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Consapevolezza corporea: Neglect, Anosognosia e Somatoparafrenia

La mancanza di consapevolezza del proprio deficit, o il disinteresse verso le sue conseguenze, rappresentano un grave ostacolo alla riabilitazione e influenzano sicuramente la qualità della vita sia del paziente che dei suoi familiari.

Giuro su Dio, su quello che vuole, che io non… Uno dovrebbe saper riconoscere il proprio corpo, cos’è e cosa non è suo. Ma questa gamba, questa cosa,” ebbe un altro brivido di ripugnanza “non mi convince, non la sento vera… E poi non mi sembra una parte di me.

Un giovane Oliver Sacks, chiamato urgentemente per un consulto, arriva in una camera di ospedale e trova questo signore, terrorizzato e disgustato, che gli rivolge queste parole. Il paziente afferma di aver trovato nel suo letto una gamba recisa; dopo essersi dato come unica spiegazione plausibile quella di uno stupido scherzo fatto da qualcuno appartenente allo staff dell’ospedale, scocciato, decide di buttarla giù dal letto. Ma insieme alla gamba cade dal letto anche lui. La gamba, infatti, era la sua.

Nel breve resoconto riportato dallo stesso Oliver Sacks nel libro “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” non è riportata la causa del ricovero o gli sviluppi della situazione clinica. Ma è davvero possibile non riconoscere una parte del proprio corpo? Possiamo essere addirittura disgustati dalla nostra gamba o dal nostro braccio?

Il senso di noi stessi, il modo in cui il corpo vede se stesso, è mediato dalla propriocezione. Insieme al sistema visivo e al sistema vestibolare, essa collabora a restituirci il senso del corpo. Da un punto di vista neuroanatomico tale fenomeno integra componenti che vanno dal sistema nervoso periferico alla corteccia cerebrale passando per strutture sottocorticali. La parte sinistra della corteccia somatosensoriale sembra avere un ruolo maggiore per quanto riguarda l’orientamento del corpo, mente quelle destra è più legata a tutti quei fenomeni relativi alla consapevolezza corporea. L’emisfero destro, infatti, sembra avere un ruolo pregnante nell’integrazione somatosensoriale per quanto riguarda gli stimoli dell’emisoma controlaterale ma anche per quelli dell’emisoma ipsilaterale.

La Negligenza Spaziale Unilaterale (NSU) rappresenta una condizione nella quale, in seguito a una lesione cerebrale, il paziente perde la capacità di esplorare l’emicampo visivo controlaterale alla lesione (il neglect è più frequente e più grave con lesioni nell’emisfero destro, di conseguenza l’emicampo “negato” è quello sinistro). Il paziente con neglect personale perde la consapevolezza dell’emisoma controlesionale. I pazienti possono presentare un neglect grave, medio o lieve con maggiore o minore consapevolezza. Nei casi gravi è presente una forte componente di anosognosia (mancanza o scarsa consapevolezza di un deficit motorio o cognitivo, senza che sia necessariamente correlato a un deficit intellettivo) e molto spesso anosodiaforia (ovvero assenza di preoccupazione per la malattia). Naturalmente non si parla di fenomeni “tutto-o-niente” ma il grado di consapevolezza può variare lungo un continuum.

Il termine misoplegia è stato coniato da Critchley e si riferisce alla condizione di odio o disgusto che il paziente prova verso l’arto plegico. Manifestazioni minori di questa condizione possono essere le aggressioni verbali rivolte all’arto, ma comunemente la misoplegia comprende atti fisici rivolti contro l’arto plegico.

La somatoparafrenia, invece, è una forma di asomatognosia che si manifesta come un delirio selettivo verso l’arto plegico o paretico. Nonostante la connotazione delirante non si associa ad altri sintomi o disturbi psichiatrici. E’ un sintomo produttivo spesso associato a neglect extra-personale che fortunatamente risulta essere acuto e fluttuante. Il vissuto esperito dal paziente può essere definito “non-belonging feeling” in quanto egli non riconosce come proprio l’arto plegico che viene solitamente attribuito a un parente, a un familiare, al medico. Tale sintomo compare solo se il paziente viene interrogato quindi il suo tasso di prevalenza può non essere veritiero. Inoltre il paziente persiste nelle sue credenze trovando giustificazioni che vadano a confermare la convinzione di non appartenenza dell’arto che gli viene mostrato o fatto toccare.

La somatoparafrenia si manifesta spesso in associazione con l’eminegligenza spaziale unilaterale, l’emiplegia e l’anosognosia; non è ancora ben chiaro se somatoparafrenia e anosognosia siano dissociabili o meno. In un recente studio Invernizzi et al. (2013) hanno riscontrato, su un campione di 75 pazienti, 5 casi di somatoparafrenia senza anosognosia per l’emiplegia. Da un punto di vista neuroanatomico le aree coinvolte non erano assolutamente sovrapponibili a quelle dei pazienti che presentavano anosognosia per l’emiplegia. Infatti mentre nella somatoparafrenia sembrano essere maggiormente danneggiate aree sottocorticali, i fasci di sostanza bianca e la corteccia orbito-frontale (Feinberg et al., 2010), nell’anosognosia per l’emiplegia sembrano coinvolte aree frontali e pre-frontali. La frequente co-presenza dei due sintomi può essere ricondotta al grado maggiore o minore di sovrapposizione delle aree coinvolte; sicuramente sono più rari i casi in cui vengono per così dire “risparmiati” i lobi frontali.

Un ulteriore studio condotto da Gandola e collaboratori (2012) mostra come, oltre ad essere coinvolte le aree corticali solitamente associate alla NSU (quindi la corteccia fronto-temporo-parietale destra), i pazienti somatoparafrenici mostravano lesioni aggiuntive alla sostanza bianca e ad alcune aree sottocorticali (talamo, gangli della base e amigdala) e ad altre aree corticali come il giro frontale inferiore, il giro post-centrale e l’ippocampo. Il coinvolgimento delle strutture corticali profonde e sottocorticali potrebbe essere correlato al ridotto senso di familiarità che questi pazienti esperiscono verso il proprio arto plegico.

Esperimento della mano di gomma 2 - Immagine di proprietà di: John Russell / Vanderbilt University
Esperimento della mano di gomma. Rubber Hand Illusion

Tuttavia non sembrano ancora chiari i meccanismi funzionali alla base della somatoparafrenia e quali siano i punti in comune e non con l’anosognosia. Inoltre non sono stati ancora approfonditi i motivi per cui la somatoparafrenia è un sintomo così fluttuante: probabilmente entrano in gioco meccanismi di plasticità corticale. Manipolazioni sperimentali, anche di tipo verbale, potrebbero portare ad una maggiore comprensione della condizione e del vissuto del paziente.

La mancanza di consapevolezza del proprio deficit, o il disinteresse verso le sue conseguenze, rappresentano un grave ostacolo alla riabilitazione e influenzano sicuramente la qualità della vita sia del paziente che dei suoi familiari. Proprio per questo motivo è importante conoscere e riconoscere queste situazioni, quindi sviluppare strumenti adeguati per la loro rilevazione; in questo modo sarà possibile intervenire e ricercare le strategie più adeguate al fine di migliorare la condizione del paziente e di chi gli sta vicino.

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BIBLIOGRAFIA:

La Terapia Metacognitiva Interpersonale e le domande stupide

Il senso di direzione e di obiettivo condiviso con il paziente, la possibilità di trasmettere al paziente qual è il vero focus terapeutico, ovvero un modo diverso e non intellettualistico di raccontarsi e di vivere come potrebbe essere nel caso della TMI, oppure – come è già nel caso della MCT – un modo diverso di gestire l’attenzione, danno alla terapia una forte marcia in più e diminuiscono il senso di caoticità insito in tutte le terapie.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) di Dimaggio, Popolo e Salvatore è uno dei modelli cosiddetti di terza ondata che negli ultimi anni stanno cambiando il modo di fare terapia. Ho potuto, durante l’ultimo fine settimana, godermi l’esposizione diretta del modello da parte di uno dei tre autori in persona, Raffaele Popolo. È stato un bel seminario, stimolante e anche divertente (VEDI EVENTO). Sono emerse le differenze tra la TMI e la MCT di Wells, ma anche rispetto alle fasi precedenti di sviluppo della TMI, quando ancora non aveva un nome proprio ed era il prodotto del gruppo coordinato da Antonio Semerari e del Terzo Centro, dove lavoravano Dimaggio e Popolo.

Rispetto alla fase precedente, la TMI presenta una maggiore enfasi sugli elementi metacognitivi. In particolare, almeno dal mio punto di vista, nella TMI si accentua l’intervento di modifica dei processi di pensiero. Per Dimaggio e i suoi collaboratori, il problema funzionale dei pazienti con disturbo di personalità e/o psicotico (i bersagli clinici preferiti della TMI) è uno stile di pensiero peculiarmente intellettualizzato, astratto, generico e al tempo stesso contorto, in certo senso ideologico e poco capace di descrivere con semplicità i propri stati mentali e –ancor meno- quelli altrui. Questa disfunzione gioca nella TMI lo stesso ruolo che gioca la disfunzione attentiva nella Metacognitive Therapy (MCT) di Wells. E, come accade nella MCT di Wells, il riaddestramento della TMI mira a ricostruire uno stile di pensiero congruo ed emozionalmente regolato.

Non è solo teoria. Dimaggio e collaboratori hanno fatto passi avanti nella capacità di concepire e gestire un protocollo efficiente. Hanno capito l’importanza terapeutica di un modello di funzionamento condiviso con il paziente. Non è ancora chiaro quanto abbiano capito come faccia bene alla terapia condividere in maniera insistente ed esplicita questo modello con il paziente. Mentre nelle spiegazioni di Popolo l’importanza del modello era chiara, negli spezzoni audio di seduta sembrava che il terapista tendesse ad agire in maniera più coperta, alla Fonagy, ovvero guidando delicatamente il paziente verso la costruzione dello stile di pensiero più funzionale ma senza descrivere con chiarezza dove si va a parare. O almeno non subito.

In altre parole, Dimaggio, Popolo e Salvatore danno molta importanza alle cosiddette “domande stupide”, domande che essi oppongono alle elucubrazioni astratte dei loro pazienti incoraggiandoli a essere più concreti e precisi nei loro discorsi, a preferire la descrizione accurata delle situazioni e degli stati mentali piuttosto che offrire generiche spiegazioni intellettualizzanti. Questo si ottiene attraverso domande volutamente semplici e concrete.

Per esempio, di fronte a un paziente paranoico che ammannisce la sua visione ostile e diffidente degli altri, magari espressa nella forma povera, irrigidita e stereotipata di un proverbio come potrebbe essere “fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio” oppure ingannevolmente ricca ma al fondo altrettanto misera di logorroiche considerazioni sapienziali sulla miseria umana, il terapista TMI oppone costantemente domande come: “mi può fare un esempio in cui le è capitato di pensare queste cose?” “mi può raccontare una situazione che le ha fatto pensare queste cose che mi ha detto?” “Mi scusi, prima di volermi spiegare il senso di questo episodio, mi dica: quando è avvenuto tutto questo? Che periodo era? Che giorno? Dove di trovava? Chi c’era con lei?” e così via. L’obiettivo non è confutare il paziente, ma accompagnarlo a una visione più complessa degli episodi che vada oltre i suoi stereotipi, incoraggiandolo a produrre narrazioni, racconti, memorie autobiografiche la cui ricchezza emotiva e interpersonale non possa essere ingabbiata in un proverbio popolare o in una visione ideologica del mondo.   

Questa, ripeto, è la parte più interessante. Che andrebbe forse accentuata. Le porzioni del modello dedicate ai cicli interpersonali e alla relazione terapeutica, pur affascinanti, andrebbero a mio parere ridimensionate. In una visione scientificamente economica, riempirsi la testa di modelli interpersonali potrebbe essere controproducente per il terapeuta. In fondo un protocollo è sempre fatto di un’idea clinica semplice cui corrisponde un intervento altrettanto semplice che si può e si deve proporre e riproporre al paziente ripetutamente. Nel caso della TMI, l’intervento caratterizzante è questa idea delle domande “stupide” corroborata dall’ipotesi dello stile di pensiero non ideologico e non giudicante come cura ai processi disfunzionali del border, che tendono al generico razionalizzante.  

Mi chiedo anche se sia proprio necessario somministrare questo intervento al paziente in una forma che mi pare prevalentemente non esplicita. Ovvero senza comunicare chiaramente al paziente che buona parte del suo problema è questo continuo elucubrare astratto (che della scuola di Sassaroli chiameremmo “rimuginare”), elucubrare che va interrotto sostituendolo con uno stile più vicino alla semplicità e all’immediatezza dell’esperienza emotiva.

Forse Dimaggio esercita già questo livello di condivisione esplicita con i suoi pazienti, o forse no. In uno stile di terapia protocollata, immagino che una seduta TMI dovrebbe iniziare sempre con la condivisione forte del modello, del tipo:

[blockquote style=”1″]Finora abbiamo visto che il suo problema è che, in situazioni per lei problematiche, lei si rifugia in uno stile di pensiero che abbiamo chiamato insieme intellettuale e astratto, pieno di spiegazioni, valutazioni e giudizi e povero di racconti e di vita; in questa terapia stiamo apprendendo a raccontare e rivivere le situazioni che la fanno soffrire in maniera meno giudicante e più narrativa. Anche in questa seduta la invito a raccontarmi alcuni episodi della settimana, stando attento al suo stile di pensiero e di racconto, oltre che agli episodi in sé…[/blockquote]

In uno stile più narrativo e rapsodico probabilmente il terapeuta non dà istruzioni, o non le dà sistematicamente e in maniera formalizzata a inizio seduta ma lascia le mosse d’apertura al paziente, riservandosi poi di aggiustare il tiro giocando più di rimessa, insomma reagendo al paziente in uno stile di guida “from behind”.

Un secondo accorgimento che forse differenzia una terapia protocollata da una più libera è la valutazione quantitativa effettuata in ogni seduta o quasi. Sono i famigerati “quindici questionari a seduta somministrati al paziente” che Dimaggio rimprovera a Wells. Non è così, il numero è più basso per fortuna. Fosse così, effettivamente l’accorgimento sarebbe inattuabile, oltre che intollerabilmente sadico e gravoso. In realtà il questionario è uno solo e consta di una decina di domande, domande del resto molto simili tra loro, che ben presto si riducono a due o tre e che occupano nel peggiore dei casi solo gli ultimi cinque minuti di seduta.

Una simile operazione, me ne rendo conto, è molto lontana dalla nostra esperienza di terapisti, non solo in Italia. Anche in UK si tratta di un accorgimento ancora non così diffuso al di fuori dei grandi centri universitari dove si fanno le terapie protocollate. Detto questo nella mia esperienza con l’MCT l’accorgimento, se eseguito bene, con autorevolezza e concisione – ovvero poche domande mirate che concentrano in due tre dati il livello di progresso del paziente- mi è diventato ben presto un alleato prezioso, da che mi era sembrato nei primi tempi un goffo tentativo di quantificazione e una sgradevole interruzione del flusso della conversazione.

Il senso di direzione e di obiettivo condiviso con il paziente, la possibilità di trasmettere al paziente qual è il vero focus terapeutico, ovvero un modo diverso e non intellettualistico di raccontarsi e di vivere come potrebbe essere nel caso della TMI, oppure – come è già nel caso della MCT – un modo diverso di gestire l’attenzione, danno alla terapia una forte marcia in più e diminuiscono il senso di caoticità insito in tutte le terapie.

Comprendo bene la possibile maggiore difficoltà di applicare questi accorgimenti ai pazienti TMI con disturbo di personalità, tendenzialmente meno alleati rispetto a quelli con disturbi emotivi di I asse. Comprendo anche che forse nel caso della TMI una scala di valutazione sarebbe più indicata di un questionarietto, trattandosi di valutare stili di pensiero e non metacredenze. Rimane il dubbio che parte delle difficoltà siano generate non solo da barriere create dal paziente, ma anche da una semplice disabitudine dei terapisti a gestire in maniera meno rapsodica e libera la seduta. Questi dubbi me li chiarirò nel prossimo seminario sulla TMI, stavolta condotto da Dimaggio in persona. Tenetevi in contatto.  

 

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Terapia Metacognitiva Interpersonale di Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tristezza: a volte basta un sorriso! – Introduzione alla Psicologia nr.04

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (04)

 

 

La tristezza è un’emozione che manifestiamo in seguito a una serie di eventi sfortunati, dall’esito nefasto, rispetto ai quali non riusciamo a individuare nessuna possibile alternativa.

 

Oggi ci imbatteremo in un tortuoso sentiero di montagna, in discesa, che a un certo punto ci porta in una strada priva d’uscita. Cosa fare? Abbiamo perso la strada, non siamo in grado di ritrovarla e lo sconforto non mancherà ad arrivare. Capita nella vita di sentirsi senza nessuna alternativa percorribile al punto che, in alcune occasioni, abbandoniamo la speranza e la voglia di cercare. Chiaramente in quei momenti siamo pervasi da un unico stato d’animo: la tristezza.

La tristezza è un’emozione negativa che si sperimenta nel momento in cui perdiamo qualcosa di caro irrimediabilmente. A quel punto possiamo diventare molto tristi e continuiamo a ruminare in maniera autosvalutativa.

La tristezza è un’emozione che manifestiamo in seguito a una serie di eventi sfortunati, dall’esito nefasto, rispetto ai quali non riusciamo a individuare nessuna possibile alternativa. Quindi, quando perdiamo qualcosa a cui teniamo, l’umore precipita e ci critichiamo autosvaluatandoci per non aver saputo affrontare adeguatamente la situazione.

Di conseguenza la postura diventa ricurva, come se fosse di chiusura verso qualsiasi tipo di alternativa possibile, e la mimica facciale assume tratti caratteristici, come fronte corrugata, labbra piegate e sguardo perso nel vuoto.

Esistono agiti comportamentali che spesso accompagnano questa emozione, si tratta di crisi di pianto, catatonia, mancanza di voglia di mangiare e in estrema ratio di vivere. Tutto questo è accompagnato da continue lamentele e recriminazioni sempre rivolte verso se stesso, nella percezione di non aver fatto abbastanza a per questo di non avere alternative.

Una persona triste non ha più mordente sia da un punto di vista relazionale sia sociale, per questo preferisce la solitudine in cui continua a pensare e ripensare a quello che ha perso. L’intensità emotiva varia in base all’importanza data all’oggetto perso.

Quindi, se mi lascia il mio ragazzo/a chiaramente divento molto triste, se perdo il mio iPad, sono triste, ma meno intensamente. In ogni caso è uno stato passeggero, a meno che non si cristallizzi. A quel punto diventa uno stato patologico che può diventare qualcosa di più della tristezza: depressione.

Attenzione, la tristezza non è la depressione. Quest’ultima è una patologia molto più invasiva e quantitativamente più invalidante. Porta ad avere una visione negativa di se stessi, del mondo e degli altri. La depressione è uno stato che può protrarsi e che in alcuni casi sfocia in situazioni funeste. Dalla depressione non si esce con un atto di volontà, ma tramite psicoterapia e terapia farmacologica.

Insomma, essere tristi non significa essere depressi, per questo basta a volte un sorriso, anche forzato, per far migliorare il tono dell’umore. Ricordate cosa diceva Mary Poppins? <<Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, la pillola va giù, la pillola va giù. Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, tutto brillerà di più!>>

 

 

 RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Il Venerdì della Scuola Cognitiva di Firenze: riparte il ciclo di seminari ad ingresso gratuito

scuola cognitiva di firenze

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Ciclo di Seminari

IL VENERDÌ DI SCF

I nostri seminari sono rivolti agli studenti della Facoltà di Psicologia ed ai giovani laureati che vogliano avvicinarsi alla Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale ed iniziare a conoscerne il funzionamento.

I Seminari si svolgono il primo venerdì di ogni mese dalle ore 10.00 alle 12.30 presso la sede SCF in Via delle Porte Nuove, 10 – Firenze.

INGRESSO GRATUITO

6 Marzo ore 10:00

“Terapia cognitiva in Adolescenza”

L’adolescenza è una fase di sviluppo che determina numerosi cambiamenti corporei, cognitivi e affettivi. Data la complessità dei mutamenti, l’adolescenza può configurarsi come una condizione di rischio per lo sviluppo di psicopatologia. Durante il seminario verranno affrontate le principali tappe dello sviluppo cognitivo e metacognitivo che portano alla costruzione dell’identità ed i quadri clinici che più frequentemente si riscontrano in psicoterapia cognitiva.

Dott.ssa Maria Sansone

Psicologa Psicoterapeuta

Centro Cognitivismo Clinico Sezione Infanzia e Adolescenza

 

Prossimi appuntamenti:

Venerdì 3 Aprile ore 10:00 – Il colloquio clinico in Adolescenza: valutazione e diagnosi. Dott.ssa Chiara Limina(Psicologa, Psicoterapeuta, socia SITCC)

Venerdì 8 Maggio ore 10:00 – La relazione terapeutica come strumento specifico in terapia cognitiva. Dott.ssa Linda Tarantino (Psichiatra, Psicoterapeuta, socia SITCC)

Venerdì 5 Giugno ore 10:00 – Dalla timidezza alla fobia sociale. Dott.ssa Linda Pagnanelli (Psicologa, Psicoterapeuta, socia SITCC)

Venerdì 3 Luglio ore 10:00 – Differenze tra CBT e DBT. Dott. Carmelo La Mela (Psichiatra, Psicoterapeuta, didatta SITCC)

Venerdì 4 Settembre ore 10:00 – Trauma e terapia EMDR. Dott. Gian Paolo Mazzoni (Psicologo, Psicoterapeuta, socio SITCC)

Venerdì 2 Ottobre ore 10:00 – L’evoluzione della terapia cognitiva attraverso il trattamento della depressione. Dott. Marco Baldetti (Psicologo, Psicoterapeuta, socio SITCC)

Venerdì 6 Novembre ore 10:00 – Approccio cognitivo nei disturbi di personalità. Dott.ssa Barbara Viviani (Psichiatra, Psicoterapeuta, socia SITCC)

Venerdì 4 Dicembre ore 10:00 – Le emozioni in terapia. Dott.ssa Annalisa Pericoli (Psicologa, Psicoterapeuta, socia SITCC)

 

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Fare la scuola di Psicoterapia conviene? Psicoterapia e Formazione

 

Gioco d’azzardo patologico: quando la mente è convinta che vincere sia un gioco

Carlo Buonanno, docente e didatta della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma. www.apc.it

 

L’incrollabile fiducia nella propria esperienza, l’errore fatale di attribuire ad una serie continua di perdite il segnale che al prossimo lancio si vince, la scrupolosa cura nell’esecuzione di rituali e comportamenti superstiziosi, imperativi per una vincita sicura. Tutto nella mente del giocatore.

È di qualche settimana fa la notizia del suicidio di un trentaquattrenne della provincia di Mantova. Giovane padre “malato di videopoker”, vittima della solitudine imposta da una condizione clinica che nei paesi anglosassoni viene definita Gambling Disorder.

Sul sito del Dipartimento delle Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, le stime relative alla grandezza del gioco d’azzardo patologico ci informano su una forbice che varia dall’0,5 al 2,2% della popolazione generale. Un fenomeno che, se consideriamo il picco (1.329.211), interesserebbe una città italiana della grandezza di una metropoli. In altre parole, è come se gli abitanti di Milano si esponessero al rischio quotidiano di dilapidare il proprio patrimonio, in preda all’irresistibile desiderio di puntare denaro e garantirsi un momentaneo ed appagante stato di eccitazione.

Eccitazione e delusione definiscono un’oscillazione che il giocatore d’azzardo conosce bene, ma dalla quale non riesce a difendersi. La trappola risiede nel senso di prestigio, di onnipotenza, oltre che nelle vivide fantasie di vincita che da un certo punto in poi diventano certezza di potersi rifare, irrinunciabile modulatore dell’umore depresso che consegue alle frequenti perdite. Da qui in poi, aumentano la frequenza del gioco e il desiderio di recuperare, ma diminuiscono le possibilità di sottrarsi a questo pericoloso inganno.

Una spirale sulla quale è possibile intervenire grazie a protocolli di psicoterapia cognitivo comportamentale che si basano sulla ristrutturazione di alcuni degli assunti centrali della mente del giocatore. Una di esse è l’illusione del controllo e cioè la granitica credenza di avere il potere di orientare gli eventi, influenzando risultati che rispondono solo (o forse neanche!) al caso. Uno degli effetti ascrivibili all’azione di questo stato mentale è lo sviluppo di strategie ad hoc tese a predire o determinare il risultato del gioco.

È quanto accade nei casinò di tutto il mondo. Giocatori che alla roulette scommettono più soldi se gli si offre la possibilità di lanciare personalmente la pallina, rispetto a quando il destino è nelle mani del croupier. A peggiorare le cose, l’attribuzione circa l’imminenza della vincita, vera e propria sensazione corporea che partecipa all’irresistibilità dell’impulso.

Ed ancora, l’incrollabile fiducia nella propria esperienza, l’errore fatale di attribuire ad una serie continua di perdite il segnale che al prossimo lancio si vince, la scrupolosa cura nell’esecuzione di rituali e comportamenti superstiziosi, imperativi per una vincita sicura. Tutto nella mente del giocatore. Un grumo che esercita il suo inarrestabile potere un attimo prima di decidere. Un attimo prima di scegliere su quale carta puntare, su come lanciare i dadi, su quali squadre scommettere. Su come scommettere. Un attimo prima di non sapere ciò che il giocatore dà quasi per scontato un attimo dopo aver puntato. Che si perde. Dignità e soldi. Affetti. E spesso la vita.

 

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Gioco d’azzardo: i fattori strutturali – Parte I

 

BIBLIOGRAFIA:

I benefici di lungo periodo di uno scandalo che investe il capo in azienda

FLASH NEWS

Ricerche attuali mostrano che scandali nei quali sono coinvolti capi di grandi aziende non hanno un impatto negativo a lungo termine e possono anzi sortire effetti positivi sui guadagni. 

Infatti, dagli studi emerge che le misure correttive messe in atto dopo un avvenimento scandaloso instillano fiducia nei clienti di tali imprese, aumentando i profitti di queste ultime fino a surclassare i rivali che non si sono macchiati l’immagine adottando condotte reprensibili.

Nonostante ciò, è bene sottolineare che le conseguenze a breve termine per gli azionisti sono piuttosto disastrose. I capi d’azienda che commettono frodi fiscali o prendono parte a interscambi commerciali poco puliti, costano molto caro ai propri azionisti nei giorni immediatamente successivi alla diffusione pubblica di tali notizie.

In uno studio che comprendeva l’analisi di 80 scandali finanziari avvenuti in USA, emerge che le quote sono tragicamente cadute in una percentuale compresa tra 6.5 e 9.5 percento nella mensilità successiva al misfatto, costando collettivamente ai soci circa 1.9 miliardi di dollari per ogni azienda coinvolta in uno scandalo. E non si tratta solo di condotte immorali in campo finanziario, ma avvenimenti di tale genere possono anche riguardare la sfera personale, come l’avere una relazione extraconiugale, mentire sul proprio curriculum o essere coinvolto in questioni di molestie sessuali.

Comunque, gli effetti negativi non durano a lungo. Tre anni dopo, il valore delle azioni delle stesse aziende coinvolte nella ricerca superava quello di altre imprese non coinvolte in alcuno scandalo. Nonostante tutto, infatti, le 80 compagnie studiate – che includono grandi nomi come Apple, Hewlett Packard, IBM, JP Morgan and Yahoo – mostrano un aumento di guadagni, che si verifica a partire da tre anni dopo lo scandalo.

La ricerca, condotta dal Dottor Surendranath Jory dell’University of Sassex, è stata pubblicata sul Journal of Applied Economics. Le imprese analizzate dallo studioso e dai suoi colleghi dell’East Carolina University e dell’University of Texas-Pan American erano state coinvolte in avvenimenti scandalosi in un periodo compreso tra il 1993 e il 2011. Nello studio veniva utilizzato il punteggio ROA (Return on Assets, che in italiano si potrebbe tradurre con l’espressione beni convertibili in liquidità) come misura dell’efficienza delle aziende nel convertire i loro beni in guadagni. Dai dati emerge che le aziende il cui Chief Executive Officer era stato coinvolto in uno scandalo guadagnavano il 10 percento in più delle compagnie rivali.

Secondo il Dottor Jory questo potrebbe essere dovuto al fatto che le misure di sicurezza messe in atto in seguito ad un evento collettivamente ritenuto immorale, misure quali ad esempio punizioni esemplari e maggiori controlli al fine di prevenire futuri abusi, apportino dei cambiamenti che rendono gli investitori maggiormente fiduciosi. Come dire, che se nessuno si augura che uno scandalo avvenga tra le proprie fila, può stare tranquillo che, dopo una grossa perdita iniziale, andrà tutto per il meglio.

 

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Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze.

Quando le vostre parole tradiscono le insicurezze, o le reali opinioni…

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Se mai vi trovaste ad aver bisogno di lasciare un paese in fretta – chi di noi non è mai stato oggetto di una caccia all’uomo al livello nazionale? – il mio consiglio è: non date mai per scontato che un aeroporto con la parola “internazionale” nel nome sia il posto migliore per prendere un volo per Rio de Janeiro. Da uno studio pubblicato di recente sul blog di psicologia Science Of Us è emerso che la parola “internazionale” è un segno di insicurezza: i piccoli aeroporti come il Norwich international airport la usano più di quelli grandi come Heathrow.

Lo psicologo Paul Rozin e i suoi colleghi hanno anche scoperto che è molto più probabile che gli studenti dell’università della Pennsylvania affermino che il loro ateneo fa parte della “Ivy league” rispetto a quelli di Harvard, che come tutti sanno fa parte di quel gruppo di prestigiose università statunitensi. Tra parentesi, lo studio è apparso su Psychological Science, che è esattamente il nome che ci aspetteremmo per una rivista di psicologia, visto che gli psicologi sono paranoicamente preoccupati di non essere considerati veri scienziati.

Il fascino delle insicurezze – Oliver BurkemanConsigliato dalla Redazione

Se mai vi trovaste ad aver bisogno di lasciare un paese in fretta – chi di noi non è mai stato oggetto di una caccia all’uomo al livello nazionale? – il mio consiglio è: non date mai per scontato che un aeroporto con la parola “internazionale” nel nome sia il posto migliore per prendere un volo per Rio de Janeiro. Leggi (…)

Tratto da: Internazionale

 

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Solitudine digitale e Intelligenza Artificiale: i chatbot possono davvero sostituire le relazioni umane?
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“Huda Parla Veloce” – Online il nuovo episodio col commento di Sandra Sassaroli
"Huda parla veloce" con inTHERAPY: online un nuovo episodio del podcast commentato dalla Dr.ssa Sandra Sassaroli
Sentirsi attraenti dopo il parto
La transizione alla genitorialità influisce su autostima, attrazione fisica e vita sessuale: uno studio indaga i vissuti dei neo genitori dopo la nascita
Intrappolati nei pensieri – Survey
Survey online per indagare l’effetto dell'umorismo e della comunicazione assertiva sul rimuginio legato all’ansia sociale
La donna neurodivergente – Report
Riflessioni dal corso “Profili diagnostici e bias clinici in Asperger/Autismo livello 1, ADHD, DSA e APC (Alto Potenziale Cognitivo)” - 6-7 e 8 marzo 2025
Quando scegliamo uno psicoterapeuta, chi ci garantisce che la psicoterapia sarà efficace? – David Clark dal World CBT Day
Il Prof. David Clark ha parlato dei modelli di psicoterapia efficace in occasione del World CBT Day 2025
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Psicofarmaci: l’Italia sempre più impasticcata. Soluzioni? Aumentare l’offerta di Psicoterapia e sostegno psicologico

[blockquote style=”1″]I dati del Rapporto Osmed 2014 diramati all’Aifa sono impietosi e allarmanti: nel nostro Paese il consumo di antidepressivi è divenuto talmente ampio da costituire, a detta dei vertici dell’agenzia, ‘una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica’. Durante i primi 9 mesi del 2014, i nostri concittadini hanno acquistato più antidepressivi, e contestualmente meno antibiotici e meno vaccini. Non c’è da stupirsi: da tempo la rabbia e la depressione vengono individuati da enti di ricerca e istituzioni quali fattori chiave della crisi sociale che stiamo attraversando. Ciò che invece stupisce è che si continui a trascurare l’opportunità di appropriatezza ed efficacia offerta dall’apporto di psicologi e psicoterapeuti, le cui potenzialità vengono tuttora colpevolmente trascurate dal Servizio Sanitario Nazionale. Curare la depressione costa poco rispetto ai costi diretti ed indiretti che genera: il rapporto Osmed ne è l’ennesima conferma…[/blockquote]

 

 

Boom antidepressivi. Gli psicologi: “I dati Aifa dimostrano che bisogna rafforzare psicoterapia”Consigliato dalla Redazione

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Allarme dell’Ordine del Lazio dopo i dati dell’ultimo rapporto Osmed che pongono gli antidepressivi tra le principali componenti della spesa farmaceutica pubblica. “Stupisce che si continui a trascurare l’opportunità di appropriatezza ed efficacia offerta dall’apporto di psicologi e psicoterapeuti”… (…)

 

SCARICA IL RAPPORTO OSMED 2014 (PDF)

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Articoli su: Psicofarmaci
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Gli psicofarmaci possono essere necessari del trattamento nel caso di patologie che riguardano la salute mentale, come funzionano?
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Il ruolo del farmaco nel setting psicoterapico: confini e potenzialità 
Introdurre nel setting psicoterapico uno psicofarmaco non costituisce un’operazione semplice, soprattutto a causa dei consolidati pregiudizi a riguardo
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Benzodiazepine e SSRI nel trattamento del disturbo di panico: un confronto
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L’uso di antidepressivi durante lo sviluppo può compromettere il desiderio sessuale delle donne in età adulta
Uno studio si è proprosto di esplorare le differenze nel desiderio e nel comportamento sessuale in adulti che hanno fatto uso di antidepressivi SSRI.
Diabete mellito gestazionale e assunzione di antidepressivi in gravidanza
Rischio di diabete mellito gestazionale per le donne in gravidanza che assumono antidepressivi  
Uno studio ha evidenziato un’associazione tra le donne in gravidanza che assumono antidepressivi e il rischio di sviluppare il diabete mellito gestazionale
Contraccetivi orali: l'utilizzo in adolescenza e la depressione in età adulta
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L'assunzione di contraccettivi orali durante l'adolescenza sarebbe un fattore di rischio per lo sviluppo del Disturbo Depressivo Maggiore in età adulta
Alzheimer: le ragioni della mancata sperimentazione dell'Etanercept
I brevetti nella produzione farmaceutica – Riflessioni sulla mancata sperimentazione di una molecola per la cura della Malattia di Alzheimer
Alzheimer: la sperimentazione di nuovi farmaci segue anche le logiche di profitto delle aziende farmaceutiche, come nel caso dell'Etanercept
SSRI: i meccanismi alla base di una mancata efficacia in alcuni pazienti
Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI): quali sono le ragioni per cui su alcuni pazienti non sono efficaci?
Un recente studio ha indagato le ragioni per cui alcuni pazienti si dimostrano non rispondenti agli SSRI, i farmaci più usati nella cura della depressione..
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Un cattivo matrimonio spezza davvero il cuore? Relazioni sentimentali & malattie cardiache

Una relazione sentimentale infelice potrebbe portare a un più alto rischio di malattie cardiovascolari, soprattutto nelle donne e in età avanzata. Cosa fare per evitare un cuore spezzato? La ricerca e l’articolo segnalato raccomandano di curare le cattive relazioni matrimoniali ad ogni età, ricorrendo a sostegno psicologico e a percorsi terapeutici di coppia.   

 

[blockquote style=”1″]Tradimenti, litigi e crisi di coppia spezzano il cuore degli innamorati nel vero e concreto senso della parola, soprattutto se essi sono anziani e se donne. Le valutazioni operate nel quinquennio studiato dalla équipe, hanno mostrato che, specie in caso di tradimento, le donne tendono ad ammalarsi di patologie cardiache più degli uomini, un fenomeno che in qualche caso conduce alla morte. Analogamente un coniuge che critica o che è costantemente esigente, è dannoso per la situazione cardiovascolare della moglie…[/blockquote]

Matrimonio infelice, il cuore si ammala Consigliato dalla Redazione

Relazioni sentimentali e malattie cardiache: un cattivo matrimonio spezza davvero il cuore - Immagine: 70248072
Le coppie che vivono dentro un matrimonio cattivo hanno un rischio maggiore di malattie cardiovascolari rispetto a quelle che vivono un buon matrimonio. (…)

Tratto da: Medicitalia.it

 

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La coppia omosessuale e l’omogenitorialità

L’orientamento sessuale dei genitori influisce sui figli: i bambini di genitori omosessuali presentano una minor conformità con gli stereotipi di genere, più apertura a esperienze omosessuali e più capacità critica nell’affrontare stereotipi e pregiudizi.

Ci sono delle differenze significative tra coppie eterosessuali e omosessuali che possono influire negativamente sul benessere di un figlio? La letteratura scientifica, attraverso studi comparativi con coppie eterosessuali senza figli (sia sposate che conviventi) ha documentato come queste ultime presentino delle similitudini con le coppie gay e lesbiche per quanto riguarda la durata del rapporto, la soddisfazione di coppia, le modalità di far fronte ai conflitti, l’intimità fisica, la vicinanza affettiva ed emotiva, le minacce di allontanamento o i periodi di separazione transitoria (Kurdek, 2004, 2006, 2009).

Infatti, come le coppie eterosessuali, un gran numero di gay e lesbiche vuole costruire delle relazioni stabili, durature (Johnson, 1990; McWhiter, Mattison, 1984; Peplau e Spalding, 2000) e spesso riesce in questo suo proposito. Diversi ricercatori statunitensi tra cui Kurdek (2003), Nardi (1997) e Peplau e Spalding (2000) hanno rilevato che un consistente numero di coppie omosessuali conduce una relazione dalla durata più che decennale. In Italia, studi di tipo descrittivo (Barbagli e Colombo, 2007) hanno attestato come il 40-49% dei gay e il 50-55% delle lesbiche vive una relazione fissa.

L’insieme dei dati a disposizione ci dimostra come le coppie omosessuali “funzionano” in modo molto simile a quelle eterosessuali, in termini di soddisfazione, impegno reciproco, durata e stabilità del legame, distogliendo l’attenzione dall’orientamento sessuale come fattore discriminante e introducendo nuove curiosità nell’indagare le specificità delle coppie gay e lesbiche.

A tal proposito è stata rilevata una maggiore propensione a una divisione più paritaria dei compiti domestici da parte delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali (Blumstein, Schwartz, 1983; Carrington, 1999; Green, Bettinger e Zacks, 1996; Barbagli e Colombo, 2007; Coltrane, 2000; Kurdek, 2006; Solomon, Rothblum e Balsan, 2005).

Anche per quanto riguarda l’organizzazione del potere e della presa di decisione nelle coppie, le ricerche evidenziano come le coppie omosessuali siano più egualitarie e paritetiche (Peplau e Cochran, 1980) e come questa equità sia associata a dinamiche della coppia più funzionali: una più soddisfacente risoluzione dei conflitti e un minore tasso di violenza fisica/psicologica (Borghi, 2006).

Infine, le ricerche sulle tematiche di discussione inquadrano aree comuni fra le coppie omosessuali ed eterosessuali, riportando somiglianze per quanto riguarda frequenze e argomenti: in generale sembra che gli argomenti su cui si confrontano i partner di una coppia siano connessi agli affetti, alle finanze e al mantenimento della casa (Kurdek, 1994, 2005, 2006; Metz, Rosser e Strapko, 1994). Queste caratteristiche delle coppie omosessuali sono sufficienti a garantire un adeguato sostegno protettivo, emotivo ed educativo ad un bambino?

Gli studi effettuati da Stacey e Biblarz (1981 – 1998, citati in Bottino e Danna, 2005) portano ad evidenziare come l’orientamento sessuale dei genitori influisca sui figli: i bambini di genitori omosessuali presentano una minor conformità con gli stereotipi di genere, più apertura a esperienze omosessuali e più capacità critica nell’affrontare stereotipi e pregiudizi.

Eppure, non sono emerse discrepanze per ciò che concerne il benessere psichico: Stacey e Biblarz (2001) riportano i risultati di studi che affermano l’assenza di differenze nei livelli di ansia, di autostima e di altre dimensioni legate allo sviluppo psicologico del bambino. Inoltre, non è emersa alcuna relazione tra l’orientamento sessuale dei genitori e le abilità cognitive dei figli anche se “finora nessun lavoro ha confrontato la realizzazione a lungo termine dei bambini nell’istruzione, nell’occupazione, nel reddito e in altri ambiti della vita” (Stacey e Biblarz, 2001, p. 171).

Altre ricerche hanno trovato che i figli cresciuti con genitori omosessuali presentano le stesse caratteristiche di bambini di età analoga cresciuti con genitori eterosessuali per ciò che concerne lo stile genitoriale, l’equilibrio emozionale e l’orientamento sessuale dei figli (Allen e Burrel, 1996), e che non esistono particolari differenze nell’attitudine materna né per quanto riguarda l’acquisizione del concetto di Sé (Mucklow e Phelan, 1979).

Tuttavia, “le poche differenze significative effettivamente trovate tendono a favorire i figli di madri lesbiche” (Stacey e Biblarz, 2001, p. 172): la review presa in esame suggerisce che in media le madri (madri lesbiche, madri eterosessuali e co-madri) tendono a un maggiore investimento nella cura dei figli rispetto ai padri, e che siano più adatte alle attività di cura cruciali per il loro sviluppo cognitivo, emotivo e sociale (Furstenberg e Cherlin, 1991; Simons et al., 1996). Secondo Stacey e Biblarz, questi risultati riflettono qualcosa di più di un semplice “effetto di genere”, poiché l’orientamento sessuale è la “variabile esogena” chiave per la quale genitori di sesso diverso o uguale si uniscono e costituiscono nuclei familiari.

La discussione dei risultati degli studi sintetizzati dalla ricerca portano Stacey e Biblarz a considerare come gli stessi risultati possano essere influenzati da aspetti e fattori che non sono direttamente inerenti all’orientamento sessuale.

In definitiva, la maggior parte delle differenze evidenziate dalle ricerche, quando non favorisce i genitori omosessuali, è un effetto secondario del pregiudizio sociale oppure rappresenta una di quelle differenze che le società democratiche dovrebbero rispettare e proteggere. Stacey e Biblarz propongono infatti di considerare l’omofobia e le discriminazioni i soli motivi per cui l’orientamento sessuale dei genitori può avere influenza sui figli.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La famiglia omosessuale in Italia tra dogmi e ricerca scientifica

BIBLIOGRAFIA:

  • Allen, M., e Burrell, N. (1996). Comparing the Impact of Homosexual and Heterosexual Parents on Children: Meta-Analysis of Existing Research. Journal of Homosexuality, 32, pp. 19-35.
  • Barbagli, M., e Colombo A., (2007). Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia. Bologna: Il Mulino.
  • Blumstein, P., Schwartz, P. (1983). American Couple: Money, Work, Sex. New York: Morrow.
  • Borghi, L. (2006). Tramanti non per caso: divergenze e affinità tra lesbo-queer e terzo femminismo. In T. Bertilotti, C. Galasso, A. Gissi e F. Lagorio (a cura di), Altri femminismi. Corpi culture lavoro. Roma: Manifesto Libri
  • Bottino, M., e Danna D., (2005). La Gaia Famiglia. Che cos’è l’omogenitorialità. Trieste: Asterios.
  • Carrington, C. (1999). No Place Like Home: Relationship and Family Life among Lesbians and Gay Men. Chicago: University of Chicago Press.
  • Coltrane, S. (2000). Research on Household Labor: Modeling and Measuring the Social Embeddedness of Routine Family Work. Journal of Marriage and the Family, pp. 1208-33.
  • Costantini, G. (2010). L’omosessualità e il desiderio dell’omogenitorialità: dalla coppia omosessuale ai bisogni del bambino. Tesi di laurea non pubblicata, Facoltà di Psicologia – Università degli Studi dell’Aquila, L’Aquila, Italia.
  • Furstenberg, F.F. Jr, e Cherlin, A. (1991). Divided Families. Cambridge: Harvard University Press.
  • Green, R. J., Bettinger, M., e Zacks, E. (1996). Are Lesbian Couples Fused and Gay Male Couples Disengaged? Questioning Gender Straightjackets. In J. Laird, R. J. Green (a cura di.), Lesbians and Gay in Couples and Families: Handbook for Therapists (pp 185-230). San Francisco: Jossey-Bass.
  • Johnson, S.E. (1990). Staying Power: Longterm Lesbian Couples. Tallahassee: Naid Press.
  • Kurdek, L.A. (2004). Are Gay and Lesbian Cohabiting Couples Really Different From Heterosexual Married Couples?. Journal of Marriage and Family, 66, pp. 800-900.
  • Kurdek, L.A. (2009). Assessing the Health of a Dyadic Relationship in Heterosexual and Same-Sex Partners. Personal Relationship, 16, pp. 117-27.
  • Kurdek, L.A. (2003). Differences between Gay and Lesbian Cohating Couples. Journal of Social and Personal Relationships, 20, pp. 411-36.
  • Kurdek, L.A. (2006). Differences between Partners from Heterosexual, Gay, and Lesbian Cohabiting Couples. Journal of Marriage and Family, 68, pp. 509-28.
  • Kurdek, L.A. (2004). Gay Men and Lesbians: The Family Context. In M. Coleman e L. Ganong (a cura di), Handbook of contemporary families: considering the past, contemplating the future (pp.96-115). Thousand Oaks: Sage.
  • Kurdek, L.A. (2005). Gender and Marital Satisfaction Early in Marriage: A Growth Curve Approach. Journal of Marriage and the Family, 67, pp. 68-84.
  • Kurdek, L.A. (1994). The Nature and Correlates of Relationship Quality in Gay, Lesbian, and Heterosexual Cohabiting Couples: A Test of the Individual Difference, Interdependedence, and Discrepancy Models. In B. Greene e G.M. Herek (a cura di.), Lesbian and Gay Psychology: Theory, Research, and Clinical Applications. Thousand Oaks: Sage.
  • McWhiter, D.P., e Mattison, A.M. (1984). The male Couple: How Relationship Develop. Englewood Cliffs: Patienche-Hall.
  • Metz, M.E., Rosser, B. R. S., e Strapko, N. (1994). Differences in Conflict Resolution, Styles among Heterosexual, Gay, and Lesbian Couples. Journal of Sex Research, 31, pp. 1-16, 1994.
  • Mucklow, B., e Phelan, G.K., (1979). Lesbian and Traditional Mothers Responses to Adult Response to child Behavior and Self- Concept. Psychological Reports, vol. 44.
  • Nardi, P.M. (1997). Changing Gay & Lesbian Images in the Media, in J. Sears, W. Williams (a cura di), Overcoming Heterosexim & Homophobia: Strategies that Work. New York: Columbia University Press.
  • Peplau, L.A., e Spalding, L.R., (2000). The Close Relationship of Lesbians, Gay Men, and Bisexuals. In C. Hendrick e S.S. Hendrick (a cura di), Close Relationship: A Sourcebook. Thousand Oaks: Sage.
  • Simons, R.L., et al., (1996). Understanding Differences between Divoced and Intact Families: Stress, Interactions, and Child Outcome. Thousand Oaks: Sage.
  • Solomon S., Rothblum E. D., e Balsam K.F., (2004). Pioneers in Partnership: Lesbian and Gay Male Couples in Civil Unions Compared with Those Not in Civil Unions, and Married Heterosexual Siblings. Journal of Family Psychology, 18, pp. 275-86.
  • Stacey, J., e Biblarz, T.J., (2001). (How) Does the Sexual Orientation of Parents Matter?. American Sociological Review, Vol. 66, pp. 159-183.

Empathy: The self other distinction. Role of the temporo-parietal junction in emotional empathy – Neuropsychology

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Empathy. The self other distinction. Role of the temporo-parietal junction in emotional empathy

Autore: Claudio F. Bivacqua (Dipartimento di Psicologia, Università di Palermo)

 Abstract

Le neuroscienze attuano un’importante distinzione fra l’empatia emotiva e l’empatia cognitiva (Shamaay-Tsory,2010), identificando con il primo termine la condivisione immediata dell’emozione di un altro,  mentre con il secondo, una forma più complessa di empatia, che consiste in un sistema cognitivo che permette di assumere la prospettiva dell’altro.

Saxe e colleghi dimostrano come la giunzione temporo parietale di destra (rTPJ) si attivi maggiormente quando la nostra prospettiva è diversa da quella dell’altro, stabilendo un’incongruenza fra i diversi stati mentali e permettendo al soggetto di elaborare contemporaneamente e consapevolmente le informazioni relative al sé e all’altro (Saxe et al.,2005).  Questo studio, da realizzare attraverso un paradigma di stimolazione magnetica transcranica (TMS), vuole indagare il ruolo della giunzione temporo parietale di destra nell’empatia emotiva, ipotizzando una maggiore capacità di simulare l’espressione emotiva di un altro quando la giunzione temporo parietale di destra viene inibita. Quest’area cerebrale avrebbe il ruolo di stabilire un confine tra il sé e l’altro permettendo un’elaborazione emotiva integrata di differenti stati emotivi.  Questi risultati mostrano l’importanza della TPJ non solo nella capacità di “perspective taking” ma anche in un ruolo emozionale.

Abstract

The neuroscience makes an important distinction between emotional empathy and cognitive empathy (Shamay-Tsoory,2011). Emotional empathy refers at an immediate emotional sharing, while cognitive empathy refers to a cognitive system that involve understanding of the other’s perspective. Saxe and colleagues (2005) show the role of right temporo-parietal junction (rTPJ) in the perspective taking when our point of view is different from other, establishing an incongruence about the different states of mind. Other studies demonstrate that TPJ allows to elaborate and to integrate sensorimotor and cognitive information from self and other. This study investigates the role of rTPJ in emotional empathy, through its inhibition by a train of   Trancranial Magnetic Stimulation (TMS), demonstrating  a major skill to discriminate an emotional expression of other when this is incongruous with own emotional state. This brain area would function to establishing a border between self and other allowing an integrating emotional elaboration about the different emotions. These results show the importance of TPJ not only in a cognitive perspective taking task but also in an emotional task.

KEYWORDS

Empathy,  emotional contagion, emotion recognition, temporo-parietal junction

 

PREMIO STATE OF MIND 2014

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La meditazione come elisir di giovinezza, almeno mentale

FLASH NEWS

Praticare meditazione aiuta a preservare il tessuto cerebrale e quindi migliorare la salute mentale.

Dagli anni ’70 l’aspettativa di vita è cresciuta significativamente in tutto il mondo, oggi si vive anche 10 anni in più rispetto ad allora. Non male, se non fosse che più si invecchia e maggiore è il rischio di malattie mentali. E allora come fare? Un recente studio della UCLA (University of California – Los Angeles) sostiene che la meditazione possa minimizzare questo rischio.

Gli autori di questa ricerca si sono concentrati principalmente sull’associazione tra avanzamento dell’età e diminuzione della massa grigia. Hanno notato che praticare meditazione aiuta a preservare il tessuto cerebrale e quindi migliorare la salute mentale.

Lo studio ha messo a confronto 50 soggetti che hanno meditato regolarmente per anni e 50 che non l’hanno fatto e i risultati mostrano che la perdita di massa è inferiore nei meditatori abituali.

Ovviamente non è possibile stabilire una causalità tra meditazione e conservazione del tessuto cerebrale, sono troppi i fattori che potrebbero influire: scelte di vita, tratti di personalità, genetica… tuttavia è sorprendente la misura della differenza individuata tra i due gruppi: la meditazione sembra avere un effetto diffuso e coinvolgere regioni in tutto il cervello.

Indagini di questo tipo offrono una prospettiva diversa, l’attenzione dei ricercatori infatti è più spesso rivolta a identificare gli elementi che aumentano il rischio di patologie mentali, guardare agli aspetti della vita, invece,  è tipico di un approccio che, oltre alla cura, promuove la salute e punta a migliorare la qualità della vita.

Come dice Luders, autrice della ricerca:

[blockquote style=”1″]“I risultati sono promettenti. Sperando che questi stimolino ulteriori studi esplorativi permetterà un effettivo passaggio dalla teoria alla pratica” [/blockquote]

non solo per vivere più a lungo ma anche meglio.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Pillole di… Meditazione

 

BIBLIOGRAFIA:

Nella mente dello Psicoterapeuta (Cortometraggio di animazione)

Questo breve video illustra in maniera semplice e accessibile quello che avviene nella mente dello Psicoterapeuta nel corso delle sedute di Psicoterapia e all’interno della relazione terapeutica.
La seconda parte del video evidenzia l’importanza per lo stesso terapeuta di avvalersi dell’aiuto o della supervisione di colleghi professionisti.

 

ARGOMENTI CONSIGLIATI:

IN TERAPIASUPERVISIONERELAZIONE TERAPEUTICA

Come riattivare la capacità di eseguire gesti con la mano in soggetti colpiti da ictus

Un esperimento sulla riabilitazione motoria condotto da Nadia Bolognini e Giuseppe Vallar dell’Università Bicocca di Milano ha dimostrato che una lieve stimolazione elettrica della parte posteriore dell’emisfero sinistro del cervello è in grado di riattivare la capacità di eseguire gesti con la mano in soggetti colpiti da ictus. 

 

 

«L’attività del cervello umano danneggiata da un ictus cerebrale, – spiega Giuseppe Vallar, Ordinario di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica dell’Università di Milano-Bicocca – può essere migliorata da una stimolazione che passa attraverso la scatola cranica. Stimolare elettricamente la corteccia cerebrale dell’emisfero sinistro, che programma i movimenti volontari (ad esempio, fare ciao con la mano), migliora l’esecuzione di questi gesti da parte dei pazienti ‘aprassici’, che non sono più capaci di farli dopo una lesione cerebrale.  Questo risultato dimostra che capacità fondamentali dell’uomo, come fare un movimento per decisione volontaria e cosciente, possono essere rese più efficienti dalla stimolazione delle aree cerebrali che svolgono questa funzione. Inoltre, dimostrare la plasticità del cervello migliorandone la prestazione apre la strada ad applicazioni della stimolazione elettrica transcranica nel campo della riabilitazione di deficit neuropsicologici come l‘aprassia».

OK, il gesto è giusto. La stimolazione elettrica riattiva i movimenti volontari – Università degli Studi di Milano-BicoccaConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Bastano 10 minuti di leggera sollecitazione elettrica per ridurre del 19% il deficit motorio di pazienti con danni al lobo parietale sinistro del cervello. Lo rivela una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca pubblicata sulla rivista Brain. (…)

 

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Guns & Violence: la violenza contro le donne

Troppo spesso “l’unica differenza tra una donna maltrattata e una donna morta è la presenza di una pistola”.

Negli USA il Secondo emendamento della Costituzione Americana sancisce dal 1791 il diritto di portare armi: «A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed.»; se tale diritto potesse essere esteso anche ai singoli cittadini, e non solo a milizie organizzate, è stato a lungo oggetto di dibattito e di diverse interpretazioni da parte delle Corti dei singoli stati. Nel 2008 la Corte Suprema ha posto fine alla questione: il diritto individuale dei cittadini a possedere armi da fuoco è inviolabile, al pari di quello di voto e di libertà di espressione.

È paradossale come tale sentenza sia nata dal ricorso di alcuni cittadini che sostenevano che difendere la propria famiglia nella propria casa fosse un diritto insindacabile: tra il gennaio del 2009 e il giugno del 2014 in più della metà delle uccisioni di massa con armi da fuoco l’assassino ha ucciso proprio il partner o un membro della propria famiglia.

La violenza domestica negli Stati Uniti è un problema strettamente legato alla violenza armata: negli ultimi 25 anni la maggior parte degli omicidi di partner sono stati commessi con una pistola e la probabilità che una persona che commette violenza domestica uccida il proprio partner aumenta di ben 5 volte se possiede un’arma da fuoco.

Poiché il rischio che possedere un’arma da fuoco si intersechi con la violenza domestica è molto elevato, diverse leggi federali e statali hanno cercato di porvi rimedio tentando di togliere le pistole dalle mani dei più pericolosi delinquenti tra le quattro mura. Le leggi più severe proibiscono infatti ai maltrattatori domestici e agli stalker di comprare o possedere un’arma (e qualora ne fossero già in possesso hanno l’obbligo di rinunciarvi) e al momento dell’acquisto richiedono attraverso il National Instant Criminal Background Check System una verifica che il compratore abbia o meno i requisiti per comprarla. Sono leggi che hanno contribuito a salvare la vita di numerose persone, soprattutto donne…dove e quando sono state applicate. Eh già, perché sono talmente tante le scappatoie e le difficoltà di applicazione di tali leggi nei diversi stati che i risultati ottenuti nella lotta alla violenza armata in casa non possono essere considerati assolutamente soddisfacenti!

Innanzitutto la legge federale non fa nulla per tenere le armi fuori dalla portata di fidanzati maltrattanti (nonostante la maggior parte delle donne venga uccisa più da uomini che sta frequentando che non dal proprio marito) né dalle mani di chi si è macchiato di reati minori (misdemeanor ) di stalking. In secondo luogo in 35 stati americani la legge statale non proibisce a chi è stato condannato per reati minori di violenza domestica di possedere un’arma da fuoco e poiché nel caso di un conflitto tra la legge statele e federale i tribunali statali non sono subordinati a quelli federali, l’applicazione della legge federale in questi casi è difficile.

A ciò aggiungiamo che acquistare un’arma negli USA è estremamente semplice: la legge federale richiede il Background Check (una verifica che dura spesso solo 90 secondi) solo per l’acquisto di armi presso rivenditori con licenza federale, ma non richiede tale controllo nella compravendita tra parti private o presso rivenditori senza licenza federale. È quindi sufficiente farsi un giro, per esempio, sul sito www.armslist.com per acquistare una Smith & Wesson: niente di più facile. Non stupisce che 1 su 4 degli acquirenti online a cui sarebbe proibito acquistare un’arma abbia precedenti per violenza domestica.

Infine molti stati non richiedono a chi è stato condannato per violenza domestica di rinunciare alle proprie armi da fuoco o non hanno procedure in grado di garantire che questo vi rinunci. Se si considera che contro le donne maltrattate vengono utilizzati i più disparati oggetti, anche solo per intimidirle o costringerle a fare o lasciarsi fare qualcosa contro la propria volontà, e che le armi da fuoco sono molto più comuni nelle case di donne maltrattate e dei loro partner, non ci si può non preoccupare, visto quanto sono letali (Sorenson & Wiebe, 2004).

Troppo spesso, infatti, “l’unica differenza tra una donna maltrattata e una donna morta è la presenza di una pistola” .

 

Guns and Violence Against Women – LEGGI L’INTERO REPORT

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BIBLIOGRAFIA:

Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet (2014). Recensione

“Il mondo virtuale non è a misura di bambino e nemmeno a misura di preadolescente. Potrà diventarlo solo se noi adulti sapremo regolamentare, supervisionare e accompagnare i minori all’interno di un territorio così vasto e complesso”.

Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva presenta il manuale: Tutto troppo presto, L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet. Un libro che parte dall’esigenza, clinica ed educativa, di accompagnare ragazzi ma sopratutto genitori nel tema dell’educazione sessuale 2.0, ovvero l’educazione sessuale rivolta ad un pubblico di nativi digitali. Argomento per nulla semplice e scontato se solo si pensa che un ragazzo o ragazza d’oggi, prima ancora di avere la sua prima esperienza sessuale, è già stato esposto/a ad un numero di immagini di natura sessuale inimmaginabile per un adulto appartenente alle generazioni precedenti.

I ragazzi di oggi vivono in un mondo in cui alla parola “sesso” vengono attribuite caratteristiche diverse da quelle con cui siamo cresciuti noi. L’eros è ormai “sdoganato dal territorio di negazione, paura e repressione in cui i nostri nonni (…) l’avevano relegato”. Il sesso oggi è fluido, vissuto con il compagno/a di una sera, in modo estemporaneo, senza che questo comporti necessariamente alcuna conseguenza.

Il sesso oggi è possibile, perché ora non ci sono più resistenze di sorta nei confronti dell’attività erotica di qualsiasi natura. Inoltre il sesso oggi è accessibile, perché non esiste nessun limite esterno alla visione di uno stimolo erotico. Centinaia di sito pornografici permettono di vedere realizzata qualsiasi tipo fantasia erotica senza nessun tipo di difficoltà. Non che la TV di oggi lasci grande spazio all’immaginazione.

Qui l’autore si chiede dove siano la dimensione del sogno e del desiderio in un mondo in cui la sessualità pare non avere più aspetti misteriosi e inaccessibili. “In adolescenza, sognare e desiderare la sessualità è vitale, perché significa darle il tempo di maturare nella mente prima che diventi azione, prepararla e pensarla prima della sperimentazione concreta”.

Il sesso infine è normalizzato, che sarebbe un dato di per sé assolutamente positivo se non fosse che oggi molti ragazzi crescono con la convinzione che “fare sesso” sia normale a prescindere, e che rappresenti un’attività ludica finalizzata a procurarsi eccitazione, sensazioni forti e piacere. “Ma siamo davvero convinti che consentire ai figli di autogestire una sessualità così intesa sia la condizione giusta per viverla al meglio e integrarla in un percorso e in un progetto di vita degno di questo nome?”

Non vi è dubbio che, sopratutto nei giovanissimi, la corsa verso una sessualità “facile, immediata e di pronto consumo” è stata favorita e accelerata dalla diffusione delle nuove tecnologie. Le tecnologie mettono i nostri figli a contatto diretto con il mondo ma allo stesso tempo consentono loro di esplorare in totale autonomia territori per i quali potrebbero non avere acquisito le giuste competenze. Il fatto che un ragazzo o una ragazza siano competenti a livello tecnico, quindi sappiano muoversi agilmente con gli strumenti tecnologici, non significa che siano in grado di integrare ciò che incontreranno online sul piano cognitivo e sopratutto sul piano emotivo.

Il mondo virtuale non è a misura di bambino e nemmeno a misura di preadolescente. Potrà diventarlo solo se noi adulti sapremo regolamentare, supervisionare e accompagnare i minori all’interno di un territorio così vasto e complesso”.

Accettare una sfida educativa di questo tipo significa non rinunciare al nostro ruolo. Senza cadere nelle facili tentazioni del proibizionismo a priori, che blocca i nostri figli nel loro sviluppo, e nemmeno in quello del diniego che cancella ogni possibilità di difendersi da possibili rischi negandone l’esistenza. Una sfida educativa che ci porta a mantenere il nostro ruolo di guida e accompagnamento anche nei bisogni mutati dei nostri figli. Il silenzio delle generazioni passate dovrebbe trasformarsi oggi in competenza e sopratutto comunicazione.

Ecco che la lettura di questo libro fornisce al lettore un modello e un’idea di educazione sessuale alternativi, intorno a cui progettare il proprio ruolo educativo o terapeutico che sia. L’obiettivo è quello di “educare ad una sessualità non fluida ma consistente, che diventi una dimensione strutturata e tangibile nel percorso di crescita, e preveda tappe e azioni differenziate in base al grado di sviluppo e maturazione del minore”.

Il manuale di Pellai è organizzato in quattro capitoli tematici che affrontano temi fortemente  connessi all’educazione sessuale ma che non compaiono nei classici manuali che trattano questo argomento. Rispettivamente il tema della sessualizzazione precoce delle bambine, il fenomeno del sexting, della pornografia e dell’adescamento online vengono illustrati in maniera comprensibile, documentata da casi clinici e consigli utili per i genitori, film da vedere a scuola e in famiglia, strumenti da usare sia in un percorso preventivo che in quello clinico. Abbinato al libro un blog offre molti materiali utilizzabili per percorsi di prevenzione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Pellai A. (2015). Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet. De Agostini Libr. ACQUISTA ONLINE

Come cambiano i sogni tra le diverse culture?

FLASH NEWS

I dati attualmente disponibili sui raffronti del contenuto onirico tra paesi diversi suggeriscono un messaggio importante: la gente di tutto il mondo fa sogni simili.

Vi siete mai chiesti il motivo per cui gli individui solitamente fanno sogni diversi? Certamente i contenuti dei sogni cambiano tra le persone in base alle diverse esperienze personali, o alle diverse culture. Infatti, l’obiettivo di questo studio è stato confrontare i contenuti onirici di individui appartenenti a culture diverse attraverso l’uso di questionari standardizzati.

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I test sono stati tradotti in più lingue e usati per rilevare e analizzare scientificamente i temi onirici. Alcune domande del questionario avevano lo scopo di elicitare libere associazioni definite a priori, per esempio “Avete mai sognato…” a cui seguivano una serie di contenuti possibili (per esempio essere inseguiti, sognare di volare, di cadere). I ricercatori avevano poi la possibilità durante l’intervista di aggiungere altre domande che riguardavano la frequenza o l’intensità con cui i temi del sogno si sono presentati e l’intervallo di tempo trascorso tra i diversi sogni.

È risaputo che ricordare il contenuto dei sogni è un processo molto complesso che potrebbe minare l’affidabilità del ricordo. Nonostante i limiti dell’uso del questionario standardizzato possiamo, grazie a questo studio, avere uno spaccato trasversale alle culture sul mondo dei sogni che coinvolge più gruppi di persone provenienti da ambienti diversi.

Il ricercatore Calvin Kai-Ching Yu dell’Università di Hong Kong Shue Yan ha utilizzato una traduzione cinese di un questionario sul sogno e ha intervistato 384 studenti presso l’Università di Hong Kong (per lo più studenti di psicologia, in prevalenza donne con età media di 21anni). I temi più diffusi (presentati in ordine di prevalenza) furono: scuole e insegnanti, essere inseguito o perseguitato, cadere, arrivare troppo tardi, una persona ora viva come morta, cercare sempre senza successo di fare qualcosa, volare o sollevarsi da terra, sentirsi congelati di paura, infine esperienze sessuali.

I risultati della ricerca sono stati poi confrontati da Michael Schredl e dai suoi colleghi che hanno utilizzato un questionario simile, per studiare i sogni degli studenti universitari tedeschi (quasi tutti studenti di psicologia, con prevalenza di donne, di età media di 24anni). I dieci temi più diffusi tra gli studenti sono stati (presentati in ordine di prevalenza): scuola, insegnanti, studiare, essere inseguiti o perseguitati, esperienze sessuali, cadere, arrivare troppo tardi, sognare una persona ora viva come morta, volare o sollevarsi da terra, essere sul punto di cadere, sentirsi congelati di paura.

Vi è una notevole sovrapposizione nella top ten dei temi del sogno tra gli studenti cinesi e gli studenti tedeschi. I sogni che hanno come tema contenuti accademici o essere inseguiti sono più diffusi tra gli studenti cinesi e tedeschi. Una differenza chiave è che invece sogni su esperienze sessuali sono presenti più comunemente tra gli studenti tedeschi.

In Canada, Tore Nielsen e i suoi colleghi hanno somministrato un questionario sul sogno in tre università, ottenendo così i dati su un campione più ampio (oltre 1.000 studenti). I dieci temi del sogno più diffusi in un campione di studenti canadesi sono: essere inseguito o perseguitato, esperienze sessuali, cadere, scuole, insegnanti e studiare, arrivare troppo tardi, essere sul punto di cadere, cercare di nuovo di fare qualcosa, sognare una persona ora viva come morta, volare o sollevarsi da terra, sentire una presenza nella stanza.

È interessante notare che i sogni con temi scolastici (scuola, insegnanti, fallimento di esami) sono stati il tema più comune tra gli studenti cinesi e tedeschi, ma non gli studenti canadesi. Studenti cinesi e tedeschi condividono una maggiore prevalenza di sogni accademici, mentre i sogni di natura sessuale sono tra i sogni più diffusi sia per i canadesi e tedeschi. Studenti cinesi e canadesi sognano di “provare e riprovare a fare qualcosa” – un tema che raro tra gli studenti tedeschi.

Questi dati ci offrono la possibilità di confrontare e contrapporre i contenuti onirici di persone che sono nate e sono state costantemente esposte a culture e a lingue diverse, ma tuttavia, è opportuno riconoscere i limiti di questo studio. Non possiamo generalizzare i risultati di questa ricerca all’intera popolazione in quanto alcuni temi del sogno differiscono in base alle situazioni a cui il soggetto è abitualmente esposto (studente vs lavoratore vs pensionato)

Negli studi futuri si potrebbe stabilire un confronto cross-culturale più ampio in merito ai contenuti del sogno e si dovrebbero reclutare soggetti di varie età, professioni e background educativo e socio-economico. Nonostante questi aspetti controversi, i dati attualmente disponibili sui raffronti del contenuto onirico tra paesi diversi suggeriscono un messaggio importante: la gente di tutto il mondo fa sogni simili.

 

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Sogno e Psicoterapia Cognitiva – Congresso SITCC 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

REBT: l’utilizzo dei principi terapeutici anche nelle situazioni di successo

La REBT (Terapia Razionale Emotiva Comportamentale), ideata dallo psicologo clinico Albert Ellis, utilizza una serie di tecniche e principi per gestire il malessere del soggetto e gestire situazioni problematiche o difficili.

Ma è possibile usare questi principi in contesti di successo? Certamente sì. Eccessivo orgoglio, esagerata autostima o grandiosità possono provocare difficoltà in condizioni che implicano la ricerca di successo ed interferire nelle relazioni interpersonali.

 

[blockquote style=”1″]When faced with success, it is healthy to take note of your good performance and feel happiness and contentment. These are functional emotions which will probably motivate you to recognize and repeat strategies that worked well, and will probably promote good relationships with others.On the other hand, unhealthy responses relating to performing well might be described as excessive pride, megalomania, inflated self-esteem or intoxication with one’s own awesomeness.These are probably enjoyable in a sense, and I can see why very few people seek therapy for excessive pride. However, excessive pride is not very functional as it can interfere with interpersonal relationships and sabotage success. Excessive pride frequently leads people to excessive confidence in their decision-making or opinions.Making matters worse, excessive pride leads people to depreciate and dismiss others (who could be right!) and to disregard information that is inconsistent with their outlook. Prideful people run the risk of being badly surprised by realities that they had previously written off, and being the last to realize their own mistakes…[/blockquote] 

REBT When You Are WinningConsigliato dalla Redazione

– (…)

 

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