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Sviluppi della terapia cognitiva: tra processi e credenze

Da anni la Psicoterapia Cognitiva sta ripensando le sue basi teoriche e cliniche. A cosa ci porterebbe una visione funzionalista della sofferenza emotiva?

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 03 Mar. 2015

Aggiornato il 15 Lug. 2015 09:54

Da alcuni anni la psicoterapia cognitiva sta ripensando le sue basi teoriche e cliniche. Qual è la natura della sofferenza emotiva e quali sono le migliori strategie per affrontarla? 

Francesco Mancini aveva rilanciato la discussione alla fine del 2014, durante l’incontro di Assisi dedicato al disturbo ossessivo compulsivo (link) e patrocinato dalla società europea delle psicoterapie cognitive e comportamentali (EABCT, European Association of Behavioural and Cognitive Therapies). In quel luogo Mancini aveva ribadito la sua visione, che favorisce il ruolo degli scopi e delle rappresentazioni mentali, ovvero di quel che si pensa, dei contenuti mentali e della loro congruità con la realtà e funzionalità.

 In parole semplici, il paziente soffre di un disturbo d’ansia perché ritiene –sbagliando- che ci sia un’elevata probabilità che qualcosa di pericoloso possa accadere, che questi pericoli implichino gravi danni e che infine la capacità personale di fronteggiare questi pericoli sia bassa.

In formulazioni più sofisticate, l’ansia dipende dalla convinzione di non riuscire a sopportare l’incertezza, la semplice possibilità del pericolo, anche se bassa. Questa seconda formulazione consente di concepire in maniera meno semplicistica i pazienti, che non sono degli idioti che prendono fischi per fiaschi e vedono pericoli inesistenti, ma sarebbero meno attrezzati a sopportare lo stress quotidiano dei mille piccoli pericoli e disagi che costellano l’esistenza.

Insomma, l’ansioso non sbaglia nel valutare la realtà esterna ma l’intensità dei suoi stati emotivi e la sua capacità di regolarli.

Questa formulazione apre il varco ai cosiddetti sviluppi metacognitivi (che concepiscono l’attività mentale soprattutto come auto-regolativa) e funzionalistici, che danno maggiore importanza alle funzioni mentali piuttosto che ai contenuti cognitivi.

Mancini respinge questa ipotesi. La sua diffidenza sembra nascere dal timore che questi nuovi sviluppi concepiscano la sofferenza mentale come frutto di deficit, guasti di funzioni mentali. Se fosse così, il timore di Mancini sarebbe giustificato. Una simile concezione sembra suggerire trattamenti di tipo non psicoterapeutico: se qualcosa si è rotto, va aggiustato soprattutto attraverso interventi riabilititivi e forse perfino intervenendo materialmente sul supporto neurologico della funzione attraverso i farmaci. Così scrive Mancini (link):

Questo secondo approccio è in risonanza con un più generale trend della psichiatria verso una interpretazione neurologica delle cause dei disturbi mentali. Infatti e ad esempio, la tesi che il DOC dipenda da un deficit di inibizione, o di altre funzioni esecutive, o della memoria, si concilia con l’idea che il DOC sia una malattia neurologica molto di più della tesi che il DOC dipenda dallo scopo assoluto di prevenire una colpa.

Ci si chiede: è vero che una visione funzionalista della sofferenza implica interventi inevitabilmente non psicologici? Non proprio. I principali orientamenti metacognitivi, come la MCT (MetaCognitive Therapy) di Adrian Wells, la MBT (Mentalization Based Therapy) di Peter Fonagy e la TMI (Terapia Metacognitiva Interpersonale) di Dimaggio, Popolo e Salvatore propongono trattamenti psicologici e non neurologici.

Le funzioni possono essere ripristinate sia attraverso una discussione esplicita nello stile tradizionale (sia pure però focalizzata sui contenuti metacognitivi e non cognitivi), sia attraverso un lavoro di educazione, apprendimento e addestramento che ricostruisce le funzioni ingolfate perché trascurate, ma non guaste e perdute per sempre. Più che di deficit, si tratta di un’atrofia reversibile da scarso uso.

Effettivamente MBT e TMI parlano di deficit delle funzioni metacognitive, deficit che sarebbe maturato nella deprivazioni emotiva legata a un attaccamento non ottimale e che suggerisce un intervento compensativo di tipo relazionale, un intervento che va a compensare il deficit relazionale.

 Anche in questo caso però, se deficit è, è un deficit funzionale e reversibile e non strutturale, e difatti è compensabile. Non basta. Nel modello di Wells il deficit è del tutto espulso dal modello, cosi che l’intervento è solo di promozione della consapevolezza metacognitiva e di riaddestramento attentivo a esercitare questa consapevolezza metacognitiva distaccata, consapevolezza necessaria a far sì che il riaddestramento attentivo non si riduca a essere un coping difensivo.

In conclusione, bene fa Mancini a combattere le derive neurologiste e anti-psicologiste della psicoterapia. Meno bene quando confonde approcci neuroscientifici e funzionalistici.

Questi ultimi non sono niente affatto riducibili alle neuroscienze, anzi. Certo, nel modello funzionalista le credenze diventano meri esiti, importanti come prodotti della mente ma privi di effetti interni. Così l’ossessivo non deve la sua condizione a pensieri di responsabilità e colpa, ma a funzioni mentali gestite in maniera improduttiva. Nel caso di Wells, l’attenzione. È il controllo attentivo sulle situazioni che genera l’ossessività dubbiosa, mentre la valutazione di responsabilità nascerebbe a posteriori.

La conseguenza terapeutica è che diventa primario addestrare il paziente a mollare il controllo attentivo ed è secondario confutare il grado di responsabilità.

E i contenuti? Ci sono, e quelli decisivi sono i contenuti metacognitivi. Ovvero i pensieri che ci convincono che sia conveniente mantenere fissa l’attenzione su un certo dubbio, come l’uscio che sia chiuso o aperto.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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