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Un Alieno che non vola e vive ai margini di una vita vera – CIM Nr.09 Storie dalla Psicoterapia Pubblica

CIM: Centro di Igiene Mentale, Storie dalla Psicoterapia Pubblica. Ep. 09 - Il caso di Paolo, una diagnosi difficile tra farmacologia e psicoterapia

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 28 Apr. 2014

Aggiornato il 18 Feb. 2016 15:12

 

 

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #09

Non vorrei rapporti con me stesso

 

 

– Leggi l’introduzione –

Non voglio rapporti con me stesso. - Immagine: ©-rolffimages-Fotolia.comAl CIM su ogni paziente grave si concentrano gli sforzi di molti operatori, anche se fatalmente è uno ad essere il principale care giver, colui che tiene in mente il paziente e le fila dei vari interventi per scongiurare la confusione.

Pur non essendo la prima ad averlo visto, la curatrice di Paolo era indubbiamente la dottoressa Maria Filata, la psicologa che più amava addentrarsi nei rompicapi dei casi più gravi, quella che veniva chiamata quando gli altri sentenziavano che non c’era nulla da fare se non i farmaci.

Lei non ci voleva stare che i suoi quindici anni di studi psicologici dovessero solo servire ad aumentare la compliance del paziente alla terapia farmacologica.

Paolo è un ragazzo (a lungo si chiederà perché lo percepisce come ragazzo,  considerato che a quell’età lei aveva due figli, ma tanto basterà a farle attivare l’accudimento) di trent’anni, con almeno 15 kg di troppo, vestito da prima comunione, capelli neri lisci ordinati con una riga a sinistra che Maria credeva estinta da almeno due generazioni, occhi sorpresi a scrutare un mondo che lo confonde, sorriso cordiale, simpatico.

Gli è stato inviato dal Dr. Irati che gli ha prescritto neurolettici a basso dosaggio.

Sa cosa sia una psicoterapia ed è molto motivato a capire cosa gli stia capitando.

Dice di sentirsi perfettamente rappresentato da una canzone di Battiato che parla di “un alieno che non vola e vive ai margini di una vita vera”.

Se non si fosse trovato di fronte la dottoressa Filata, che diffida delle categorie diagnostiche, sarebbe bastata questa citazione per ritrovarsi rinchiuso nel recinto degli evitanti. Dice di essere confuso e disorientato, la mente è avvolta da ovatta che la protegge dagli urti, ma la ottunde. Tra lui e gli altri un velo, un vetro, insomma una insuperabile separazione. Estraneo agli altri, anche da solo non sta in buona compagnia, ha l’angosciante sensazione di un andirivieni della consapevolezza, ripetuti black out dell’attenzione rendono frammentato il colloquio e spesso gli altri si spazientiscono per il suo esserci e andarsene.

Non certo Maria Filata che, anzi, è già conquistata dal ragazzo trentenne smarritosi nel mondo.

Nelle assenze è tormentato da tic complessi. Il principio aristotelico di non contraddizione non lo riguarda, a distanza di pochi minuti ribalta precedenti affermazioni e non mostra di avvedersene.

Personalità multipla? Deficit cognitivo? A distanza di poco, però, è capace di insight meritori della psicoanalisi viennese di inizio novecento.

In uno di questi momenti di lucidità introspettiva propone la sua spiegazione patogenetica, riferendosi a due episodi all’origine di tutto verificatisi sette anni prima.

Il primo episodio lo vede tradire il suo migliore amico mettendosi di nascosto con la sua ragazza. Sussiste anche l’aggravante dei futili motivi perché non era tanto interessato a lei ma, soprattutto voleva liberarsi di un’ ingombrante vergognosa verginità (a Maria non sembra un motivo futile ma tiene per sé il commento).

Nel secondo episodio abbandona il suo cane, che aveva fortemente voluto, in campagna da parenti della madre.

Di nuovo il demonietto diagnostico si fa avanti, il  tema ridondante è quello del tradimento e della colpa, potrebbe trattarsi di ossessioni e le discontinuità dovute ad un intenso rimuginio compulsivo. 

Paolo conferma che due anni prima trascorreva giornata intere a letto in preda all’ansia, a rimuginare su questi tradimenti e non vedeva più nessuno sentendosi indegno: esce solo per andare a giocare al bingo ed in una di queste occasioni si blocca per strada, è immobile e assente. 

Catatonico e dunque senza dubbio schizofrenico, conclude soddisfatto il demonietto semplificatorio.

Lo ricoverano a Villa della Quiete ed iniziano i tentativi farmacologici per fare diagnosi “ex adiuvantibus”, come è scritto sulla cartella.

Maria sa di cosa si tratti: di fatto si provano vari farmaci senza avere una diagnosi poi, se uno fa un po’ di effetto, si stabilisce che il paziente ha proprio la malattia per cui quel farmaco è efficace.

A far attenzione si possono udire i colpi delle testate di Popper sul coperchio della bara.

Maria ha deciso che, quando Irati le farà le sue tirate sul maggior rigore scientifico della medicina rispetto alla psicologia, gli darà una testata sul naso aquilino.

Rassicurata dalla raffazzonaggine della medicina decide di dare ascolto alle sue sensazioni.

L’impressione generale che ha è di trovarsi di fronte ad una persona che ha subito un trauma e che, per recuperare un minimo controllo emotivo, si autoinduce brevi dissociazioni, trance, per anestetizzare il possibile dolore del ricordo emergente. 

L’ipotesi nascente di un disturbo dello spettro dissociativo, che placa le ansie del signore infernale delle classificazioni, è sostenuta dalla presenza di sintomi psicosomatici, cefalee e coliche intestinali “sine causa”, abbondante uso di sostanze prima dei 18 anni ed esperienze di depersonalizzazione e derealizzazione,  causa dei blocchi motori che lo hanno condotto al ricovero. 

La ricostruzione della storia di vita diventa ancora più importante e con il consenso di Paolo si decide di coinvolgere in alcuni incontri anche la madre.

L’impressione è di scoperchiare un termitaio pullulante di segreti dove è facile perdersi e protettivo confondersi.

Non c’è bisogno di prolungata ricerca per scoprire il trauma motivo della dissociazione, forse il più grave è seduto lì proprio a fianco a Paolo.

La madre è una donna spigolosa nell’aspetto, il viso sovrastato da un caschetto nero mostra solo angoli acuti.

Nei confronti del  figlio è critica e disprezzante. Pur impegnata nella conversazione con la dottoressa trova il tempo per ricordare al figlio che “puzza”, “è un assoluto cretino”, “con quella faccia non andrà da nessuna parte”, insomma supportiva e incoraggiante. La Filata esercita tutta la disciplina interiore di cui è capace, si dice che anche lei è certamente una persona sofferente, da capire e aiutare e che quello  è certamente il modo di fare migliore che ha trovato per sopravvivere. Il solito demonietto nosografico le propone sottovoce narci…, border…. ma lei lo mette a tacere definitivamente, sentenziando “stronza e cattiva” in comorbilità.

I genitori di Paolo erano entrambi divorziati quando si sono conosciuti già molto adulti.

Lei aveva già un figlio, ora sposato e padre a sua volta.

Il padre ha avuto 4 figli di cui uno morto per droga, forse sparato per questioni di spaccio ma tutto è avvolto dal segreto. Della esistenza di tutti questi fratelli molto più grandi di lui Paolo viene a conoscenza solo a 17 anni, invece  non ha mai saputo che lavoro facesse il padre che sembra gestire traffici loschi.

I segreti si infittiscono ulteriormente: presenza quotidiana nella loro casa di uno zio che zio però non è.

Mario è un vecchio collega di lavoro della madre, di lei innamorato sin dal liceo. Si è sempre occupato di questi “nipoti”, il primo figlio della donna e Paolo con soldi, regali di ogni genere, viaggi.

Le ipotesi che si susseguono in testa di Maria sono due: Mario è il vero padre dei ragazzi e lo proverebbe la sua dedizione a loro, oppure  Mario è un pedofilo che si è insinuato nella loro famiglia.

A sostegno della seconda ipotesi Paolo dice testualmente: “quando ero ricoverato lo cacciavo, avevo la sensazione che mi avesse fatto del male, mi ha rovinato con dei suoi comportamenti che non capivo o se ho capito ho dimenticato”.

(le parole di Paolo sembrano un protocollo programmatico della dissociazione da trauma).

La madre descrive Mario come un uomo depresso e cattivo, tossicodipendente e grosso spacciatore che si è sempre insinuato nelle sue due famiglie grazie al potere dei suoi soldi. 

La confusione contagia anche Maria che inizia a sperimentare gli stessi vissuti di Paolo.

Per non perdersi cerca di far chiarezza chiedendo perché abbia affidato i figli ad un uomo di cui parla così male e la madre, prima risponde che non può dirglielo (ciò resuscita la primigenia ipotesi che sia il padre vero), poi che i figli avevano bisogno di una figura maschile forte perché entrambi i padri sono dei falliti senza palle infine, cimentandosi anche lei in una dissociazione da manuale, cambia discorso e riferisce che uno psicoanalista cui chiese perché non le piacevano i luna park e il circo sentenziò che lei negava la maternità… e conclude con un gesto d’intesa dicendo a Maria “ci siamo capite vero dottoressa?”.

Paolo presente alla conversazioni è travolto dai tic e completamente assente, se ne è mentalmente andato come avrebbe fatto volentieri la stessa dottoressa Filata, ora però davvero convinta di quanto la madre stia male.

Il padre attualmente 82enne ha un’idea primitiva del maschile e della virilità. Regole di vita trasmesse a Paolo sono sintetizzabili in “le donne sono tutte mignotte”, “ogni lasciata è persa” “il valore di un uomo si misura dal suo pisello”, “meglio un figlio morto che un figlio frocio”.

Maria si era accorta da tempo che il tema della sessualità era per Paolo scivoloso, da un lato intrattiene idee grandiose quasi deliranti in linea con le attese paterne per cui pensa che tutte le donne lo desiderino sessualmente e lui se le farebbe tutte, cui seguono comportamenti goffamente seduttivi, dall’altro ammette a mezza bocca di non avere forti spinte erotiche verso le donne mentre ne prova di intense e inconfessabili verso i maschi.

Lo sforzo che Maria Filata chiede a tutti alla riunione clinica generale è di mettersi nei panni di Paolo per cercare insieme di capirlo meglio prima di risolvere il problema diagnostico e farmacologico.

Come poteva sentirsi un bambino allegro ed estroverso che, diventato  ragazzino adolescente in cerca della sua identità magari pure con dei dubbi, si trova in una famiglia in cui regna il non detto, l’inganno ed  è esaltata la forza e una virilità da spogliatoio e da caserma e dove ogni insicurezza è squalificata, negata o derisa?

Maria riporta testualmente una frase “la verità è che io non voglio più avere rapporti con me stesso” che riassume il vissuto di Paolo.

Irati sostiene che in ciò trova spiegazione la dissociazione come modo per non stare con se stesso.

Certamente è dissociata la parte omosessuale che sarebbe compito della psicoterapia esplorare e portare alla luce.

Silvia e Giovanni da assistenti sociali rivendicano una visione più complessa e meno intrapsichica del caso e sottolineano come si sappia poco del percorso scolastico e lavorativo di Paolo.

Sulla stessa linea intervengono Luisa e Maria lamentando la mancanza, almeno nel resoconto della dottoressa Filata, di un bilancio delle risorse di Paolo, strumento indispensabile per elaborare un progetto.

Come sempre decisa e priva di qualsiasi dubbio, la dottoressa Mattiacci propende per un immediato allontanamento di Paolo da casa con  un ricovero in una comunità terapeutica. Sostiene la necessità di un netto viraggio farmacologico verso i neurolettici, ma gli altri medici presenti storcono la bocca (il che avviene regolarmente quando uno dei tre si esprime su qualsiasi cosa).

La Filata integra il suo resoconto riferendo che, dopo scuole secondarie a carattere tecnico, Paolo ha svolto vari lavori sempre interrotti per mancanza di continuità nell’impegno, anche per l’abuso continuo di sostanze che faceva all’epoca e che oggi è contenuto.

Biagioli invita tutti per la settimana successiva ad un brainstorming su possibili interventi terapeutici che possibilmente utilizzino come punti di forza le naturali tendenze di Paolo, con lo spirito di assecondare l’onda sfruttandone la forza piuttosto che contrastarla.

Raccolte tutte le proposte, la dottoressa Filata le organizzerà in un progetto unitario che negozierà con Paolo e insieme presenteranno ai genitori che hanno da due mesi lasciato il gruppo di sostegno per familiari.

All’inizio della riunione successiva Biagioli esorta ad evitare il cosiddetto “tiro al piccione,” consistente nel mettere in atto tutta la propria intelligenza per evidenziare i difetti di qualsiasi proposta con il risultato di abbatterle tutte perché nessuna è perfetta e rimanere con un cielo privo di volatili. Non si tratta di un concorso a premi non ci sarà un’ idea vincente, ma un collage di idee che si supporteranno a vicenda. Con tono stentoreo, che scatena scomposta ilarità, afferma che o si vince insieme o si perde insieme e soprattutto che a vincere deve essere Paolo. Su questo proclama garibaldino tipo “o Roma o morte” si consumano gli ultimi caffè della colazione e si parte con le idee più bizzarre.

Irati ribadisce che, asse portante dell’intervento deve essere la psicoterapia individuale, con l’obiettivo di emanciparsi dalla famiglia esplorandone i numerosi segreti e  l’accettazione della propria omosessualità negata.

Silvia e Giovanni concordano con Lina sull’opportunità di un allontanamento dal patogeno nucleo familiare, ma sono nettamente contrari ad un ricovero in Comunità, ritenendo anzi che una caratteristica generale dell’intervento debba essere proprio la riduzione della psichiatrizzazione del caso con lo stigma che comporta, contribuendo a farlo sentire “un alieno che non vola”.

A loro avviso bisogna pensare ad un alloggio diverso anche chiedendo esplicitamente risorse ai genitori che si erano detti disponibili per una terapia privata.

Gli assistenti sociali ribadiscono poi che non c’è vera autonomia senza indipendenza economica (i soliti marxisti) e dunque la ricerca di formazione e di un lavoro è al primo posto della loro agenda.

Considerata l’abitudine di Paolo a vivere nella menzogna e a dissociarsi hanno pensato alla cooperativa “La maschera” che fa teatro a livello amatoriale e fornisce anche servizi a compagnie professionistiche.

Dal canto suo Biagioli propone un progressivo wash out da tutti i farmaci.

La Mattiacci lo incenerisce con uno sguardo di traverso e lui  si corregge dicendo che avrebbe lo scopo di vedere il quadro clinico allo stato puro per poter meglio fare diagnosi.

Gilda si offre di inserire Paolo in un corso di yoga che lei frequenta in modo da insegnargli tecniche di rilassamento che possano supplire all’eliminazione delle benzodiazepine.

La formazione sistemica della dottoressa Ficca emerge nel proporre un intervento terapeutico vero e proprio per la coppia dei genitori che sono anch’essi estremamente sofferenti e non pronti ad affrontare il distacco di Paolo.

L’incontro della dottoressa Filata con Paolo, che era previsto per il martedì successivo fu disdetto da Paolo per la prima volta: telefonò per chiedere di spostarlo di una settimana.

Lei si consultò con Biagioli e ipotizzarono che fosse un drop out motivato dall’intuizione di Paolo che  lo si volesse allontanare dalla famiglia.

Invece era solo il funerale di Mario, che un’auto aveva travolto proprio sotto casa (casusalmente o intenzionalmente sarà compito del magistrato stabilire).

Maria e Paolo al di là delle condoglianze di rito si scambiarono uno sguardo che intendeva “finalmente si inizia a far ordine”. La realizzazione dei vari progetti immaginati per Paolo fu facilitata da un lascito testamentario di Mario per Paolo di parecchi soldi.

Paolo andò a vivere per proprio conto in affitto e due anni dopo ereditò alcuni immobili per la morte del padre. Progressivamente, l’unico legame che restò con il CIM fu la psicoterapia con la dottoressa Filata, gli altri interventi furono progressivamente abbandonati tranne la cooperativa teatrale che divenne il suo hobby preferito.

Non ebbe mai  un lavoro stabile, viveva di numerose rendite immobiliari, si limitava all’uso moderato di canne e aveva saltuari compagni con i quali si sentiva meno alieno.

LEGGI LA RUBRICA STORIE DI TERAPIE DI ROBERTO LORENZINI

 

 

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