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Legami d’amore: i rapporti di potere nelle relazioni amorose (2015) – Recensione

In legami d’amore Jessica Benjamin ricostruisce a partire dal rapporto madre-bambino la struttura del dominio erotico e ci aiuta a capire in che modo un atto d’amore può trasformarsi in pratica di sottomissione.

Questo libro utilizza la critica femminista e la reinterpretazione della teoria psicoanalitica per analizzare l’azione reciproca tra amore e dominio, dove la dominanza è intesa come un percorso a due sensi, un sistema che implica la partecipazione sia di chi si sottomette al potere sia di chi lo esercita.

Nel primo capitolo del libro l’autrice cerca di dimostrare in che modo le dinamiche di dominanza e sottomissione abbiano origine proprio a partire dalle caratteristiche del primo legame d’amore, quello tra madre e figlio/a.

Il dominio e la sottomissione sono il risultato del venir meno della tensione necessaria tra l’affermazione del sé e il riconoscimento reciproco che permette al sé e all’altro di incontrarsi su un piano di assoluta parità. Hegel dimostrò che questa lotta per farsi riconoscere dall’altro, volta alla ricerca di conferma personale, costituisce il nucleo delle relazioni di dominio.

Il dominio è una distorsione dei legami d’amore. Chi prende questa strada per stabilire il proprio potere trova un’assenza là dove dovrebbe esserci l’altro, un vuoto dovuto ad un mancato riconoscimento, l’altro appare così minaccioso per il proprio sé – o per eccessiva pericolosità o per estrema debolezza o entrambe le cose- che deve essere controllato. Si crea quindi un circolo vizioso: più l’altro viene soggiogato, meno è vissuto come soggetto umano e maggiore diventa la distanza e la violenza che il sé deve usare contro di lui.

Il ruolo dell’”altro” non è meno complicato, coloro che vengono soggiogati e non riconosciuti, possono nell’atto stesso di emanciparsi, restare innamorati dell’ideale di potere che hanno subito e che è stato loro negato. Talvolta riescono a respingere il diritto del padrone a dominarli, non respingono però la sua personificazione del potere, si limitano a rovesciare i termini della questione, agendo gesti di “rivalsa narcisistica” che mantengono il ciclo di potere.

Per fermare il ciclo di dominio l’altro deve introdurre una differenza,

“vogliamo che l’altro soggetto sia fuori dal nostro controllo e tuttavia abbiamo bisogno di lui”.

Accettare questo paradosso, sostiene l’autrice, è il primo passo per dipanare i legami d’amore. Procedendo nella lettura si giunge ad un interessante approfondimento dei rapporti erotici sadomasochistici, nei quali possiamo scorgere la “pura cultura” del dominio, una dinamica che mette in campo sia il dominio sia la sottomissione.

L’autrice sottolinea come la fantasia di dominio erotico incarni sia il desiderio di indipendenza sia quello di riconoscimento; il sadico ricerca tramite il potere sul corpo dell’altro l’affermazione del sé mentre l’individuo che si sottomette al dominio erotico cerca di arrivare alla libertà passando per la sua schiavitù, alla liberazione sottomettendosi al controllo, sogna di dominare subendo prevaricazione.

Si tratta di un enorme paradosso a cui l’autrice cerca di dare una risposta, ponendosi la domanda “In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono”? Viene affrontato in modo dettagliato il desiderio femminile, cercando di capire in che modo il desiderio mancante della donna si manifesti così spesso in una forma di adorazione dell’uomo che invece lo vive in prima persona e si cerca di delineare le dinamiche che portano alcune donne ad avere una propensione per quello che comunemente possiamo chiamare “amore ideale”, dove la donna si sottomette e adora un altro, ovvero quello che lei pensa di non poter essere.

Per spiegare ciò l’autrice ripercorre il mondo freudiano del padre, in cui le donne vengono definite dalla mancanza di quello che gli uomini possiedono, il fallo. Nella teoria freudiana il fallo simboleggia allo stesso tempo potere, desiderio e differenza e come portatore del fallo il padre simboleggia la separazione dalla madre; il potere del padre viene giustificato in quanto sarebbe l’unica strada verso l’individualità. L’autrice cerca di decostruire la teoria psicoanalitica classica suggerendo una rappresentazione alternativa e dimostrando che non è l’anatomia ma la totalità della relazione di una bambina con il padre, in un contesto di polarità di genere, che spiega quella che viene percepita come “mancanza” della donna.

La parte successiva del saggio si concentra sull’ “enigma edipico”, dove la Benjamin analizza il modello edipico freudiano, proponendo una versione edipica meno scissa che lascia spazio a livelli successivi e antecedenti di integrazione tra il ruolo di “padre liberatore” e quello di “madre divorante” tipico del modello classico.

La difficoltà risiede nel fatto che nel modello edipico freudiano il potere del “padre liberatore” viene usato come difesa nei confronti della “madre divorante”. Per i bambini di entrambi i sessi tale scissione significa che l’identificazione e l’intimità con la madre devono essere barattate con l’indipendenza, così viene a formarsi un ideale paterno di separazione che finisce per incarnare il rifiuto assoluto della femminilità.

Ciò accresce la scissione tra soggetto maschile e oggetto femminile e con essa l’unità duale di dominio e sottomissione. Questa struttura polarizzata della differenza di genere lascia due sole alternative: unità irrazionale (quella con la madre) o autonomia razionale (quella del padre). Partendo da questa riflessione l’autrice dedica la parte finale dal saggio ad alcune riflessioni sul modo in cui tale scissione di genere si ripete nella vita intellettuale e sociale, ed elimina la possibilità di riconoscimento non solo degli essere umani come coppia ma dell’intera società nel suo insieme.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Benjamin, J. (2015). Legami d’amore: i rapporti di potere nelle relazioni amorose. Raffaello Cortina Editore: Milano.

Gambling: credenze metacognitive e comorbilità psichiatrica

Giovanni Mansueto, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Le credenze metacognitive potrebbero contribuire al mantenimento delle condotte patologiche di gioco, probabilmente, favorendo l’esacerbazione e/o il mantenimento di stati affettivi (per lo più di natura ansiosa) concorrenti.

Il gambling appare un fenomeno in costante crescita e di significativa complessità. La classificazione diagnostica del gioco patologico ha subìto alcune modifiche con il passaggio dal DSM-IV TR (American Psychiatric Association, APA, 1994), classificato nella categoria dei “Disturbi del Controllo degli impulsi non classificati altrove” e denominato Gioco d’azzardo Patologico (GAP), al DSM-V (APA, 2013) nel quale viene collocato nella categoria delle “dipendenze comportamentali” e rinominato Disturbo da gioco d’azzardo (Gambling Disorder). Studi epidemiologici stimano tassi di prevalenza compresi tra 1.1% e 5.3% nella popolazione adulta (Castrén et al. 2013; Lorains, Cowlishaw, & Thomas, 2010; Raylu & Oei, 2002) e in particolare nel contesto italiano si stimano tassi di prevalenza pari al 2.3% per i giovani e il 2.2% per gli adulti (Bastiani et al. 2013).

Un importante aspetto da considerare nel trattamento del gambling è rappresentato dal problema della comorbilità. Si stima che circa il 6.7 – 12 % di pazienti psichiatrici manifesti comportamenti di gioco patologico e in particolare il gioco d’azzardo patologico appare associato ad elevati tassi di comorbilità rispetto a disturbi dell’umore, ansia, abuso di sostanze e disturbi di personalità (Johansson, Grant, Kim, Odlaug & Go¨testam, 2009).

La comorbilità psichiatrica rappresenta da una parte un significativo fattore di rischio per l’insorgenza del gambling e allo stesso tempo si associa ad un maggiore gravità e decorso clinico negativo (Raylu & Oei, 2002; Johansson et al., 2009).

Sebbene una recente revisione sistematica della letteratura e meta-analisi (Gooding & Tarrier, 2009) evidenzia un significativo effetto della CBT nella riduzione del gambling nei primi 3 mesi dalla cessazione della terapia, allo stesso tempo le evidenze sull’efficacia in un lungo periodo di tempo (es. 12 mesi) sono ancora limitate (Spada, et al.,2014).

Alla luce di ciò, in un recente studio (Mansueto et al., 2015) si è cercato di indagare se la terapia metacognitiva (MCT) possa rappresentare una strategia terapeutica funzionale a tale complessità. La base teorica della MCT è rappresentata dal modello della Funzione Esecutiva Regolatoria (S-EF) (Wells, 2012) secondo il quale i disturbi emotivi sono mantenuti da peculiari modalità di elaborazione delle informazioni, ovvero, il modo di usare il pensiero, l’attenzione, la memoria.

Secondo il modello metacognitivo proposto da Wells (2012), i disturbi psicologici sono determinati dall’attivazione della Cognitive Attentional Symdrome (CAS), ovvero, una modalità disfunzionale di elaborazione dell’informazione caratterizzata da stili di pensiero perseveranti (es.: rimuginio, ruminazione, iper-monitoraggio attentivo), comportamenti di evitamento e strategie di coping non adattive (Spada et al., 2014).

L’attivazione della CAS è determinata a sua volta da specifiche credenze metacognitive (Wells, 2012). Studi empirici supportano il ruolo delle credenze metacognitive nei disturbi d’ansia, depressivo, ossessivo-compulsivo e nelle dipendenze da nicotina, alcool e gambling (Caselli & Spada, 2010; Lindeberg et al., 2011; Normann, van Emmerik & Morina, 2014; Spada, Giustina, Rolandi, Fernie, & Caselli, 2014; Wells, 2012).

Uno dei primi studi sul rapporto tra metacognizoine e gambling è stato condotto da Lindeber et al. (2011) in un campione di 91 giocatori patologici, evidenziando il ruolo predittivo delle metacredenze cognitive (metacredenze negative e metacredenze relative alla necessità di controllo) nel gambling, indipendentemente dalla presenza di stati ansiosi e /o depressivi. Come evidenziato dagli autori, le “metacredenze negative” e la “necessità di controllo” fanno riferimento a un range di credenze secondo cui certi pensieri non dovrebbero essere sperimentati in quanto negativi, e, l’esperienza di tali pensieri, se non controllati, potrebbe condurre a conseguenze negative.

Pensieri negativi e stati emotivi nei giocatori possono essere rappresentati dal pensiero relativo ai gioco, dal desiderio di giocare o da bassi livelli di umore, rappresentando per il giocatore potenziali trigger o possibile prova di perdita di autocontrollo.

Lindeberg et al. (2011), ipotizzano che il soggetto può ruminare e/o rimuginare su tali pensieri e stati emotivi, cercando di monitorarli o sopprimerli, esacerbando stati affettivi negativi. Secondo gli autori (Lindeberg et al., 2011) ciò a sua volta potrebbe incrementare la probabilità di ricorrere al gioco come strumento, seppur temporaneamente, di contenimento. Sulla scia di questo studio, successivi disegni sperimentali hanno fornito ulteriore evidenza del potenziale coinvolgimento delle credenze metacognitive nel gambling.

Spada et al. (2014), identificano in un campione di 10 giocatori patologici, la presenza di metacredenze positive e negative relative al gioco, il quale rappresenterebbe per gran parte dei soggetti una strategia di coping finalizzata alla risoluzione di problemi economici e/o alla regolazione degli propri stati interni emotivi-cognitivi. Un ulteriore rafforzamento del potenziale coinvolgimento della prospettiva metacognitiva nel gambling è fornita da Caselli et al. (2014), evidenziano il ruolo predittivo, indipendentemente dalla presenza di emozioni negative e craving, del pensiero desiderante a sua volta associato a credenze metacognitive positive e negative (Caselli e Spada, 2010).

Infine, in un recente studio (Mansueto et al., 2015) è stato indagato il ruolo delle credenze metacognitive in relazione alla comorbilià psichiatrica. In un campione clinico di giocatori patologici (n=69) e un campione di soggetti estratti dalla popolazione generale di (n= 58) è stata indagata la relazione tra credenze metacognitivie, sintomatologia psichiatrica e comportamenti legati al gioco, attraverso la somministrazione di questionari self-report quali South Oaks Gambling Screen (SOGS, Lesieur & Blume, 1987), Metacognition Questionnaire 30 (MCQ-II, Wells & Cartwright-Hatton, 2004), Symptom Checklist-90-R (SCL-90, Derogatis, 1994). Tale studio ha condotto ai seguenti risultati:

rispetto alla popolazione generale, i giocatori patologici sono caratterizzati dalla presenza di credenze metacognitive negative, credenze metacognitive relative alla necessità di controllo dei pensieri, e maggiore sintomatologia ansiosa, depressiva, ossessiva-compulsiva, ipersenbilità interpersonale e ostilità;

– nel campione dei giocatori patologici la relazione tra metacognizione (credenze metacognitive negative e positive) e gambling appare essere mediata dalla concorrente sintomatologia psicologica; in particolare sembra rilevate nel rapporto di mediazione, la sintomatologia dell’area ansiosa, ossessiva-compulsiva e relativa all’ipersensibilità interpersonale e all’ostilità.

Questa ricerca fornisce un ulteriore supporto a precedenti evidenze empiriche (Caselli & Spada, 2010; Lindeberg et al., 2011; Spada et al., 2014) sul coinvolgimento delle credenze metacognitive nel gambling. Sebbene i limiti impliciti dello studio dovuti all’ampiezza del campione e l’impiego di test self-report, tali risultati portano ad ipotizzare che le credenze metacognitive potrebbero contribuire al mantenimento delle condotte patologiche di gioco, probabilmente, favorendo l’esacerbazione e/o il mantenimento di stati affettivi (per lo più di natura ansiosa) concorrenti. Sulla base di quanto riportato, gli studi sopradescritti forniscono alcuni punti di riflessione in relazione a possibili implicazioni terapeutiche:

(a) forniscono preliminari evidenze sulla possibilità di considerare la Terapia Metacognitiva (Wells, 2012) un’utile integrazione nel trattamento del comportamento legato al gioco patologico e della relativa sintomatologia psicologica concorrente;

(b) in linea con il modello teorico (Wells, 2012), diversamente dalla CBT, l’intervento terapeutico non dovrà mirare a monitorare e testare la veridicità dei pensieri e delle credenze, ma dovrà focalizzarsi sul modo in cui il soggetto reagisce a queste idee, fornire strategie di gestione e cambiamento di stili di pensiero disfunzionali, nonché esser centrato sulla modifica di credenze metacognitive;

(c) si sottolinea l’importanza durante la fase di assessment di una approfondita valutazione psicodiagnostica e di un accurato assessment metacognitivo;

(d) focalizzarsi sulle credenze metacognitive disfunzionali potrebbe favorire la riduzione dei sintomi psicologici concorrenti contribuendo alla riduzione e/o contenimento delle condotte funzionali al comportamento di gioco patologico.

In conclusione i dati sembrano incoraggianti nel considerare il potenziale contributo della Terapia Metacognitiva nel Gambling, inoltre, la cornice teorica delineata appare ricca di stimoli per ulteriori studi al fine di chiarire ulteriormente il ruolo delle credenze metacognitive nell’esacerbazione e mantenimento del gambling.
Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Neuroscienze: i circuiti neuronali che regolano l’appetito

FLASH NEWS

Nel nostro cervello vi sarebbero specifici circuiti di neuroni che regolano la sensazione di appetito e sazietà nel senso che sono deputati all’atto stesso del nutrimento. Ma non solo.

Secondo un nuovo studio della Yale School of Medicine, questi stessi circuiti conosciuti da tempo per regolare la sensazione di fame avrebbero una ulteriore funzione in quanto coinvolti nell’attuazione di comportamenti ripetitivi e stereotipati finalizzati a uno scopo specifico, e cioè il reperimento del cibo quando si ha fame.

Si tratta di una popolazione di neuroni presenti nell’ipotalamo, conosciuti come neuroni AGRP. In uno studio sui roditori è stato dimostrato che in assenza di cibo i topi attuano comportamenti ripetitivi in relazione all’ attivazione di tale popolazione neuronale.

In tal senso, secondo gli autori, questa primitiva regione ipotalamica sarebbe alla base anche di comportamenti più complessi rispetto alla sola gestione della sensazione di fame. Dunque l’attivazione dei neuroni AGRP in assenza di cibo stimola la ricerca di nutrimento e comportamenti ripetitivi e stereotipati che corrispondono a una diminuzione dei livelli di ansia e che regrediscono a seguito del consumo di cibo.

Secondo gli autori dunque il coinvolgimento di questa popolazione neuronale in comportamenti stereotipati, ripetitivi e compulsivi legati alla sensazione di fame potrebbe essere utile per comprendere dal punto di vista neurocognitivo gli aspetti comportamentali dei disturbi dell’alimentazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Tracce del tradimento: perché si lasciano e perché si cercano – Introduzione

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – Introduzione (01)

Una serie di articoli sul tradimento. E sul lasciare e cercare tracce del tradimento. Quasi a tradire la segretezza del tradimento. Per State Of Mind, a partire da oggi, ci chiediamo con una serie di articoli come e perché si lasciano tracce nel tradimento.

All’inizio c’è una coppia. Un uomo e una donna. Due uomini. Due donne. Insomma, una coppia. Adolescenti, adulti, anziani, coetanei, amanti, al primo incontro, fidanzati, conviventi, sposati, in via di separazione. Che s’interessano, desiderano, stimano, dedicano, amano, inseguono, cercano, fuggono, ritrovano.

Poi appare un altro, nuovo, diverso, precedente, reale, immaginato, disponibile, seduttivo, sfacciato, sfuggente, irraggiungibile. Uno dei due guarda fuori, vede l’altro, mette un piede oltre il confine, furtivamente, senza che il compagno se ne accorga, esclude il compagno da questa vicenda che è sua e non della coppia; si è ritagliato uno spazio privato, forse se ne sta andando.

L’altro dei due a volte, non sempre, avverte un cambiamento, l’esclusione; sospetta, teme l’inganno, l’abbandono, l’umiliazione e allora vuole vederci chiaro e chiede spiegazioni, controlla, diffida, minaccia. Questa è la consumata figura del tradimento che tutti conosciamo per averla interpretata almeno una volta nella parte del traditore, del geloso o del rivale.

E’ la modalità più frequente con cui si transita da una coppia all’altra: il rimpasto delle relazioni avviene così nel 99% dei casi ma il restante 1% non è mai arrivato alla nostra osservazione e forse non esiste. La nuova coppia che nasce resterà tale fino a quando si metterà di nuovo in scena la figura del tradimento; e così via di coppia in coppia fino alla vedovanza.

E’ comprensibile che le cose vadano così perché gli interessi in gioco del traditore e del tradito sono in contrasto. Il traditore prima di lasciare la vecchia coppia vuole accertarsi che la nuova sia praticabile e funzioni meglio della precedente per cui è normale che cerchi un periodo di sovrapposizione in cui sperimentare il nuovo senza perdere il vecchio. E’ dunque suo evidente interesse tenere celata la nuova relazione.

Il tradito, al contrario, è interessato a non continuare a investire in una impresa che forse è già in liquidazione aumentando le perdite ed è dunque suo interesse scoprire al più presto come stanno le cose per interrompere l’investimento a fondo perduto o per impedire, per quanto è in suo potere, il proseguire della nascente relazione e ristabilire la coppia.

Questa storia è talmente antica e ripetitiva e su di essa sono state scritte un’infinità di pagine di saggistica, letteratura, poesia che non meriterebbe certo altro inchiostro. Infatti il tema di questo libretto non è il tradimento e la gelosia a cui pure si accennerà, ma una strana malformazione di entrambe, una perversione della figura classica e ben consolidata del tradimento.

Normalmente il traditore tradisce perché crede di poter star meglio (e spesso si sbaglia), il geloso cerca di scoprire il tradimento perché non vuole star peggio (e spesso si sbaglia): fino a qui ognuno gioca la sua parte sensata, coerente, efficace e di consumata tradizione. Talvolta però avvengono cose strane.

Il traditore invece di tenere con cura nascosto il tradimento ne lascia ovunque delle tracce visibili, dice di non voler essere scoperto e sembra far di tutto per esserlo, apparentemente si comporta in maniera contraddittoria ai suoi scopi, sembra volersi cacciare volontariamente nei guai perdendo il vantaggio della segretezza che gli consente di avere per un periodo di prova più o meno prolungato la situazione di “doppia coppia”.

Il geloso invece di cercare le prove del tradimento e agire di conseguenza e cioè smettere di cercarle se non ci sono o, se ci sono, interrompere il rapporto o blindarlo dalle interferenze con manovre deterrenti, cerca, cerca, si arrovella, continua a cercare, cercare e arrovellarsi.

Torniamo all’inizio: tradire ed essere traditi, lasciare e cercare tracce di questo tradimento.

Qual è il perché di questo apparentemente insensato seminare tracce e cercarle? Se varrà a evitare a qualcuno questo calvario tradendo ed essendo traditi con serietà, avremmo raggiunto il nostro scopo.

 

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Il disturbo da Accumulo: recensione del libro di Perdighe e Mancini

Le persone affette da disturbo da accumulo soffrono di una curiosa ossessione di accumulo di oggetti, con i quali finiscono per riempire la casa all’inverosimile, riducendo al minimo lo spazio percorribile fino a rendere difficile abitarci.

Il disturbo da accumulo (hoarding disorder) è una diagnosi relativamente recente, elaborata in USA da Randy Frost e il suo gruppo di ricerca clinica alla Smith University. Si tratta di un disturbo in qualche modo apparentato al disturbo ossessivo compulsivo ma non riducibile a esso. Le persone affette soffrono di una curiosa ossessione di accumulo di oggetti, con i quali finiscono per riempire la casa all’inverosimile, riducendo al minimo lo spazio percorribile fino a rendere difficile abitarci.

Negli Stati Uniti sembra esserci un’epidemia di questo disturbo, ma anche in Europa e in Italia si stanno moltiplicando i casi. La consapevolezza di questo disturbo iniziò col caso storico dei fratelli Collyer, che giunsero ad accumulare 103 tonnellate di oggetti vari (compresi 14 pianoforti) nella loro casa a Manhattan nel corso degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, fino a rimanere sepolti vivi nel loro stesso appartamento e a morirci nel 1947.

Si tratta certamente di un tipico disturbo della società affluente e consumistica con la sua larga disponibilità di oggetti da usare e gettare. O da non gettare, ma da conservare e collezionare, come accade in maniera perversa nel disturbo da accumulo.

Insomma per alcune persone l’attaccamento agli oggetti diventa un vero disturbo mentale: buttare è così difficile che continuano ad accumulare cose di nessun valore anche quando questo compromette la qualità della vita, la vivibilità della casa, i rapporti con gli altri.

Dal 2013 l’accumulo patologico è stato riconosciuto come disturbo autonomo e inserito con il nome di disturbo da accumulo nel DSM-5. Si tratta di un disturbo molto diffuso: ne soffre tra il 2 e il 5 per cento della popolazione.

In Italia se ne stanno occupando Claudia Perdighe e Francesco Mancini e il loro gruppo clinico, da sempre impegnati nello studio e nella cura delle varie forme di sofferenza ossessiva. Ora Perdighe e Mancini escono con un volume edito da Cortina che tratta a fondo questo disturbo ancora nuovo per noi. Il libro tratta il modello cognitivo-comportamentale del disturbo, e la sua cura. Fornisce una descrizione accurata di come alcune persone possano sviluppare un comportamento così strano. In genere costoro accumulano oggetti per due ragioni principali: potrebbe servirmi e mi sono affezionato. Una ragione emotiva e l’altra in qualche modo razionale.

Il trattamento proposto è naturalmente di tipo cognitivo-comportamentale e parte dall’analisi delle idee che sono alla base del comportamento da accumulo e dalla loro messa in discussione, insieme alla dismissione dal comportamento di accumulo. Il volume è rivolto a tutti coloro che si occupano di salute mentale, ma si presta anche a essere letto da chi semplicemente vuole comprendere meglio il disturbo (i soggetti che ne soffrono o i loro parenti).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Ascoltare il Trauma dell’Abuso: Report dal seminario – Centro Studi Erickson di Trento

Le competenze emotive e relazionali degli operatori sono state presentate come  requisiti fondamentali per comprendere, sostenere, e trattare minori vittime di violenza e abuso.

I giorni 27 e 28 febbraio presso la sede del Centro Studi Erickson di Trento si è tenuto il seminario dal titolo: Ascoltare il trauma dell’abuso, Strumenti per operatori della tutela minorile e della scuola. Due giorni molto intensi dal punto di vista del contenuti trasmessi e dei temi affrontati. Ma sopratutto per quanto riguarda l’elevato livello emotivo che si è generato all’interno del gruppo in formazione.

Il docente, dott. Claudio Foti, ha guidato i presenti utilizzando uno stile di conduzione unico, che integra formazione tradizionale con tecniche di psicodramma psicoterapeutico rivolte a soggetti vittime di traumi o esperienze avversive. Nel corso delle due giornate sono state proposte attività di role playing orientate allo sviluppo dell’intelligenza emotiva, tecniche di psicodramma moreniano e altre forme di attività ispirate alla psicoterapia del trauma ad indirizzo analitico. Piuttosto insolito, per chi si aspettava un contesto formativo tradizionale, il clima che si è da subito creato.

Il gruppo in più occasioni è stato reso vero protagonista del corso, favorendo l’emersione di testimonianze dirette che hanno fatto crescere la circolazione emotiva all’interno del cerchio. In questo caso la disposizione circolare è stata un reale tentativo di contenere esperienze personali e riflessione dei partecipati e sopratutto di dare spazio ai diversi vissuti emotivi rispetto ad un tema così complesso.

Le competenze emotive e relazionali degli operatori sono state presentate come  requisiti fondamentali per comprendere, sostenere, e trattare minori vittime di violenza e abuso.La comunicazione del malessere dei bambini infatti inizia spesso dall’orecchio di chi ascolta e dall’occhio di chi guarda (dalla posizione emotiva dell’operatore, dal suo atteggiamento empatico) piuttosto che dalla bocca di chi parla”. Per questo affinché il fenomeno della violenza possa essere adeguatamente riconosciuto e trattato in ogni contesto sociale o sanitario che sia, è importante sviluppare la capacità di ascolto attivo e empatico degli operatori, dall’insegnante della scuola d’infanzia all’educatore professionale, dallo psicoterapeuta al medico. Non è sufficiente però la formazione degli operatori, mancano spesso politiche efficaci di contrasto, ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione.

Il fenomeno della violenza sui minori fa ancora troppa fatica ad emergere. Incontra purtroppo ancora oggi troppe resistenze in una cultura per molti versi intrisa di “negazionismo”. Dopo una prima emersione – negli anni ’80 del secolo scorso – rischia non a caso di tornare per molti aspetti nel silenzio e nel dimenticatoio, nel quale è rimasto per secoli. “La sua emersione fa troppa paura, chiama in causa profonde, diffuse e radicate responsabilità della comunità adulta, certamente di molti uomini, di tutti i partiti e di tutte le fedi, di tutte le classi e le professioni, ma anche – in misura certamente più ridotta – di molte donne”.

I dati presentati dal formatore hanno fatto emergere un fenomeno di dimensioni sconcertanti che è bene tenere a mente. Riportiamo di seguito i dati di una ricerca retrospettiva compiuta dall’Istituto degli Innocenti su un campione di 2200 donne dal titolo Percorsi di vita: dall’infanzia all’età adulta. Lo scopo dell’indagine era quello di valutare l’incidenza dell’abuso sessuale e del maltrattamento in età minorile nella popolazione femminile adulta in età compresa dai 19 ai 60 anni.

I dati raccolti hanno permesso di stimare che il 24% della popolazione italiana femminile ha fatto esperienza di almeno una forma di abuso sessuale associata o meno a maltrattamenti prima del compimento dei diciotto anni, mentre il 49,6% ha vissuto almeno una qualche forma lieve, media o grave di maltrattamento in età minore all’interno della famiglia. Il 26,4% delle donne invece non riferisce alcuna esperienza di abuso e maltrattamento.

Le forme di abuso sessuale considerate nell’indagine sono state (con o senza contatto fisico):

• esibizionismo

• molestie verbali

• esposizione all’esibizione di materiali pedopornografici

• toccamenti e atti di masturbazione

• tentativi di penetrazione

• penetrazione

Il maltrattamento fisico è stato identificato mediante l’indicazione di comportamenti quali:

• punizioni fisiche ricorrenti

• percosse con oggetti, tirate per i capelli o strattoni violenti

• percosse con traumi

Il maltrattamento psicologico è stato identificato con un unico comportamento specifico: critiche o ironie svalutanti.

La trascuratezza materiale:

• non chiamare il dottore o far fare visite mediche di controllo in caso di malattia

• vestiti inadeguati alla stagione, non vigilanza sull’alimentazione

La trascuratezza affettiva:

• non supporto e attenzione alle attività scolastiche del figlio da parte dei genitori

• nessun accompagnamento nella fase dell’addormentamento

• non condivisione di momenti di gioco tra genitore e figlio

• affidamento a persone estranee o molto anziane

La violenza assistita:

• assistere a liti verbali continue tra i genitori

• assistere a liti verbali con aggressioni fisiche tra i genitori

• assistere a comportamenti di aggressione verbale, offese e svalutazioni nei confronti di un familiare

• assistere a molestie sessuali o violenze su altri familiari adulti o minori

Gli episodi di maltrattamento sono stati tutti ricondotti all’ambiente familiare poiché è in questo ambito che i bambini vivono le forme più gravi e croniche di vittimizzazione.

Il dott. Claudio Foti è psicologo, psicoterapeuta, psicodrammatista, fondatore e direttore scientifico del Centro Studi Hansel e Gretel. Da oltre vent’anni conduce gruppi di psicoterapia ad orientamento analitico con lo psicodramma rivolti a persone con alle spalle esperienze sfavorevoli o traumatiche.

Il Centro Studi Hansel e Gretel si occupa di prevenzione sensibilizzazione e di contrasto alle diverse forme di violenza nei confronti dei bambini, psicoterapia infantile, collaborazioni in contesto psicologico forense e di contrasto alla cultura adultocentrica.

 

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La disciplina interiore del terapeuta

Gli allievi rientrano in classe. Una ventina. Ultimo anno di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale. Una fase esistenziale di passaggio, non semplice. Professionisti scolari. Genitori figli. I maschietti soffrono una schiacciante minoranza. Riprendono posto senza mostrare la minima fretta. La pausa caffè è uno dei motivi essenziali per cui ci si iscrive a una scuola di specializzazione. Lancio uno sguardo privo di messa a fuoco sulle sagome sedute sulle sedie stile college americano, quelle con la mini-scrivania fissata come una protesi sul bracciolo. – Chi  vuole portare un caso?

Guardano con estremo interesse un punto a caso dello spazio, basta che sia fuori del perimetro della mia figura.
Ricordo benissimo quello che passa per la mente degli allievi in quel momento, perché ci sono passato tantissime volte stando dalla loro parte: dopo che per tre minuti d’orologio nessuno si sarà fatto avanti per portare un caso in supervisione, la probabilità che il docente si scocci, o si senta troppo imbarazzato dal silenzio generale, e scelga proprio te, praticamente costringendoti a parlare di un caso clinico, anche inventandotelo, è legata all’eventualità che incontri il tuo sguardo. Come alle scuole medie e al liceo. Io per esempio, se percepivo che lo sguardo del docente stazionava su di me per più di mezzo secondo, facevo in modo da sembrare impegnatissimo ad annotare una riflessione decisiva per la comunità scientifica. A quel punto il docente giungeva alla conclusione che ero troppo scemo per poter affrontare in modo sensato qualsiasi argomento, figuriamoci un caso clinico. Comunque, l’avevo scampata.

Un’allieva seduta in prima fila ha uno scatto improvviso del collo. Si guarda attorno per far vedere agli altri che si sta immolando, e per farsi investire dalla ola invisibile di sollievo e gratitudine che percorre la classe. Inizia a descrivermi il caso con abilità collaudata. Le hanno insegnato un protocollo espositivo per riordinare le sciagure umane nell’opportuna gerarchia. L’emulazione un po’ taroccata dell’anamnesi medica. In un contesto, la psicopatologia, che con la medicina non ha mai avuto alcunché da spartire.

Ascolto con la stessa attenzione che di solito presto alla pubblicità per gli assorbenti interni. Quasi subito, a scuoteremi dal mio imbambolamento è il pensiero che farebbe parte del mio lavoro qui capire perchè mi sono imbambolato. E infatti lo capisco. Non sto vedendo il paziente, nè chi me lo racconta. E quando mi succede questo, la mia coscienza va sempre in stand by. La interrompo più gentilmente che posso. La ringrazio per l’accuratezza della descrizione. Le chiedo se ora possiamo provare a focalizzarci sul motivo che l’ha spinta a portare il caso in supervisione. Il macrorganismo sinciziale della classe si anima con un mormorio che sembra sottolineare che la mia domanda ha una ragione ovvia; anche se manco il macrorganismo sinciziale sa quale sia.

L’allieva tortura i fogli dei suoi appunti senza mettere a fuoco nemmeno una riga. Vorrebbe non essere lì in quel momento; arrivare col pilota automatico alla prossima pausa caffè, magari per commentare coi colleghi quanto io oggi stia rompendo le scatole con le mie domande. Le chiedo se le venga in mente un momento specifico in cui si è sentita in difficoltà col paziente. Ci riflette, mentre cenni leggerissimi di ‘sì, sì, ho capito’ con la testa, come Massimo Troisi nella scena della chiesa in “Non ci resta che piangere”, scandiscono le associazioni mentali. Descrive la scena che fino a quel momento le si era nascosta dietro agli occhi.

– In realtà c’è stato un momento, non nell’ultima seduta, in quella precedente, ma non so se è veramente importante.
Con la faccia le dico ‘è importante’. Con la faccia mi dice ‘ok, se lo dici tu’.

– Mi ha chiesto di prendere un caffè insieme.

Mormorio prolungato di soddisfazione del microrganismo sinciziale. Di quelli che fanno da sottofondo alle sit com americane. Lei ha il viso di chi uno a cui hanno appena cavato un dente. Una miscela strana di rabbia e riconoscenza che mi intenerisce.

– Capisco. Che hai provato?

La risposta è un riflesso patellare verbale.

– Beh, mi sono arrabbiata molto…

Penso che ora mi dirà: ‘…ma ho disciplinato la mia rabbia’.

– …ma ho disciplinato la mia rabbia.

Fermiamoci un attimo. Autori guru come Safran (Safran & Segal, 1990; Safran & Muran, 2000) hanno descritto la disciplina interiore del terapeuta come funzione imprescindibile in casi come questo. Il  terapeuta si arrabbia perchè il paziente l’ha invitata a prendere il caffè? O si irrita perchè il paziente improvvisamente mette il broncio? O si annoia perchè il paziente risponde a monosillabi?

Il terapeuta allora attiva delle procedure interne di regolazione delle proprie emozioni negative evocate dal paziente per evitare che esse lo spingano a compiere interventi nocivi per la relazione e per le sorti della terapia. Se queste procedure hanno successo, esse collocano il terapeuta in una posizione vantaggiosa per operare un intervento efficace. Esplorare la dinamica interna del paziente senza esserne parte. Aiutare il paziente a osservarla da una nuova prospettiva.

Roba fortissima. Potentemente transteoretica. Di più: ateoretica. Maledettamente pratica. Perchè allora quasi sempre gli allievi, anche avanzati (e qualche volta, i terapeuti avanzati) quelle procedure non le eseguono efficacemente (anche se studiano Safran)? Una risposta, un po’ ingenua, abbastanza radicale, io me la sono data. Ma per spiegarla al meglio dobbiamo tornare in classe.

– Sono sicuro che tu l’abbia disciplinata. Ma aiutami a capire meglio. Rabbia legata a cosa? Ci arriviamo insieme dopo venti minuti faticosi. Le servono soprattutto per rassicurarsi sul fatto che io e la classe faremo buon uso di ciò che fa fatica a dire a se stessa:

– Lo ammetto, una parte di me aveva voglia di prendere un caffè con lui. In fondo mi affascina. Ma nello stesso tempo mi sono sentita poco rispettata.

Ci prendiamo il tempo necessario per scendere più in profondità. Nella classe, il silenzio assoluto della totale identificazione con la collega. L’esatto opposto dell’attitudine giudicante. Questo significa esser diventati una bella classe. Fino a quando arriva il momento di dirle, lentamente:

– Sentire che è solo un altro a decidere se abbiamo valore o no?!

La scossa che serve le arriva alla pancia:

– Non lo so decidere da sola, eh!?

Ormai in questa classe un po’ mi conoscono. Alcuni immaginano quale sarà la prossima domanda:

– Dove ti porta questo? Ti viene in mente una scena?

Le viene in mente. E quello che le viene in mente è essenziale per vedere con nitidezza disarmante (vedere, non capire) quanto il paziente non ne sappia niente della storia del terapeuta che ha di fronte (e non sia tenuto a saperne); non sappia niente di quanto, per esempio, possa essere stato periglioso il percorso che ha condotto il suo terapeuta a strutturare un’immagine stabile di sè e del proprio valore. Il paziente lo ha solo invitato a prendere un caffè.

La capacità del terapeuta di comprendere il significato profondo che si cela (e si palesa) in questo invito – in eventi come questo, così densi  di implicazioni per le sorti di una terapia – decade istantaneamente nel momento in cui la mente del terapeuta stesso inizia a impegnare tutte le risorse di cui dispone per attutire un contraccolpo.

Respingere l’onda d’urto della propria vulnerabilità, personale, storicamente fondata, che entra prepotentemente nel campo terapeutico e confonde le acque. Induce nel terapeuta un delirio in miniatura a difesa di un senso un po’ finto di stabilità interiore: ‘Il paziente mi manca di rispetto’. ‘Il paziente non rispetta il confine’. O, per i più sofisticati: ‘Il paziente cerca di controllarmi per reificarmi, così da disincarnarmi, in modo da de-soggettivizzarmi, con l’intento sottile, vitale per la sua economia psichica, di rendermi non esistente e quindi mai potenzialmente abbandonante’.

Intendiamoci, capita spesso che la sofferenza emotiva del terapeuta appaia semplicemente come il precipitato della patologia dell’altro. Che il terapeuta sia chiamato a disciplinare processi interni problematici per lo più innescati dal funzionamento del paziente. La conosciamo, la sensazione ansiosa di “camminare sulle uova”, nel confronto con la diffidenza di un paranoide grave; il pensiero insistente, semi-dissociativo, di spiagge caraibiche, come antidoto alla noia imbarazzata scatenata dai monosillabi di un grave evitante; la voragine in cui precipita l’autostima – e la rabbia che ne consegue – nel confronto col disprezzo del narcisista; la sensazione che Kernberg quanto a bravura terapeutica ci fa un baffo, quando un paziente dipendente ci fa sentire indispensabili.

Il controtransfert patologia-specifico esiste; è un fondamentale marcatore diagnostico; una guida euristica imprescindibile.

Però, mettete tre terapeuti con lo stesso paziente, che so, paranoide. Ciascuno di essi avrà il proprio modo di “camminare sull uova”; per ciascuno di essi percepire quel particolare tipo di ansia avrà come substrato un peculiare, autobiografico, scenario interno, che prende forma dietro la porta della coscienza ogni volta che quell’individuo si imbatte in una seria difficoltà. Magari per il primo sotto quell’ansia ci sarà il timore di percepirsi fallimentare, per il secondo la conferma dell’immagine paventata di sè come irresponsabile, che arreca danno, per il terzo lo spettro di una frammentazione interna. Per ciascuno dei tre, la vera disciplina inizia con l’accesso a quelle percezioni.

Provo allora a dare una risposta, la mia, alla domanda di prima. Perchè quasi sempre gli allievi, anche avanzati – non proprio raramente, i terapeuti avanzati – non eseguono  efficacemente le procedure di disciplina interiore?

Perchè non sono procedure. Non possono essere considerate tecniche. La disciplina interiore va secondo me intesa come un assetto interiore sufficientemete stabile. Uno stadio avanzato dello sviluppo di sè che, già che c’è, può essere utile anche nel mestiere di terapeuta, soprattutto col paziente “difficile”. Una posizione del sè che si basa sostanzialmente sul graduale affinamento della capacità di mettere tra parentesi se stesso. Aver osservato così da vicino le proprie zone di vulnerabilità, essersi allenati ad osservarle ogni giorno, sempre con uno sguardo benevolo, nel momento in cui si attualizzano nelle situazioni, da saper lasciare che si trasformino in un rumore di fondo.

Per cui, quando quelle vulnerabilità invadono il campo terapeutico, non generano più il bisogno urgente della mente di scotomizzarle spostando le ragioni del problema all’esterno. Sapersi dire, per esempio, al cospetto del paziente: ‘In questo momento sono arrabbiato non perchè chi mi sta di fronte sta violando il principio etico del rispetto del mio ruolo e questo non è giusto, ma perchè sento la mia autostima minacciata, e mi sento così perchè quando lui ha messo su quell’espressione sprezzante (o anche se semplicemente mi fa l’affronto di non migliorare) è come se avesse spinto la mia faccia davanti allo specchio e lì ci ho visto, come mi capita spesso da quando avevo tredici anni, che non valgo quanto vorrei’. Impossibile attivare oggi, al cospetto del paziente, il muscolo che produce consapevolezze del genere, se non l’ho allenato lungamente. Quotidianamente. La vera disciplina interiore secondo me è quella che viene messa in atto accidentalmente in psicoterapia.

Quel muscolo, ciascuno lo allena col metodo che preferisce.  Le strade ci sono. Una è quella intellettuale. Filosofi come Cioran (1956; 1973), forse superando Nietzsche, hanno mostrato la potenza creativa di un certo tipo di nichilismo.  Cioran dice che la nostra sostanza si sgretola momento per momento, ma noi dovremmo imparare a fare di questo consumarsi un principio di efficacia, come lo chiama lui. Trarre vantaggio dalla prospettiva di non essere che quel consumarsi lascia intravedere.

Non essere significa mettere l’io tra parentesi, e fare in modo di “vibrare al contatto del vuoto che è in noi”.

Regressione germinativa, la chiama lui, discesa verso le nostre radici. Morire, in un certo senso, per stabilire la nostra vera identità, svelando la nullità del tempo, che finisce per non avere più alcun potere su di noi. In psicoterapia, alcuni autori, che non so se hanno letto Cioran, si avvicinano a qualcosa del genere quando parlano di “autotrascendenza” (Travis & Shear, 2010).

Un’altra via maestra, le arti marziali, praticate con l’insegnante giusto. Un’altra ancora, la Mindfulness. Meglio ancora se ne recuperiamo le autentiche radici spirituali. Una di queste radici è la scuola del Vedanta, per la quale la meditazione non è necessariamente solo il momento in ci sediamo e incrociamo le gambe. Si può meditare ripetutamente, continuamente, in risposta alle situazioni, mentre le viviamo. Come insegna Nisargadatta Maharaj (2001). Secondo lui la mente produce continuamente idee diverse su noi stessi. Cambiamo continuamente la rappresentazione che abbiamo di noi e degli altri. Da un giorno all’altro, da un momento all’altro. L’immagine che abbiamo di noi stessi è la più mutevole di tutti, è la più vulnerabile, alla mercè della prima cosa che capita. Quella particolare frase del partner, perdere il lavoro, un lutto, un insulto, e l’immagine che abbiamo di noi, quel “vizio della mente che chiamiamo persona”, cambia, anche profondamente.

Dice Maharaj che per poter indagare chi siamo veramente dobbiamo prima di tutto osservare continuamente cosa non siamo. E certo non siamo quell’immagine così mutevole. Bisogna diventare semplici testimoni di qualsiasi sensazione, desiderio, emozione (iniziando da quelle problematiche) che transiti davanti al palcoscenico della mente. Osservarlo per un attimo e poi archiviarlo come cosa non corrispondente a sè. Dire di tutto: ‘Io non sono questo’. Prima col pensiero, poi con le emozioni, e poi con le azioni. Sembra una strada che conduce alla spersonalizzazione. È esattamente il contrario.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dallas Buyers Club e l’empowerment individuale – Cinema & Psicologia

Ron Woodroof costruisce il suo “sé” e si rapporta con il mondo e con il suo gruppo dando un chiaro e meraviglioso risvolto alla sua condizione esistenziale. Si passa quindi dall’individuale al collettivo, da una crescita personale ad un dare libero e volontario alla comunità che risponde e partecipa.

L’Empowerment (inteso come “potere di”) è un punto cardine per la Psicologia di Comunità. Questo è analizzabile ovviamente in diversi contesti, primo fra tutti quello individuale.

Il self-empowerment nasce da una condizione di disempowerment in cui la persona in questione sperimenta l’inefficacia delle proprie azioni e condizioni rispetto ad un particolare evento. Da questa impotenza appresa si passa alla speranza appresa e quindi all’empowerment vero e proprio, cioè quella capacità di scegliere la strategia migliore per affrontare i problemi i cui tre costrutti fondamentali sono essenzialmente 3:

– Controllo (credere nelle proprie capacità)

– Consapevolezza critica (comprendere e analizzare i contesti di vita)

– Partecipazione

Alla visione del film “Dallas Buyers Club” si ritrovano, scena dopo scena gli elementi chiave di questo processo. Portato sul grande schermo nel 2013, con la regia di Jean-Marc Vallèe,, che gli porta la candidatura agli Oscar come miglior montaggio, una sceneggiatura di Craig Borten e Melisa Wallack liberamente ispirata alla storia vera di Ron Woodroof e interpretato da Matthew McConauughey come miglior attore protagonista, il film seppur parlando di un tema molto importante come quello dell’HIV, centra perfettamente il tema del self-Empowerment.

La storia è quella Ron Woodroof a cui viene diagnosticata l’AIDS nel 1985. Nel film il personaggio di Ron è descritto come un omofobo, rozzo che incarna il perfetto stereotipo texano. Sebbene la veridicità dei fatti nella sceneggiatura sia stata un pò “caricata”, come per il carattere rude di Ron, ed inventata inserendo personaggi che non sono realmente esistiti come la Dr.ssa Saks e l’amico Rayon, passo dopo passo, tono su tono ci descrive perfettamente l’evoluzione della persona e del personaggio.

Ron Woodroof scopre accidentalmente di avere l’AIDS, malattia legata nell’immaginario collettivo degli anni ’80 ad una piccola cerchia di gruppi sociali. Non si capacita dell’accaduto, gli danno 30 giorni di vita e di questi, uno dopo l’altro vede allontanarsi da lui, persone amiche che con atteggiamenti bigotti lo lasciano solo nel suo calvario (chiara condizione di disempowerment).

Incredulo, comincia a documentarsi. Scopre che per poter allungare l’aspettativa di vita dovrebbe assumere un farmaco di nuova sperimentazione, l’AZT, negatogli però, non essendo inserito nella lista dei candidati alla sperimentazione. Non si dà per vinto, riesce a corrompere un portantino che gli fornisce il farmaco di nascosto per un po’. La storia non va avanti a lungo e dopo l’interruzione dell’AZT, Ron si ritrova a combattere con una serie di sintomi che lo stanno portando all’inevitabile fine. Non si arrende, la sua speranza è la sua forza, arriva in Messico e si imbatte in un medico radiato dall’albo che invece di proporgli l’AZT, tossico a parer suo, e che lo sta distruggendo (l’AZT non è infatti il farmaco di prima scelta avendo molte controindicazioni, ma un ottima entrata economica nata da un accordo tra case farmaceutiche e governo contro cui Woodroof combatterà a lungo)  lo cura quindi con un altro farmaco, peptide T.

I trenta giorni sono ormai passati, Ron è ancora vivo (fase di controllo, crede nelle proprie capacità, riacquista fiducia)  e pensa bene di importare la cura alternativa negli Stati Uniti.

Che lo faccia per guadagno, per condivisone o qualsivoglia altro motivo, porta i farmaci e cerca di venderli, ma, la maggioranza dei malati è rinchiusa in quella ristretta cerchia sociale quella degli omosessuali e nulla può con il suo atteggiamento se non dopo l’incontro con Rayon, transgender tossicodipendente, che filtrerà gli incontri e che gli suggerisce poi di fondare un Buyers Club, associazioni parecchio utilizzate all’epoca, i cui membri, grazie alla quota contributiva, possono ricevere, in questo caso, i farmaci alternativi proposti da Woodroof, farmaci che, evidenziando il miglioramento in Ron, sono un ottima alternativa, se non quella di elezione, alla sperimentazione.

Cambia stile di vita, osserva e si prende cura anche delle persone che lo circondano (l’analisi dei contesti di vita, propri della fase di consapevolezza è chiara), che piano piano comincia a conoscere, apprezzare ed aiutare volontariamente, tanto che da questo momento in poi c’è una salita evolutiva del personaggio (arriva quindi alla fase di partecipazione, nel suo caso volontaria, alla sua comunità).

Ron Woodroof costruisce il suo “sé” e si rapporta con il mondo e con il suo gruppo dando un chiaro e meraviglioso risvolto alla sua condizione esistenziale. Si passa quindi dall’individuale al collettivo, da una crescita personale ad un dare libero e volontario alla comunità che risponde e partecipa, basti pensare alla commovente scena in cui, dopo l’irruzione della polizia e l’esproprio dalla sede inziale del club, due associati propongono e cedono  la loro casa come sede del Club e  non per ultima, alla scena finale, in cui nonostante la tesi di Woodroof sui benefici del Peptide T, sia in effetti giudicata positiva personalmente dal giudice, questi,  nell’udienza con l’FDA, non può convalidarlo in termini di legge, così tornando al Club, amareggiato ma non piegato, Ron è accolto da un lungo applauso che corona ed evidenzia come la crescita  sia ormai diventata evidente e la forza e l’apprezzamento di questo personaggio sono maturati con lui e rispecchiati nella sua comunità. Nonostante il countdown inziale, muore dopo sette anni, forse gli anni, nonostante la triste disgrazia, più importanti della sua vita.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il saluto con la stretta di mano: che significato ha?

FLASH NEWS

Perché gli esseri umani si stringono la mano quando si incontrano la prima volta, o in taluni casi per salutarsi?

Al dil là del fatto che a livello cross-culturale esistono differenze radicali riguardo questa pratica sociale (si veda la cultura giapponese in cui è presente l’inchino) una ricerca del Weizmann Institute si avventura nelle ragioni filogenetiche di questo comportamento umano.

Tra queste la spiegazione più plausibile sembra essere la necessità di riconoscere e verificare l’odore dell’altro. Dunque, anche se non ne siamo consapevoli, la stretta di mano sarebbe un comportamento culturalmente appreso e socialmente accettabile avente la funzione – tra le altre – di ridurre lo spazio interpersonale con uno sconosciuto e avendo quindi l’opportunità di utilizzare il nostro olfatto e riconoscerne l’odore e dunque inferire informazioni rilevanti a livello relazionale.

Lo studio dimostra anzitutto che anche una sola stretta di mano è in grado di trasmettere all’interlocutore diversi odori che possono avere la funzione di segnali chimici nelle interazioni tra mammiferi.

Per esplorare il fenomeno interattivo tale per cui l’olfatto diviene un primordiale sistema di segnalazione anche negli umani, gli scienziati hanno filmato 280 individui nei momenti precedenti e successivi alla stretta di mano con uno sperimentatore. Dai risultati è emerso che a seguito della stretta di mano con un interlocutore dello stesso genere i soggetti si ritrovavano – plausibilmente in modo automatico e inconscio- ad annusare per il doppio del tempo la loro mano destra, cioè quella a contatto con l’altro. Similmente, si è riscontrato un aumento del tempo in cui gli individui annusavano la loro mano anche con individui del genere opposto, ma in misura lievemente minore.

Dunque sembrerebbe che gli umani non siano passivamente esposti a segnali chimici che occorrono nelle interazioni ma che in qualche modo assumano un significato comunicativo rilevante. Per indagare la funzione comunicativa della trasmissione di segnali chimici olfattivi i ricercatori hanno svolto una serie di test per escludere la possibilità che l’aumento di tempo trascorso ad annusarsi le mani non fosse semplicemente una risposta allo stress di esperire una situazione non familiare.

L’intero impianto sperimentale e le relative procedure di misurazione sono complesse, dalla misurazione del flusso di aria nasale durante le strette di mano alla manipolazione dell’odore dell’interlocutore: se prevale un profumo commercialmente noto aumenta l’aria inalata a livello nasale durante la stretta di mano; rispetto alla condizione in cui lo sperimentatore emanava odori derivanti da ormoni legati alla sessualità si riscontrava una diminuzione dell’aspirazione nasale.

Se è vero che la stretta di mano è una pratica socialmente appresa che appartiene a specifici format culturali e che è pregna di segnali comunicativi a diversi livelli non verbali, lo studio ne sottolinea comunque l’origine filogenetica ed evolutiva per cui una funzione importante sarebbe proprio il riconoscimento di segnali chimici e olfattivi significativi nella gestione relazionale con i propri consimili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Cancellare i pensieri non voluti può essere controproducente

 

La ricerca dice che nella maggior parte dei casi l’annullamento dei pensieri non funziona, ma comporta un aumento dell’intensità o della ripetitività del pensiero.

Capita con una certa frequenza che i pensieri negativi ed invasivi che vogliamo bloccare ritornano tassativamente alla mente come i peperoni. E se vogliamo portare il paragone fino alla fine, tornano indietro forse proprio perché non digeriti, non masticati, ma inghiottiti per interi come una medicina amara che pensiamo ci curi.

Come mai la nostra mente, di cui spesso ci fidiamo più di qualsiasi altra istanza psichica, è così ribelle da non darci retta quando le chiediamo di sbarazzarci da questi ospiti non desiderati nella nostra testa? Come mai invece di mandarli via li invita più spesso? 

Pensiamo e ripensiamo ad uno sbaglio che abbiamo fatto, ad un problema economico, a qualcosa di cui abbiamo paura. E ci viene spontaneo dirci che quella cosa ce la dobbiamo togliere dalla mente. A voi è mai funzionato?  La ricerca dice che nella maggior parte dei casi l’annullamento dei pensieri non funziona, ma comporta un aumento dell’intensità o della ripetitività del pensiero.

Ci sono varie teorie che spiegano gli effetti paradossali della soppressione dei pensieri:

– l’associazione ai distrattori: durante la soppressione dei pensieri non voluti le persone si distraggono in maniera non focalizzata con stimoli che trovano nei dintorni (il muro, gli oggetti, ecc). Durante questo processo, si creerebbero delle associazioni tra i pensieri “proibiti” e i vari distrattori, per cui successivamente gli stessi stimoli diventano una sorta di promemoria per i pensieri da cui volevamo fuggire;

– il ritorno dei pensieri soppressi potrebbe essere dovuto alla motivazione a portare a termine un compito incompiuto, come spiegato dall’effetto Zeigarnic (nell’esperimento di Zeigarnic, confermato da studi successivi, i pensieri associati ad un compito non terminato rimangono attivi nel sistema cognitivo della persona, tanto che i più predisposti a ricordare un compito dell’esperimento se non lo avevano completato  per via di una interruzione).

– la teoria dei processi ironici di Wegner: sostiene che la soppressione dei pensieri suppone due meccanismi: un processo intenzionale che cerca i pensieri diversi da quelli non desiderati e un processo ironico di monitoraggio inconscio e cerca contenuti mentali che sono opposti all’obiettivo conscio di rimuovere quei pensieri. Più che ironia la possiamo chiamare sarcasmo, anche se alla base di questa vigilanza c’è un compito costruttivo: in primo luogo mi distraggo pensando intenzionalmente a qualcos’altro; in secondo luogo, e qui arriva l’ironia, la mia mente inizia un processo di monitoraggio inconscio per verificare se si sta ancora pensando alla cosa che non dovrei pensare, per verificare se il processo cosciente funziona o no. In altre parole, la parte inconscia allerta la parte conscia del bisogno di rinnovare la distrazione quando la consapevolezza dei pensieri non voluti diventa imminente.

– le metacognizioni: le aspettative, le credenze o i giudizi sulla propria mente possono influenzare l’efficacia della soppressione dei pensieri, come per esempio la credenza che alcuni pensieri sono controllabili e altri no, oppure che alcuni sono difficili da controllare. Queste credenze sono frutto delle esperienze lungo lo sviluppo: così può essere che l’esperienza di successo o di fallimento in alcuni casi possa aver creato una propensione a ripetere quelle esperienze, per poi diventare cognizioni intrusive, come nel caso della depressione, delle ossessioni o delle fobie.

Gli studiosi hanno individuato comunque alcuni fattori che possono influenzare il successo o il fallimento del processo di soppressione dei pensieri: le informazioni con una valenza emozionale sono più difficili da cancellare; è più facile sopprimere un pensiero in condizioni naturali rispetto a condizioni sperimentali in laboratorio; le differenze individuali e la presenza o meno di patologie.

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I nostri pensieri sono influenzati dalle circostanze esterne, anche quando non lo vogliamo

BIBLIOGRAFIA:

  • Wenzlaff, R. M., Wegner, D. M. (2000). Thought Suppression. Annual Revue of Psychology, 51, 59–91.

Falsi Ricordi: potremmo confessare crimini mai compiuti?

Crimini e omicidi irrisolti costituiscono ormai gran parte dei casi di cronaca e le caratteristiche sembrano essere sempre le stesse: tante ipotesi sulla dinamica, numerosi moventi, molti testimoni e lunghi interrogatori da parte di agenti di Polizia fino alla tanto attesa confessione da parte del colpevole. Alle volte però si è assistito a casi in cui c’è chi confessa di aver commesso un omicidio, venendo così condannato, salvo scoprire poi che i colpevoli del reato sono altre persone.

In psicologia della testimonianza si è a lungo dibattuto sul ruolo della memoria e di come questa possa produrre dei falsi ricordi e numerosi sono gli studi che sembrano avvalere, con i loro risultati, questa ipotesi. Nell’articolo che vi consigliamo, oltre a leggere di alcune storiche confessioni di crimini mai compiuti, è esposto il contenuto di un recente articolo scientifico che indaga se sia possibile o meno indurre dei falsi ricordi.

 

We thought we’d have something like a thirty-per-cent success rate, and we ended up having over seventy (…) We only had a handful of people who didn’t believe us. After three debriefing sessions, seventy-six per cent of the students claimed to remember the false emotional event; nearly the same amount – seventy per cent – remembered the fictional crime. 

Remembering a Crime That You Didn?t CommitConsigliato dalla Redazione

A pair of forensic psychologists have created false memories of wrongdoing in law-abiding minds. (…)

Tratto da: The New Yorker

 

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Uno studio ha indagato l'impatto delle lettere d'addio alla fine di una psicoterapia interpersonale psicodinamica sugli episodi di autolesionismo in carcere
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Ansia in ufficio? Il rischio di essere vittima di mobbing è in agguato!

Le eccessive proeccupazioni, si sa, non sempre si rivelano un buon alleato sul posto di lavoro! Un recente studio ha indagato il rapporto esistente tra l’eccessiva ansia a lavoro e la propensione a diventare facili vittime di mobbing, evidenziando così l’esistenza di un circolo vizioso tra le due: maggiore è l’ansia che si prova in ufficio, più ci si mostra vulnerabili e si diventa bersagli facili per spietati capi o colleghi, cosa questa che non fa che peggiorare la sintomatologia ansiosa.

Interrompere tale circolo vizioso però è possibile… Come? A voi la lettura dell’articolo consigliato!

 

And that oh God, I’m doing it all wrong feeling may leave people vulnerable to workplace bullying, suggests a new study in the journal Anxiety, Stress & Coping, which claims there’s a reciprocal relationship between overactive nerves and victimization in the workplace. Anxiety may make people more vulnerable to workplace bullying, and workplace bullying, in turn, seems to lead to anxiety, argue the researchers, led by Alfredo Rodriguez-Munoz of the University of East Anglia.

Anxious People Are More Likely to Feel Bullied at WorkConsigliato dalla Redazione

And their anxiety could then lead to more bullying. Great! (…)

Tratto da: Science of Us

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Il disturbo Borderline di Personalità: disregolazione emotiva, discontrollo degli impulsi e instabilità

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (08)

 

 

In psicologia il Disturbo Borderline rientra nei disturbi di personalità che sono caratterizzati da modalità di pensiero e comportamento disadattivi che si manifestano in modo pervasivo, rigido e apparentemente permanente.

Coinvolgono diverse sfere di vita e sono caratterizzati da una scarsa consapevolezza, cioè le persone faticano a vedere che il loro modo di pensare e agire è problematico o se ne accorgono solo in parte.

Il Disturbo Borderline di Personalità è molto vario ma ha due nuclei portanti, il primo legato alla regolazione delle emozioni, il secondo alla sfera delle relazioni.

Per quanto riguarda il rapporto con le proprie emozioni il Disturbo Borderline di Personalità è caratterizzato da una forte instabilità psicologica. Le emozioni sono molto intense, in varie direzioni. All’estremo, l’esperienza psicologica degli stati emotivi può condurre a (1) stati mentali di vuoto o (2) stati mentali di caos emotivo incontrollato.

Le persone con Disturbo Borderline di Personalità temono questi stati e cercano di evitarli e di controllarli, talvolta con strategie controproducenti. La reazione al vuoto o al caos emotivo è disregolata, impulsiva e intensa e può comprendere: azioni impulsive (es. rabbiose), abuso di sostanze, gesti autolesivi. Lo scopo è cercare di sentirsi vivi (in contrapposizione allo stato di vuoto) oppure sentirsi quieti e sicuri (in contrapposizione allo stato di caos) oppure non sentirsi affatto.

Le relazioni interpersonali sono instabili esattamente come il comportamento. In questo senso la sensibilità del Disturbo Borderline di Personalità è concentrato sul riconoscere ed evitare la sensazione di essere rifiutati o abbandonati.

Per questa ragione possono assumere comportamenti dipendenti (mettersi a disposizione dell’altro, dedicarsi a lui o idealizzarlo), sono apprensivi e preoccupati davanti a segnali ambivalenti dell’altro (ogni segno di leggero distacco è una minaccia di abbandono dirompente) e per questo possono risultare anche molto controllanti e talvolta paranoici nella relazione.

Infine possono vivere esperienze di forte rabbia quando l’altro si allontana o possono respingerlo in anticipo con rabbia per evitare di essere poi abbandonati.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale del Disturbo Borderline di Personalità è un percorso lungo, spesso associato a una terapia farmacologica. Molte persone hanno paura di questa diagnosi perché viene associata a gravi disturbi della mente, tuttavia esistono diversi livelli di gravità come in altri disturbi psicologici. Attraverso una buona psicoterapia la persona può ottenere una buona capacità di regolazione dei propri stati mentali e delle relazioni interpersonali, scoprendo le doti della propria sensibilità emotiva.

 

GUARDA: Il Disturbo Borderline di Personalità raccontato in un video

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Il disturbo Borderline di Personalità: una cascata emotiva

Sei creativo? Probabilmente hai poca capacità di ignorare le informazioni inutili

FLASH NEWS

I geni creativi, avendo un filtro sensoriale precoce più debole rispetto ad altri, avrebbero la tendenza a convogliare nei propri processi attentivi un range più ampio e più ricco di aspetti sensoriali relativi a una data esperienza.

Una nuova ricerca della Northwestern University sembra fornire per la prima volta le evidenze psicofisiologiche per cui la creatività umana sarebbe associata a una ridotta capacità di filtrare e ignorare informazioni sensoriali irrilevanti provenienti dall’ambiente. Lo stesso problema sensoriale si ritrova ad esempio nelle biografie di Kafka e Chechov inteso proprio come difficoltà di escludere dalla propria attenzione e dalla propria mente alcuni stimoli di fatto irrilevanti nei momenti di maggiore creatività.

Secondo la ricerca alcuni individui sarebbero maggiormente influenzati e colpiti dal bombardamento quotidiano di informazioni sensoriali, plausibilmente avendo dei filtri sensoriali e percettivi più deboli rispetto ad altre persone.

I ricercatori hanno studiato uno specifico marker neurale di una forma precoce di attenzione, chiamata “Sensory gating”, identificata da una risposta neurofisilogica di un’area del cervello che avviene  a 50 millisecondi dall’inizio della presentazione di uno stimolo (ERP P50).

Hanno inoltre analizzato la correlazione tra questa specifica risposta neurofisiologica riguardante l’attenzione precoce con due costrutti delle creatività: il pensiero divergente (variabile squisitamente cognitiva misurata attraverso un task di laboratorio in cui si chiede ai soggetti di produrre il maggior numero possibile di risposte a situazioni non comuni, entro un range di tempo) e la produttività creativa in diversi domini (variabile comportamentale misurata attraverso il attraverso Creative Achievement Questionnaire).

Dai dati emerge che maggiori punteggi al test di pensiero divergente correlano con una maggiore risposta neurofisiologica di sensory gating, cioè appunto relativa all’esclusione di informazioni irrilevanti. D’altro canto invece l’effettiva produttività creativo-artistica in diversi domini sarebbe associata in modo statisticamente significativo a un minore segnale di sensory gating, corrispondente dunque a una difficoltà nell’ignorare stimoli non pertinenti.

Una speculazione degli studiosi è che i geni creativi, avendo un filtro sensoriale precoce più debole rispetto ad altri, avrebbero la tendenza a convogliare nei propri processi attentivi un range più ampio e più ricco di aspetti sensoriali relativi a una data esperienza.

Lo studio ancora non ci sa dire se questa caratteristica sia un tratto stabile oppure una modalità stato-dipendente. Ad ogni modo se siete tra coloro a cui più informazioni sensoriali contemporaneamente creano un certo fastidio, facendovi sentire individui anti-multitasking, consolatevi pensando alle parole di Franz Kafka:

[blockquote style=”1″]Ho bisogno di solitudine per la mia scrittura; non come un eremita – che non sarebbe essere sufficiente – ma come un uomo morto[/blockquote]

 

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BIBLIOGRAFIA:

Tra denaro, negoziazione e analisi comportamentale

Nicola Schirru

Diventa molto intrigante lo sviluppo delle Soft Skills all’interno della negoziazione: è possibile avere maggiori probabilità di successo – quindi di guadagno economico – migliorando le proprie competenze in analisi comportamentale?

Le soft skills possono essere tradotte quali competenze traversali, relazionali, ma anche comportamentali. Conosciute anche come attitudini interpersonali, includono capacità quali quelle comunicative, la risoluzione dei conflitti e la negoziazione, il problem solving creativo, il pensiero strategico, il team building, le abilità che influenzano le vendite.

Nel comprendere gli stati d’animo altrui diventa fondamentale analizzare i segnali non verbali, molto spesso tramite osservazione diretta (e con poco tempo a disposizione). Sviluppare certe capacità permette conseguentemente di notare atteggiamenti congruenti e incongruenti tra il verbale e il non verbale, quindi analizzare la credibilità delle affermazioni.

Diventa perciò molto intrigante lo sviluppo di questi processi all’interno della negoziazione: è possibile avere maggiori probabilità di successo – quindi di guadagno economico – migliorando le proprie competenze in analisi comportamentale?

 Aquino & Becker (2005) suggeriscono che nelle fasi di negoziazione i mentitori possono provare emozioni negative, e che per ridurre quest’ultime vengono sviluppate strategie neutrali, quali la minimizzazione della menzogna (es., dichiarando di aver avuto un comportamento poco congruo per una causa superiore), la denigrazione del bersaglio e la negazione (es., delle proprie responsabilità). La funzione primaria di queste strategie di neutralizzazione è quella di legittimare i propri comportamenti devianti riducendo il disagio intra-psichico.

Una delle emozioni maggiormente associate alla negazione delle bugie è l’angoscia (distress). Il concetto di un sé positivo è tra gli obiettivi umani più forti e persistenti. Le persone raggiungono quest’obiettivo cercando di seguire i propri standard di giusto e sbagliato (in assenza da influenze esterne).

Se questo non avviene la propria autostima é seriamente minacciata. Emozioni come il senso di colpa e la vergogna possono motivare l’utilizzo di almeno un tipo di strategia di neutralizzazione. Il negoziatore potrà ad esempio notare la vergogna, considerata da alcuni studiosi un’emozione universale (es., Izard, 1977; Tracy & Matsumoto, 2008), in segnali non verbali come il coprirsi il volto e/o le dita portate verso le labbra (Argyle, 1999).

Secondo uno studio molto recente (Momm e colleghi, 2015) le persone brave a riconoscere le emozioni altrui guadagnano più soldi, o meglio, come dice il titolo del loro paper, avere un occhio per le emozioni paga.

L’abilità di riconoscere le emozioni altrui attraverso l’analisi scientifica delle espressioni facciali predice indirettamente il reddito annuo di un lavoratore. Le persone con una buona capacità di riconoscere le emozioni sono considerate più socialmente e politicamente abili, rispetto ad altri loro colleghi. Gli si attribuiscono quindi migliori capacità sociali e politiche: in particolare, il loro reddito è significativamente più alto!

Il Laboratorio di Analisi Comportamentale NeuroComScience (NCS) centro di ricerca in cui vengono effettuati studi all’avanguardia sulla comunicazione non verbale, distingue tre fasi pratiche per rilevare le emozioni umane: analisi scientifica delle espressioni facciali, analisi professionale del linguaggio del corpo, analisi vocale (Legiša, 2015). La diffusione e l’utilizzo di tali tecniche all’interno del business inizia a sviluppare dinamiche finanziarie in cui i profitti possono subire un’influenza positiva dovuta alle capacità di applicare il riconoscimento delle emozioni e la valutazione della credibilità (es., avvocati, psicoterapeuti, forze dell’ordine, venditori, selezionatori del personale, ingegneri informatici, giocatori di poker).

Saranno necessari ulteriori studi per dimostrare un’eventuale correlazione positiva tra le competenze comportamentali (alias, soft skills) e guadagni netti superiori di coloro che le possiedono, tuttavia la ricerca dimostra che navigare in questo mondo sociale (e delle organizzazioni) con le sviluppate suddette competenze aiuta certamente ad accrescere l’immagine del proprio successo all’interno del mondo del lavoro (Elfenbein e colleghi, 2007).

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Dibattito cognitivo-comportamentale: ancora su processi, scopi e credenze

In questi giorni il dibattito scientifico sulla nostra State of Mind è vivace, rendendo la nostra rivista online un luogo di confronto stimolante. Il dibattito rispecchia le recenti evoluzioni del paradigma cognitivo comportamentale e il difficile passaggio dal modello standard a quelli successivi.

 Semplificando, e come ho già scritto in un articolo precedente il modello standard di Aaron T. Beck (1964) riduce la sofferenza emotiva a errori di valutazione della realtà che riducono il paziente a una sorta di idiota che vede pericoli e disgrazie inesistenti. Mi rendo conto che questa è una versione caricaturale che non rende pieno merito a Beck. Quali che siano i limiti del modello di Beck, non si può negare che abbia aperto una strada.

Nell’articolo sull’apologo scientifico di Tycho Brahe, ho anche accennato a come anche nel modello geocentrico galileiano ci fossero dei buchi, destinati a essere sanati solo in seguito da Newton e da Foucalt (quello del pendolo). Questo non toglie a Galileo i suoi meriti storici.

Un modello può essere imperfetto eppure additare la giusta direzione, vale per Beck come valeva per Galileo.

Se però Beck ha i suoi meriti storici, è anche vero che il suo modello offre il fianco alla critica. Il suo razionalismo ingenuo applica all’uomo troppo pedissequamente la metafora mente –computer, riducendo l’attività mentale alla corretta applicazione di algoritmi di valutazione del grado di negatività delle situazioni. Gli sviluppi successivi del modello cognitivo-comportamentale vedono uno sviluppo sia in termini evolutivi (gli errori cognitivi sono radicati nella storia di vita), costruttivisti (la valutazione della realtà non corrisponde a un modello di razionalità astratta e universale), metacognitivi (l’attività mentale avviene per livelli successivi di valutazione auto-riflessiva della mente sui suoi stessi stati) e scopistico/esistenziali (l’attività mentale non è solo analisi delle situazioni ma costruzione di scopi e motivazioni).

È proprio su questo aspetto che Francesco Mancini (link) rivendica la sua originalità rispetto a Beck, sottolineando il suo antico interesse, condiviso con Cristiano Castelfranchi, per gli scopi individuali, trascurati da Beck a favore delle sole credenze. Questo ha portato Mancini a elaborare una forma di cognitivismo esistenziale che integra aspetti razionalistici e costruttivistici (Paciolla e Mancini, 2010).

Insomma, è semplicistico appiattire Mancini sul modello razionalistico. È però altrettanto giusto che poi a sua volta Giancarlo Dimaggio (link) rivendichi a sua volta la presenza di aspetti motivazionali e scopistici sia nel suo modello interpersonale-metacognitivo che in altri modelli metacognitivi, come quelli di Fonagy e di Wells e rimproveri a Mancini di avere appiattito i modelli più recenti cosiddetti di terza ondata a semplici innovazioni tecniche senza sostanza teorica. La risposta di Dimaggio è quindi del tipo: anche noi metacognitivisti sappiamo concepire un modello motivazionale e scopistico della mente umana e anche Mancini tende a semplificare le posizioni altrui.

Forse però è possibile anche un’altra risposta. Ricordiamo che la base di partenza del dibattito era il timore, espresso da Mancini (link), che i più recenti modelli cognitivo-comportamentali di tipo funzionalistico e processuale finiscano per minare la fiducia nella possibilità del cambiamento in psicoterapia a favore della sola terapia farmacologica. Questo non ci pare vero, le teorie processuali non riducono l’uomo a un robot sul quale si può intervenire solo a livello materiale, ovvero chimicamente con i farmaci.

Il nocciolo del processualismo è la critica della psicopatologia delle credenze e la sua sostituzione con una psicopatologia delle funzioni. Su questo si può riflettere in maniera, speriamo, non semplificatrice.

È in preparazione un contributo a questo dibattito di Sandra Sassaroli e i suoi collaboratori su questo tema. Rimanete in linea.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Introversione ed Estroversione – Introduzione alla Psicologia Nr. 07

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (07)

 

 

Secondo Jung i due termini non riguardano una valutazione sulla persona, ma servono per distinguere due diversi modi di rapportarsi al mondo esterno.

Introverso ed estroverso sono parole che tutti usiamo comunemente nel momento in cui siamo chiamati a descrivere le caratteristiche di una persona. Come spesso accade con i termini entrati nell’uso comune, se ne ignora l’origine esatta. In realtà, “estroverso” e “introverso” indicano qualcosa di più del semplice giudizio dato su una persona. Si tratta, sostanzialmente, di due dei tipi psicologici, ossia strutture di personalità, teorizzati per la prima volta dallo psichiatra svizzero Carl Jung (1875-1961), insieme a Sigmund Freud.

Jung li cita per la prima volta nel volume “I Tipi psicologici”, dove illustra l’esito di vent’anni di ricerche sulle specificità che compongono il carattere individuale. Quindi, qualcosa che va ben oltre il significato comune attribuito alle suddette parole, perché riguardano un insieme di caratteristiche e modi di essere peculiari per alcune persone.
Secondo Jung i due termini non riguardano una valutazione sulla persona, ma servono per distinguere due diversi modi di rapportarsi al mondo esterno.

Dunque, l’estroverso ha un rapporto positivo con l’ambiente esterno: lo osserva, studia tutte le circostanze e cerca di adattarsi ad esse il più possibile. La persona estroversa cerca l’approvazione altrui e tende a esprimere giudizi non troppo diversi da quelli del gruppo. L’introverso, invece, tende a rimanere distante dal mondo esterno, perché è più attratto dal suo mondo interiore. A differenza dell’estroverso, le sue energie non sono rivolte all’esterno, ma si concentrano sulla dimensione individuale. Più che con fatti e parole, la dimensione preferita dall’estroverso, si sente a suo agio con emozioni e pensieri. Ama la solitudine, ha un atteggiamento schivo e tende a essere diffidente e pessimista.

La dicotomia Estroversione-Introversione individua due attitudini generali e contrapposte. Oltre a queste, Jung indica quattro funzioni psichiche principali: Sentimento, Pensiero, Sensazione e Intuizione. Ognuna di queste determina un diverso modo di rapportarsi al mondo:

1. Sentimentale Estroverso: diplomatico, espansivo e molto socievole, si inserisce con estrema facilità in ogni tipo di gruppo.

2. Sentimentale Introverso: taciturno, riservato, spesso malinconico, vive i sentimenti in modo esclusivo senza esprimerli all’esterno.

3. Pensatore Estroverso: riformatore, moralizzatore, per lui contano solo i fatti concreti e poco o nulla le teorie.

4. Pensatore Introverso: riflessivo, chiuso al mondo esterno, insegue pensieri astratti ed è del tutto indifferente all’oggetto.

5. Sensoriale Estroverso: esteta, alla ricerca dei piaceri della vita, realista e gaudente, crede solo nei fatti concreti e tangibili.

6. Sensoriale Introverso: animo da artista, per lui conta solo la sua soggettività, attraverso la quale interpreta e si relaziona al mondo circostante.

7. Intuitivo Estroverso: opportunista, dinamico, guidato da uno spiccato senso degli affari e da una notevole carica di entusiasmo.

8. Intuitivo Introverso: sognatore, è colui che più di ogni altro crede nel potere dell’immaginazione.

Più tardi, Eysenck identificò due super-fattori di personalità: estroversione – introversione e nevroticismo, ai quali successivamente aggiunge lo psicoticismo. Secondo la sua teoria, gli introversi, a causa di un elevato livello interno di eccitazione (arousal) tendono ad evitare la stimolazione esterna per evitare un eccesso di stimolazione. Gli estroversi, portatori di un basso livello di eccitazione, ricercano nuove o più intense stimolazioni esterne per preservare o realizzare un livello di stimolazione ottimale.

Questi fattori sono posti all’apice di un’organizzazione gerarchica nella quale ogni superfattore (es. estroversione) è la somma di un insieme di tratti più specifici (es. socievolezza, impulsività, vivacità e eccitabilità) che a loro volta sommano comportamentali e abitudini diversi di più basso livello.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Jung, C. G. (1983). Psicologia dell’inconscio. Bollati Boringhieri
  • Eysenck, S.B.G., Eysenck, H.J., Barrett, P. (1985). A revised version of the psychoticism scale. Personal and Individual Differences.6:21-9
  • Ferguson, E. (2001). Personality and coping traits: a joint factor analysis. British Journal Health Psychology. 6:311-25

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Scopi, motivazioni e metacognizione. Ovvero, il ritorno di Pippo e la strega Nocciola

Scopi, motivazioni e metacognizione.

Ovvero, il ritorno di Pippo e la strega Nocciola

Francesco Mancini sostiene che nel cognitivismo manchi l’attenzione al concetto di scopo. In particolare critica i modelli in cui si dà particolare centralità a processi di regolazione degli stati mentali. A suo dire tali modelli trascurano quali sono gli scopi che l’individuo tenta di perseguire nel regolare questi processi; in parallelo critica i modelli che si focalizzano sulle difficoltà dei pazienti a riconoscere gli stati mentali e utilizzarli in modo adattivo (LINK ALL’ARTICOLO).

Pippo e la fattucchiera NocciolaHo avuto molte conversazioni, private e pubbliche, con Mancini sull’argomento e da tempo ogni volta che risolleva la questione mi viene in mente lo scontro epistemologico senza fine tra Pippo e la strega Nocciola.

Di che si tratta? Il lettore sappia che nel mondo di Topolino le streghe esistono! Hanno poteri e si comportano da streghe. Pippo però è uno scettico radicale, non crede alle streghe. Nocciola le prova tutte per convincerlo dell’esistenza delle streghe e nei miei ricordi d’infanzia nel farlo faceva anche un minimo di paura: vola sulla scopa, materializza draghi, lo fa inseguire da mostri. Niente. Pippo è irremovibile, le streghe non esistono, sono tutti trucchi. Nocciola (colpo di genio), porta Pippo dallo psichiatra. Quest’ultimo esce dalla seduta con Pippo convinto che non esistano né psichiatri né streghe.

Perché mi viene in mente questa storia?

A mio parere il problema non è la tesi che Mancini sostiene, ma il modo in cui la sostiene, ovvero non del tutto rispettando la prima operazione che fonda il dibattito scientifico: citare correttamente le tesi degli oppositori. In mancanza di questo, dicono gli anglosassoni, si sta dando una versione “strawman” della tesi, ovvero un’argomentazione fittizia, che rende il dibattito almeno in parte falsato.

Il che mi porta a pensare che la convinzione di Mancini rischia di essere inconfutabile, perché ignora gli argomenti dell’avversario e dibatte con una loro versione caricaturale. Il motivo che mi ha spinto a rispondere è questo, dare un resoconto fedele delle tesi che Mancini tenta di confutare. Non entro nel merito dei contenuti, Mancini potrebbe avere torto o ragione, lo accetto senza problemi, purché dibatta sui fatti.

Andiamo nello specifico. La prima affermazione sorprendente di Mancini è la seguente:

[blockquote style=”1″]il vero vulnus dell’approccio cognitivista in generale, e dei filoni di ricerca citati da Ruggiero, è proprio la mancanza di attenzione al concetto motivazionale di scopo. [/blockquote]

‘Possibile?’ mi chiedo. Mi vengono in mente un paio di tipi al volo. Il primo è Giovanni Liotti. Quando sostiene, per dirne una, che la coscienza si disgreghi sotto la pressione della motivazione dell’attaccamento e il timore della risposta dell’altro, costruito come abusante, intrusivo, tirannico, minaccioso, di che sta parlando?

Direi che l’attaccamento è uno scopo, una motivazione primaria. Il bambino, pressato da segnali di fame, freddo, paura, vulnerabilità desidera (scopo) la presenza rassicurante della figura d’attaccamento. Va bene, si può sempre obiettare che Liotti non sia cognitivista, del resto ha persino pubblicato sull’International Journal of Psychoanalysis. Però la memoria mi bracca: ma Liotti non è il fondatore della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva? Le cose non quadrano. Può darsi allora che Liotti, che per convenzione consideriamo d’ora in poi cognitivista, sia merce rara in un mondo che ignora il concetto di scopo.

E allora che dire di Paul Gilbert? Il tipo, inglese purosangue, razza che ha generato molti cognitivisti ortodossi, ha da più di 20 anni sviluppato una teoria dei sistemi motivazionali, pure ben conosciuta in Italia (complice Liotti, sempre lui), in cui si insiste sulle radici evoluzionistiche dei sistemi motivazionali (leggi: volti al raggiungimento di uno scopo) e sull’idea che la sofferenza umana nasca dal presunto fallimento di alcuni scopi basilari, quali attaccamento, accudimento, rango sociale, inclusione nel gruppo.

Per dire: un paziente con fobia sociale desidera (scopo) essere apprezzato, prevede quasi con certezza che verrà criticato e deriso, di conseguenza si vergogna, evita il contatto sociale, soffre.

 

Vengo al mio specifico (e male che vada di cognitivisti che si interessano agli scopi ne abbiamo già contati tre, magari ci metto pure Benni Farina che sta contribuendo non poco agli sviluppi delle teorie sulla disgregazione della coscienza così arriviamo a quattro): da anni sostengo che in Terapia Metacognitiva Interpersonale è centrale lo schema interpersonale. Ovvero che a partire da un desiderio (scopo, motivazione), il paziente preveda che l’altro risponderà in un certo modo, tendenzialmente frustrando lo scopo, e a causa di questo soffrirà. Quindi la sofferenza soggettiva è generata dalla previsione del fallimento di uno scopo. La faccio facile, mi cito alla lettera da Terapia Metacognitiva Interpersonale dei disturbi di personalità (Dimaggio et al., 2013):

[blockquote style=”1″]Gli esseri umani agiscono sulla scena sociale guidati da scopi e desideri e da credenze sulle condizioni che permetteranno o meno di realizzare quei desideri. [/blockquote]

Si tratta forse della psicologia scopi/credenze invocata costantemente da Mancini? A me sembra di sì. Devo ammettere che nel libro “I disturbi di personalità: Modelli e trattamento” la centralità del concetto di scopo non era così chiara, motivo per cui nello sviluppo più recente della TMI abbiamo ben pensato di non lasciare spazio ad equivoci. Però forse non sono cognitivista. Mi vengono dei dubbi.

Immagino però facilmente che anche i cognitivisti di stampo, diciamo “Wellsiano” vorranno rispondere alle critiche di Mancini (e quindi supereremmo i quattro cognitivisti che credono all’importanza del concetto di scopo). Per sicurezza nel frattempo mi sono riletto il post di Gabriele Caselli sul pensiero desiderante.

A parte che già parlare di pensiero desiderante mi dà l’idea che si parli di scopo, ma poi quando Caselli scrive che chi abusa di sostanze o soffre di dipendenze comportamentali fa “uso dell’attività o della sostanza per staccare la mente da preoccupazioni o stati di disagio” i dubbi mi paiono fugati. Non si sta usando il concetto di scopo? Mi sa che siamo già a cinque cognitivisti (e che Caselli lo sia sfido chiunque a negarlo) ad usare il concetto di scopo.

 

E questa era facile. Un altro dibattito infinito con Mancini, purtroppo mai abbastanza certificato per iscritto, ma avvenuto durante congressi, riunioni di lavoro e ristoranti (Francesco, per inciso, è un brillante conversatore e un ospite piacevolissimo) è il concetto di problema metacognitivo. Mancini è abbastanza diretto nel dire che:

[blockquote style=”1″]Il concetto di scopo è cruciale per la spiegazione della sofferenza psicopatologica mentre processi e credenze non sono sufficienti. Questo limite, a mio avviso, è presente in larga parte degli studi sui deficit cognitivi o metacognitivi, nei quali si sottovaluta che i processi cognitivi e metacognitivi sono orientati dagli scopi dell’individuo, e dunque quello che appare come un deficit può dipendere da un uso dei processi cognitivi al servizio degli scopi dell’individuo.[/blockquote]

Mi sento chiamato in causa. E anche qui le prove sono a mio vantaggio (non le prove che la tesi dell’esistenza della disfunzione metacognitiva siano decisive, le prove che Mancini sta attribuendo ai suoi interlocutori delle posizioni che li descrivono in modo inaccurato). Mi cito di nuovo (sempre dallo stesso libro):

[blockquote style=”1″]La metacognizione come concepita nella TMI descrive, invece, la capacità umana di utilizzare gli stati mentali per attribuire significato a eventi personalmente rilevanti e di utilizzare tale conoscenza nel corso di interazioni reali emotivamente calde. Le persone possono infatti avere in laboratorio capacità di ragionamento mentalistico, ma poi non usarle nella vita quotidiana, dove sono realmente necessarie, o non usarle con la velocità necessaria. [/blockquote]

Quindi la metacognizione ci interessa quando si attiva nel ragionare su eventi che per noi sono importanti, ovvero, aggiungo, riguardano il destino dei nostri scopi. Nel libro aggiungo: “le persone compiono atti metacognitivi nel contesto di tutti i sistemi motivazionali (per esempio, rango, sessualità, appartenenza al gruppo)”, ovvero la riflessione sugli stati mentali è rilevante in psicopatologia quando è carente in situazioni che riguardano il potenziale fallimento di scopi cari alla persona.

Più avanti ancora sono più esplicito sulla relazione-dipendenza della disfunzione metacognitiva:

[blockquote style=”1″]D’altro canto, l’attivazione della percezione di pericolo relazionale” è necessario aggiungere, la percezione della possibile compromissione di scopi di sicurezza personale ? – “in cui ci aspettiamo che l’altro ci attaccherà, abuserà di noi, ci vorrà dominare, che sarà uno straniero pericoloso appartenente a un gruppo sociale ostile, restringe la nostra mente e ci porta a pensare che la mente dell’altro sia abitata da intenzioni ostili o malevoli e abbia un set limitato di stati mentali (Liotti, Monticelli, 2008; Liotti, Gilbert, 2011; Lysaker, Gumley, Brüne et al., 2011).[/blockquote]

A proposito, Mancini nel post aveva scritto: “ad esempio un paranoico può apparire povero della capacità di comprendere gli altri, perché attribuisce solo e sistematicamente intenzioni ostili, anche laddove non vi è alcun ragionevole segnale di ciò”. Suona straordinariamente simile alle mie parole, vero? Allora perché Mancini sostiene che in ambito metacognitivo non si tenga conto di queste idee? Saperlo.

Ancora più espliciti, certe cose le ho proprio scritte: “L’idea che la metacognizione, o mentalizzazione, sia contesto-dipendente e legata allo stato affettivo e motivazionale è centrale nella TMI”. Adesso, Mancini avrà tutto il diritto di dissentire e contestare l’esistenza di qualcosa chiamata disfunzione metacognitiva, ma almeno lo faccia citando correttamente le fonti. Insomma, Pippo nega che la strega Nocciola faccia malefici, ma il drago è un drago!

Però può sempre essere che io non faccia testo. Prendiamo allora l’esempio di Liotti e Gilbert (sempre due che hanno scritto pagine marginali nella storia del cognitivismo internazionale e italiano). In un articolo del 2011 contenuto in un numero speciale su metacognizione e mentalizzazione che ho curato con Paul Lysaker e Andrew Gumley (Gumley, per inciso è cognitivista), i due sostengono che le capacità di mentalizzazione dipendono in gran parte dal contesto motivazionale in cui si dispiegano. Un esempio degli autori è una donna che può ben comprendere gli stati mentali dell’altro quando è guidata dallo scopo di accudire (caregiving mentality) e fallire nell’attribuire stati mentali se coinvolta in interazioni competitive (ovvero guidata da scopi di rango sociale, dominanza/sottomissione).

Sempre pochi cognitivisti a sostenere la stato-dipendenza della disfunzione metacognitiva? Elena Prunetti – per dire, oggi responsabile della sede della scuola SPC di Verona (quindi direi che Mancini una smucinata al suo curriculum l’avrà data), nel 2008 pubblicava su Psychotherapy Research

un lavoro empirico in cui emergeva come sotto la pressione della motivazione dell’attaccamento, innescata dalla percepita vicinanza del terapeuta validante, le capacità metacognitive di pazienti borderline andassero incontro ad un declino momentaneo.

            Per onestà va detto che nel libro del 2003 “I disturbi di personalità” si usava il termine deficit, che dà molto l’idea di pezzo rotto e questo darebbe valore all’obiezione di Mancini. Infatti da quel momento in poi ho cercato di evitare l’uso del termine deficit, sostituendolo con termini quali: disfunzione, fallimento, carenza che più facilmente si prestano a descrivere il contesto di dipendenza del problema. Va detto che in letteratura in lingua inglese credo che il termine deficit sia usato con una connotazione più funzionale.

Bateman e Fonagy hanno sempre parlato di deficit di mentalizzazione e tutti sanno che hanno sempre insistito sull’attaccamento-dipendenza del problema. A proposito, Mancini invoca che si faccia chiarezza nel distinguere tra metacognizione e mentalizzazione. Perché mai ho affrontato il problema definitorio – con molti colleghi – in almeno una decina di articoli e Mancini non ne cita neanche uno?           

La cosa che Mancini manca di riconoscere, e che ahimè negli anni è stata oggetto di molte conversazioni di cui non è rimasta traccia (di solito non uso registrare le cene e i meeting di lavoro) è che il vero uso che si fa del concetto di metacognizione nella clinica dei pazienti non psicotici (dove il pezzo rotto un po’ di più c’è) è di tipo performance. In termini semplici: molti pazienti nel momento in cui avrebbero bisogno di dispiegare conoscenza sugli stati mentali in modo accurato, veloce e flessibile, non lo fanno e questo è un problema.

Se il paziente evitante sotto stress non sa definire la propria emozione altro che in termini di disagio, ben difficilmente potrà adottare strategie alternative all’evitamento comportamentale. La disfunzione sarà probabilmente potenziata dalla pressione ad evitare il giudizio critico, ma poi chi ci dice che una volta che questa pressione sia calata, diventi spontaneamente in grado di definire le proprie emozioni se nessuno gli ha insegnato a farlo?

Vice versa, se per anni a causa dell’isolamento sociale per timore del giudizio (scopo di preservare l’autostima dalla critica) poi, quando mi riaffaccio nel mondo e voglio corteggiare una ragazza… che ne so di come funziona la mente delle ragazze? Mettiamo che ho superato la paura. Ma resta il mancato allenamento. Dottore, dice il paziente, ora temo meno di essere rifiutato, ma non so come si fa!

La disfunzione metacognitiva è anche questa e va affrontata, riattivata, potenziata, in parallelo al lavoro sul cambiare punto di vista sulle credenze riguardo al mancato raggiungimento dei propri scopi. Almeno dalla prospettiva di chi scrive, la dicotomia che propone Mancini tra una psicopatologia scopi/credenze e una psicopatologia deficit funzioni mentali superiori è falsa.

Infine: è stato dimostrato che le abilità metacognitive dipendono dal contesto motivazionale, dal sistema di credenze, dall’arousal attivo? Ad oggi no. Ed è un obiettivo delle ricerche dei prossimi anni.

 

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