri irrazionali e i virus mentali presenti nel bambino, si procede assieme al bambino alla trasformazione di tali pensieri, cercandone altri più funzionali e adattivi: ad esempio le doverizzazioni potrebbero essere sostituite con preferenze (invece di pensare “Devo fare sempre tutto bene”, posso pensare “Vorrei fare tutto bene, ma se così non fosse non sarebbe così terribile”); il pensiero catastrofico con pensieri che ridimensionano l’evento in maniera più realistica, l’intollerabilità di certe situazioni con pensieri che riconoscono la spiacevolezza di quell’evento ma lo reputano tollerabile, la svalutazione di sé o degli altri con una maggiore accettazione incondizionata propria e altrui (invece di pensare “Sono uno stupido, sbaglio sempre tutto!”, posso pensare “In quella situazione effettivamente ho commesso un errore, ma tutti possono sbagliare e io resto un bambino che vale”).

Concludendo, gli obiettivi che questo testo si propone di conseguire consistono nel favorire una maggiore accettazione di sé e degli altri, aumentare la tolleranza alla frustrazione, saper riconoscere e denominare le proprie emozioni, saper individuare i propri pensieri irrazionali e virus mentali e il legame esistente tra pensieri ed emozioni, sostituire i pensieri irrazionali con altri più costruttivi.

Lavorando quotidianamente in qualità di educatrice a contatto con bambini e pre-adolescenti con problematiche familiari e personali spesso di natura psicologica, emotiva e relazionale, leggendo il titolo del libro e la breve presentazione, mi è subito nata la curiosità di leggerlo con lo scopo eventualmente di sperimentare tali tecniche con i bambini con cui lavoro. Dopo aver completato la lettura, mi sono resa conto che tale protocollo poteva essere efficace e adeguato soprattutto con due bambine dell’età di 12 anni, che presentano delle difficoltà principalmente nella gestione dell’ansia e della rabbia; per cui ho dedicato gli incontri successivi dell’ intervento alla lettura e discussione di questo volume come guida strutturata e progressiva per favorire nelle minori una maggiore capacità di riconoscimento e di gestione di tali emozioni.

I disegni, gli esercizi di respirazione e di meditazione e le favole raccontate sono stati molto utili per favorire la comprensione di alcuni concetti che potrebbero inizialmente apparire complicati per i bambini e nello stesso tempo hanno aumentato l’interesse e il coinvolgimento delle bambine. Ne consiglio, dunque, l’utilizzo a tutti coloro che svolgono il ruolo di insegnanti o educatori, in quanto è possibile ottenere risultati terapeutici divertendosi.   

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Di Pietro, M. (2014). L’ABC delle mie emozioni. Erickson: Trento.
  • Ellis, A. (1989). Ragione ed emozione in psicoterapia. Astrolabio: Roma.
  • Canestrari, R., Godino, A. (2007). La psicologia scientifica. Cluebeconomia: Bologna.
  • Schaffer, H.R. (2005). Psicologia dello sviluppo. Raffaello Cortina Editore: Milano. 

Il disgusto verso di sé come trigger emotivo nell’autolesionismo

FLASH NEWS

Per autolesionismo si intende la tendenza a mettere in atto, in modo intenzionale e ripetitivo, comportamenti che hanno lo scopo di provocare un danno al proprio corpo, procurandosi per esempio tagli, bruciature, lividi o escoriazioni.

L’obiettivo non è quello di uccidersi, bensì di trovare sollievo da una stato di sofferenza emotiva. Ad oggi si stima che siano tra il 7 e il 38% gli adolescenti che hanno compiuto almeno un atto di autolesionismo, ma si tratta di un fenomeno in crescita.

Sulla base di queste premesse, è facile comprendere perché sempre più sono le ricerche volte ad indagare questo tipo di comportamenti ed i pensieri e i sentimenti ad essi sottesi. Negli ultimi anni è stato così possibile identificare alcuni importanti fattori di rischio, tra i quali depressione ed esperienze di abuso sessuale.

Tuttavia, Noelle Smith, PhD presso il Dipartimento di Psicologia della Southern Methodist, ed alcuni suoi colleghi dell’Università di Dallas si sono chiesti se l’influenza esercitata da questi fattori sulla messa in atto di comportamenti autolesionistici non sia in realtà da mettere in relazione a sentimenti di disgusto vissuti verso se stessi, che potrebbero costituire un trigger emotivo nella genesi di questi comportamenti e svolgere un importante ruolo di mediatori rispetto ad esperienze di depressione e abuso.

Lo studio ha coinvolto un campione di oltre cinquecento studenti, non ancora laureati, ai quali è stato chiesto di rispondere ad una serie di domande che valutavano la messa in atto di comportamenti autolesionistici non suicidari, la presenza di esperienze di depressione ed abuso fisico e sessuale, la propensione a reagire in modo ansioso e la tendenza a provare sentimenti di disgusto verso se stessi.

I risultati ottenuti hanno messo in evidenza come coloro che riportavano di aver sperimentato con una maggiore frequenza sentimenti di disgusto verso di sé andavano incontro con maggiore probabilità alla messa in atto di comportamenti autolesionistici.

In modo particolare è emerso come, nel confronto con le passate esperienze in cui questi soggetti riferivano di essersi procurati delle ferite autoinflitte, gli episodi più recenti risultavano essere associati in modo statisticamente significativo con sintomi di tipo depressivo mentre erano associati solo parzialmente ad esperienze di abuso sessuale. Il fatto, inoltre, che i sintomi depressivi fossero risultati associati a comportamenti autolesionistici solo quando veniva considerata la presenza di sentimenti di disgusto verso di sé avvalorava ulteriormente il ruolo di mediazione ipotizzato in merito a tale fattore.

Molte sono ancora le questioni aperte e su cui far luce, non è infatti chiara quale sia la direzione della relazione esistente tra la messa in atto di comportamenti autolesionistici e i sentimenti di disgusto verso se stessi. Da un lato il ricorso a tali comportamenti potrebbe placare i sentimenti negativi vissuti verso di sé, dall’altro la messa in atto di questi comportamenti potrebbe essere alla base dell’insorgere di ulteriori sentimenti di vergogna rispetto alle proprie azioni.

In ogni caso, attraverso questo studio è stato possibile guardare per la prima volta alla dimensione emotiva all’origine dei comportamenti autolesionistici che porta ad interpretare i sentimenti di disgusto verso di sé come un possibile fattore precipitante, e che pertanto dovrebbero essere adeguatamente tenuti in considerazione nel corso del trattamento di queste problematiche.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Le pillole della felicità. Dal Miltown al Prozac, di David Herzberg (2014) – Recensione

L’intento di base dell’autore è quello di fare comprendere la complessità del fenomeno psicofarmacologico, che esce dai confini dei laboratori, degli ambulatori e delle cliniche psichiatriche, coinvolgendo aspetti commerciali, sociali e addirittura politici.

Questo volume, scritto da uno storico della medicina e che ha la prefazione di Paolo Migone, racconta la nascita e lo sviluppo degli psicofarmaci, partire dagli anni 50, con un occhio di riguardo agli aspetti sociali del fenomeno.

Nella prima parte del libro viene analizzata la grande diffusione tra gli anni Cinquanta e Settanta di farmaci ansiolitici come il Miltown (meprobamato) e il Valium (i cosiddetti farmaci blockbuster) e la loro conseguente decadenza causata dai problemi della dipendenza. Nella seconda parte si parla degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) e in particolare del celeberrimo Prozac, che negli anni Ottanta portò una ventata di fiducia nella psichiatria biologica, con un modello di individuo rampante e produttivo, molto funzionale a quel periodo.

Fanno riflettere a questo riguardo le pubblicità degli psicofarmaci riportate nel libro, che hanno quasi sempre come protagoniste donne bianche e sorridenti del ceto medio, principale obiettivo di mercato e che consumavano psicofarmaci in misura doppia rispetto agli uomini. Mentre tra i maschi lo psicofarmaco poteva mettere in discussione un’immagine di virilità, le casalinghe americane sono state tra le principali consumatrici di ansiolitici, proprio per tollerare la frustrazione della vita domestica e questo causò forti campagne di critica da parte dei movimenti femministi, che sostenevano che la risposta al disagio doveva comprendere il cambiamento del ruolo sociale femminile e non poteva essere l’assunzione di pillole.

L’analisi storica del libro contiene un parallelismo interessante tra diffusione degli psicofarmaci e delle droghe d’abuso. All’inizio l’ansia era considerata un segno di complessità psicologica e di intelligenza, che colpiva i ceti più alti della società, in particolare i colletti bianchi e che quindi legittimava un uso molto disinvolto degli psicofarmaci. Questo si contrapponeva al crescente fenomeno della diffusione delle droghe illegali, che interessava invece soprattutto le categorie sociali più disagiate. I due fenomeni trovarono un punto d’incontro quando gli ansiolitici come il Valium vennero inclusi nella lista delle sostanze d’abuso dalla Food and Drug Administration.

L’intento di base dell’autore è quello di fare comprendere la complessità del fenomeno psicofarmacologico, che esce dai confini dei laboratori, degli ambulatori e delle cliniche psichiatriche, coinvolgendo aspetti commerciali, sociali e addirittura politici (interessante l’aneddoto del coming out sulla dipendenza da ansiolitici da parte di Betty Ford, moglie del presidente degli Stati Uniti).

L’immissione sul mercato di una nuova molecola pare avere una sorta di schema ripetitivo, che non si ritrova con i farmaci non psichiatrici, che prevede una fortissima aspettativa iniziale (quasi miracolosa) a cui segue un progressivo ridimensionamento della sostanza, fino ad arrivare alla demonizzazione con tanto di crociata popolare. D’altra parte, al giorno d’oggi è davvero difficile trovare qualcuno che per esperienza diretta o indiretta non abbia una sua opinione personale sulle pillole della felicità…

 

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BIBLIOGRAFIA:

Her di Spike Jonze (2013): la solitudine nell’era dei social network

L’elemento persistente è la solitudine. Theodor è solo. Una enorme lacuna emotiva che ad un tratto viene riempita dal sistema operativo.

Her è un film del 2013 scritto e diretto da Spike Jonze. Un sottile dramma si sviluppa per tutta la durata del film, la solitudine e ciò, che in un futuro non troppo prossimo potrebbe accadere all’uomo, alla socialità, alla tecnologia. Girato in una metropoli non altrimenti specificata, con un godibile utilizzo di alternanza di piani temporali, e di un impercettibile e presente filtro “sierra “ instagrammiano, la trama del film lancia degli importanti spunti di riflessione sociali e psicologici.

Theodor è un ragazzo tra i trenta e i quarant’anni, in procinto di divorziare. Il suo lavoro è scrivere lettere su commissione per altre persone (già lui quindi raffigura un ponte tra persona e tecnologia, già la sua figura è tra quello che c’è di più intimo nell’uomo, i sentimenti e l’esternazione di questi, e ciò che si sostituisce a noi e per nostra scelta, per ottimizzare i tempi, per sopperire a volte scarse capacità). La tecnologia utilizzata non lascia perplessi e non ci dà un’immagine troppo futuristica, è una tecnologia che comprendiamo, è l’evoluzione perfetta di ciò che abbiamo oggi.

Il sistema operativo che acquista è un software, OS1, e che in seguito prenderà il nome Samantha, dotato di una simil coscienza che sembra sviluppare anche emozioni e che si interfaccia con lui attraverso una voce femminile, decisa all’inizio dal protagonista, supporta e organizza in modo ottimale la vita dell’uomo: mail, appuntamenti, ricerca ristoranti, suggerisce musica, porta notizie. Supporta e scandisce ordine nella vita in maniera veloce, ottimale e personalizzata. Perfetto. Concepibile! Basti pensare già ad alcuni sistemi operativi presenti sui cellulari di oggi. Il rapporto stretto tra uomo e software evolve in una relazione mentale e non, che poi termina per la semplice necessità evolutiva di cui Samantha ha bisogno a cui poi seguirà finalmente anche un evoluzione emotiva di Theodor, sottolineata nell’ultimissima scena.

L’elemento persistente è come detto, la solitudine. Theodor è solo, attraverso dei flashback si evidenziano momenti con la ex moglie, momenti felici a cui lui rimane ancorato (ecco spiegata la sua riluttanza al firmare le carte per il divorzio). Una enorme lacuna emotiva che, ad un tratto viene riempita dal sistema operativo.

La drammaticità richiamata sta nella convinzione del protagonista di poterla colmare davvero attraverso Samantha, tanto che ad un certo punto del film si convince a firmare il divorzio. Comincia così questo suo nuovo frammento di vita, ed ecco scene di risate, viaggi, quotidianità spensierata in cui comunque lui è solo e con solo nel suo taschino il sistema operativo che crede di amare. Nel momento in cui Samantha decide di “lasciarlo” per seguire la sua evoluzione, Theodore si guarda intorno, nella scena un via vai di persone, tutte sole, che camminano quasi in modo automatico, non si guardano intorno, prese solo dalla conversazione con i loro rispettivi sistemi operativi. Theodor comprende.

Il film è un affresco al futuro e crea perplessità se non per la drammatica veridicità che trapela. La fine del film ci porta a non banali spunti di riflessione.  Per persone della mia generazione, cresciute quando avere il telefono cellulare era solo un telefono cellulare ed i mezzi di comunicazione di oggi, la tecnologia è senz’altro vista come un ottimo supporto all’organizzazione e alla gestione del tempo (importante indicatore per la psicologia della salute sulla gestione dello stress e dell’ansia disturbi propri dei paesi più industrializzati). Sappiamo utilizzarla al meglio, ma non ci facciamo troppo coinvolgere da questa, non ci fidiamo troppo di lei, lasciamo che faccia parte di noi, che ci aiuti, ma sappiamo anche di poterla dominare.

L’interrogativo a mio avviso più grande è come si svilupperanno i rapporti umani e la socialità nelle generazioni future che crescono già, se vogliamo dire così, forniti dei vantaggi/svantaggi legati a questa. Per il principio di selezione naturale, l’umanità andrà incontro all’acquisizione di nuove abilità legate alla stretta relazione uomo-macchina? Si perderanno le abilità acquisite per far spazio alle nuove? La qualità delle competenze dell’uomo andranno scomparendo da informazioni acquisite da siti più o meno competenti?

Con la conquista dei nuovi approcci interpersonali sudata nella seconda metà del novecento siamo arrivati all’affermazione delle nostre personali capacità, all’espressione creativa, all’emancipazione ad una socialità proattiva ma già oggi, con l’avvento dei social network, stiamo cambiando rotta? Il messaggio contro la telefonata! Uno schermo contro l’uscita con gli amici? 

Sono certa che l’educazione al bambino, la trasmissione dei valori e l’esempio, che è la primaria fonte di acquisizione per la formazione della personalità ci permetterà di prendere tempo e godere dei benefici delle scoperte e delle nuove tecnologie ancora rimanendo padroni assoluti di quegli istinti primordiali che fanno dell’uomo, uomo e del gruppo sociale, quel pilastro per la formazione delle identità future. Spike Jonze, personalità stravolgente e intuitiva e che nelle sue pellicole porta sempre importati spunti di riflessione, ha ottenuto un meritatissimo oscar per la sceneggiatura di questa pellicola e ha portato di un tassello in avanti il cinema statunitense.

 

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Economia comportamentale: le decisioni irrazionali sono determinate da fattori biologici?

Non sempre si può dire che l’uomo sia un animale assolutamente razionale, e l’evidenza della sua fallacia ci viene data soprattutto dall’ambito di studi riguardante la Psicologia e il Marketing. In particolare è grazie alla nascita dell’Economia comportamentale che sono stati messi in luce tutti gli errori e le scelte irrazionali che gli uomini compiono nel prendere decisioni a carattere economico.

Inizialmente queste scelte irrazionali sono state spiegate in base a fattori sociali e culturali, passando poi alle spiegazioni di carattere anatomico degli studi di Neuromarketing.

In un recente studio invece, un’equipe di ricercatori, analizzando il comportamento di alcuni primati di fronte a una scelta di natura economica, ha cercato di comprendere se alla base di questi comportamenti irrazionali vi fosse l’influenza di fattori biologici. Per scoprire i risultati dello studio vi proponiamo la lettura dell’articolo originale.

 

In una società, all’interno della quale gli agenti economici sono abituati, sino dalla giovane età, ad interagire sul mercato, è intuitivo identificare in tale esposizione la fonte primaria dei meccanismi irrazionali riscontrati nelle attività decisionali. Ed in parte ciò può costituire una valida spiegazione. Tuttavia, secondo quanto emerso dalle più recenti ricerche, l’origine di tali distorsioni sembrerebbe affondare le proprie radici nella composizione biologica stessa dell’essere umano.

 

ABSTRACT:

Humans exhibit framing effects when making choices, appraising decisions involving losses differently from those involving gains. To directly test for the evolutionary origin of this bias, we examined decision-making in humans’ closest living relatives: bonobos (Pan paniscus) and chimpanzees (Pan troglodytes). We presented the largest sample of non-humans to date (n = 40) with a simple task requiring minimal experience. Apes made choices between a ‘framed’ option that provided preferred food, and an alternative option that provided a constant amount of intermediately preferred food. In the gain condition, apes experienced a positive ‘gain’ event in which the framed option was initially presented as one piece of food but sometimes was augmented to two. In the loss condition, apes experienced a negative ‘loss’ event in which they initially saw two pieces but sometimes received only one. Both conditions provided equal pay-offs, but apes chose the framed option more often in the positive ‘gain’ frame. Moreover, male apes were more susceptible to framing than were females. These results suggest that some human economic biases are shared through common descent with other apes and highlight the importance of comparative work in understanding the origins of individual differences in human choice.

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Esistono svariati esempi circa le distorsioni irrazionali degli individui impegnati nel prendere decisioni di carattere economico: qual è l’influenza del fattore biologico in tale fenomeno? (…)

Tratto da: Smartweek

 

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Somatoparafrenia – Definizione Psicopedia

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Gerstmann indentifica la somatoparafrenia come una forma di asomatognosia in cui si ritrova la presenza di credenze deliranti verso la parte del corpo controlaterale alla lesione cerebrale.

Nel 1942, dopo che Babinski coniò il termine anosognosia, Gerstmann individuò tre disturbi indiretti dello schema corporeo, caratterizzati da un’esperienza anomala esplicitata attraverso il comportamento o il linguaggio verso una funzione o una parte del proprio corpo. Solitamente ognuna di queste tre condizioni si presenta insieme a un deficit di consapevolezza per l’emiplegia, per l’emianestesia o in uno stato di neglect, soprattutto verso la parte sinistra del corpo, quindi in corso di danno o lesione all’emisfero destro.

Uno di questi tre fenomeni è la somatoparafrenia (σώμα = corpo, παρα = dietro and φρήν = mente) che lo stesso Gerstmann indentifica come una forma di asomatognosia in cui si ritrova la presenza di credenze deliranti verso la parte del corpo controlaterale alla lesione cerebrale. Quindi in una condizione negativa in cui la persona esperisce l’assenza di un arto, si ha anche la produzione di sintomi positivi come le credenze deliranti. Nonostante tale connotazione, la somatoparafrenia non è un disturbo psichiatrico e non si presenta in comorbilità con altri disturbi di questo tipo.

Il vissuto del paziente è di non-appartenenza per cui non riconosce l’arto come proprio ma lo attribuisce a un parente, al medico o a qualcun altro. Di fronte ai tentativi di razionalizzare l’esperienza da parte di chi gli sta intorno, il paziente risponde spesso con un atteggiamento confabulatorio e di giustificazione delle sue credenze deliranti.

La somatoparafrenia non è semplicemente la conseguenza di un deficit senso-motorio ma un fallimento nella capacità di creare un collegamento tra l’esperienza senso-motoria primaria e il sé; per tale motivo è annoverabile tra i deficit specifici del senso di appartenenza del corpo.

Nei pazienti somatoparafrenici sono spesso riscontrabili diminuite capacità attenzionali, un’alterata rappresentazione del corpo e deficit propriocettivi. Secondo alcuni autori (Vallar & Ronchi, 2009) essa emergerebbe da un deficit di integrazione multisensoriale e della rappresentazione spaziale del corpo.

Un’altra ipotesi molto affascinante riguarda la dissociazione tra la percezione corporea in prima persona e in terza persona testata sperimentalmente tramite uno specchio (Fotopoulou et al., 2011). In un interessante studio i pazienti somatoparafrenici attribuivano l’arto plegico sinistro a qualcun altro nella condizione di osservazione diretta, ma il senso di ownership dello stesso arto incrementava in maniera statisticamente significativa nella condizione di osservazione allo specchio.

Quindi in base al tipo di visione (in prima persona o in terza) l’attribuzione dell’arto a se stessi o ad altri può variare. La condizione di visione in terza persona non abolisce però la somatoparafrenia, a dimostrazione del fatto che il senso di ownership rimane dominato da un’alterata rappresentazione corporea in prima persona che non può essere integrata con altri segnali. Tuttavia tali risultati suggeriscono la presenza di network neuronali (probabilmente comprendenti le aree perisilviane) deputati all’integrazione di diverse rappresentazioni coporee.

Diversi sono gli studi che hanno tentato di identificare le basi neuroanatomiche della somatoparafrenia. Molti di questi presentano campioni non molto ampi e paragonano pazienti con somatoparafrenia, con anosognosia e con neglect senza anosognosia; bisogna tener conto che le differenze tra le diversi situazioni sono molto sfumate. In due studi effettuati a 20 anni di distanza l’uno dall’altro, Feinberg (1990; 2010) identifica danni alle strutture temporo-parientali in modo trasversale alle condizioni di neglect, anosognosia e somatoparafrenia, mentre nei pazienti somatoparafrenici una lesione più estesa al lobo frontale mediale destro e alle strutture orbito-frontali.

Quindi, mentre lesioni nelle aree temporo-parietali, presumibilmente legate al neglect, sembrano essere critiche per l’insorgere della manifestazione anosognosica e somatoparafrenica, sarebbero le aree più di tipo frontale a essere determinanti per la sola somatoparafrenia. Più recentemente (Gandola et al., 2012; Romano et al., 2014) nei pazienti somatoparafrenici sono stati riscontrati non solo danni in aree corticali ma anche alla sostanza bianca nell’area della corona radiata, alla sostanza grigia sottocorticale (talamo, gangli della base, amigdala, ippocampo) e alla parte posteriore della capsula interna, tutto localizzato nell’emisfero destro.

La somatoparafrenia è un sintomo acuto e non cronico; può durare ore, settimane ma talvolta anche anni. Grazie a tecniche come la stimolazione calorica vestibolare si può ottenere una remissione, seppur temporanea, della sintomatologia (Ronchi et al., 2013).

Questi dati fanno pensare al fatto che la somatoparafrenia possa non essere solo l’esito di un danno anatomico ma un deficit funzionale transitorio che può scomparire con un’adeguata stimolazione delle componenti associate alla rappresentazione corporea. Pertanto emerge la necessità di approcciarsi alla sindrome in maniera olistica (Feinberg et al., 2014) considerando componenti cognitive, neuroanatomiche, psicologiche e non di meno motivazionali (diversi sono infatti gli studi che vedono nella confabulazione una modalità per gestire le situazioni spiacevoli creando false credenze che rendano maggiormente accettabile la realtà).

 

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Confidare in Dio rende più imprudenti?

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Uno studio pubblicato su Psychological Science prova a spiegare come la presenza di continui riferimenti a Dio possa influenzare le scelte individuali e come coloro che credono nella provvidenza divina siano più disposti a prendere rischi perché fiduciosi in un Dio che li proteggerà da eventuali conseguenze negative.

La fede è un buon alleato per superare situazioni difficili: avere fiducia che Qualcuno abbia dei piani per tutti dà significato agli eventi e aiuta ad avere maggiori speranze e un pensiero più positivo per il futuro. Ma se tutta questa fiducia rendesse anche meno cauti?

È quanto sostiene uno studio pubblicato su Psychological Science che prova a spiegare come la presenza di continui riferimenti a Dio possa influenzare le scelte individuali e che coloro che credono nella provvidenza divina siano più disposti a prendere rischi perché sono fiduciosi del fatto che Dio li proteggerà da eventuali conseguenze negative.

Sembrerebbe un’idea contraria a quanto dimostrato da molti studi che documentano come la religione e la partecipazione attiva alle sue attività siano invece associate a una diminuzione dei comportamenti a rischio come l’abuso di sostanze o il gioco d’azzardo, tuttavia Kupor e colleghi fanno notare che i rischi esaminati negli studi precedenti avevano tutti una componente morale negativa. I ricercatori hanno ipotizzato che l’effetto potesse essere diverso senza questa connotazione morale.

Per testare questa ipotesi hanno coinvolto circa 900 soggetti in una serie di sondaggi online il cui compito principale era fare delle scelte o prendere delle decisioni, ad una parte di questi partecipanti veniva inoltre fatto riferimento a Dio tramite giochi di parole o letture di brevi paragrafi sul tema prima di iniziare il sondaggio.

I risultati mostrano che i partecipanti a cui era stato sollecitato il pensiero di Dio prima di effettuare la propria scelta erano più disposti a scegliere l’opzione più rischiosa (95.5%) rispetto ai partecipanti a cui non era stato menzionato Dio (84,3%).

Inoltre quando veniva fatto esplicito riferimento alla divinità i partecipanti percepivano meno pericolo in diversi comportamenti rischiosi e nel momento di una eventuale perdita rivolgevano i sentimenti negativi verso Dio, a conferma delle aspettative di protezione e il disappunto rispetto all’esito considerato a quel punto colpa Sua.

Ovviamente questo effetto non è universale, nelle culture in cui Dio non è una forza protettiva le persone non risentiranno della stessa influenza, ma è anche vero che sono milioni le persone nel mondo che tendono a vedere Dio come una fonte di protezione e sicurezza, motivo per cui la serie di studi condotti usando diverse misurazioni del rischio e diversi tipi di sollecitazioni, mostrano che questo genere di riferimenti modulano la percezione e il coinvolgimento degli individui nell’assumersi rischi non-morali.

 

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