SOPSI 2014 – Incontro con l’esperto
La responsabilità della prescrizione o la prescrizione responsabile: aspetti medico legali
L’intervento tenuto dall’Avv. Castelnuovo è stato interessantissimo, condotto con lo stile brillante e accattivante che da sempre lo contraddistingue, ed ha affrontato problematiche medico-legali sempre più attuali nonché argomenti che un operatore del settore dovrebbe conoscere in maniera approfondita per non incorrere in errori durante lo svolgimento del proprio lavoro ed evitare così pericolose denunce da parte dei pazienti.
Durante “L’incontro con l’esperto” tenutosi durante il Congresso SOPSI 2014 l’Avvocato cassazionista Andrea Castelnuovo ha illustrato in maniera rigorosa quali sono i rischi in cui si incorre in caso di malpractice nella prescrizione farmacologica. L’intervento, che solleva importanti quesiti medico-legali, si è aperto con la descrizione di quanto accade in tribunale, sia nel processo civile che penale, in caso di malpractice, concentrandosi sul tema del risarcimento e della copertura assicurativa. Nella seconda parte dell’intervento Castelnuovo ha affrontato l’argomento della prescrizione farmacologica e dei suoi potenziali rischi, in particolare per quanto riguarda le prescrizioni on label e off label, i farmaci generici e gli integratori.
Alcune definizioni prima di cominciare
Danno = lesione di un interesse altrui
Risarcimento = modo attraverso il quale si rimborsano coloro che hanno subito un danno ingiusto.
Dolo = l’evento è preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione (Mi sono rappresentato che l’evento si sarebbe verificato e l’ho voluto)
Colpa = violazione di norme di comportamento (violazione di norme tecniche, di protocolli…)
Cause di colpa generica:
● Imprudenza = inosservanza di un divieto assoluto di agire o di un divieto di agire secondo determinate modalità
● Negligenza = omesso compimento di un’azione doverosa
● Imperizia = negligenza o imprudenza in attività che richiedono l’impiego di particolari abilità o cognizioni (Ti sei astenuto da un intervento che non eri in grado di fare?)
La malpractice in tribunale: i criteri di responsabilità
Qualsiasi caso di malpractice, qualunque atto medico che sfoci in un danno per il paziente (dove per danno non si intende solo l’aver arrecato positivamente un danno, ma anche il mancato ottenimento del risultato) ha sempre una doppia valenza punitiva: penale e civile. Questo perché il bene su cui si va ad incidere con qualsiasi intervento, trattamento, prescrizione farmacologica è un bene tutelato dall’Art. 32 della Costituzione, ovvero la salute. La lesione del diritto alla salute è colpito penalmente dai reati (lesioni colpose, omicidio colposo, dolo…) e comporta il risarcimento del danno. Quindi in caso di malpractice si va incontro sia a processo civile che a processo penale.
Quali sono gli elementi dei quali si va a dibattere in caso di responsabilità penale o civile?
Si risponde per un danno qualora quel danno sia posto in connessione causale scientificamente accertata con una condotta che può essere commissiva o omissiva (es. è stato dato il farmaco sbagliato o non non è stato dato il farmaco giusto). Il dibattito in tribunale tendenzialmente non riguarda tanto il danno o la condotta tenuta, quanto il nesso di causa su cui si appostano tutte le azioni di responsabilità: il giudice vorrà sapere con quale percentuale di probabilità l’operazione sbagliata che avete fatto (o l’operazione non fatta che avreste dovuto fare) ha causato il danno. Ma quanto è difficile dare al giudice una risposta di questo tipo? Proprio su questo elemento dal 2008 si apposta la prima differenza tra processo civile e processo penale.
Nel processo civile la regola è quella della probability causation: ciò significa che il giudice può condannarvi a risarcire tutto il danno (100%) anche se accerta il nesso di causa con un grado di probabilità del 30-40%; per di più l’onere della prova negativa spetta all’imputato.
Fino al 2008 valeva lo stesso discorso anche per il processo penale, ma dal 2008, per effetto della sentenza “Franzese” della Corte di Cassazione, nel processo penale il nesso di causa deve essere accertato con un grado di probabilità prossimo al 100% (il che è scientificamente impossibile!). Il risultato è che ad oggi la maggior parte delle denunce penali finiscono con l’archiviazione o con un’assoluzione (anche se, magari, l’assoluzione avviene in terzo grado).
Quindi per una stessa causa ci sono ottime probabilità di vincere in sede penale e di perdere in sede civile. In conclusione, è buona prassi assicurarsi un buon difensore in sede penale (magari con una clausola di tutela legale dell’assicurazione) e aver stipulato una buona assicurazione di responsabilità civile.
Il Decreto Balduzzi
Nel settembre 2012 il legislatore tecnico scrive:
Art. 3
Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie
1. L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo.
Il Decreto Balduzzi afferma che non si risponde più penalmente laddove vi sia colpa lieve e si dimostri di essersi attenuti alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ma si risponde solamente per una colpa significativa e se non si sono seguiti i protocolli. Tale decreto, però, presenta delle criticità di cui già si dibatte nelle aule di giustizia. Infatti il Tribunale di Milano ha rimandato la norma del Decreto Balduzzi alla Corte Costituzionale evidenziando come critico il passaggio “si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”. A quali linee guida si fa riferimento? E a quante? Con quale autorevolezza? Non c’è, in pratica, una predeterminazione delle soglie di rilevanza! In altre parole, qual è il protocollo che posto davanti al giudice determina la mia assoluzione?!
Il risarcimento del danno
Dal punto di vista giuridico il danno può essere definito come la lesione di un interesse altrui e “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno” (Cod. Pen. 185).
Esistono due categorie di danno che vengono risarcite:
● Danno patrimoniale: danno che si cagiona al proprio paziente sotto il profilo del denaro (danno emergente e danno per mancato guadagno / lucro cessante)
● Danno non patrimoniale: tutto ciò che attiene alla sfera fisica, psicofisica, psichica, ma anche morale ed esistenziale del soggetto. È una rivalutazione in termini costituzionali del diritto e del valore di una persona rispetto al valore delle cose. Si distinguono:
○ Danno biologico temporaneo o permanente (funzione crescente rispetto all’entità del danno e funzione decrescente rispetto all’età)
○ Danno morale (shock da reato)
○ Danno esistenziale
○ Danno da lutto – Il nostro ordinamento non risarcisce il soggetto morto, bensì i familiari che hanno subito un danno da lutto, danno tabellato con una somma che varia dai 100000 ai 300000 euro per ciascun membro della famiglia nucleare.
Cosa accade nei processi penale e civile in caso di danno?
Il processo penale è un processo a parti contrapposte: il PM, che rappresenta la pubblica accusa, e l’imputato, che si difende illustrando la bontà della scienza che ha applicato e portando la quantità di prove prodotte quali il consenso informato, la cartella clinica ben tenuta, non falsificata e comprensibile, la potenza della propria perizia e il non essere stato negligente o imperito.
Il processo civile invece si gioca tutto sulla CTU e sulla credibilità, l’autorevolezza, la scientificità degli argomenti delle CTP. In tutto ciò si inserisce il Decreto Balduzzi che ha dato ancora più importanza ai protocolli e alle linee guida. Il giudice vuole infatti sapere dal CTU e dal CTP qual è il protocollo giusto, quali sono le linee guida, quali sono le condotte che il medico avrebbe dovuto tenere e non ha tenuto: ma se le avesse tenute, in ragione di quel protocollo, avrebbe ottenuto un risultato oppure no? Si è distaccato dal protocollo? Lo ha fatto per imperizia? Per negligenza? In base alle risposte ottenute verrà infatti eventualmente commissionata una pena e riconosciuto un risarcimento.
La copertura assicurativa
Se si è liberi professionisti si ha l’obbligo deontologico e legale di avere un’assicurazione per la responsabilità civile che copra in maniera totale e con dei massimali importanti (2-3-4 milioni) proprio per rendere conto del fatto che ci sono dei risarcimenti imprevedibili tali per cui non si può sapere che tipo di danno si andrà a causare e se anche si sapesse non sarebbe prevedibile il tipo di riflesso che potrebbe avere.
Il consiglio quindi è quello di avere una polizza di tutela legale: “Nell’ambito della garanzia di responsabilità civile con qualche euro in più si ha l’avvocato pagato ed il consulente di parte pagato – afferma Castelnuovo – Chiedete, verificate che siano il vostro consulente, il vostro avvocato. Non c’è niente di peggio che vedersi assegnato d’ufficio l’avvocato o il perito dell’assicurazione poiché non è detto che il suo interesse sia il vostro: l’avvocato d’ufficio dell’assicurazione ha interesse a pagare il meno possibile e il più tardi possibile, mentre voi avete l’interesse a definire il prima possibile il penale anziché temporeggiare”.
La questione è più complicata se si lavora in ambito ospedaliero perché l’ospedale dovrebbe essere assicurato e dovrebbe coprirvi, ma se si dimostra in sede di causa che la vostra condotta è stata posta in essere con colpa grave, l’ospedale può chiedere l’azione di rivalsa a carico vostro. Assicuratevi pertanto a prescindere, soprattutto per la colpa grave in rivalsa.
Copritevi con una polizza moderna con poca franchigia e grosso massimale.
La prescrizione farmacologica responsabile
La prescrizione dei farmaci è regolamentata da specifiche norme, sia scientifiche che di matrice legale. Nei seguenti paragrafi verranno sollevate alcune problematiche di cui bisogna essere a conoscenza per operare delle scelte quando si prescrivono dei farmaci.
PRESCRIZIONE ON LABEL
Si prescrive secondo scheda tecnica (prescrizione on label). Questa non è solo una regola deontologica; da una decina d’anni infatti è anche una regola di diritto.
Nel rispettare tale norma può sorgere un problema quando si deve tenere conto degli aspetti economici (farmaci di fascia A, C, H) e delle note di un farmaco. Si dice che da una parte si devono rispettare – in favore del paziente e a tutela del diritto e dovere di dargli la miglior cura – soltanto i criteri di appropriatezza prescrittiva clinica (il miglior farmaco al paziente giusto), ma dall’altra parte si devono rispettare dei criteri di appropriatezza prescrittiva finanziaria che non sempre sono collimanti: le note AIFA (http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/note-aifa).
Il tema è molto complesso in quanto le linee guida e i protocolli che interessano gli psichiatri, i pazienti, il giudice e la responsabilità del Decreto Balduzzi sono quelle di natura clinica. E attenzione, quelle “giuste” (giuste secondo il Decreto Balduzzi) potrebbero essere quelle di matrice internazionale che nulla hanno a che fare con gli aspetti di natura finanziaria tipici del nostro ordinamento (ma potrebbe valere anche il contrario nel caso in cui le linee guida internazionali fossero inquinate da aspetti di natura finanziaria o di rimborso magari statunitensi, inglesi, etc.).
PRESCRIZIONE OFF LABEL
La prescrizione off label è sempre stata pratica diffusa, ma solo nel 1998 venne regolamentata grazie ad un caso eclatante di grande attenzione mediatica, il caso Di Bella, da cui la legge prese il nome. La legge 94/98, o Legge Di Bella, (http://www.camera.it/parlam/leggi/98094l.htm#decreto) prevede nel comma 1 dell’Art. 3 un dovere che prima era solo deontologico: si prescrive secondo indicazione terapeutica.
“Fatto salvo il disposto dei commi 2 e 3, il medico, nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto industrialmente, si attiene alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità.”
Il comma 2 invece stabilisce gli aspetti scientifici per fare un off label regolare:
“In singoli casi il medico può, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.”
In singoli casi si può sotto la propria diretta responsabilità e con il consenso informato del paziente fare offlabel. Si può fare tutto l’off che si vuole (usare un medicinale per un’indicazione diversa, altre vie di somministrazione, modalità e posologia, off combinato…) se si ritiene in base ad atti documentabili che il paziente non possa essere trattato con un farmaco on. L’off label è legittimo nella misura in cui non esiste un’alternativa on label e l’impiego sia conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.
A tal proposito il decreto Balduzzi è tecnicamente peggiore rispetto alla Legge Dibella perché, come già sottolineato in precedenza, non dà una soglia di rilevanza, di autorevolezza, a differenza della Legge Dibella in cui il legislatore indica le pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale come punto di riferimento.
Il caso Veronica (Tribunale di Pistoia – Sezione penale – sentenza 24 novembre 2005-20 gennaio 2006)
Il caso Veronica viene ricordato per la famosa sentenza su una prescrizione farmacologica off label andata male. Per far dimagrire una bambina di 12 anni una psichiatra prescisse alla paziente del Topamax (antiepilettico) per sfruttarne off label l’effetto collaterale anoressizzante; il farmaco venne inoltre prescritto in dosi massicce (20 volte il dosaggio previsto). La bambina dimagrì, ma riportò i normali effetti collaterali del farmaco quali sonnolenza, emicrania, allucinazioni, depressione. Notare che non si risponde mai per gli effetti collaterali di un farmaco prescritto, a meno che non vi sia uno sbilanciamento. Il giudice in questo caso stabilì che gli effetti collaterali furono lesioni personali dolose e comminò una pena pari a 6 mesi; se la bambina fosse morta la pena sarebbe stata l’ergastolo. Nel 2008 la Corte di cassazione confermò la responsabilità professionale della psichiatra, ma l’ha ricondusse a colpa e non più a dolo.
Quindi la violazione di una norma di legge che stabilisce un percorso scientifico, ma anche legale e burocratico nella prescrizione del farmaco comporta, laddove cagioni un danno, responsabilità per colpa.
GLI INTEGRATORI
Quando si raccoglie l’anamnesi spesso i pazienti alla domanda “Lei prende qualcosa?” rispondono di non prendere niente, omettendo di assumere sostanze naturali perché, appunto, naturali. Ma in realtà nella prescrizione di farmaci bisogna tenere conto dell’assunzione di sostanze naturali, omeopatiche, etc. poiché queste possono avere effetti collaterali o di interazione con i farmaci prescritti.
Dal punto di vista normativo c’è una grossa differenza tra la messa in commercio di un farmaco e di un integratore. Da una parte abbiamo studi clinici, l’approvazione dell’AIFA e di altri organi di controllo, la farmacovigilanza e la letteratura scientifica, dall’altra abbiamo la compilazione di un modulo di notifica di integratore alimentare che deve essere inviato al Ministero della Salute il quale ha 90 gg di tempo per dire che l’etichetta (NB. non il contenuto) va bene. L’integratore entra in commercio così, senza farmacovigilanza né studi scientifici a supporto. Il tema dell’assunzione da parte dei pazienti di integratori è pertanto da tenere a mente ed essendo materia completamente nuova potrebbe tra non molto entrare nelle aule di tribunale.
FARMACO GENERICO
Il farmaco generico dal 2005 viene chiamato farmaco equivalente. Già la definizione di legge presenta delle tematiche medico-legali da risolvere: il decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 definisce il medicinale generico come “un medicinale che ha la stessa composizione qualitativa e quantitativa di sostanze attive e la stessa forma farmaceutica del medicinale di riferimento nonché una bioequivalenza con il medicinale di riferimento dimostrata da studi appropriati di biodisponibilità”. (Art. 10, comma 5 D.lvo n. 219/06; art. 10, comma 2 Direttiva europea 2001/83/CEE successive modificazioni.)
Per ottenere l’autorizzazione all’emissione in commercio (AIC) di un farmaco innovatore è necessario presentare un dossier completissimo riportante risultati di diversi studi condotti, mentre per ottenere l’AIC di un farmaco generico è necessario presentare uno studio di bioequivalenza in base al quale si va a dimostrare se vi sia o meno la biodisponibilità del principio attivo. Il limite degli studi di bioequivalenza, di cui è bene essere consapevoli, è la pretesa che pur essendo condotti in tempi brevi su un campione ridottissimo di soggetti abbia dei risultati tali da poter essere estesi alla popolazione generale fruitrice del farmaco in questione.
La stessa normativa, inoltre, riporta che:
● I vari sali, esteri, eteri, isomeri, miscele di isomeri, complessi o derivati di una sostanza attiva sono considerati la stessa sostanza attiva se non presentano differenze significative delle proprietà relative alla sicurezza e/o efficacia.
● Le varie forme farmaceutiche orali a rilascio immediato sono considerate una stessa forma farmaceutica.
● Gli eccipienti possono essere differenti.
Negli studi di bioequivalenza si studia che vi sia nella biodisponibilità un delta che non superi il +/- 20%. Ciò implica lo studio di tre elementi (in realtà due) della farmacodinamica: Tmax (tempo richiesto per il raggiungimento della massima concentrazione plasmatica), Cmax (massima concentrazione plasmatica) e l’AUC (area sotto la curva della concentrazione plasmatica rispetto al tempo). In pratica si va a verificare se l’AUC di un farmaco sia corrispondente, uguale, in altre parole bioequivalente, all’AUC dell’altro farmaco; si controlla che non vi sia una differenza significativa tra le curve dei farmaci (che si misura nel range +/- 20%, che corrisponde alla variabilità interindividuale).
Ora immaginiamo un grafico che riporta due curve che hanno AUC uguale, ma Tmax differenti: le due curve rappresentano due farmaci bioequivalenti in quanto le due aree che sottendono la curva sono equivalenti nonostante la Tmax sia differente. Questo perché negli studi di equivalenza tendenzialmente la Tmax non viene considerata! Ma se la Tmax è diversa, può essere un problema: ci sono psicofarmaci in cui l’emivita (il tempo in cui il farmaco entra in circolo) ha una rilevanza non da poco ed è un parametro da tenere in considerazione nella prescrizione farmacologica.
Problemi medicolegali dei farmaci generici
1. Se è vero che rispetto ad un farmaco Originator (Or) ciascun farmaco generico (Gn) è bioequivalente, non esiste però una proprietà commutativa tra i farmaci generici: G1 = Or e G2 = Or ma G1 e G2 non sono bioequivalenti tra loro.
Problema: siete convinti che il vostro paziente prenda una molecola G1. Se per qualsiasi motivo in farmacia gli danno G2 e successivamente in un’altra farmacia gli danno G3 c’è una continua modifica dello stato stazionario.
2. Indicazioni terapeutiche
Problema: I farmaci generici hanno sempre meno indicazioni terapeutiche rispetto al rispettivo farmaco Originator pur essendo bioequivalenti. Essendo farmaci vecchi si portano dietro la loro indicazione terapeutica originaria oppure per questioni economiche l’azienda ne ha approvate di meno. Se il paziente prende un farmaco generico che non prevede l’indicazione terapeutica per un determinato disturbo (ma un altro generico invece la prevede) ci troviamo di fronte ad un caso di Off label non gestito!
L’AIFA, interpellata in merito, non ha fatto un’estensione delle indicazioni terapeutiche per quanto riguarda l’utilizzo dei farmaci generici, ma ha solo espresso un parere (autorevole, certo) che però è contrario a quanto disposto dalla Legge Dibella che non consente di estendere l’indicazione terapeutica tra farmaci.
3. Gli eccipienti possono essere diversi (e lo sono).
Problema: In un caso verificatosi nel New England (2009), una paziente che assumeva da sempre Omeprazolo sviluppò improvvisamente una grave reazione allergica. Si scoprì che aveva assunto farmaci generici con eccipienti a cui era allergica (proteine della soia). Il medico, che era a conoscenza dell’allergia, non aveva gestito il fatto che in farmacia fosse stato dato alla paziente un farmaco generico contenente eccipienti a cui era allergica.
E se avete un paziente celiaco? Oppure diabetico? L’avete gestito correttamente?
4. Non sostituibilità del farmaco e prescrizione per principio attivo
Dal 2011 quando si prescrive un farmaco con brevetto scaduto si può apporre sulla ricetta la clausola di NON SOSTITUIBILITA’. In assenza di tale clausola il farmacista consegna al paziente il farmaco che costa di meno. La regola finanziaria, nata nel 2011, afferma che il fatto che abbiate dato al paziente un farmaco originator piuttosto che generico non cambia niente dal punto di vista del rimborso poiché il SSN rimborsa il costo più basso, dopodiché la quota a parte è a carico del paziente. Nell’agosto 2012 un decreto legge stabilisce una novità epocale: nasce la prescrizione per principio attivo.
Il medico che curi un paziente, per la prima volta, per una patologia cronica, ovvero per un nuovo episodio di patologia non cronica, per il cui trattamento sono disponibil i più medicinali equivalenti, è tenuto ad indicare nella ricetta del Servizio sanitario nazionale la sola denominazione del principio attivo contenuto nel farmaco. Il medico ha facoltà di indicare altresì la denominazione di uno specifico medicinale a base dello stesso principio attivo; tale indicazione è vincolante per il farmacista ove in essa sia inserita, corredata obbligatoriamente di una sintetica motivazione, la clausola di non sostituibilità di cui all’articolo 11, comma 12, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Il farmacista comunque si attiene a quanto previsto dal menzionato articolo 11, comma 12.
Per i farmaci a brevetto ormai scaduto è necessario prescrivere per i nuovi pazienti cronici indicando sulla ricetta solamente il principio attivo (per i vecchi pazienti cronici vale la vecchia regola del “non sostituibile”). Si ha la facoltà di indicare anche la denominazione di uno specifico medicinale che diventa vincolante per il farmacista indicando con la clausola di non sostituibilità una succinta motivazione. Si può così gestire la problematica legata agli eccipienti.
CONCLUSIONI
L’intervento tenuto dall’Avv. Castelnuovo è stato interessantissimo, condotto con lo stile brillante e accattivante che da sempre lo contraddistingue, ed ha affrontato problematiche medico-legali sempre più attuali nonché argomenti che un operatore del settore dovrebbe conoscere in maniera approfondita per non incorrere in errori durante lo svolgimento del proprio lavoro ed evitare così pericolose denunce da parte dei pazienti.
ARGOMENTI CORRELATI:
FARMACI-FARMACOLOGIA – PSICOFARMACOLOGIA – SOPSI 2014 – CONGRESSI