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Solitudine, relazionalità e ritiro sociale in psicopatologia: dalla depressione ai disturbi d’ansia e di personalità

Che significato ha il ritiro sociale per chi è affetto da depressione o ansia? Quali le differenze con l'isolamento della personalità schizoide o evitante?

Di Rachel Musolino

Pubblicato il 27 Dic. 2016

Aggiornato il 04 Ott. 2017 10:03

Il vissuto psicopatologico ha per la persona che lo sperimenta significati profondi, a volte difficilmente comunicabili e condivisibili; la possibilità di entrare in relazione con gli altri è spesso compromessa e, talvolta, si concretizza in una caratteristica trasversale a diverse condizioni patologiche: l’isolamento e il ritiro sociale.

 

Il ritiro sociale nella psicopatologia

In ciascun caso, la difficoltà o impossibilità di interagire con persone e contesti può essere connessa ad aspetti specifici del disturbo e la solitudine che deriva dal disagio psichico può assumere diverse forme a seconda della patologia entro la quale si sviluppa.

Di seguito verranno prese in considerazione, da diverse prospettive, talune categorie psicopatologiche che sembrano presentare questo elemento distintivo: le alterazioni patologiche dell’umore, i disturbi d’ansia e alcuni tipi di personalità. Che significato ha, ad esempio, il ritiro sociale e dalle relazioni per un soggetto affetto da depressione? Quali le differenze con la socialità coartata della personalità schizoide o evitante? E come è percepita l’interazione con il mondo esterno da chi convive con un disturbo da attacchi di panico o ansia sociale?

[…] il dolore dell’anima, quello che sgorga dalla coscienza depressiva, […] si rispecchia in una solitudine lacerante e, quasi, insostenibile che è solitudine interiore ma recisa da una qualche riconoscibile comunicazione con il mondo degli altri

Diversi elementi possono contribuire a definire la qualità delle relazioni, sia in condizioni di normalità che nel contesto di specifiche esperienza psicopatologiche, determinando, in alcuni casi, l’incapacità di stare con l’altro e il conseguente ritiro sociale o senso di solitudine.

Nell’ottica della psicologia individuale (Adler, 1935), ad esempio, viene data particolare importanza ai modi in cui l’individuo interagisce con il proprio ambiente. Stando a tale concezione, ciascuno si pone nei confronti del mondo coerentemente con  la visione che ha di sé stesso, non secondo schemi predefiniti, ma in accordo con la propria personale prospettiva.

Il contatto con il mondo esterno sarebbe dunque determinato non tanto da fattori ereditari o ambientali, ma dal modo unico che ognuno ha di intendere e sperimentare questi elementi. Secondo tale approccio, l’esistenza umana sarebbe inoltre caratterizzata da un senso di incompletezza e insoddisfazione, un sentimento di inferiorità che, come spiega Fassino (1996), riprendendo i fondamenti della teoria adleriana, può essere individuato anche nel contesto dei vissuti depressivi.

 

L’Altro nei vissuti depressivi e nelle personalità narcisistiche

È possibile, pertanto, osservare nel soggetto depresso l’attuazione di alcune strategie comportamentali che hanno un’importante ricaduta sulle sue modalità relazionali e su un eventuale ritiro sociale. Esso mette in atto il tentativo di compensare il suo stato di inferiorità aspirando a mete ideali ma difficilmente conseguibili e, di fronte al mancato raggiungimento di tali traguardi, si lamenta arrendevolmente della propria sorte attribuendone implicitamente la responsabilità a fattori esterni, ad un mondo percepito come ostile. L’espressione della propria sofferenza diventa il veicolo per valorizzarsi canalizzando su di sé l’attenzione, mentre gli altri sono sottoposti ad un processo, seppur implicito, di responsabilizzazione. Ne deriva il tentativo di controllare l’altro e ottenere il suo amore attraverso la propria disperazione inconsolabile.

Una quota di distruttività viene così rivolta anche verso l’esterno, oltre che verso il sé, ma ciò avviene in maniera indiretta, tramite l’esposizione ostinata della propria sofferenza, per non correre il rischio di perdere l’altro e restare da solo. Infatti:

La relazione con gli altri è, per questi soggetti, l’unica fonte della propria autostima, la cui perdita, reale o minacciata, è intollerabile e porta all’aumento della distanza tra l’immagine del Sé e l’ideale del Sé […] il Sé ideale del depresso ha bisogno degli altri (Ibidem, p. 66).

Il significato delle relazioni nella personalità narcisistica

Il legame con l’altro come strumento di regolazione dell’immagine di sé, con importanti conseguenze sul piano relazionale, è un concetto che emerge in maniera altrettanto evidente nella descrizione del funzionamento della personalità narcisistica.

Nelle descrizioni “tradizionali”, il narcisista è tipicamente sfruttante, portato all’idealizzazione del sé a discapito dell’altro che viene svalutato e ridotto a strumento per la conferma della propria grandiosità. Vi è una sorta di patologia della relazione che lo rende incapace di dipendere realmente dagli altri, di perseguire con loro scopi comuni o provare empatia ed emozioni profonde. Anche nella relazione terapeutica può apparire non collaborativo o persino competitivo; uno degli scogli principali sembra infatti essere l’incapacità del soggetto di dipendere dal terapeuta, dipendenza che risulterebbe umiliante e andrebbe a scontrarsi con il suo senso di onnipotenza e controllo (Kernberg, 2010).

Indagini recenti svelano però un altro lato della personalità narcisistica. Salvatore, Carcione e Dimaggio (2012), ad esempio, hanno distinto due schemi interpersonali definiti “dipendenza disfunzionale” e “scarsa agentività”: con l’attivazione di tali schemi, in mancanza del sostegno dell’altro, il narcisista va incontro a vissuti depressivi, di isolamento, ritiro sociale e passività; non è in grado di utilizzare emozioni, stati interni e desideri come bussola per le proprie azioni e diventa per lui impossibile raggiungere i propri scopi.

In altri termini, l’attivazione di uno schema relazionale di dipendenza è un meccanismo messo in atto in risposta al senso di bassa autostima; ciò avviene in quanto l’altro, con la sua presenza e ammirazione, consente al narcisista di disconoscere la rappresentazione negativa di sé. È in tali circostanze che il soggetto sembra ricercare insistentemente la relazione. Il rifiuto da parte dell’altro apre a vissuti di tipo depressivo poiché, non riconoscendo la sua presunta superiorità, rischia di portare alla luce il sé svalutato e carente. La risposta del narcisista è una rabbia vendicativa che permette di evitare il passaggio a tale stato attribuendo valenza negativa all’altro e al suo comportamento, ricercando cioè le cause della sua sofferenza in fattori esterni (Ibidem).

Alterazioni della personalità e vissuti depressivi possono dunque presentare aspetti simili, incontrarsi e, talvolta, co-esistere, ma presentano anche importanti elementi distintivi: la capacità empatica può essere maggiormente compromessa nel disturbo di personalità, così come la rabbia risulta più diretta;  l’autostima del depresso non è ipertrofica e la sua rabbia è mascherata. Entrambe le condizioni, però, comportano una compromissione della capacità relazionale, alimentando il rischio di solitudine e ritiro sociale. Il narcisista ha bisogno della relazione per la propria sopravvivenza, ma non tende a preservarla.

Il depresso non arriva ad attaccare direttamente la relazione, ma la sua aggressività emerge sotto forma di contagio della sofferenza. Le modalità comunicative del depresso, infatti, instillano nell’altro il sentimento di essere inutile di fronte a tanto dolore; quella che il soggetto attua come strategia per evitare la solitudine, sortisce l’effetto contrario, finendo per generare l’altrui allontanamento (Fassino, 1996).

 

Solitudine e ritiro sociale nel paziente depresso

Un primo tratto dell’isolamento depressivo potrebbe dunque rintracciarsi in questa modalità distorta di comunicazione dei propri stati interni, unita alla limitata comprensione degli stessi da parte dell’altro che spesso ne è sopraffatto.

Tuttavia, prendendo spunto dagli approcci cognitivi alla depressione, è possibile riconoscere alcune delle caratteristiche del pensiero depressivo altrettanto passibili di indurre il soggetto all’isolamento e al ritiro sociale. Egli, infatti, tenderebbe a ritirarsi dalla vita poiché si percepisce come non all’altezza, carente e non desiderabile socialmente. Queste convinzioni, prevalentemente autocritiche, sottolineano quello che è il tema dominante del pensiero depressivo: la radicata certezza del proprio fallimento, inettitudine e di non essere meritevole d’amore.

Il negativismo del paziente depresso si rivolge non solo all’immagine di sé, ma anche al proprio futuro e al mondo circostante. Questi schemi giocano un ruolo fondamentale nella “scelta” di ritrarsi dalla socialità; se il soggetto attiva tali modalità cognitive nei contesti interpersonali, infatti, gli eventi saranno interpretati in modo da confermarne le convinzioni negative, innestando un circolo vizioso che diviene fattore di mantenimento del disturbo e delle sue conseguenze sul piano comportamentale, quali il ritiro sociale (Rainone, Ferrari, Polli, 2004).

Un approccio maggiormente descrittivo, che mira ad identificare i segni evidenti ed osservabili della patologia, indica la presenza, in corso di episodio depressivo, di una marcata diminuzione di interesse e piacere in quasi tutte le attività (American Psychiatric Association, 2013), aspetto non trascurabile nell’individuazione dei fattori che possono contribuire al ritiro sociale e dagli abituali contesti di vita e di relazione.

 

Differenza tra depressione e disturbi d’ansia

La depressione può essere distinta dai disturbi d’ansia per i suoi contenuti prevalenti. L’ansioso è maggiormente orientato su un versante dominato dal senso di minaccia e di potenziale esposizione al pericolo. Senza entrare nel merito di ciascuno dei singoli disturbi annoverati nelle classificazioni ufficiali, è possibile riferirsi all’ansia come a quella condizione di attivazione neurofisiologica con conseguenze complesse sul piano emotivo, cognitivo e comportamentale che si manifesta in situazioni di pericolo (reale o immaginato) predisponendo il soggetto all’azione o alla fuga.

L’ansia diviene patologica quando si configura in comportamenti disfunzionali ed è eccessiva rispetto alla portata degli oggetti e situazioni che la elicitano; questi acquisiscono per il soggetto un significato talmente minaccioso da invalidarne il funzionamento. È in un simile contesto che emerge l’evitamento (e, in alcuni casi, il conseguente graduale isolamento) come strategia difensiva atta ad escludere le esperienze che, secondo il soggetto, sarebbero in grado di provocare l’avverarsi dei suoi timori e preoccupazioni: l’incontro con l’oggetto della fobia, nel caso di fobia specifica; l’esposizione di sé in contesti socio-relazionali in cui si è potenzialmente esposti al giudizio degli altri, nei casi di ansia sociale; le modificazioni psicofisiche dell’attacco di panico o, ancora, gli avvenimenti pessimistici temuti da chi presenta una condizione di ansia generalizzata, e così via.

 

Il ritiro sociale nei disturbi di personalità schizoide e schizotipico

In altri casi ci si può trovare di fronte ad una forma di ritiro sociale tipica delle alterazioni della personalità, ovvero di quella “struttura” che caratterizza ciascun essere umano in maniera più o meno stabile a partire dalla prima età adulta e ne determina pensieri, comportamenti e stili relazionali. Proprio questi ultimi si manifestano con modalità particolari, difformi dalle norme sociali convenzionali.

Basti pensare ai profili di personalità schizoide e schizotipico i quali tendono a non intrattenere relazioni interpersonali poiché appaiono scarsamente interessati dalle interazioni e dal contatto con gli altri. Non si tratterebbe, però, di un evitamento prevalentemente funzionale a proteggersi dal mondo esterno o dal passare al vaglio dell’altrui giudizio, come avviene nei casi con componenti ansiose/evitanti. La caratteristica preminente alla base del ritiro sociale schizoide e schizotipico sembrerebbe essere l’indifferenza e il disinteresse nei confronti della socialità.

Uno studio condotto da Westen, Shedler, Bradley e DeFife (2012) ha riconosciuto la personalità schizoide-schizotipica tra i prototipi di personalità di tipo internalizzante, fornendone una descrizione che include carenze nelle modalità di comportamento sociale, peculiarità nei modi, nel pensiero e nel linguaggio utilizzato, tanto da percepirsi come degli outsider. Secondo la descrizione emersa dallo studio sopra citato, tali personalità appaiono inoltre difficilmente in grado di interpretare in maniera corretta il comportamento delle altre persone nonché scarsamente capaci di comprendere e descrivere se stessi; presentano limiti nella capacità di sperimentare l’intera gamma di emozioni, tendendo a suscitare anche negli altri risposte di distacco e noia.

 

Il ritiro sociale nella personalità evitante

Vergogna, bassa autostima, timore dell’umiliazione, sembrano invece essere alcuni degli elementi dominanti che contraddistinguono la personalità evitante. Sebbene tale quadro personologico sia apparentemente affine al disturbo d’ansia sociale (o fobia sociale), si tratta di una condizione maggiormente pervasiva, strutturale, costante, in cui l’imbarazzo provocato dall’esposizione di sé non è legato al contesto, al contrario, rappresenta il sottofondo emotivo di una personalità che risente di un forte senso di solitudine. In altre parole:

l’evitante ha una rappresentazione di diversità e/o di inadeguatezza personale che vive come uno stato di fatto, più o meno doloroso, una realtà con cui confrontarsi nella vita; ha la percezione stabile dell’impossibilità a condividere e/o appartenere al mondo relazionale e sociale (Popolo, Dimaggio, Marsigli & Procacci, 2007, p. 318).

Come anticipato, dunque, la difficile comunicabilità di simili esperienze interiori può creare una distanza significativa tra soggetto e mondo esterno; non sempre, infatti, l’altro è predisposto ad accogliere la sofferenza e comprenderla nella sua interezza e autenticità, soprattutto quando si tratta di una forma di dolore che incontra ancora molte resistenze: il dolore psichico.

La condizione dell’uomo, del resto, è intrisa di paradossi e tra i più rilevanti vi è quello che lo vede sempre in bilico tra l’essere da solo e l’essere con l’altro. Nei casi di ritiro sociale e solitudine psicopatologica, siano questi egosintonici o fonte di ulteriore disagio e isolamento per il soggetto, l’instaurarsi di una relazione psicoterapeutica può essere la chiave per offrire al paziente una nuova dimensione relazionale: l’esperienza di un altro realmente disposto a mettersi in ascolto, a rendere il dolore comunicabile e a conciliare i termini di quel paradosso tipicamente umano che ci vede sempre oscillare tra gli estremi di relazionalità e soggettività. Per dirla con Safran (1993, pp. 14-15):

In life we must all inevitably negotiate the paradox that by the very nature of our existence we are both alone and yet inescapably in the world with others. We are alone at a fundamental level […] Although we are able to share many things with other people, many of our most important experiences will never be shared. At the same time we are, by the very nature of our existence inescapably tied to others.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Adler, A. (1935) I concetti fondamentali della Psicologia Individuale, International Journal of Individual Psychology, 1935, trad.it. in Rivista di Psicologia Individuale, 33: 5-9, 1993.
  • American Psychiatric Association (2013) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition. Arlington, VA, American Psychiatric Association.
  • Borgna, E. (2011) La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano.
  • Fassino, S. (1996) Deficit, disturbo, creatività: a proposito della psicoterapia della depressione, Rivista di Psicologia Individuale, 40: 63-74.
  • Kernberg, O.F. (2010)  Narcissistic personality disorder, in J.F. Clarkin, P. Fonagy, G. O. Gabbard (Eds.) Psychodynamic psychotherapy for personality disorders. A clinical handbook (pp. 257-287), American Psychiatric Publishing.
  • Popolo, R., Dimaggio, G., Marsigli, N. & Procacci, M. (2007) Difficoltà nella percezione del senso di appartenenza: un confronto tra fobia sociale e disturbo evitante di personalità, Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, 13 (3), 301-322.
  • Rainone, A., Ferrari, T., Polli, C. (2004) Il modello cognitivo di comprensione e di terapia di Aaron T. Beck, in A. Rainone, F. Mancini (a cura di) Gli approcci cognitivi alla depressione (pp. 31-74), Franco Angeli, Milano.
  • Safran, J.D. (1993) Breaches in the therapeutic alliance: an arena for negotiating authentic relatedness, Psychotherapy, 30 (1), 11-24.
  • Salvatore, G., Carcione, A., Dimaggio, G. (2012) Schemi interpersonali nel disturbo narcisistico di personalità: la centralità della scarsa agentività e della dipendenza. Implicazioni per la relazione terapeutica, Cognitivismo Clinico, 9, 1, 3-14. DOWNLOAD
  • Westen D., Shedler J., Bradley B. & DeFife, J.A. (2012) An empirically derived taxonomy for personality diagnosis: bridging science and practice in conceptualizing personality, American Journal of Psychiatry, 2012, 169, 3: 273-284. (trad. it. Una tassonomia delle diagnosi di personalità derivata empiricamente: colmare il divario tra scienza e clinica nella concettualizzazione della personalità, Psicoterapia e Scienze Umane, 2012, XLVI, 2: 327-358).
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