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Mentire non sapendo di mentire: testimonianza Inconsapevole

Quando una persona siede al banco dei testimoni e riferisce su quanto ha vissuto, presenta più che la verità, presenta una sua riproduzione della stessa.

Di Anna Angelillo

Pubblicato il 09 Set. 2014

 

Quando una persona siede al banco dei testimoni e riferisce su quanto in prima persona ha vissuto, più che la verità, presenta una sua personale rappresentazione della stessa.

 

Tra il mentire – cioè dire consapevolmente cose false – e dire la verità cioè riferire i fatti in modo conforme al loro effettivo svolgimento – esiste una terza possibilità. […] Quella del teste che riferisce una certa versione dei fatti nella erronea convinzione che essa sia vera. Si tratta di quella che potremmo definire la falsa testimonianza inconsapevole. […] Non ci vuole la malafede. Basta avere una teoria da confermare, il nostro cervello fa tutto da solo, percependo, rielaborando, verbalizzando in modo da adattare i fatti alla teoria. Creando, anzi direi: assemblando il falso ricordo.

La voce di Guido Guerrieri, magistralmente diretta dalla penna di Gianrico Carofiglio, ben ci introduce nella tela in cui si intrecciano testimonianza e memoria, verosimiglianza e verità, probabilità o certezza, e lo fa con la ricercatezza dello scrittore e l’accuratezza del magistrato, che sposandosi hanno dato vita al ciclo di legal thriller, di cui “Testimone inconsapevole” rappresenta il punto d’inizio.

In ambito penale, la testimonianza è un mezzo di prova, raccolta oralmente (art. 526 c.p.p.) durante il contraddittorio (art. 111 Cost.), che verte ad esaminare il teste circa i fatti determinati che costituiscono oggetto di prova (art. 194 c.p.p.).

Una testimonianza è considerata attendibile quando c’è corrispondenza tra ciò che viene raccontato e ciò che è accaduto. La testimonianza dipende in primo luogo dalla memoria, il cui elemento cruciale è l’accuratezza, ossia la corrispondenza tra il contenuto dell’evento e il contenuto della memoria (Mazzoni, 2003).

È bene precisare che quando una persona siede al banco dei testimoni e riferisce su quanto in prima persona ha vissuto, presenta più che la verità, una sua personale rappresentazione della stessa (Gulotta, 2008a). Infatti, nel momento in cui si è chiamati a riferire di quanto si è stati testimoni, si innesca un meccanismo di recupero delle informazioni relative all’evento, immagazzinate in memoria, e una rielaborazione delle stesse. È lo stesso meccanismo che governa le funzioni mnestiche.

La memoria è un processo psichico complesso che consente all’individuo di codificare, immagazzinare e recuperare le informazioni attraverso un’attiva rielaborazione dei contenuti. Questo implica che il contenuto rievocato (recuperato) sia una ricostruzione dell’informazione originaria.

 

Dalla codifica fino alla rievocazione, ciascuno di noi è influenzato dalle conoscenze che già possiede sul mondo e sullo stato delle cose e dagli schemi e gli script che utilizza per organizzare tali conoscenze: essi plasmano il modo in cui un oggetto, un evento o una situazione verranno poi percepiti, codificati e rappresentati nella memoria a lungo termine (MLT) e vanno ad innescare quel ragionamento deduttivo che, tramite inferenze, consente di colmare i vuoti del ricordo, consentendo alla persona di ricostruire il puzzle del ricordo per intero.

La stessa cosa vale per la testimonianza: per poter definire attendibile una testimonianza e accurato un ricordo bisogna considerare alcuni fattori, quali l’intenzionalità a ricordare nel momento in cui si assiste all’evento, l’interpretazione che è stata data all’evento al momento della codifica, il tempo trascorso e le inferenze che il testimone subisce tra il momento in cui assiste all’episodio e il momento in cui è chiamato a testimoniare.

L’interpretazione si attiva immediatamente e in maniera automatica, e poggia saldamente sulla nostra personale modalità di organizzare e dare significato alla realtà esperita; le inferenze si nutrono delle nostre conoscenze, dei nostri schemi cognitivi, dei nostri stereotipi; in più, distorsioni e informazioni fuorvianti (post-event misinformation effect) possono insinuarsi, anche tramite elementi introdotti da domande suggestive, nella tela del ricordo, rimanendone impigliate, cristallizzandosi in esso e divenendo parte integrante dello stesso: nasce così quello che si può definire un falso ricordo.

È opportuno precisare che creare un falso ricordo non significa mentire (Gulotta, 2008b, p. 5):

Tra mentire e dire il falso ed essere sincero e dire la verità c’è una bella differenza. Io posso mentire e dire la verità o essere sincero e dire il falso. […] La verità è quello che noi riteniamo di credere essere vero. 

Può sembrare paradossale, ed infatti lo è: la conoscenza sulla quale possiamo contare non riguarda una realtà oggettiva, ontologica, ma esclusivamente l’ordine e l’organizzazione che diamo alle nostre esperienze, siano esse anche eventi e situazioni di cui siamo testimoni, ossia la realtà che attivamente costruiamo per dare ad essa un senso e un significato, che è solo nostro.

È quello che succede al testimone chiave del processo del romanzo di Carofiglio: una testimonianza inconsapevolmente confusa, guidata dal pregiudizio, deviata da indagini inquinate e domande fuorvianti, volte a confermare impropriamente la teoria iniziale, che però diventa lente con cui osservare i fatti e leggere gli indizi, per trovare a tutti i costi non il colpevole, ma un colpevole per il più orribile e innaturale dei crimini: la morta violente di un bambino.

È il rischio che si corre in processi di questo tipo, dove il fine non può e non deve giustificare la modalità di condurre le indagini e appurare l’effettiva natura dei fatti: bias cognitivi, domande suggestive e un’epistemologia verificazionista non possono trovare posto in questo ambito.

Ci si auspica che la scienza psicologica possa sedere legittimamente al fianco della giurisprudenza, in nome di quel giusto processo (art. 111 Cost.), a cui la Costituzione anela.

L’arringa dell’avvocato Guerrieri docet. La competenza romanzata di Carofiglio illumina.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

L’Intervento dello Psicologo Penitenziario

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Carofiglio, G. (2002). Testimone inconsapevole. Palermo: Sellerio Editore. ACQUISTA
  • Gulotta, G. (2008a). Breviario di psicologia investigativa. Milano: Giuffè Editore. ACQUISTA
  • Gulotta, G. (2008b). Trattato della menzogna e dell’inganno. Milano: Giuffè Editore. ACQUISTA
  • Mazzoni, G. (2003). Si può credere ad un testimone? Bologna: Il Mulino. ACQUISTA

 

 

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